lunedì 25 gennaio 2010

Salvatore Quasimodo e l'Ermetismo di Massimo Capuozzo

Salvatore Quasimodo[1] e l’Ermetismo[2]
Uomo del mio tempo
da Acque e terre (1947)

La Storia e il progresso, afferma Quasimodo, non sono riusciti a cambiare l’uomo.
Egli è ancora, sotto certi aspetti, quello primitivo, quello delle caverne: la stessa violenza irrazionale e assassina guida le sue azioni. Rispetto all’uomo primitivo ha solo inventato strumenti di distruzione e di sangue più efficienti, più efficaci, più sofisticati, più “intelligenti”. L’uomo di oggi persiste ancora nella sua follia. A chiusura del testo il poeta invita i giovani a non continuare a scrivere pagine di discordie, di morti, di crudeltà: le pagine già scritte dai loro padri.

Sei ancora[3] quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga[4],
con le ali maligne, le meridiane di morte[5],
- t’ho visto - dentro il carro di fuoco[6], alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa[7] allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue[8] odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
- Andiamo ai campi. - E quell’eco fredda[9], tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli[10], le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere[11],
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Alle fronde dei salici
da Giorno dopo giorno

Nel settembre 1943 l’Italia risultava divisa in due parti. Nella parte meridionale, controllata dagli Alleati, era stata restaurata la monarchia, sotto il re Vittorio Emanuele III. Nella parte centro-settentrionale, occupata dai tedeschi, Mussolini aveva creato la Repubblica sociale italiana.
Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’esercito di liberazione condusse una lotta senza esclusione di colpi contro i tedeschi e i fascisti, che rispondevano con rastrellamenti, deportazioni e veri e propri massacri. Particolarmente feroci furono quelli di Boves, in Piemonte, di Marzabotto, in Emilia, dove le SS sterminarono 1830 civili, e di Roma, dove i nazisti come rappresaglia a un attentato partigiano, che era costato la vita a 32 soldati tedeschi, uccisero 335 prigionieri italiani.
Di fronte agli orrori, ai mali della guerra, i poeti non potevano cantare, scrivere versi, ma solo agire come gli antichi ebrei schiavi a Babilonia, che appesero le loro cetre ai rami dei salici
.

E come potevamo noi cantare
con il piede[12] straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio[13], al lamento
d’agnello dei fanciulli[14], all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo[15]?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento[16].

Ai quindici di Piazzale Loreto.
Esposito, Fiorani, Fogagnolo,
Casiraghi, chi siete? Voi nomi, ombre?
Soncini, Principato, spente epigrafi,
voi, Del Riccio, Temolo, Vertemati,
Gasparini? Foglie d’un albero
di sangue, Galimberti, Ragni, voi,
Bravin, Mastrodomenico, Poletti?
O caro sangue nostro che non sporca
la terra, sangue che inizia la terra
nell’ora dei moschetti. Sulle spalle
le vostre piaghe di piombo ci umiliano:
troppo tempo passò. Ricade morte
da bocche funebri, chiedono morte
le bandiere straniere sulle porte
ancora delle vostre case. Temono
da voi la morte, credendosi vivi.
La nostra non è guardia di tristezza,
non è veglia di lacrime alle tombe:
la morte non dà ombra quando è vita.

Il mio paese è l'Italia
Più i giorni s'allontanano dispersi
e più ritornano nel cuore dei poeti.
Là i campi di Polonia, la piana dì Kutno
con le colline di cadaveri che bruciano
in nuvole di nafta, là i reticolati
per la quarantena d'Israele,
il sangue tra i rifiuti, l'esantema torrido,
le catene di poveri già morti da gran tempo
e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani,
là Buchenwald, la mite selva di faggi,
i suoi forni maledetti; là Stalingrado,
e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta.
I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili,
dei vinti, dei perdonati dalla misericordia!
Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.
Il mio paese è l'Italia, o nemico più straniero,
e io canto il suo popolo, e anche il pianto
coperto dal rumore del suo mare,
il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.

