lunedì 17 agosto 2009

La Storia e le storie: la storia di Ada. Ada Negri: la vergine rossa di Massimo Capuozzo.

A mia madre,
che da bambino
mi insegnò ad amare
Ada Negri


Attraverso Ada Negri, scomparsa dalle antologie italiane dagli anni Sessanta in poi del Novecento per le mode scolastico-letterarie, è come tratteggiare lo spaccato di una parte della storia della cultura italiana, svelare l'intimo di una poetessa e di una scrittrice, raccontare le ansie del mondo letterario e politico italiano, che ha toccato il vertice della sua parabola all'inizio del Novecento.
La letteratura è un campo disseminato di autori poco conosciuti, perché snobbati dalle mode letterarie, esiliati per ragioni ideologiche, spogliati del loro valore e del loro significato, per lo più dimenticati e, solo in rari casi, riscoperti.
Uscendo dal palcoscenico della Storia, dove un giorno sono stati protagonisti, la loro ricoperta presenta il fascino dell’archeologia letteraria e riportarli alla luce, oltre che farli rivivere anche se per un solo attimo, equivale ad ascoltare la loro storia, guardare dal loro punto di vista, e, se va bene, coglierne quello che ancor oggi hanno da dirci.
È questo il caso di Ada Negri, una grande voce femminile della poesia italiana fra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, quando, nell'ambito della poesia e della prosa italiana contemporanea, si annunciò un momento nuovo, segnato da figure significative, che costituirono un capitolo femminile di alto rilievo, nel vasto panorama letterario, convenzionalmente rappresentato da nomi maschili, ma soprattutto una donna che, senza eccessivi clamori fu un’antesignana per il proprio tempo, che pretese di vivere liberamente e compose versi e rime di forza straordinaria.
Senza clamori, volutamente appartata, sempre personale e femminilmente concreta, Ada Negri non partecipò ai movimenti letterari del suo tempo, rimanendo distante dal futurismo, nonostante l'amicizia con Marinetti che ne apprezzava la poesia, lontana dal rondismo e dall’ermetismo e sebbene non li ignorasse, ne scrisse come di una baraonda letteraria, sostenendo ed affermando più volte e con vigore che «i veri scrittori e poeti non appartengono a gruppi e chiesuole».
Ada Negri fu un’intellettuale dal particolare destino che, in vita, già dai suoi esordi, ebbe il pieno favore di pubblico, e di critica di professori, di giornalisti e di editori, il plauso del burbanzoso Carducci e della critica ufficiale, ma incontrò la critica di Croce, che ritiene che ella si accontenti di «uno svolgimento sommario, segnando il punto di partenza e di arrivo ed errando di qua e di là lungo il percorso. Ed è un difetto più tipicamente femminile». Russo le fu ostile definendo impoetici i suoi versi.
Ma se possono essere impoetici i suoi versi, la Negri fu sempre femminilmente cordiale ed appassionata interprete delle ragioni e delle aspirazioni degli umili, secondo un percorso piuttosto battuto dagli intellettuali del tempo che, partiti da temi sociali approdarono all’esaltazione del Fascismo: da vergine rossa – com’era stata denominata per il suo sostegno alle nascenti idee socialiste – aeda dei più emarginati, delle sofferenze degli operai, del riscatto sociale e delle lotte in fabbrica, fu acclamata nel 1940 poetessa d’Italia e prima donna Accademica d’Italia, apprezzata dal regime, per la centralità data ai valori tradizionali come la famiglia e per il tono populista ma calmo dei suoi scritti. La poetessa però non se ne vantò mai, forse, paragonando il riconoscimento conseguito con il Nobel, perduto nel 1926 e vinto dalla Deledda, ma, quando Marconi la andò a trovare, congratulandosi in nome di tutti gli Accademici d'Italia, ne fu veramente felice.
Ada Negri, prima scrittrice generata dalla classe operaia, nacque a Lodi il 3 Febbraio del 1870 da una famiglia operaia nell'alloggio della sua nonna materna, Giuseppina Cornalba. Le sue origini erano umili: sua madre Vittoria aveva sposato Giuseppe, un manovale di Massalengo, e si era trasferita a Milano, ma era poi tornata a Lodi per la nascita del primo figlio Annibale e poi per quella di Ada. Il loro salario era bassissimo e doveva appena bastare per mantenere i figli, Ada ed Annibale, e per l’anziana madre di Giuseppe.
Ada in fasce fu portata a Milano, ma per poco: suo padre morì infatti quando ella aveva appena compiuto un anno e Vittoria fu costretta a ritornare a Lodi ed a chiedere aiuto a sua madre: il piccolo Annibale fu adottato dal fratello di Vittoria, che non aveva figli, ed Ada rimase con sua madre, che nel frattempo trovò lavoro in un filatoio, dove si lavorava la lana, e con sua nonna Peppina nella piccola portineria, dove questa lavorava come custode e come domestica del famoso soprano milanese Giuditta Grisi, moglie del conte Barni. Nella portineria di quel palazzo, Ada trascorse l'infanzia solitaria, nella loggia da portiera dove lavorava sua nonna, passando il tempo ad osservare la natura ed il viavai delle persone che si recavano al lavoro e al mercato, caratteristiche che ella descrisse in seguito nel romanzo autobiografico Stella Mattutina.

Io vedo - nel tempo - una bambina. Scarna, diritta, agile. Ma non posso dire come sia, veramente, il suo volto: perché nell'abitazione della bambina non v'è che un piccolo specchio di chi sa quant'anni, sparso di chiazze nere e verdognole; e la bambina non pensa mai a mettervi gli occhi; e non potrà, più tardi, aver memoria del proprio viso di allora.
L'abitazione della bambina è la portineria d'un palazzo padronale, in una piccola via d'una piccola città lombarda.
Nel palazzo non vi sono che due inquilini, occupanti alcune stanze del secondo piano; un vecchio pensionato, magro, con la sua governante Tereson: una vecchia signora, grassa, che ogni mese cambia domestica. Il resto è tutto abitato dai padroni: gente ricca, gente nobile.
Quando rientrano in carrozza dalla passeggiata, bisogna spalancare il cancello del portone: e, siccome la nonna (custode della portineria) è troppo indebolita dagli anni, è la bambina settenne che deve farlo. Non ha mai pensato, naturalmente, che tale atto possa essere d'umiliazione; ma non lo compie volentieri.
Molto vecchia è la nonna.
Fa sempre la calza, movendo di continuo la labbra su parole senza suono, che son preghiere. Non è né buona, né cattiva. Non racconta favole. Ha una suprema indifferenza per ogni cosa. Curva, minuta, claudicante fin dai primi anni della fanciullezza, con un viso di calme linee chiuso in una cuffiettina nera allacciata sotto il mento, se qualche noia o dolore le sopravviene, non sa pronunciar che una frase, a bassa voce:
- Quell che Dio voeur.
Così avanzata nell'età, e tarda nei movimenti, vien tuttora compatita, dai padroni, nella portineria; perché da più di quarant'anni appartiene al servizio della famiglia. Potrebbe ritirarsi presso un suo figlio, che è maestro di scuola e vive in bastante agiatezza. Non vuole: preferisce lavorare, fin che può, fino all'ultimo.
Fu, in giovinezza, governante di fiducia di Giuditta Grisi, la meravigliosa «soprano-lirico», sorella della meravigliosa «soprano-leggero» Giulietta: la seguì fedelmente su tutti i palcoscenici, udì dalle quinte le acclamazioni dei pubblici, vide alle porte dei teatri le folle in delirio staccare i cavalli dalla carrozza della cantatrice: custodì nelle camere di locanda e durante lunghi viaggi in diligenza sacchetti di gioielli e di monete d'oro, carte preziose, preziosi costumi. Udì in silenzio la diva bestemmiare come un comprimario, nei momenti di malumore: la vestì in silenzio per la scena, mentre ella stoicamente premeva il fazzoletto sulla bocca, per soffocare gli urli che le strappava il male: un male uterino, ch'ella non aveva il tempo di curare.
Fu a lei che, dopo la prima notte del suo matrimonio con un magnifico patrizio di Cremona, disse la diva dal letto, allargando le braccia e dilatando le nari all'aroma del caffè:
- Peppina, ah! finalmente sono contessa Barni!
Fu lei che l'accompagnò nella villa gentilizia di Robecco sull'Oglio: infermiera vigile fino alla morte, nel tempo in cui l'insidioso male, non curato in principio nelle sue radici, doveva ucciderla in pienezza di rinomanza e di amore.
Dal suo letto di spasimi, tentava, la cantatrice, note filate, picchiettature e trilli:
- Peppina, la voce c'è ancora.
Sul punto di morire, mormorò al marito:
- Conte Barni, ti raccomando Peppina.
E la fedele seguace rimase a lui, come un lascito assunse, umilmente, devotamente, la direzione della casa: vi allevò i propri figli, un maschio e una femmina: condivise la fortunosa sorte del padrone, finché, lui spento, venne passata a un ramo secondario, già imbastardito, della famiglia.
Nella portineria che rappresenta l'ultima tappa della vecchia Peppina, alcuni ricordi si conservano di Giuditta Grisi.
Un ritratto: antica stampa in cornice nera: busto scollato fin sotto le spalle, magro collo elegante, cortissime maniche a sbuffi, viso appuntito, non bello ma di chiusa intensità, sotto l'alta pettinatura a bande lisce intorno alla fronte e a tre rigonfi a sommo del capo.
Una cassetta da viaggio, per diligenza: pesantissima, di noce massiccia. È chiusa a chiave: dentro, forse, ci sono, in custodia, le strade che percorse, le cose che vide, le avventure che incontrò.
Un singolare astuccio da lavoro, anch'esso per viaggio: formato d'un rotolo di pelle di bulgaro, tenacemente profumato, con fodera di velluto rosa stinto, divisa in tanti piccoli scompartimenti.
La bambina ama quegli oggetti, con dispotica padronanza. Ne conosce la storia; e, guardando il ritratto, sedendo sulla cassetta, accarezzando il velluto rosa stinto dell'astuccio, se la ripete, dentro di sé, con avida gioia.
È una sua personale ricchezza, della quale è gelosa.
Pensa «Anch'io andrò sul teatro».
Accanto alla portineria v'è una cameruccia bassa, buia, con un letto matrimoniale in cui vanno a dormire in tre: nonna, mamma e bambina. Due cassettoni, un tavolino, qualche sedia; e una tenda a righe grigie e blu, dietro la quale, contro una parete, in mancanza dell'armadio, vengono appesi gli abiti.
Quella tenda è il sipario.
La bambina lo solleva quando vuole. Le flosce vesti pendenti (vesti di pulita povertà) si riempiono, quando vuole, di ossa e di carne: spuntano da esse mani e teste: voci ne escono: un moto illusorio le anima. Giuditta Grisi canta. Il pubblico immaginario applaude.
Un vero pubblico assiste talvolta alle rappresentazioni: le figliole dei padroni di casa.
Maura, Clelia, Pia: tre belle fanciulle. Ascoltano in silenzio, con sgranate le pupille, le favole sceneggiate: ridono sommesse: una ve n'è fra loro, la più bella, la meno buona, che ha di continuo, negli occhi e nella bocca il guizzo d'un ghignetto schernitore. Non gliene importa niente, né della Grisi, né delle favole bizzarre, né del teatro di stracci.
La piccola artista ne soffre in cuore: ne è ferita, già come qualcuno che dia il meglio di se stesso, e senta di non essere compreso.
Ma l'oscuro corruccio dura poco. Basta che una di loro gridi: - Andiamo a giocare! - e si precipitano in giardino.
Giardino sempreverde: pini, magnolie, un cedro del Libano: pochi fiori, molta erba, profondità di ombre, sapienza di nascondigli. Giardino più bello al mondo non c'è.
Le bambine giocano a rincorrersi: quattro saette. Poi, a palla: ciascuno ha la propria: sotto l'inquanta, cento volte, senza che la mano fallisca un sol colpo. La gara eccita: più di tutte esalta la scarna portinaretta. Dopo la palla, il salto alla corda, semplice e in due tempi: il salto su un solo piede, cioè zoppin zoppetta, sino a quando il piede resiste; il salto dai gradini dello scalone d'onore, progressivo fino al rischio d'insaccarsi di schianto.
Gioia del sangue, tensione di volontà, ignara eleganza di muscoli e nervi in moto. La scarna portinaretta non si dà vinta a nessuno: dimostra a volte il freddo coraggio d'una funambola: vuole ad ogni costo sorpassarla Pia, ch'è la più svelta e par fatta di gomma. Miracolo se non si spezza una caviglia o l'osso del collo; ma vuole essere la prima, deve esser la prima, perché è povera.
Son le sette, e la mamma torna dalla fabbrica: oh, adesso è ben altra vita!