Auschwitz
La poesia descrive il campo di concentramento di Auschwitz e ne racconta gli avvenimenti principali, quelli passati alla storia.
Laggiù, ad Auschwitz, lontano dal fiume Vistola, il poeta si rivolge a qualcuno e lo chiama amore, lì, lungo la pianura del nord, in un campo di concentramento, luogo di morte. Persino la pioggia che batte sui pali arrugginiti e sui grovigli di filo spinato dei recinti è fredda e funebre. Non si vedono alberi né uccelli nell’aria grigia e neppure nel pensiero dei prigionieri, rimangono solo l’inerzia e il dolore che sopravvivono dentro.
Alla porta dell’inferno (come altro si potrebbe chiamare il lager di Auschwitz?) c’è una scritta: «il lavoro vi renderà liberi» (e il colore bianco della scritta è un'offesa alle migliaia di uomini sterminati in quel campo); da quell’inferno è uscito il fumo (si osservi il contrasto della scritta bianca con il nero del fumo) del rogo di migliaia di donne che venivano spinte fuori dai loro "alloggi" contro un muro per essere fucilate, oppure venivano soffocate dal gas che usciva dalle docce mentre le loro bocche scheletrite urlavano misericordia.
Il poeta poi si rivolge ad un soldato immaginario chiedendogli se mai le ritroverà nella sua vita trasformate in fiumi, in animali secondo un’antica leggenda; ma forse quel soldato è morto anch’egli nel rogo: «o sei tu pure cenere d’Auschwitz?» (confesso che questa parte del testo mi è tuttora oscura; d'altronde è proprio del poeta ermetico dare al lettore suggestioni, immagini e non un testo chiaro).
Ciò che rimane adesso di Auschwitz sono lunghe trecce chiuse nelle urne di vetro, piccole scarpe e sciarpe di ebrei; tutte queste cose sono reliquie di un tempo di saggezza, di sapienza, sono i miti dell’uomo che si misura con le armi, sono i cambiamenti della nostra epoca. Sono le lezioni che non possiamo e non dobbiamo dimenticare, in un'epocsa in cui, abbandonate le armi, l'uomo è diventato più saggio.
In quei luoghi, in cui l’amore e il pianto finirono, assieme alla pietà, sotto la pioggia (il lavacro di tanto male commeso?), laggiù ad Auschwitz, un no esplode dentro il cuore del poeta, un rifiuto della morte che è stata sepolta da Auschwitz, un no per non dimenticare e per non ripetere quell’ammasso di ceneri e di morti.
La poesia, che conteneva un’altra strofa che ho "tagliato" essendo risultata particolarmente difficile da "interpretare", è divisa in tre strofe di diversa struttura; il verso è libero e non vi sono rime.
Il componimento evoca i sentimenti più profondi del poeta di fronte al massacro compiuto ad Auschwitz e negli altri campi di concentramento tedeschi. Sembra quasi di vedere quelle scene di migliaia di donne ammassate nelle baracche e spinte a forza verso la morte per fucilazione o per asfissia. Le bocche delle donne sono scheletrite per le sofferenze e per i patimenti subiti, sembra di sentire le loro urla di misericordia, di vedere quei corpi che hanno portato quelle scarpe e quelle sciarpe.
Il poeta è addolorato nel raccontare questi avvenimenti, la memoria di queste cose è la sola cosa che rimane insieme al dolore, alle reliquie di uomini, alla cenere.
Persino la scritta bianca, l'irridente: «Arbeit macht frei - Il lavoro vi renderà liberi» sembra una spietata ironia simile alla sensazione che si ha di quei luoghi di tortura leggendo libri o guardando film sull’argomento. Ciò che rimane di quegli avvenimenti sono reliquie di un tempo di sapienza, di saggezza (forse qui il poeta pensa ai filosofi, ai poeti, agli scrittori ebrei e non ebrei uccisi, un patrimonio perduto in nome delle ideologie di un uomo e di chi lo ha seguito.
La strofa finale esprime tutta la rabbia del poeta per tali avvenimenti: un no deciso ad altri fatti del genere: non si possono scordare questi fatti per non ripeterli mai più.

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell’aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.
Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: "Il lavoro vi renderà liberi "
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all’alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all’acqua con la bocca
di scheletro sotto le doccie a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d’animali,
o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
d’un tempo di saggezza, di sapienza
dell’uomo che si fa misura d’armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.
Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.