La mamma non è più giovine (s'è sposata tardi) e ha già molti capelli grigi; ma la sua voce squillante, di ragazzetta, e tutto in lei è chiaro ed energico; il passo, il movimento, lo sguardo, la parola. Visse libera nella villa di Robecco sull'Oglio, con la nonna, fin dopo i trent'anni: sposa, fu cucitrice in bianco: rimasta vedova e nella più dura miseria, dovette collocarsi come operaia in uno stabilimento di filatura e tessitura di lane.
Guadagna una lira e settantacinque centesimi al giorno: lavora tredici ore filate: spesso è costretta alla «mezza giornata» della domenica.
Ma è gaia e ride, è creatura piccola e vocale come gli uccelli, e cinguetta e canta. Vive in lei il fremito pennuto dei passeri, un'elasticità sempre nuova, una così fresca simpatia per le cose e gli esseri, che sgorga con la fluidità di certe polle fra l'erba, e ne ha la mutevole trasparenza. Non porta con sé la polverosa e grave atmosfera d'un lanificio; ma piuttosto, l'acre sentore d'una ventata di marzo, rude alla pelle, piena d'azzurro e d'elementi di vita.
Come la nonna e la bambina, si nutre di pane, latte e polenta; ed è forse la sua casta sobrietà, che la rende così leggera sulla terra.
Quando, finiti i chiacchiericci delle serve in portineria, la bambina va a letto, verso le nove e mezzo, l'uscio fra le stanze rimane aperto. Ella, quatta sotto le coltri e fingendo di dormire, ride nell'anima, perché sa che sta per scoccare l'ora meravigliosa. Di lì a poco, infatti, con la sua voce limpida, la madre, che crede la bimba addormentata, comincia a leggere forte.
Per divertir la nonna e per la propria gioia, legge, a puntate, romanzi d'appendice d'un giornale quotidiano
Ignora che la piccina ascolta, con gli orecchi tesi, con il cuore teso.
Quanta gente, quante creature più vive, più forti, più malvage, più interessanti di quelle che s'incontrano ogni giorno, in strada, nella casa, nella scuola! Tutti i suoi amici: Rocambole: Remigio senza famiglia, la portatrice di pane: e Rigoletta e Fiordi-Maria, dei «Misteri di Parigi».
Storie di vasti intrighi, di amori romantici, di romantici delitti formano la base della sua conoscenza: unite senza possibilità d'oblio alla voce della madre e al chiarore giallastro d'una lampada ad olio, penetrante dall'uscio aperto a rischiarare di scorcio una tenda-sipario a righe grige e blu, e il ritratto di Giuditta Grisi.
Qualche anno dopo, la bambina, divenuta più grandetta, ma rimasta selvatica e avida di mirifiche storia, trova in un ripostiglio un fascio di romanzi di Alessandro Dumas padre: da I tre moschettieri ad Angelo Pitou.
Vecchi libracci, ingialliti, cincischiati, rosicchiati agli angoli, mancanti di pagine qua e là: non importa. Le è come salire in un bastimento e traversare il mare.
Legge, legge, legge. Arruffa e precipita i compiti di scuola, per leggere. Respira nella favola. Un senso di letizia, di benessere pieno, ad ogni nuova lettura rinsanguato, si diffonde in lei. Ha, con i personaggi dei fantastici romanzi, colloqui d'allucinante intensità: se li raffigura e li vede, dinanzi e intorno a sé, con caratteri di fisionomia e di gesto sui quali non può sbagliare.
E quando, più tardi, l'irriflessiva compiacenza della governante Tereson (quel bravo signor Antonio, che anche lui non può vivere senza libri!) le lascerà fra le mani gli sporchi e cianciati volumi d'una biblioteca circolante, e la scolaretta tredicenne scoprirà Emilio Zola, la sua segreta gioia diverrà terribile come un'ossessione.
Le pagine impure, nelle quali più crudamente è rappresentato il vizio, e più turpi odori emana la carne, scorreranno sul suo spirito senza lasciar traccia: acqua su marmo: tanto ella è innocente. Ma la massa dell'opera, così compatta e sanguinante d'umanità, graverà su di lei con tutto il suo peso. Ella sarà malata d'una penosa malattia, dell'anima, che la renderà dissimile dalle ragazze della sua età. Distratta, a volte prostrata, presenterà a' suoi maestri componimenti pieni d'inquietudini e di squilibrio, tralucenti d'immagini e di reminiscenze torbide e confuse.
Ma ella non ama la scuola. Nessun rapporto, nessuna confidenza fra lei e il sistematico ingranaggio scolastico. È quieta, lavora, si sforza di comprendere, sa che deve, che ribellarsi non può; ma, in fondo, non desidera che di evadere. Vuole studiar da maestra, unicamente perché non intende logorarsi in un opificio come la madre, o divenir serva di signori in gioventù e portinaia in vecchiezza, come la nonna.
Ora che è quasi una giovinetta, si sente diventar di brace, poi del color dell'erba, quando deve aprire il cancello grande alla carrozza dei padroni di casa, che tornano dalla passeggiata del pomeriggio; e inghiotte acido e respira male, quando deve portar le lettere o far qualche commissione. Non invidia il lusso delle sale padronali: non le guarda nemmeno. Né le fanno gola gli squisiti mangiari, tanto l'abito della sobrietà s'è fatto natura in lei.
Solo, non vuol servire.
Quella portineria! Odiosa, con la bianca invetriata a smeriglio verso la strada, e il doppio uscio a cristalli trasparenti verso il porticato interno. Odiosa, con il campanello che squilla ad ogni entrar di persona; e bisogna rispondere: - Sì, no, i padroni ci sono, non ci sono.
E il giorno del ricevimento, con tutti quegli equipaggi alla porta, e tutte quelle signorine fruscianti in seta e velluto, che la guardano dall'alto o non la guardano nemmeno: oppure le sorridono con stupida benevolenza, e questo la fa impallidire di più!
Salgono a far visita alla signora del palazzo; maestosa femmina, che fu assai bella in giovinezza, ma ora affoga nel grasso e soffre d'ipertrofia di cuore; e sarebbe buona; ma ha modi troppo alteri e bruschi, perché le venga riconosciuta la sua bontà. Dirige la propria casa con l'energia d'un comandante di vascello, e fuma insaziabilmente, giorno e notte, sigari virginia, lunghi, dall'acre odore.
Non vuol male alle portinaretta; e pure possiede il segreto di fustigarla a sangue con poche, recise parole.
Un giorno le toglie di mano il quaderno dei componimenti: lo sfoglia come si sfoglia un taccuino quando si cerca una data, lo leggicchia qua e là; e sentenzia:
Questa non è farina del tuo sacco: roba rubacchiata, presa a prestito: via! Tu leggi troppi romanzacci bambina.

Questa è la descrizione dell’ambiente in cui Ada visse bambina.
Fin da piccina, Ada dimostrò viva intelligenza e fervida fantasia e, quando ebbe l'età, fu iscritta alle scuole elementari di Via Palestro, dove le sue insegnanti, accorgendosi subito delle sue particolari doti, consigliarono a Vittoria, alla fine delle elementari, di iscriverla presso la Scuola Normale femminile di Lodi dove, con grandi sacrifici e con l'aiuto dello zio, Ada continuò i suoi studi.
Conseguito il diploma di maestra nel luglio del 1887 con i voti più alti di tutte le sue compagne, Ada dal 1888 insegnò nella scuola elementare di Motta Visconti, alternando all'insegnamento l'attività giornalistica e quella di poetessa. La sua sensibilità la portò presto a scrivere poesie e le sue colleghe la convinsero a presentarle a qualche giornale: il Fanfulla da Lodi pubblicò Monaca, una sua breve poesia, e l'Illustrazione Italiana, il cui direttore Raffaello Barbiera, apprezzando e lodando la giovane poetessa, pubblicò Gelosia, poi ancora altri versi.
L’editore Trevis accettò di pubblicare in un libro dal titolo di Fatalità, pubblicato nel 1892 tutte le poesie che la Negri aveva composto in quegli anni.
Fatalità è una raccolta animata da un combattivo spirito socialista e da una marcata inclinazione femminista che qualificarono subito la Negri come poetessa sociale.
In questa giovanile esperienza letteraria si possono trovare versi di protesta sociale contro lo sfruttamento dei lavoratori nell'opificio dove lavorava sua madre, il senso di compartecipazione col mondo di miseria e di sofferenza oltre ad un solidale interesse all’esistenza di quelle persone, uomini e donne, sfibrati dall'estenuante lavoro fisico ed il desiderio di mettere in luce una condizione umana che si arrabattava a sopravvivere tra privazioni e stenti. Tutto questo le valse l'appellativo di vergine rossa, ma è facile capire che tutto il percorso letterario della Negri è accompagnato dalla necessità vitale di scrivere per istinto, come le detta l'anima e così fece fin dal suo esordio.
Fatalità le diede un successo strepitoso, grazie anche alla sua capacità di esprimere, con immediatezza di linguaggio, le lotte del primo socialismo italiano e gli ideali di redenzione sociale del popolo, seppur vissuti con intento puramente umanitario.
Le liriche commossero e stupirono i lettori e crearono intorno alla giovane poetessa un alone di profonda simpatia. Questo primo volume di poesie rivelò, in modo chiaro e preciso, nell'umile maestrina di Motta Visconti la figura di una poetessa. Ed Ada Negri, già nella prima poesia che dà il titolo al volumetto, sembra presagire il suo cammino esistenziale da quell'esordio esplosivo fino all'ultima stagione della sua esperienza poetica, con quella apparizione notturna della sventura, bieca figura con un ghigno sulla faccia che le predice un avvenire di dolori e di grandezza:

Son la sventura.
Ch'io t'abbandoni, timida fanciulla,
non avverrà giammai».


Al che la giovane Ada insorge gridando:

«Io voglio la speranza
che ai vent'anni riluce,
voglio d'amor la trepida esultanza,
voglio il bacio del genio e della luce!...


Ecco infine il responso della sventura a chiudere la lirica:


A chi soffre e sanguinando crea,
sola splende la gloria.
Vol sublime il dolor scioglie all'idea,
per chi strenuo combatte è la vittoria.


Senza dubbio parole dettate dalla gioventù che rendono più l'idea dello sfogo, dell'ingenuo desiderio di affermazione, dell'arroganza tipica di una giovane esuberante, eppure sono la più vera testimonianza d'un gentile e robusto ingegno femminino della signorina Ada Negri, capace di versi squisiti, di liriche ammirabili d'un vero talento d'una poetessa, sicura gloria lodigiana, come si leggerà sul Fanfulla da Lodi.
Questi primi versi velati da una giustificata immaturità saranno comunque sempre riscattati dalla passione per l'arte che la poetessa profonderà a piene mani.
Nella silloge Fatalità si trova un po' di tutto: dalla tristezza della solitudine, all'inquietudine, alla malinconia, dal patimento della povertà alla quale riesce difficile rassegnarsi, alle indignazioni improvvise, al disprezzo del mondo egoista e cinico, e poi una inappagata sete di vivere, un inesauribile bisogno d'affetto e d'amore, una brama di luce e di gloria. Sentimenti che deflagravano nel suo animo ed erano la fiamma che accendeva il suo canto.
Un bagno di fuoco divoratore di una giovane che conosceva già le notti insonni e l'inquieto pensier della dimane, ma nel suo sguardo splendeva una luce di speranza da offrire alla madre che si consumava, giorno dopo giorno, in un lavoro estenuante.
In queste prime poesie Ada Negri, con forte amarezza nel cuore, pose in evidenza e mise in evidenza lo stato di povertà e di miseria in cui vivevano lavoratori sfruttati dai padroni che avevano come unico scopo il profitto a scapito della dignità di persone che si trovavano spesso in condizioni terribilmente disagiate e sottoposte all'abbrutimento in luridi tuguri senza assistenza da parte di nessuno.
Con gli occhi di una donna pervasa da un forte senso di giustizia sociale, non riusciva a tollerare né a concepire una simile condizione di oppressione e di soprusi e quindi grazie alla sua poesia che si faceva canto sociale tentava di ribellarsi a questa fatalità.
Prendono forma le poesie ispirate ai ricordi dell'infanzia tra mille sacrifici e miserie, la fatica e l'umiliazione di sua madre che lavora come operaia e diventa l'emblema come in Madre operaia del comune dramma di molti esseri umani, raffigurati e fissati negli ambienti delle fabbriche oscure, nelle case umide, nelle malsane risaie, dove svolgono lavori faticosi per un misero salario sufficiente malapena a farli sopravvivere:

Nel lanificio dove aspro clamore
cupamente la volta ampia percote,
e fra stridenti rote
di mille donne sfruttasi il vigore,
già da tre lustri ella affatica. - Lesta
core a la spola la sua man nervosa,
né l'altra e fragorosa
voce la scote de la gran tempesta
che le scoppia dattorno. - Ell'è sì stanca,
qualche volta; oh, sì stanca e affievolita!...
Ma la fronte patita
spiana e rialza, con fermezza franca;
e par che dica: «Avanti ancora!...» - Oh, guai,
oh, guai se inferma ella cadesse un giorno,
e al suo posto ritorno
far non potesse, o sventurata, mai!... -
Non lo deve; non lo può. - Suo figlio, il solo,
l'immenso orgoglio de la sua miseria,
cui ne la vasta e seria
fronte del genio essa divina il volo,
suo figlio studia. - Ed essa all'opificio
a stilla a stilla lascerà la vita,
e affranta, rifinita,
offrirà di se stessa il sacrificio;
e la tremante e gelida vecchiaia
offrirà, come un dì la giovinezza,
e salute, e debolezza
di riposo offrirà, santa operai;
ma il figlio studierà. - Temuto e grande
Lo vedrà l'avvenire; ed a la bruna
sua testa la fortuna
d'oro e di lauro tesserà ghirlande!...
... Ne la stamberga ove non giunge il sole
studia, figlio di popolo, che porti
scritte negli occhi assorti
de l'impegno le mistiche parole,
e nei muscoli fieri e nella sana
verde energia de le tue fibre serbi
gli ardimenti superbi
de la indomita razza popolana.
Per aprirti la via morrà tua madre;
a l'intrepido suo corpo caduto
getta un bacio e un saluto,
e corri incontro a le nemiche squadre,
e pugna colla voce e colla penna.
D'altri orizzonti il folgorar sublime
move ed eccelse cime
addita al vecchio secol che tentenna:
e incorrotto tu sia, saldo ed onesto...
Nel vigile clamor d'un lanificio
tua madre il sacrificio
de la sua vita consumò per questo.


Grazie ad una sincerità e ad una spontaneità davvero singolari riesce a dare vita ad una poesia civile che si fa canto di lotta sociale. L'importanza di Fatalità risiede nel fatto che Ada Negri esprime quei sentimenti con estrema chiarezza ed eccezionale vigore: sono liriche di un animo esuberante che graffia l’oleografia di una realtà non entusiasmante. Sentendosi circondata ed imprigionata dall’affannoso ansimare delle turbe miserabili, scrisse Sfida, che ella stessa definì selvaggia.
In questa poesia la poetessa vede il mondo molto negativamente. Nessuna speranza di migliorarlo e di renderlo più sereno:

e sei tu dunque, tu, mondo bugiardo,
che vuoi celarmi il sol degl’ideali, e sei tu
dunque, tu, pigmeo codardo, che vuoi tapparmi l’ali?...
tu strisci, io volo; tu sbadigli, io canto:
tu menti e pungi e mordi, io ti disprezzo:
dell’estro arride a me l’aurato incanto, tu t’affondi nel lezzo.


Non restava altro che uno sferzante disprezzo:

O grasso mondo d’oche e serpenti,
mondo vigliacco, che tu sia dannato!
Fiso lo sguardo negli astri fulgenti,
io movo contro al fato:sitibonda di luce,
inerme e sola, movo. - e più tu restai,
scettico e gretto, più d’amor lafatidica
parola mi prorompe dal petto!...
va, grassomondo, va per l’aer perso
di prostitute e di denari in traccia: io, con la
frusta del bollente verso, ti sferzo in su la faccia.


Con Fatalità iniziò e si allargò il favore per la sua poesia destando l’interesse di giornalisti e di critici con una immediata seconda ristampa. Essa, inoltre, è fortemente in contrasto con la poesia di protesta sociale del tempo che tendeva a ridursi a pura astrazione, cioè a trascurare la concretezza di una precisa documentazione ambientale, che invece la Negri pone sotto accusa con audacia e sincerità, evidenti in tutte le sue opere. All’astrazione la Negri oppone una poesia che cercava di scolpire una materia sgorgata dalla vita: ritrova e compiange i bambini, ma mai provando pietà, è attenta al dramma dei vecchi tremanti e affaticati, condanna la società che trattiene tutto il giorno le mamme lontano dai figli; a riguardo scrive:

Più non dovrà, più non dovrà nessuna donna,
per legge di servil fatica,
lasciar la casa e abbandonar la cuna.


La pubblicazione di questa raccolta ebbe un grande successo e la sua affermazione letteraria andò di pari passo con l'affermazione professionale: Per la sua notorietà il Ministro dell'Istruzione pubblica Zanardelli le attribuì il titolo di docente ad honorem presso la scuola di ordine superiore, l'Istituto Gaetana Agnesi di Milano dove la Negri si trasferì con sua madre, lasciando la povera scuola di campagna con le sue voci affettuose e le persone che le erano state vicino e che rappresentavano ormai il dolce passato: nella sua mente Ada era già sicura che non avrebbe mai più ritrovato la pace di quel luogo tanto caro e tanto amato, che la faceva sentire nel posto giusto, in un ambiente adatto a lei e che non avrebbe più riassaporato la semplicità della sua gente, povera, ma ricca di sentimenti e dove Ada aveva conosciuto Ettore Patrizi, un ingegnere, amico di Filippo Turati, di qualche anno più vecchio di Ada.
Ettore Patrizi la introdusse nella cerchia di intellettuali socialisti di Milano di cui facevano parte Anna Kuliscioff e Teodoro Moneta. Con lui c'era affinità di spirito e condivisione delle prime esperienze e dei primi approcci con il mondo intellettuale milanese, ma Patrizi aveva già programmato di partire per l'America, terra promessa per molti italiani dell'epoca, e la Negri non riuscì a fermarlo e gli promise di aspettarlo.
La partenza di Ettore troncò un sogno di lotta e di vita comune: Ada continuò a scrivergli, anche dopo il suo matrimonio, e lo fece fino a poco prima della morte. Nel carteggio con Patrizi, costituito da due pacchi di lettere, si legge una storia d'amore, una passione che percorre un'intera vita racconta, ma i messaggi rappresentano anche un diario della storia d'Italia nel periodo tra la nascita del partito socialista, il suo ardore politico e l'impegno civile, il tormento di una donna dell'Ottocento che temeva più di tutto la prigionia di una vita familiare mediocre fatta di «lotta per il guadagno, di pettegolezzi di serve e di grida di bambini» e la seconda guerra mondiale, compresa l'illusione che Mussolini potesse realizzare il sogno di un socialismo rivoluzionario. In queste lettere Ada racconta sé stessa, i suoi dubbi, la scelta di una attività letteraria che sia anche di aiuto in ambito sociale. Per Ada Negri, del resto, la penna e i fogli su cui si gettava con ardore e senza risparmio, sono un'arma. «Sì, il libro deve essere l'uomo; perché l'opera d'arte sia completa deve palpitare e sanguinare in essa tutta l'anima del poeta. Io non metterò la dinamite in mano all'operaio, ma gli schiuderò davanti la immensa via dell'avvenire, che egli certamente calcherà, fermo, calmo, agguerrito, rispettato e sereno» scriveva a Patrizi il 25 luglio del 1892. Un sogno di rivoluzione che trapela in molti dei messaggi di Dinìn (il soprannome della Negri), che è scrittrice, insegnante, donna innamorata della campagna nebbiosa:

«Viene un momento, un'ora, di giorno, di sera, dovunque, in cui un'idea subitanea m'assale, ingrandisce, mi fa soffrire, vuole uscire, esce e allora, in pochi minuti, butto sulla carta una parte della mia vita, uno strappo della mia anima»

oppure:

«Io posso far molto: posso descrivere con tocchi nudi e strazianti le sofferenze de' miei fratelli, le loro fatiche, i loro lutti, le loro miserie, di cui ben pochi eletti si curano; posso... lanciare al mondo un grido altissimo di dolore, di protesta, d'angoscia, di pietà, di speranza!»

A Milano, dove Ettore Patrizi aveva introdotto la giovane Ada fra i membri del circolo Partito socialista italiano, conobbe Filippo Turati ed Anna Kuliscioff della quale Ada scrive:

«... torno da Anna Kuliscioff... un'ora di conversazione intima, intelligente... una donna che aveva molto amato, molto sofferto: che sulla strada faticosa aveva lasciato stille di sangue e brani di carne, e dalla lotta era uscita serena, calma, superiore...»

Frequentando assiduamente la casa di Turati e della Kuliscioff, di cui disse di sentirsi sorella ideale, conobbe Luigi ed Ersilia Majno, presidente della Lega femminista milanese costituita per l'elevazione e per l’istruzione della donna, per la difesa dell'infanzia e della maternità come recita il manifesto programmatico dell'associazione fondata nel 1899, a Milano, da un gruppo di donne diverse per estrazione sociale e formazione culturale, fra le cui firmatarie figura anche Ada. L'Unione si diffuse rapidamente in tutta Italia, con un proprio progetto politico per un femminismo caratterizzato dall'impegno pratico per la salvaguardia delle lavoratrici – operaie, maestre, impiegate, insegnanti di scuola media – e per l'affermazione del valore sociale della maternità.
In questi anni la formazione politica socialista della Negri diventò sempre più ampia: erano gli anni del primo socialismo italiano, oscillante tra idealismo umanitario ed utopie di rivolta e di palingenesi rivoluzionaria marxista. Il socialismo di Ada Negri era quello umanitario, ricollegabile a quello di Alessandrina Ravizza, di Pascoli e di De Amicis, basato soprattutto sull’elevazione delle classi umili, soggette ai soprusi dei violenti, che le umiliavano, insensibili alle loro sofferenze. Ancora qui una scelta dettata dalla sua vicenda biografica: sua madre era stata duramente sfruttata nel filatoio, dove in quegli anni ella stessa aveva subito violenti soprusi.
In quel periodo, Ada conobbe Mussolini, con cui ebbe rapporto di grande intimità, fin dai tempi della comune attività giornalistica e dell'impegno socialista, e con lui rimase sempre in contatto: a parziale medicamento della delusione per il mancato Nobel, Mussolini fece infatti pressione per farle avere il premio a lui intitolato nel 1931 e per la nomina all'Accademia d'Italia nel 1940. Il loro rapporto fu sempre caldo, sebbene con alcune riserve da parte di Ada Negri, natura troppo delicata, per accordarsi con l'esercizio della violenza praticato dal Fascismo, sebbene la scrittrice si fosse realmente convinta della necessità di un popolo guidato da una personalità carismatica.
Nel 1894 Fatalità vinse il Premio Giannina Milli per la poesia con l'assegnazione di una rendita annua in denaro, che permise alla poetessa di lavorare serenamente e di avere la possibilità di scrivere altre poesie.
Nel 1895, dopo mesi di intenso lavoro per una nuova raccolta di poesie, Treves pubblicò col titolo Tempeste, la sua seconda fatica letteraria, in cui la Negri affrontò, con un linguaggio oltremodo misurato e contenuto, le stesse tematiche della prima raccolta: l'ansia di libertà, quella sete di vivere, l'amore per la madre e la sua terra pienezza di vita fra le spighe d'oro, dove non esiste più tristezza né miseria. Ma dicendo Scoppieranno liriche robuste ispirate all’amore e alla pietà umana i temi sociali rivoluzionari rendono la poesia rivolta. Ada Negri, pur continuando il suo discorso umanitario si dirige sempre più consapevolmente verso una figura di poetessa sociale: sebbene la raccolta sia ancora appesantita da una retorico e da un’enfasi talvolta straripanti, offre perfettamente una nuova espressione della sua energia vitale, della sua esuberanza e della sua umana compassione. Ella si sente l'interprete unica di una missione, ma non è pretesa o presunzione ma nasce dalla consapevolezza della conoscenza diretta di quei problemi, come testimonia un’amica degli ultimi anni della vita della poetessa, la signora Origgi Vimercati, che intravide per prima che l’ispirazione sociale di Ada Negri fosse dovuta alla sua esperienza personale: i suoi genitori erano stati lavoratori e custodi nella villa di alcuni signorotti ed ella, bambina, aveva potuto osservare il trattamento che la classe borghese riservava allora ai contadini ed aveva potuto vivere pienamente la drammaticità della condizione dei lavoratori dal punto di vista economico ed umano. La sua sensibilità e l'intelligenza contribuirono al concretizzarsi di una poesia a sfondo sociale, a volte polemica anche nei confronti di quella Chiesa che non prestava ascolto alla voce dei più umili. Quel suo parlare in prima persona non è solo un espediente stilistico è concretezza autobiografica. Per questo motivo autobiografia e motivi sociali diventano un’unica cosa nella sua poesia è la Negri è sincera interprete di se stessa, più che interprete delle calamità sociali. Proprio questo rafforza nella ventiquattrenne poetessa la convinzione di essere investita di una missione sociale, di dovere trovare la parola giusta per tutti coloro che, calpestati dalla società, invocano Pace!… Lavoro!… Pane!…
In questa seconda raccolta si può leggere, sparsa qua e là, anche una profonda amarezza causata da un amore infelice: si fa strada un desiderio nuovo come l'ansia d'amore con il tormento per il lungo silenzio dell'uomo amato e la dolorosa constatazione di essere stata ormai dimenticata. La passione e l'angoscia la travolgono come tempeste, ma grazie al dono naturale della sua vocazione poetica prendono vita liriche pulsanti d'amore deluso e di rivalsa, senza tuttavia mai adagiarsi su toni patetici. In Tempeste si percepisce un lento, ma inesorabile passaggio dell’esistenza, che la porta dall'immagine di vergine rossa ad una figura più vera di poetessa dell'amore, che offre con la sua poesia la realtà di una umanità sofferente e misera sulla quale si abbatte il destino doloroso. La stessa poetessa conobbe da vicino il doloroso cammino di questa vita che a molti spetta di attraversare con dolore e solo straordinari istanti di felicità: la sua parola fu sempre vera, specchio fedele del suo dolore e delle sue delusioni.
La raccolta ebbe un'accoglienza tanto favorevole che ne seguirono immediatamente traduzioni in francese ed in tedesco.
In queste due prime raccolte, la sua lirica si concentrò soprattutto su temi sociali ed ebbe forti toni di denuncia, tanto da farla definire la poetessa del Quarto Stato: pure in presenza di enfasi e di prolissità, esse costituiscono la più vera affermazione della sua personalità genuina e della sua arte, suggellando la sua vocazione poetica espressa in maniera sempre così immediata e sincera, da raccogliere anche il consenso del severo Giosué Carducci che forse rivedeva in queste poesie la sua ispirazione giovanile, che aveva fatto di lui un tempo un democratico poeta della rivolta e che vedeva nella Negri il carattere energetico e forte di una poetessa dai contorni netti e dalle tinte forti.
La positiva accoglienza della raccolta Tempeste accrebbe ulteriormente il numero dei suoi estimatori e fra questi Giovanni Garlanda, un industriale tessile di Biella, proprietario di un lanificio, che si invaghì di lei e, dopo fugaci incontri, si sposarono nel 1896.
Il matrimonio con Giovanni Garlanda fu una scelta impulsiva su cui, allo stato degli studi, non è possibile stabilirne le ragioni, ma solo formulare delle ipotesi: forse il prolungato silenzio di Ettore Patrizi, forse il desiderio di trovare finalmente l'agiatezza economica e la soluzione definitiva ad anni di povertà trascorsi insieme alla madre o forse – la Negri aveva ormai ventisei anni – era giunto il momento di sposarsi e colse al volo la prima occasione. Un buon partito, la possibilità di trasferirsi dalla modesta casa di Milano alla ben più allettante residenza nella provincia di Biella. Ma il matrimonio con un uomo appena conosciuto e per di più con idee assai differenti dalle sue – erano gli ultimi anni dell’Ottocento, un periodo di lotte sociali ed i punti di vista dei coniugi divergevano su quanto stava accadendo – il trasferimento in un ambiente più chiuso e diffidente della Valle Mosso, dove Ada era pienamente calata in una dimensione borghese, che mal si addiceva alle convinzioni della poetessa, provocò continue incomprensioni e dissidi. A salvare temporaneamente il matrimonio contribuì la nascita della figlia Bianca nel settembre del 1898 e la vita della poetessa divenne più serena. Nel 1900 nacque la seconda bambina, Vittoria, che però morì dopo poche settimane di vita.
Il marito, per motivi di lavoro, dovette trasferirsi a Milano, dove Ada riallacciò i rapporti con gli amici e con l'ambiente letterario. Nel 1903 la Negri cominciò anche a collaborare con il Corriere della Sera mantenendo per 40 anni questo rapporto di collaborazione e diventando anche redattrice de La Lettura, la rivista mensile del Corriere fondata da Luigi Albertini: con i critici e con i direttori del quotidiano milanese Ada Negri ebbe una corrispondenza fitta, anche al di là dei semplici motivi di lavoro. Questi incontri, questi impegni e queste frequentazioni aumentarono i contrasti con suo marito, che non approvava le sue scelte.
Il 15 febbraio 1904 fu pubblicato sulla pagina culturale del quotidiano Il Giornale d’Italia, il primo articolo su Ada Negri dove sono riportate, in anteprima assoluta, per gentile concessione dell’editore Treves, le poesie Le dolorose, Ritorno a Motta Visconti e Dialogo, parte della raccolta Maternità, ispirata alla Negri dalla nascita della figlia, subito dopo il matrimonio. Le sue travagliate vicende personali – la solitudine nella grande casa di Valle Mosso, la nostalgia per i luoghi della giovinezza tanto amati, la felicità per la nascita della figlia Bianca, il dolore per la morte di Vittoria , le incomprensioni coniugali – non avevano infatti fermato la sua vena poetica, ma ne modificarono profondamente la poetica anzi Ada Negri vi attinse nuove ispirazioni per la sua arte, segnando una prima svolta della sua poetica e le sue poesie diventarono più marcatamente introspettive, come si vede nella raccolta Maternità del 1904, ancora edite da Emilio Treves, a quasi dieci anni di distanza da Tempeste.
Con la raccolta poetica Maternità si conclude la stagione della rivendicazione sociale e si schiude quella dell'affermazione dei diritti della donna come cittadino, della dignità e del rispetto come persona, denunciando le difficoltà che le donne devono affrontare e le umiliazioni che devono sopportare: nelle sue liriche ne sono esempio figure di madri che compiono atti disperati ed il senso di pietà che ne emerge.
In Maternità, l'autobiografismo subentra alla visione sociale ed umanitaria: il tema della maternità balza in primo piano e ne rivela tutto il travaglio, con ansie, trepidazioni, gioie e desideri, la serenità di un ambiente familiare, ma anche i turbamenti e le ingiustizie di un mondo che non applica il messaggio cristiano.
È la ricerca di un equilibrio interiore, di una armonia, di una nuova personalità poetica e spirituale, che fa cadere la proverbiale immediatezza espressiva e tocca ora un più intimo raccoglimento ed una più sofferta meditazione interiore.
Alcune tra le migliori poesie nascono dalla malinconia per il suo ribelle e splendido passato come le liriche Ritorno a Motta Visconti e Piazza di San Francesco in Lodi.
Il silenzio e la pace della in Piazza di San Francesco in Lodi, è rievocato con profonda nostalgia:

Se de la patria il giovanile e fresco
disio sale al mio cor come un incenso,
tutta bianca nel sole io ti ripenso,
piazza di San Francesco.
Cresce fra le tue pietre, o solitaria,
tranquilla l'erba come in cimitero.
- Sole e silenzio. _ Un passo - un tremar nero
d'ali fendenti l'aria.
Ed eran quel silenzio e quella pace
che in te bevevo a sorsi larghi e puri;
e il bacio amavo su' tuoi vecchi muri
de l'edera tenace.
L'antico tempio, presso l'ospedale,
svolgea sue linee semplici e divine.
Per due bifore in alto, snelle e fine,
rideva il ciel d'opale.
L'antico tempio avea canti e colori
d'una soavità che ancor mi trema
dentro. - O speranze, o poesia suprema
degli anni miei migliori!...
Gravi note de l'organo, salenti
agli archi de le volte longobarde,
su l'alte mura tremolar di tarde
stelle e fluir di venti!...
Come un suggello mistico al pensiero
da voi mi venne - e forse ho sempre amate
per voi le grigie case abbandonate
ove dorme il mistero,
i muschi densi a pie' de l'erme, i quieti
cortili pieni di sole e di verde,
i portici dei chiostri ove si perde
l'anima dei poeti;
i tristi luoghi ruinanti in pace
ove sol parla il soffio de le cose,
dei sogni morti e del morte rose,
e tutto il resto tace.

E poi nella lirica Ritorno a Motta Visconti ecco ricomparire:

il passato di lotta e di speranza,
il suo ribelle e splendido passato.


e poi pare ancora risentire il


vento di libertà, di giovinezza.


ed ora invece l'anima stanca si infrange contro l'onda dei ricordi come tempesta a notte.
L’amicizia di Ada con i coniugi Sarfatti si rinsaldò: nello splendido appartamento di Corso Venezia in cui i Sarfatti vivevano, Margherita, aprì agli amici il salotto, uno dei più esclusivi di Milano, noto a tutti gli intellettuali che gravitavano o che passavano nel capoluogo lombardo, divenendone l’animatrice e, quando nel 1909 esplose il Futurismo, il salotto dei Sarfatti diventò il centro dell'avanguardia artistica italiana: Marinetti, Carrà, Boccioni e Russolo alternavano le loro riunioni tra casa Sarfatti e casa Marinetti, anch'essa in Corso Venezia. Dai Sarfatti, però, in quegli anni eccitanti e movimentati, si incontravano anche altri personaggi, interessati a tutto il nuovo che la Milano di inizio secolo sembrava proporre: gli scultori Wildt e Martini, i pittori Sironi, Funi, Tosi, il giovane architetto Sant'Elia, Palazzeschi, Panzini, Sem Benelli, Mario Missiroli ed Ada Negri completavano il quadro.
Ada strinse amicizia con Margherita, della quale la zia Ada, diventò amica inseparabile e non ci fu soggiorno al Soldo – la casa di campagna di Cavallasca, sul lago di Como, già appartenuta a Carlo Imbonati, dove i Sarfatti trascorrevano le loro vacanze – che non la vedesse presente come un membro della famiglia e proprio ad Ada consegnerà, prima della partenza dall’Italia un breve, ma intenso carteggio databile tra 1922 e 1923 circa, alcune su carta intestata Gerarchia, la rivista mensile che aveva diretto affiancata da Mussolini, ma perlopiù vergate sulla carta degli alberghi che frequentava con Mussolini, per nascondere agli occhi del mondo la loro relazione almeno fin quando essa assunse risvolti semi-pubblici, dopo il trasferimento a Roma di Mussolini e la morte del marito Cesare nel 1924. Le lettere che la Sarfatti consegno all’amica Ada delineano un percorso in crescendo, dalle iniziali ritrosie fino alle scenate di gelosia, in una relazione considerata stabile e profonda.
Nella 1910 vide la luce presso Treves Dal Profondo, la quarta raccolta di poesie.
Nella poesia La visione, i personaggi di cui parla esprimono un arcano senso di forza e di tenacia, sia nelle caratteristiche fisiche che nelle azioni da loro compiute.

A raccoglier nel cavo della mano
Quel suo bel sangue dilagante a rivi,
venian turbe da presso e da lontano
le vesti in cenci lor cadean da’ fianchi,
avean nodose mani e scarni volti,
e labbra ansanti, come di chi manchi.
Col gesto d’una belva che si sazia
bevevano alla dolce fonte umana
generatrice di forza e di grazia.
Dense di succhi, turgide d’amore.


Nella poesia La partenza, parla di una donna che realizzò il suo sogno di viaggiare, ma che, alla fine, si sentì sola, chissà dove, lontano da casa e perduta, senza alcun legame affettivo.

Un giorno ella partì, per la sua strada.
Ogni energia per vincere temprata
Aveva, in fiamma e in ghiaccio, al par di spada.
Vide paesi, vide ampie città.
Pulsar sentì nel suo fraterno cuore
Il cuore enorme dell’umanità.
Le parve d’esser cento e d’esser mille.
Fu la donna del gran sogno vermiglio.
Nel sole abbacinò le sue pupille.
Ma a poco a poco si trovò smarrita,
ne seppe come - ognuno era scomparso –
si trovòsola, a mezzo della vita,
fra le sterpaglie d’un campo riarse.