Note
[1] Salvatore Quasimodo - Salvatore Quasimodo nasce a Modica (Ragusa) il 20 agosto del 1901 e trascorre gli anni dell'infanzia in piccoli paesi della Sicilia orientale (Gela, Cumitini, Licata, ecc.), seguendo il padre che era capostazione delle Ferrovie dello Stato. Subito dopo il catastrofico terremoto del 1908, si trasferisce a Messina, dove Gaetano Quasimodo era stato chiamato per riorganizzare la locale stazione. Prima dimora della famiglia, come per tanti altri superstiti, sono i vagoni ferroviari.
Un'esperienza dolorosa che avrebbe lasciato un segno profondo nell'animo del poeta. Nella città dello Stretto, Quasimodo compie gli studi fino al conseguimento nel 1919 del diploma presso l'Istituto Tecnico "A. M. Jaci", sezione fisico-matematica. All'epoca in cui frequentava lo "Jaci", risale l'inizio del sodalizio con Salvatore Pugliatti e Giorgio La Pira, durato tutta la vita. Negli anni messinesi Quasimodo comincia a scrivere versi, che pubblica su riviste simboliste locali.
Nel 1919, appena diciottenne, Quasimodo lascia la Sicilia con cui avrebbe mantenuto un legame edipico, e si stabilisce a Roma. In questo periodo continua a comporre poesie che pubblica su riviste locali soprattutto di Messina, trovando il modo di studiare in Vaticano il latino e il greco presso monsignor Rampolla del Tindaro.
L'assunzione nel 1926 al Ministero dei Lavori Pubblici, con assegnazione al Genio Civile di Reggio Calabria, assicura finalmente a Quasimodo la sopravvivenza quotidiana. Ma l'attività di geometra, per lui faticosa e del tutto estranea ai suoi interessi letterari, sembra allontanarlo sempre più dalla poesia e, forse per la prima volta, Quasimodo deve considerare naufragate per sempre le ambizioni poetiche.
Tuttavia, il riavvicinamento alla Sicilia, i contatti ripresi con gli amici messinesi della prima giovinezza, soprattutto il "ritrovamento" con Salvatore Pugliatti, insigne giurista e fine intenditore di poesia, riescono a riaccendere la volontà languente, a far sì che Quasimodo riprenda i versi del decennio romano, per limarli e aggiungerne di nuovi. Nasce così in ambito messinese il primo nucleo di Acque e terre.
Nel 1929 Quasimodo si reca a Firenze, dove il cognato Elio Vittorini lo introduce nell'ambiente di "Solaria", facendogli conoscere i suoi amici letterati, da Alessandro Bonsanti, ad Arturo Loira, a Gianna Manzini, a Eugenio Montale, che intuiscono subito le doti del giovane siciliano. E proprio per le edizioni di "Solaria" (che aveva già pubblicato alcune liriche di Quasimodo) esce nel 1930 Acque e terre, il primo libro della storia poetica di Quasimodo, accolto con entusiasmo dai critici dell'epoca, che salutano la nascita di un nuovo poeta.
Nel 1932 vince il premio dell'Antico Fattore, patrocinato dalla rivista e nello stesso anno, per le edizioni di "Circoli", esce Oboe sommerso.
Nel 1934 Quasimodo si trasferisce a Milano, l’avvenimento segna una svolta particolarmente significativa nella sua vita e non solo artistica. Accolto nel gruppo di "Corrente" si ritrova al centro di una sorta di società letteraria, di cui fanno parte poeti, musicisti, pittori, scultori.
Nel 1936 Quasimodo pubblica con G. Scheiwiller Erato e Apòllion (prefazione di Sergio Solmi) ancora un libro fortunato con cui si conclude la fase ermetica della sua poesia. Nel 1938 lascia il lavoro al Genio Civile e inizia l'attività editoriale come segretario di Cesare Zavattini, che più tardi lo farà entrare nella redazione del settimanale il "Tempo". Nel 1938, per le Edizioni Primi Piani esce la prima importante raccolta antologica Poesie, con un saggio introduttivo di Oreste Macrì, che rimane tra i contributi fondamentali della critica quasimodiana. Il poeta intanto collabora alla principale rivista dell'ermetismo, la fiorentina "Letteratura". Nel 1939-40 Quasimodo mette a punto la traduzione dei Lirici greci, che esce nel 1942 nelle edizioni di "Corrente" e che, per il suo valore di originale opera creativa, sarà poi ripubblicata e riveduta più volte.