Nella poesia Il sangue, colpisce la quasi tragica e ossessiva ripetizione di rosse immagini di sangue che percorrono tutto il testo.

Il sangue, ‘l sangue!...lo vedea, nel grembo
D’ogni forte vermiglio, nelle nubi
D’ alba e il vespro, nell’ orror del nembo;
lo sentia nel rombo d’ ogni arteria,
denso, caldo, gagliardo, veemente,
sola ricchezza nella sua miseria.
Da quale avo guerriero quell’ebrezza
Del sangue a lei veniva, e, nel sognarlo,
quell’occulta spasmodica dolcezza?...
fontanelle di sangue zampillare scorgea
dall’imo del cor profondo, e d’in tragico rosso
imporporare ogni giardino ed ogni via del mondo.


Nella poesia La vita, Ada Negri trasmette un desiderio di vivere abnorme, un vitalismo ed una immedesimazione con le forze naturali fin esagerati.

Che voleva da lei la vita?...- tutto.
Ella sentiva d’esser sacra. - in lei
Niun atomo poteva esser distrutto.
L’aria l’erba la terra il fiore il raggio
Si trasmutavan nella sua sostanza
Con la fecondazione ansia del maggio:
dalla punta del piede agile torso nervoso,
al casco dei capelli neri, ella era il frutto
che attendeva il morso. Oh,
vivere la piena vita! ...oh, fra le
Avide mani stringerla, per sete
Di spremere ogni succo, ed anche il male,
e le più aspre verità segrete!...


«La lirica della poetessa, – scrive Oliva in un articolo del 7 marzo 1911 – rivolta inizialmente, a cantare e a rappresentare le miserie degli umili e le ingiustizie sociali, tanto da essere definita socialista e proletaria, si era trasformata con gli anni, in una prosa temperata, e perfino, l'inconfondibile e simpatico sentimento di ribellione e di denuncia che l'aveva caratterizzata, si era placato. Lo stile appare reminiscenza della maniera propria dei veristi ma, si rivela anche, adattamento a forme nuove, più elette, più studiate che raggiungono toni elevati quando l'autrice parla di sé, quando esprime il suo mondo interiore piuttosto che altri argomenti. Ciò emerge con evidenza nella raccolta di liriche Dal profondo, [,,,] raccolta nella quale la Negri esprime, con immediatezza e spontaneità, sentimenti di intima vita familiare.»
Domenico Oliva che, fino ad allora non aveva avuto modo di leggere nulla della scrittrice, tranne alcune liriche giovanili, apparse sulla rivista diretta da Raffaello Barbiera, si pone di fronte alla Negri, con gli occhi di un giornalista libero da qualsiasi preconcetto o da qualsiasi influenza critica.
Nel 1913 Ada si separò dal marito: quella vita coniugale la imprigionava nel suo ruolo fissato di moglie totalmente sottomessa al marito: regina della casa, ma ingabbiata alla vita senza possibilità, al di fuori della soffocante sfera familiare, di relazioni viste come turbative ai suoi doveri di moglie. La situazione era insostenibile soprattutto per una donna come lei ed i continui contrasti erano un fardello insopportabile soffocante per ogni suo moto e impulso di libertà, una continua tortura cui pose fine con la separazione: quando sua figlia fu mandata in un collegio a Zurigo a studiare lingue straniere ed ella stessa vi si trasferì, decisa a non tornare più, si costruì una famiglia con sua madre e con sua figlia.
Un ulteriore stravolgimento nella vita di Ada, riflesso nelle sue nuove poesie in un misto di amarezze di una donna, ma anche di ritrovata forza di affrontare con serenità il futuro.
Nel 1914 Treves pubblicò la raccolta di poesie intitolata Esilio, opera con evidente riferimento autobiografico.
Nelle poesia Parole non dette, da un lato emerge un tono velatamente pessimistico, ma dall’altro esprime la rabbia di non poter dire tutto ciò che si pensa, anche quando si è ormai giunti all’ultima ora della vita.

Parole che la bocca mai non disse,
per pietà, per orgoglio o per paura,
che i labbri spinse una demenza oscura,
che un forte volere ivi confisse
parole non di suono ma di palpito,
miste al sangue pulsante, alla saliva
di che tacer s’abbevera, alla viva
carne che soffre, al cuor che batte a scalpito:
han, nel profondo ove s’accolgon bieche
(e chi dir non le volle in sé le udrà sempre),
un’allucinante fissità di facce spente, di pupille cieche
O creatura dalle chiuse labbra, sulla parte di te
che fu soppressa il tuo silenzio è pari
a una compressa gelida su ferita che si slabbra.
O creatura che disio non chiama più;
che amor più non sveglia!…Un’ora sola
a te segnava Iddio per la parola che non dicesti:
ed or entro ti clama Rannicchiati in disparte,
ingoia il pianto, avviluppati d’ombra.
È tardi adesso per la tua verità.
Tu sei già presso la soglia eterna,
ove il silenzio è santo.


Nella poesia Plenilunio, solo nella parte iniziale descrive il plenilunio quieto e sereno felice e suggestiva del plenilunio, passa poi ad un finale tragico e triste di un viaggio verso il nulla.

Vecchio capoccia, ormai dentro la casa
Dorme la tua tribù, queta e serena.
La casa è bianca nella luna piena
Dalla soglia di pietra alla cimasa.
Anche l’aia ha un immobile pallore
Estatico, un candor di nevicata.
Lasciami presso il cane, accovacciata
Col viso a terra. Ho stanco il corpo e il cuore.
Lasciami presso il cane sulla sogliadi pietra.
Non cacciò dal suo felice campo Boòz
la pia spigolatrice che venne a lui
così sperduta e spoglia.
Io sono Ruth dai morbidi capelli
Color di notte, che d’un manto regio
Superbamente coprono lo sfregio
Brutale della tunica a brandelli.
Ma Ruth rimase. Io partirò coll’alba.
Io sempre vado e vado, e mai non resto.
Sol mi trattien, rete di perle, questo
Plenilunio che magico s’inalba.
Voglio dormir in un lenzuol di luna
Come una principessa di leggenda;
e della Lattea Via farmi una benda
meravigliosa alla gran chioma bruna.
…Trame d’argento. Ragnatele d’astri. Silenzio.
E tutto bianco, tutto bianco…
…Ma poi la luna piegherà su un fianco,
gonfia, inferma, grottesca, fra giallastri
vapori. – E mentre la sua faccia tragica
d’assassinata affonderà nel nulla,
io pur riprenderò, verso il mio nulla
che salvezza non ha la fuga tragica.


Nella poesia Ponte di Lodi, inizialmente la poetessa ricorda la sua adolescenza, quando era impaziente di vivere, poi però verso la fine riaffiora nuovamente la vena pessimista, sintetizzata in quell’Addio senza speranza, che accompagna la maggior parte delle poesie citate.

Ponte di Lodi i tuoi plumbei pilastri
abbracciati dall’impeto del fiume rivedo, i freschi spruzzi
delle schiume candide a fior dei vortici verdastri
come una volta ancor vorrei poggiarmi alle tue sbarre,
e riaver quel vento in faccia; e mirar nuvole d’argento
specchiate in acqua ed esse saziarmi.
ma esser quella d’allora con quel volto e quell’anima,
scarna adolescente livida di superbia,
impaziente di vivere, con sensi aspri in ascolto;
e tutto innanzi ai larghi occhi selvaggi:
l’onda e la vita!… - Ma su via trascorsa non si ritorna.
Il tempo spinge, in corsa: altri fiumi, altri ponti,
altri miraggi E vado e vado. Finché un giorno,
‘ Addio’ Dirà l’anima al corpo.
E sarà il fiume Natal, che, in sogno, sotto il ponte, a lume
D’astri, mi condurrà verso l’oblio.


Dalla Svizzera Ada ritornò nel 1915 allo scoppio della prima guerra mondiale per prestare la sua instancabile opera in ospedale.
Nel 1917 comincia la seconda fase della sua produzione poetica, in cui la scrittrice si avvicina invece a posizioni simili a quelle di Pascoli e soprattutto di D'Annunzio, trattando i temi della contemplazione della natura e della condizione umana, rese attraverso un maggiore lirismo. In quest’anno, la Negri pubblicò la raccolta di quattordici novelle Le solitarie dedicata Margherita Sarfatti, in cui raccontava la sua visione del mondo come una semplice ragazza di campagna.
Nel 1918 pubblicò Orazioni, dove raccolse delle odi alla patria: gli anni della guerra avevano trasformato la sua passione civile in patriottismo, sebbene la corda principale della sua poesia fossero ormai i sentimenti e, avanzando gli anni, la memoria.
Con il dopoguerra inizia quella che Piovene definisce la fase borghese dell’arte della Negri, costituita essenzialmente da tre opere, Il libro di Mara del 1919 Stella Mattutina del 1921 ed I canti dell'isola del 1925.
La grande guerra aveva cambiato un po’ tutto: scenari letterari ed umani erano profondamente mutati come era profondamente mutato anche il pubblico inoltre, nel 1919, la madre di Ada, costante punto di riferimento fino a quel momento, morì, sua figlia era cresciuta ed Ada era una donna alla ricerca del grande amore, unico vero bene al quale aspirava, ormai sul finire della giovinezza, quando già qualche sparso capello bianco s'intravedeva nella sua lunga e nerissima chioma.
Ada poteva finalmente realizzare la sua vita in completa autonomia, senza dover tener conto delle convenzioni, dei doveri che quel mondo borghese le imponevano e che ella rifiutava. La immagine della rivoluzionaria riflette le difficoltà e le ritrosie del suo adattamento alla vita borghese che l'aveva accolta, di certi atteggiamenti rivoluzionari vagamente ribelli nel ricco ambiente d'industriali che la Negri sembrò scegliere, dopo essersi affermata come scrittrice: ma Ada si era sentita intrappolata in quella prigione dorata in cui, forse per convenienza, forse per inesperienza giovanile o forse per tutte e due le ragioni si era rinchiusa.
Se – secondo l’interpretazione di Guido Piovene – si può parlare di passaggio ad una fase borghese quei due libri, oltre che una vera e propria maturazione sentimentale, sono il prodotto di un costume milanese negli anni del dopoguerra, in cui l'influenza dannunziana si fa sentire più forte nell'opera della Negri.
D'Annunzio era arrivato a Milano in ritardo: quando la sua poesia era al vertice del successo, la società milanese gli resistette per la sua indole un po' fredda, per il suo senso pratico e per le tradizioni sentimentali della sua cultura. Un poeta che, come si diceva allora, non ha abbastanza sentimento, non poteva piacere a una società d'industriali, per di più di formazione manzoniana. Da questo punto di vista Milano si mostrò in ritardo rispetto ad altri centri culturali italiani e per questo D’Annunzio arrivò solo con l'esplosione sessuale del dopoguerra, quando ormai tutti i critici constatavano sulle pagine del Notturno che egli, perduti gli atteggiamenti del superuomo, si era umanizzato, e la stessa medietas culturale cattolica che fin allora aveva stigmatizzato il sensismo, parlava di una sua conversione. Ma più che D’Annunzio a Milano giunse il dannunzianesimo con Guido da Verona (1881-1939), con Giuseppe Brunati (1881-1949), autore di romanzi come Il Quaresimale e L'Oriente veneziano, e, per la parte più ingenua, proprio con Ada Negri, formando un gusto di cui l’aspetto più torbido è definito il D'Annunzio del Verziere. Un dannunzianesimo possibile in una città come Milano, una città di affari, inclinata al piacere, alle pranzi ricchi e ai sollievi sentimentali che alla poesia poteva chiedeva di essere dannunziana, ma sostanziosa, non fatta di nulla, perché le sarebbe sembrata una truffa, ma sostanziosa, ricca di ingredienti robusti, di sentimenti e di passioni, impregnata di eccitazione erotiche, oppure di atteggiamenti concretamente elevati e spirituali.
Fra tutti coloro che furono coinvolti in quel dannunzianesimo soltanto la Negri riuscì a trarsi fuori del pantano ed a sopravvivere ad un costume divenuto ormai ridicolo. La Negri fu l'unica di cui si possa parlare come d'un fatto letterario, in riviste quali Poesia, mentre quelli che furono simili a lei rimasero fermi, uscendo dalla letteratura ed entrando nella paraletteratura.
In frasi estremamente levigate, organizzate sul ritmo orecchiabile in versi sciolti, le poesie della sua maturità tracciano l’immagine letteraria di un vagabondaggio appassionato, che si ferma solo per dar corpo all’assoluto che diventa oggetto della sua passione. La storia d’amore decisiva in cui s’immerge la protagonista del Libro di Mara, lacerata dalla morte del ragazzo da lei amato, portato via in pochi giorni dalla terribile epidemia di spagnola, si snoda parallela all’altra storia d’amore, quella con l’isola di Capri, dei Canti dell‘Isola. Il tumulto dei sensi mortificati e il subbuglio di luce e colori del paesaggio mediterraneo sono resi con accenti dolorosi e solenni. Una terminologia intenzionalmente sublime dipinge passioni estreme, sfidando riecheggiamenti dannunziani e tradizionali in un impasto stilistico di intensa efficacia. I colori sono accesi e sensuali, a volte oleografici, da cartolina illustrata. In questo tipo di poesia-racconto c’è una trama e una storia: non a caso fra questi due volumi si colloca il capolavoro narrativo di Ada Negri, lo bellissimo romanzo autobiografico Stella mattutina.
Alla parte migliore di queste richieste di pubblico, venivano incontro opere come Il libro di Mara, in cui è portata avanti e interpretata un’appariscente disperazione che scuote la donna dai foschi capelli selvaggi perché il suo amante è morto. Ognuna di quelle poesie – dice Piovene pensando più al pubblico che all’autrice – sembra scritta per un gruppo di signore che, trovando spaventoso e volgare l'erotismo di Guido da Verona, ne stava lontano, indirizzandosi verso il polo spirituale, per trovare nei versi elevazioni facili, consolazioni vanitose.
Ma la Negri è troppo autobiografica per non essere vera, per non essere sincera. Il letterario esiste nella raccolta, ma è sempre tanto intimamente vissuto: quest'amore, fu così intenso quanto breve, perché l’amato morì lo stesso anno, vittima dell'epidemia di spagnola.
La dolorosa esperienza patita fu tradotta l'anno successivo nella raccolta lirica Il Libro di Mara edita nel 1919 con la solita rude immediatezza e veemenza – aspetti fondamentali di tutta la sua arte – e, come tutta la sua opera, anch'essa è autobiografica, inusuale per la società cattolica e conservatrice di quell'epoca: sincera, esuberante, incontrollata, commovente. La morte improvvisa del suo giovane amante fu per Ada uno schianto ed ella si lasciò andare al flebile pianto di un amore disperato, al grido di dolore, ad acute invocazioni, a rimpianti per ciò che sarebbe potuto essere e che non aveva potuto vivere, a sussurrati colloqui con l'ombra dell'amato.
Il Libro di Mara è un canto d'amore lancinante e sublime e, ad un tempo, canto del ricordo nostalgico e rassicurante: Mara è una donna distrutta dal dolore, che non riesce a vincere il pianto, travolta dai ricordi così belli e felici che sembrano confonderla e lasciarla indifesa a vagabondare nel nulla.
Questo librino così intriso di umano dolore commosse tanti lettori, ispirando un senso di pietà tanto che Ojetti, talent scout di Piovene, da Firenze, lo aveva lodato, scrivendo: «Io non conosco in questa misera letteratura nostra un libro di amore che valga questo. A leggerlo mi pareva di udire i sospiri e i singhiozzi che si leveranno dalla folla anonima e prostrata degli amanti che lo leggeranno».
«Il libro di Mara – scrisse Erich Stock corrispondente da Roma per Das Reich il 23 marzo 1940 – contiene poesie in versi sciolti, canti di una donna affranta dal dolore che lamenta la morte di un amato e che mai trova conforto. Questa esplosione di una folle passione spaventa ed abbatte. Poche confessioni di una donna sono esternate con tale veemenza e inesorabilità come queste. Ma si trovano accenti anche più calmi, quasi sognati, come nella strofa che potrebbe sovrastare l’intera creazione poetica della Negri:

Se ti rivedo sul lido […] e mi domandi cosa abbia fatto
negli anni in cui fui senza te.
Tutta la raccolta è costruita su questa bruciante passione.


Ecco apparire l'amore irradiante luce solare e la sua felicità è immensa: così la Negri ne descrive l’epifania nella lirica Apparizione:

Entrasti improvviso, lasciando spalancata
la porta sui campi.
Gran vampa di sole a meriggio con soffio
di spazio entrò nella stanza con te.


Il protagonista irrompe in tutto quello che fa, in tutte le sue azioni, facendosi ricordare in questo modo da Ada Negri.

Volle la donna moverti incontro; ma abbaglio,
timore, tremore la vinsero.
Mai fino allora ella aveva veduto l'uomo
ed il sole risplendere a paro.
Così alto eri, che tu curvasti per toccarle
una spalla con la mano.
Così impatto il silenzio, che le parole
non dette si scolpirono solenni nell'aria.
Fin che la donna vivrà, quelle parole dentro
il suo cuore, e la sua mano sulla sua
spalla.
Fin che la donna vivrà, tu a paro del sole,
nel suo ricordo.


Tale è la gioia della quale si sente completamente appagata.
Nel componimento Il sole e l’ombra risulta particolarmente efficace nel far comprendere gli stati d’animo della poetessa nelle metafore e nel parallelismo tra due persone che Ada Negri considera come il sole e l’ombra.

Sole di mezzogiorno, nel luglio felice, sulla piazza deserta:
piazza lontana di città lontana, tu ed il tuo uomo,
e quello era il mondo.
Bianca nella tua veste, bianca vibratile fiamma tu pure,
nell’abbaglio d’incendio dell’aria.
Bianco il tuo riso perduto nel riso di lui, fresco di polla il
tuo riso d’amore tra il vasto fulgere ed ardere.
Non sarebbe discesa la notte, non sarebbe venuto il domani,
tua la luce, tuo l’uomo, tuo il tempo.
Fermasti il tempo in pieno sull’ora solare per cui in terra
tu fosti divina:
il resto è ombra e polvere d’ombra.»


Nella poesia Incantesimo, la descrizione del paesaggio notturno pienamente rievocato è molto efficace.

Vanno per vie deserte tagliate
a metà dalla luna i due amanti
felici d’amarsi, certi d’essere uniti
in eterno: fianco contro fianco,
spalla contro spalla, e pur li separa l’aria
impalpabile cuore contro cuore,
amore contro amore, e pur li separa
la Vitamorte: vicinissimi lontanissimi
seguono il nastro d’ombra,
perché troppa chiara e curiosa è la luna
che sparge diamanti sui tetti,
che rende i muri intenti come volti,
trae brividi bianchi dall’acque del canale
sorpreso nel sonno, pone sulle cimase
e sulle porte misteriose parole di splendore.
Così limpida e casta la luna,
così nera e vellutata l’ombra:
fascia di lente carezza intrisa
di un denso sentore di tigli.
Ed egli bisbiglia: “Domani!” Ed ella
risponde “Sempre!” E vanno,
e non sanno che un d’essi,
il più forte, preso è già nella tela di ragno
tessuta per lui dalla morte:
spalla contro spalla, amore contro amore,
effimeri nell’attimo, illusi d’eternità,
vicinissimi lontanissimi.


Gli aggettivi sottolineano i principali concetti del testo poetico imperniato sull’opposizione/identità di vicinanza e lontananza.
In La follia c’è la storia di un amore, espresso attraverso immagini quasi deliranti di un animo, condotto quasi alla follia dall’intensità travolgente del sentimento.

Una foglia cadde dal platano, un fruscio
scosse il cuore del cipresso: sei tu che mi chiami.
Occhi invisibili succhiellano l’ombra,
s’infiggono in me come chiodi in un muro:
se tu mi guardi. Mani invisibili
le spalle mi toccano, verso l’acque
dormenti del pozzo mi attirano:
sei tu che mi vuoi. Su su dalle vertebre
diacce con pallidi taciti brividi
la follia sale al cervello: sei tu che mi penetri.
Più non sfiorano i piedi la terra,
più non pesa il corpo nell’aria,
via lo porta l’oscura vertigine:
sei tu che mi travolgi, sei tu.


Nella primavera del 1919 conobbe Fernando Agnoletti (1875-1933), con cui ebbe una lunga corrispondenza, iniziata e proseguita con varie tonalità affettive fino alla morte dell’amico: le lettere che costituiscono il carteggio illustrano il rapporto affettuoso, subito trasformatosi in una delicata amicizia elettiva ed i temi spaziano dalla solitudine di Ada dopo il divorzio alla desiderio di trovare un compagno di vita e di lettere, alla politica – notevolissima è la lettera del 16 aprile del 1919 che descrive l'incendio della redazione de L'Avanti e l'ascesa del fascismo – ed al clima culturale dell'epoca.
Nel 1921, anno del matrimonio di sua figlia Bianca, Ada Negri pubblicò Stella mattutina, un romanzo autobiografico, che riscosse un successo così vasto e concorde di pubblico e di critica come probabilmente la sua autrice non aveva ottenuto mai tanto da essere tradotto in altre lingue. Piacque la fedeltà al genere autobiografico che la individuava tipicamente, e piacque lo sforzo formale di dare il respiro lungo del romanzo ad un'ispirazione sempre molto frammentata tra poesie e novelle. Steso di getto in poco più di sei mesi il libro – scrive Anna Folli nella prefazione alla recente riedizione – sembrò realizzare il sogno d'arte di Ada Negri: scrivere furiosamente, istintivamente, inconsapevolmente, ma nello stesso tempo, quasi magicamente, trovare il gesto, il tono e l'espressione del vero.
Il romanzo, dedicato a Bianca, Biancolina come ella la chiama, è un inno a sua madre, un atto di ossequio a chi le aveva permesso di far zampillare dal cuore quanto avrebbe poi rivelato con la sua arte: nel romanzo la scrittrice rivive, con gli occhi della piccola Dinin, la storia della sua vita, fissando per sempre la memoria dell'infanzia e della giovinezza in un romanzo che è il racconto che una scrittrice, ormai matura ed affermata, fa di sé, ripensandosi dai sette ai diciotto anni.
La piccola e schiva Dinin che legge libri e romanzi d'appendice vive nella portineria di un palazzo elegante nella natia Lodi con la madre, operaia in una fabbrica tessile, e con la nonna, cameriera di una famosa cantante. Dinin si sente legata alla gente come sua madre, che lavora tredici ore al giorno secondo l'orario di fabbrica per una misera paga. Sente di appartenere a quel mondo proletario ed osserva la madre che sopporta con rassegnazione e spesso con un sorriso, e nutre per lei un amore, che è ansia impercettibile e che soffoca l'istinto di rivolta contro una condizione sofferente e, sull'esempio materno, accetta la povertà con orgoglio, accontentandosi durante le sere delle letture delle appendici dei giornali da parte della madre, alla luce debole della lampada per risparmiare petrolio.
Il palazzo ha un giardino interno e quando i padroni si trasferivano nella villa per l'estate quel giardino era il suo rifugio, il luogo delle sue prime delizie di ragazzina solitaria.
Il romanzo è lo spaccato di un piccolo mondo di provincia e l'amara presa di coscienza che solo il duro lavoro di sua madre le ha consentito di non seguirne la stessa triste sorte, ma di condurla alla carriera di maestra in una scuola. Il racconto finisce proprio qui.
Stella Mattutina è unanimemente riconosciuto come il capolavoro della sua maturità, la conferma della figura di Ada Negri prosatrice e nel romanzo si possono cogliere i motivi nodali della sua arte consegnando, grazie al distacco del tempo e della purificazione della memoria poetica, il suo animo di allora e l’origine dei sentimenti che si ritrovano nelle varie fasi della sua opera letteraria.
La sua prosa è nitida, scolpita, a volte forse un po’ dura, ma sempre riscaldata e suscitata da quella memoria, sempre sostenuta dal ricordo, sempre messa pateticamente e candidamente in giusta luce: le crudezze e le durezze infondono una testimonianza umana ancora più amara e vibrante.
Con Stella Mattutina Ada Negri giunge ad un racconto d'arte asciutto, rapido, essenziale o come osserva Flora «Qui è la rapida scrittura piena, qui il franco stile intraveduto e voluto dalla Negri fin dal suo esordio... Qui è una prosa che canta e in ogni ritmo scopre la realtà: qui nei periodi l'ispirazione ha il correre delle limpide acque che passando riflettono colori accesi, luci intense ed astri».
Mussolini recensendo questo romanzo della fanciullezza ne apprezzò «la freschezza primaverile, che dona all’anima il senso del riposo. Qualcosa di noi – così scriveva nella sua recensione – si risveglia alla vita in queste pagine. Gli occhi della nostra propria giovinezza ci guardano, mentre nei nostri cuori cominciano a vibrare segretamente le fonti di ogni nostalgia del mondo.»
«In Germania – scrive Erich Stock – Ada Negri è nota anzitutto per il suo romanzo autobiografico Stella mattutina pubblicato recentemente nella versione tedesca. […] Nella sua sincerità e nella sua semplicità questo triste romanzo di un fanciullo proletario commuove il nostro cuore. Chi vuole avvicinarsi un poco alla complessa personalità di Ada Negri, deve aver letto queste crude e illetterali note».
Alcuni critici – come ad esempio Pietro Pancrazi che, in Scrittori Italiani del Novecento del 1934 scrisse a proposito di Stella Mattutina «...Nella maggiore umiltà di questo libro di ricordo, il suo dolore umano ha raggiunto una verità e persuasione che altrove manca» – hanno ritenuto l'opera in prosa di Ada Negri risulti decisamente più interessante delle sue liriche e forse questo il suo capolavoro.
In questo romanzo autobiografico della sua infanzia e della sua giovinezza, la Negri «già ci aveva mostrato – scrive Piovene – la sua abilità di schizzare poeticamente alcune figurette umane, le quali prendono vita per brevi istanti, e scompaiono subito, ringhiottite dall'autobiografia».
Divenuta famosa soprattutto per il carattere ideologico della sua opera, con l’ascesa al potere di Mussolini, Ada si avvicinò al fascismo: non è infatti azzardato pensare che Ada Negri, cui furono attribuiti meritati riconoscimenti durante il ventennio fascista, fino alla nomina all’Accademia d’Italia, sia stata coinvolta nell’oblio ed alla damnatio memoriae a causa dell’amicizia che mantenne con Mussolini e altri socialisti.
Nel 1923 pubblicò Finestre alte, poi si allontanò volontariamente per un lungo periodo dai clamori del suo successo, per scrivere la raccolta di poesie I canti dell'isola che pubblicò nel 1924, che precede di un anno Ossi di seppia di Eugenio Montale.
Nelle liriche I canti dell'isola, altro vertice della poesia di Ada Negri, la poetessa si lascia travolgere dalla straripante bellezza della natura, dai suoi colori e dai suoi profumi, quasi ne segue il ritmo cadenzato dalla memoria. Lo stesso moto dell’anima che attraversa Il libro di Mara si rispecchia ne «I canti dell’Isola, canti d’amore e della natura, – scrisse ancora Erich Stock – sorti nell’azzurro paradiso dell’isola di Capri. In disaccordo con se stessa, Ada Negri vaga sognante attraverso questo mondo di luce e di rami fioriti: Olivo, paterno amico, guarda.» Sono canti di umana passione, in cui la poetessa ora si rasserena ed il dolore della morte dell’amato si è placato sebbene non sia scomparso del tutto. La sua parola segue il ritmo del cuore che «da quel giorno ha il profumo di rosa» ed innalza un canto che possa dissolvere il suo dolore: l'isola le viene incontro come «una dorata nuvola emersa dal fiato del mare» e davanti ai suoi occhi c'è un'esplosione di luci e colori, c'è il mare di Ulisse e delle Sirene, il cielo azzurro e la terra amata che aiutano la sua anima a ritrovare un canto sereno. Nella poesia La luna scende in giardino, non è ben chiaro ciò che la poetessa voglia veramente esprimere:

La luna scende in giardino per le scale
della pallida sera: è tutta bella,
le nubi la velano, la brezza la scopre.
s’attarda dietro il cipresso, s’aggrappa
all’àgavi e ai fichi d’India,stende
strine leggere sui viali, lega
le fronde con fili d’argento, nell’ombra
screziata di raggi crea e dissolve
danze di gnomi, con le perle della rugiada
sfila e infila collane di sogni.
so che sul mare è nata una strada,
una bianca strada per chi vuole arrivare
la notte alle reggie di Dio. vada
chi vuole sulla bianca strada,
vada chi vuole con barca e con vela:
a me piace restare in giardino
a giocar con i raggi e con l’ombre.
due stelle – sole – accanto alla luna:
due larghe pupille serene. Dove sei tu,
che mi amavi, e mi dicevi:”Dinin, mio bene”?


Soprattutto con la frase voglio restare a giocare in giardino, ma bisogna anche sottolineare il modo fantasioso con cui è riuscita a descrivere la sera, popolata di presenze molto pascoliane.
Nel 1926 Ada si era stabilita a Milano con la figlia e con gli adorati nipoti e spesso si recava ospite da amici a Monza e a Pavia. Rifiutò l’invito proposto da Lodi ad una celebrazione delle sue opere indetta dall’amministrazione comunale, scusandosi perché temeva la commozione di un ritorno a Lodi e pubblicò Le strade. In quell’anno Ada sfiorò il premio Nobel per la Letteratura attribuito invece a Grazia Deledda che, secondo la vulgata, le fu negato per la sua vicinanza al fascismo mentre la Origgi Vimercati ipotizza che il Nobel le sarebbe costato per la sua iniziale ostilità nei confronti di una certa parte della Chiesa.
Nel gennaio del 1927 Ojetti, recuperò la firma della Negri, estromessa per qualche tempo, dopo che aveva infranto i vincoli di esclusività, pubblicando degli articoli sull'Ambrosiano, si rallegra di averla di nuovo tra i propri collaboratori e le assicurava che avrebbe fatto recensire un suo libro sul Corriere, con le conseguenze pubblicitarie legate alla immensa diffusione del maggiore giornale italiano. Nel 1929 la Negri pubblicò presso Mondadori un’altra raccolta di racconti, Sorelle.
Nel 1930 Ada è ormai sessantenne ormai sul viale del tramonto della sua esperienza esistenziale e letteraria. Inizia la terza fase della sua produzione in cui la Negri alterna opere in poesia ed in prosa.
Questa fase, secondo Piovene, testimoniata da due libri, Vespertina del 1931 ed Il Dono del 1936, è certamente la migliore.
In quest’ultima fase per effetto dell'età più tranquilla, si scopre una chiusura, una interiorizzazione, una rivisitazione della propria vita più meditata. fino a pervenire ad una visione spirituale: la sua ispirazione diventa profondamente religiosa e governata da temi come la solitudine, il distacco, la morte. La dolorosa ricerca del Dio nascosto, oggetto principale della sua poesia degli ultimi anni, appare una delle chiavi di lettura di questo secolo. Nella poesia della Negri gli esiti religiosi appaiono le risposte a domande che accompagnano tutta la sua vita: dalle istanze di giustizia sociale a quelle di ordine, dalla ricerca e dall’offerta di amore alla continua richiesta di senso che si evolve alla fine in preghiera.
La Negri subì anch’ella il mutato uso letterario, quella legge di decoro che la Ronda diffuse nella letteratura e ne trasportò le esigenze su quella chiave milanese: la Negri ottenne frutti più sicuri in prosa che non sarebbero stati forse possibili, senza il grande lavoro di affinamento, di rinuncia e di depurazione, compiuto nella poesia, ma sempre in stretto rapporto con essa.
Anche quest'ultima fase della sua poesia è ancora tramata di movenze:

Ed io bacio le lagrime
che spremi, O vite giovane, e vorrei
piangere sempre come piangi tu.


Il suo progresso letterario in questi libri è indiscutibile: e la raggiunta dignità letteraria, la sua riflessiva quiete, sembra riflettersi a sua volta sulla scrittrice nella qualità stessa della sua condizione umana. La sua vita è giunta all'equilibrio e all'armonia, grazie all'esercizio consacrato alla letteratura: un omaggio ai poteri dell'arte coltivata con abnegazione.
Vespertina del 1930 è una raccolta di poesie.
Nella poesia Notturno, colpisce la similitudine molto triste tra la vita ed i canali d’acqua.

Va, nella notte, la ben chiusa macchina
sotto la pioggia diaccia, per le vie della città.
Batte con furia e scorre l’acqua ai cristalli.
Lucidi canali sono le strade, interminabilmente
fuggenti verso un’invisibil foce:
fiori di fuoco su oscillanti steli
capovolti vi splendono: per tutto
è un chiamare, un soffrire, un brividire
di fiamme immerse nella liquida ombra.
Più non ritrovo in me la mia natura terragna.
In regni acquatici m’illudo di navigare,
ove mi sien compagni i dolci morti
che l’amor non scorda: e vado,
vado lungo le fiumane dell’oltre vita;
e anch’io non son che un’ombra;
e l’oscuro viaggio è senza approdo.

La poetessa dice che ella s’illude di poter navigare in questi canali per trovare alla fine la felicità, ma non è così perché sono un oscuro viaggio senza approdo.
Nella poesia Pensiero d’aprile, forse la prima in cui Ada Negri dice che la vita è bella verso la fine ritorna ad essere triste, perché sul proprio viaggio chiunque può tradire, anche il più fedele degli amici.

Eppure è bella, anima mia, la vita:
non fosse che pei giorni in cui le foglie
giocano a quale per la prima spunti sui rami;
e tu le vedi, così tenere e trasparenti,
che ti s’apron l’ali nel rimirarle.
Come puoi del mondo tante cose sapere,
e non sapere come fa la fogliuzza
a tornar verde entro la scorza,
ad affacciarsi, e tutta nova
ridere al sol che la richiama?
La strada lunga che t’importa,
e l’essere strappata alla speranza
che più cara ti fu, tradita da chi
più fedele credesti, se goder sempre
t’è dato di questa gioia? E tu la sai
ben certa nel giusto tempo: ché non fu mai
l’anno senza vicenda di stagioni,
e mai fu senza fronda il giovinetto aprile.


Sempre nel 1930 la Negri pubblicò Di giorno in giorno che contiene una raccolta di meditazioni sulle opere della scrittrice.
Nel 1931 le fu conferito il premio Mussolini per la carriera: al di là della sua bravura di scrittrice, probabilmente che Mussolini stesso si interessò della vicenda, influenzando i giudici ad assegnare il premio alla poetessa. Erano gli anni in cui Mussolini intratteneva ancora i rapporti nati nel suo periodo socialista ed il premio consacrò Ada Negri come intellettuale di regime. La premiazione ebbe luogo in Campidoglio il 21 Aprile, giorno in cui il fascismo celebrava la nascita di Roma alla presenza di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.
Nel 1936 Ada Negri pubblicò Il dono. Nella poesia Cielo di sera, sebbene vi affiorino sentimenti molto tristi, la poesia affascina per le minuziose e particolari descrizioni, quasi pennellate di colori, che la caratterizzano.

Quando non è più giorno e non è ancora notte,
e soltanto qualche rada stella sgorga,
lontana e tremula, dal cielo, chi potrà dirlo,
il tuo colore, o cielo? Non azzurro;
ma tutta la stanchezza dell’azzurro
che bevve dal mattino alle fonti del sole.
Non di croco né d’amaranto,
ma il riflesso estremo di quelle luci appassionate;
e dentro vi persiste il ricordo dell’ardore
pur declinando all’avanzar dell’ombre.
Non t’oscurare, cielo del mio tempo
e dell’anima mia: tale rimani fin che aperti
su te mi sieno gli occhi.
Ma, mentre prego, va fuggendo
insieme con la parola il mio respiro;
e tu piangere sembri con quel tremolio
di rade stelle, nel presentimento
della gelida notte senza luna.


Nella poesia Diamanti, il sole che attraversa le gocce di pioggia e che le trasforma in piccoli diamanti fa riflettere l’autrice sulla fugacità della vita umana ed anche questa poesia termina con una riflessione malinconica sull’esistenza.

Dopo la pioggia tremano sulle foglie dei gerani
le gocciole, al ritorno del sereno. Treman sospese;
e le trasforma il sole di lagrima in diamante.
O limpidi, o caduchi gioielli, o mia ricchezza
dell’istante che passa, niuna cosa or m’è più chiara di voi;
né così lieve al cuor che sa quanto la vita è breve.


Nella poesia I giardini nascosti, emerge la descrizione di una delle sue città del cuore, Pavia, si passa all’incantesimo dei giardini nascosti, belli e apprezzati dalla scrittrice proprio perché danno spazio all’immaginazione ed esprimono un’idea di rifugio e di sicurezza.