Sempre nel 1942 presso Mondadori esce Ed è subito sera.
Nel 1941 gli viene concessa, per chiara fama, la cattedra di Letteratura Italiana presso il Conservatorio di musica "G. Verdi" di Milano. Insegnamento che terrà fino all'anno della sua morte.
Durante la guerra, nonostante mille difficoltà, Quasimodo continua a lavorare alacremente: scrive versi, traduce parecchi Carmina di Catullo, parti dell'Odissea, Il fiore delle Georgiche, il Vangelo secondo Giovanni, Epido re di Sofocle (tutti lavori che vedranno la luce dopo la liberazione). Parallelamente svolge l’attività di traduttore, con risultati eccezionali, grazie alla raffinata esperienza di scrittore. Numerosissime le sue traduzioni: da Ruskin a Eschilo, Shakespeare, Molière, Ovidio; e ancora da Cummings, Neruda, Aiken, Euripide, Eluard (quest'ultima uscita postuma).
Nel 1947, edita da Mondadori, esce la sua prima raccolta del dopoguerra, Giorno dopo giorno, libro che segna una svolta nella poesia di Quasimodo, al punto che si parlò e si continua a parlare di un primo e un secondo Quasimodo. Di fatto l'esperienza tragica e sconvolgente della seconda guerra mondiale, il profondo convincimento che l'imperativo categorico era quello di "rifare l’uomo" e che ai poeti spettava un ruolo importante in questa ricostruzione, fanno sì che Quasimodo senta inadeguata ai tempi una poesia troppo soggettiva. La poesia di Quasimodo supera quasi sempre lo scoglio della retorica e si pone su un piano più alto rispetto all'omologa poesia europea di quegli anni, rimanendo coerente con le proprie ragioni poetiche, il poeta, sensibile al tempo storico che vive, accoglie i temi sociali ed etici e di conseguenza varia il proprio stile.
Dal 1948 Quasimodo tiene la rubrica teatrale sul settimanale "Omnibus" (nel 1950, sempre come titolare della stessa rubrica, passa al settimanale "Tempo").
Nel 1949 esce presso la Mondadori La vita non è un sogno.
Nel 1950 Quasimodo riceve il premio San Babila e nel 1953 l'Etna-Taormina insieme a Dylan Thomas.
Nel 1954 esce per la casa editrice Schwarz Il falso e vero verde; un libro di crisi, con cui inizia una terza fase della poesia di Quasimodo, che rispecchia un mutato clima politico. Dalle tematiche prebelliche e postbelliche si passa a poco a poco a quelle del consumismo, della tecnologia, del neocapitalismo, tipiche di quella "civiltà dell'atomo" che il poeta denuncia, mentre si ripiega su se stesso e muta ancora una volta la sua strumentazione poetica. Il linguaggio ridiventa complesso, più scabro, il ritmo si fa più secco, suscitando perplessità in quanti vorrebbero il poeta sempre uguale a se stesso.
Segue nel 1958 La terra impareggiabile (Mondadori, Milano), premio Viareggio. Ancora nel 1958 Quasimodo mette a punto l'antologia della Poesia italiana del dopoguerra; nello stesso anno compie un viaggio in URSS, nel corso del quale viene colpito da infarto, cui segue una lunga degenza all'ospedale Botkin di Mosca.
Il 10 dicembre 1959, a Stoccolma, Salvatore Quasimodo riceve il premio Nobel per la letteratura e legge il discorso Il poeta e il politico, pubblicato l'anno dopo nell'omonimo volume (Schwarz, Milano 1960) che raccoglie i principali scritti critici di Quasimodo.
Nel 1960, gli viene conferita dall’Università di Messina la laurea honoris causa, e la cittadinanza onoraria.
Sempre nel 1960 sul settimanale "Le Ore" tiene la rubrica "Colloqui coi lettori" fino al 1964, quando passa a "Tempo" con una rubrica simile.
Nel 1966 Quasimodo pubblica il suo ultimo libro, Dare e avere. quasi un testamento spirituale, il poeta infatti morirà appena due anni dopo.
Nel 1967 l'Università di Oxford gli conferisce la laurea honoris causa.
Colpito da ictus il 14 giugno 1968 ad Amalfi, dove si trova per presiedere un premio di poesia, muore sull'auto che lo trasporta a Napoli.