Amo la libertà de’ tuoi romiti vicoli
e delle tue piazze deserte, rossa Pavia,
città della mia pace. Le fontanelle
cantano ai crocicchi con chioccolio
sommesso: alte le torri sbarran gli sfondi,
e, se pesante ho il cuore, me l’avvento
su verso le nubi. Guizzan, svelti,
i tuoi vicoli, e s’intrecciano a labirinto;
ed ai muretti pendono glicini e madreselve,
e vi s’affacciano alberi di gran fronda,
dai giardini nascosti. Viene da quel verde
un fresco pispigliare d’uccelli,
un senso di rifugio inviolato
ove la via ignara sia di pianto e di morte.
Assai più belli, i bei giardini, se nascosti:
tutto mi par più bello, se lo vedo in sogno.
E a me basta passar lungo i muretti
caldi di sole; e perdermi ne’ tuoi vicoli c
he serpeggian come bisce fra verzure d’occulti
orti da fiaba, rossa Pavia, città della mia pace.


La poesia Serenità, riesce ad esprimere in modo superbo l’insieme di sensazioni e l’immensa tristezza che affiora nell’animo malinconico dell’autrice dall’osservazione delle bellezze della natura, che sembrano promesse dolci d’un futuro lieto e invece nascondono un’inaspettata sofferenza di una vita quasi crocifissa.

S’io dovessi tornare al tuo giardino
(non tornerò, non tornerò), vorrei salir
tra i caprifogli e le vitalbe al chiosco
che s’affaccia alla campagna;
queto rifugio ove fiorisce il glicine
coi pesanti suoi grappoli, nel maggio.
Tu venivi lassù, con me, nel maggio;
e contemplavi i grandi irrigui prati
colmi di pace, mormorando: “Bella
è questa terra; e pur nati non siamo
per questa terra”. Una serenità
senza nube ridea sulla fronte lunare:
in te, che il male ancor distesa
non avea sulla croce, era già pronta l’offerta,
detta la parola estrema chiuso il pensiero
all’ultima speranza.
E t’era dolce stendere la mano ai fiori:
dolce, sì; ma come a cosa che, mentre passa,
è già passata; e il cuore, mentre l’accoglie,
già le disse addio.


Nella poesia I globi d’oro, si apprezza la singolare descrizione quasi impressionistica dell’autunno e dei frutti, tutta giocata su diversi colori e sapori e sulle diverse forme che lo caratterizzano.

Son globi d’oro i kaki del novembre,
(chi ci rubò l’ estate senza notti?)
ma d’un oro sanguigno. Dalle rame
spoglie pendono ignudi, e al morso invitano,
colmi del succo zuccheroso:
il sole di San Martino li attraversa
d’una liquida luce in trasparenza.
Vieni con me nell’orto,
tutto strati e cumuli di foglie gialle:
sulle foglie gialle meriggiar voglio,
e m’attraversi il sole come quei frutti.
Tu li coglierai, Giuliana dalle gambe di cerbiatta,
per gettarmeli in grembo, tondi, molli,
troppo dolci al palato, ultima gioia d’autunno:
in essi il mio dorato autunno
festeggerò presso il tuo verde aprile.


A dimostrazione del buon rapporto fra Ada Negri e il partito fascista sono state rinvenute alcune lettere all’archivio del Ministero della cultura popolare, indirizzate ad alcuni ministri.
Nel 1939 la Negri pubblicò Erba nel sagrato, una raccolta di tutti gli scritti da lei pubblicati sul Corriere della Sera. Sono prose brevi e complete in se stesse, ritratti di bambini, di donne, di sconosciuti intravisti per via e da questa loro fugacità deriva la loro poetica trepidazione. Non è narrativa perché la scrittrice si è appena staccata da se stessa, per guardarsi intorno, per fermare un appunto. Questi schizzi vivono nella zona intermedia in cui si svolge tutta l'opera della Negri, ma non soggiacciono ai bisogni di una fictio lirica. Con scrittura diligente, amorevole, con la calligraficità di vecchia bambina, questi avvicinamenti alla narrativa rimangono nella memoria, con la sua nitida eleganza, la Negri esprime una pacata interpretazione del dolore umano entro una visione cristiana della vita, venendo meno talvolta a quell'impeto naturale della sua prima maniera.
Nel 1940, venti di guerra spiravano in Italia, ormai sul punto di schierarsi accanto alla Germania, già in guerra. a settant'anni, Ada Negri ricevette da re Vittorio Emanuele III la nomina di Accademica d’Italia, uno dei più alti riconoscimenti per un letterato, un’attestazione che aveva un valore speciale perché, per la prima volta nella storia dell'Accademia, vi era ammessa una donna. Ada succedeva a Cesare Pascarella mentre Corrado Govoni era stato battuto sul filo di lana. L’entrata nell’Accademia d’Italia di una donna come Ada Negri, che possedeva una vena lirica intima ed era schierata con i più miseri, apparirebbe in netta contraddizione con la politica aggressiva del Regime. Probabilmente sull’approvazione di Mussolini, al quale spettava l’ultima parola, incisero la stima che aveva sempre nutrito per la donna e per la scrittrice nonché la sollecitazione delle principesse Savoia, che apprezzavano la poesia di Ada Negri. In ogni caso la notizia fu appresa con gioia dall’opinione pubblica e Mussolini stesso definì Ada la più grande poetessa italiana e la propose come modello dalla donna intellettuale fascista. Il titolo di Accademica d’Italia comportava che la poetessa dovesse segnalare ogni suo spostamento sul territorio al Prefetto, il quale inviava una macchina di rappresentanza con l'autista a prelevarla e ad accompagnarla.
Al 1940 risale anche l’ultimo affetto di Ada, l’amicizia con Padre Giulio Barsotti, un’infatuazione spirituale, , un amore platonico tra l'anziana scrittrice e il padre missionario documentato da un carteggio tra il 1940 e il 1945: il tono, man mano che i due entrano in intimità, è quello di una comunione di anime e lo stile epistolare ricorda, forse volutamente, il celebre epistolario tra Abelardo ed Eloisa.
Nel frattempo la scrittrice continuava a scrivere articoli sul Corriere della Sera, ma la seconda guerra mondiale era nella sua fase più terribile: la morte si impadroniva di ogni cosa, delle persone care, delle case distrutte dai bombardamenti, della vita stessa, con continui spostamenti e con fughe repentine da un luogo all'altro. Nel gennaio del 1942 Giò Ponti inviò alla Negri una lettera di congratulazioni, rallegrandosi delle doti giornalistiche di Ada, capace di raccontare gli eventi e la politica dalle colonne del Corriere della Sera, interpretandole con umanità in un'epoca di barbarie in cui, secondo il celebre architetto, in genere «si chiedeva invano ciò che corrisponde alla sete di parole umane e alla stanchezza di parole di propaganda».
Ma Ada, ormai malata e distrutta nell'anima, vedeva lontani i sogni di libertà e di giustizia: di fronte a lei solo dolore, odore di morte, distruzione totale. In questo periodo Ada Negri attendeva ad un’opera, Oltre, uscita postuma, in cui l’autrice propose una sua agiografia di Santa Caterina da Siena.
Fons Amoris, redatto tra il 1939 e il 1944 e pubblicato postumo nel 1946, mostra il punto d'arrivo della maturazione artistica e spirituale della poetessa attraverso un lungo cammino, iniziato di scatto, con furore, proseguito tra rischi e deviazioni e terminato col ritrovamento della divina Fonte d’amore che le diede una nuova ispirazione d’arte, inscindibilmente legata alla sua esistenza, fino alla fine: non a caso Fons Amoris si chiude con una preghiera, un'ultima parola ardente dell'intera vita di una donna, che suggella nella dura pietra, l’eterna presenza di un'anima protettrice d'ogni essere vivente.
Ada è ormai donna pacata, vicina al tramonto: non sfida più il destino come in Fatalità e Tempeste, ma l’accetta come volontà di Dio, non insorge contro i fortunati, ma invoca solidarietà nel comune dolore, non ama più con impeto di vergine rossa, ma conserva in cuore purificata, la vecchia fiamma, che emana ora in preghiera, adorazione e offerta.
Con la terra, prima parte delle raccolta, la scrittrice raccoglie scorci e impressioni di paesaggi della Lombardia, intuizioni rapide e illuminanti che le voci della natura, delle cose semplici, dei volti degli umili e poveri le offrono in una visione religiosa del vivere.
Preghiere, seconda parte della raccolta, mostra un passaggio verticale: dalla contemplazione cristiana della natura alle Preghiere a Dio, fonte d’amore. L’amore lo scopre alla sorgente stessa, in Dio, e ne riceve gioia intensa e pace. Questa esperienza la porta a contemplare Dio anche nelle creature più fragili come un fiore.
La consapevolezza del proprio nulla aggrappa fortemente la sua anima a Dio:

Nulla, Signore, io sono su questa terra.
(...) Che vuoi da me?
Qual dono chiedi alla mia miseria,
e di qual luce folgorerai l’anima mia,
nel giorno ch’ella in Te rivivrà.


Oppure:

Chi mai ascoltare mi può,
se non il Padre che m’ha creata,
e mi sta dentro, e tutto mi diede
perché un dì tutto gli renda?.


La voce di Dio è un rintocco costante nella sua coscienza, di conforto e perdono nella lirica La tua voce:

Chi mi darà di riposare in Te?
Chi mi darà che tu m’entri nel cuore
ed io tanto ne goda fin che mi scordi,
mali antichi e nuovi, e Te soltanto
contempli e adori, unico bene?
Io voglio ascoltar la tua voce.
La tua voce vera, Signore,
prima della morte... Ma se tu mi parlassi
come un padre e mi dicessi:
"Figlia io ti perdono!".


La certezza di aver riscoperto Dio, che tutto conosce e ricompensa, è per la Negri un nuovo sentimento d’amore nella lirica La verità:

Mai si forte io t’amo,
signor che tutto sai,
come nell’ora in cui più sento
che di me non sfugge
al tuo giudizio un palpito,
un pensiero, un affanno, un rimorso
– e la mortale mia verità riflessa
è nello specchio della tua eterna luce.


Motivo di rinascente fiducia è per lei sentire e vivere la presenza di Dio in Tu cammini accanto:

Tu mi cammini a fianco, Signore,
Orma non lascia in terra il tuo passo.
Non vedo Te: sento e respiro
la tua presenza in ogni filo d’erba,
in ogni atomo d’aria che mi nutre...
Non abbandonarmi più.
Fino a quando l’ultima notte
(forse stanotte) non discenda.


L’anelito religioso di Ada Negri diventato ricerca, scoperta e amore di Dio si riflette alla fine sui propri simili che riconosce e ama come figli del Padre celeste, fratelli e sorelle. L’amore umanitario per i diseredati e proletari dei primi canti si trasfigura nel canto nuovo della solidarietà e carità cristiana che chiude la raccolta di Fons Amoris.

Padre, se mai questa preghiera
giunta al tuo silenzio, accoglila,
ché tutta la mia vita perduta in essa piange:
e se io degna non son,
per la grandezza del bene che invoco,
fammi degna, Padre...
Lascia ch’io compia dopo morta il bene
che nella vita compiere m’illusi,
o me povera povera! E non seppi.
Mi valga presso Te questo rimorso
ch’io ti confesso, e il mio soffrire,
e il vano fuoco di carità che mi distrugge.
Giorno verrà, dal pianto dei millenni,
che amor vinca sull’odio,
amor sol regni nelle case degli uomini!
Non può non fiorire quell’alba...


Nel marzo 1943 fu pubblicato il terzo, citato articolo su Ada Negri, scritto da Erich Stock. In quella primavera Ada Negri, accogliendo i pressanti inviti della figlia Bianca, lasciò la casa di Milano per raggiungerla a Bollate, in una casetta situata in via Magenta.
Nel periodo del suo soggiorno a Bollate, il Prefetto aveva istruito la cittadinanza sul fatto di rivolgersi alla poetessa chiamandola eccellenza, ma, quando però gli abitanti del paese la vedevano e la chiamavano in questo modo, Ada ne era quasi infastidita e chiedeva loro di non attenersi alle disposizioni prefettizie. A Bollate la poetessa usciva raramente dalla propria abitazione, se non per brevi passeggiate all'imbrunire, e non legò con nessuno, se non con la signora Vimercati. La signora Pina, conosciuta in tutto il paese come la Maestra Vimercati per la sua attività di maestra, divenne, in quei tragici anni di guerra, amica della poetessa ed è l'unica persona in grado di proporci un ritratto personale di Ada nei suoi ultimi anni. In una squallida notte di guerra, fra il 10 e l’11 Gennaio del 1945 Ada chiuse gli occhi reclinando dolcemente il capo sulla spalla di Bianca, abbandonando il travaglio della vita e dell'arte,
per ritrovar il giorno senza principio
e senza termine nello stupor della perenne luce.
Nel 1976 la sua salma fu traslata a Lodi nella chiesa di San Francesco, da lei tanto amata.

Massimo Capuozzo

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