L’opera di Salvatore Quasimodo è tradotta in quaranta lingue (compreso il Coreano), ed è conosciuta e studiata in tutto il mondo.
[2] L’Ermetismo e Quasimodo - Il fenomeno più rilevante nel panorama della lirica italia­na degli anni Trenta e Quaranta è l’affermarsi di modi di concepire e fare poesia che furono riassunti nel nome di ermetismo, una tendenza che ha in sé i caratteri della modernità ed eredita sicuramente molte delle tensioni primonovecentesche verso una poesia pura, espressione di una ricerca di nuovo linguaggio, ma anche di nuovi contenuti.
Il poeta ermetico esprime un’ansia di testimonianza di verità che trova un’espressione inde­terminata nel simbolo e nell’analogia, nella tendenza a enfatizzare la parola.
Il termine ermetico cominciò a circo­lare per indicare testi letterari che apparivano chiusi, nel sen­so che la loro comprensione era ostacolata non solo dalla com­plessità dell’argomento, ma dalla volontà dell’autore che ricercava l’oscurità. Il termine fu poi adottato dalla critica per indicare un gruppo di poeti che condividevano alcune idee-gui­da del fare letterario.
· L’idea della poesia come va­lore che sta al di fuori e al di sopra della storia e del tempo e che quindi può parlare di un Uomo inteso nella sua essenza spiritua­le e non calato in una determinata situazione storica o persona­le
· La poesia è proposta come testimonianza della verità anch’essa assoluta, che non si deve cioè misurare e con­frontare con gli eventi e con la storia.
· A quest’idea si associa la ricerca di uno stile alto, l’unico capace di esprimere convenientemente l’ansia di verità e di assoluto.
Ciò non impedisce ai poeti ermetici di porsi compiutamente entro l’alveo della poesia moderna; in particolare essi fanno propria l’esperienza ungarettiana di una parola essenziale, il valore espressivo fondamentale dell’analogia e del simbolo. Per la loro concezione della letteratura come espressione pura e incontami­nata, sottratta da ogni influsso storico e politico, rimasero estra­nei a un coinvolgimento nella politica culturale del regime fasci­sta e sposarono la linea dell’astensione dalla partecipazione alla vita politica e al dibattito ideologico.
Poiché l’ermetismo non fu propriamente una scuola poetica, non tutti i critici concordano sui nomi da far rientrare in questo «contenitore»; tuttavia si può affermare che poeti come Mario Luzi, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Salvatore Quasimodo furono tra i maggiori protagonisti della stagione dell’ermetismo, anche se poi approdarono ad esperienze diverse:
[3] Sei ancora...: l’uomo di oggi non è diverso dall’uomo primitivo; ha solo costruito armi più perfette.
[4] carlinga: parte di un aereo destinata ad alloggiare l’equipaggio, o anche il carico.
[5] meridiane di morte: armi perfette che proiettano intorno a sé ombre di morte, di rovina. La meridiana è un orologio solare formato da un complesso di linee orarie tracciate su di un muro o pavimento, ove lo gnomone proietta la sua ombra durante le varie ore del giorno.
[6] carro di fuoco: carro armato.
[7] persuasa…: utilizzata solo per atti di distruzione.
[8] E questo sangue...: si riferisce all’omicidio di Abele ad opera di Caino, il fratello, narrato nell’antico testamento. Con questo omicidio, Caino diede inizio ad una interminabile serie di delitti e di follie. Le stragi di oggi hanno la stessa brutalità del primo omicidio fraterno.
[9] E quell’eco fredda...: le menzogne, le discordie, l’odio fratricida sono ancora presenti nei pensieri e nelle azioni della nostra vita di ogni giorno.
[10] o figli: o giovani.
[11] le loro tombe...cenere: i resti dei vostri padri sono ormai cenere; anche le loro tombe a poco a poco scompaiono. O giovani, non commettete gli stessi sbagli dei vostri padri; non fate ricorso alle discordie, all’odio, all’intolleranza.
[12] con il piede...: è una metafora: con l’esercito tedesco che aveva occupato l’Italia.
[13] sull’erba dura...: con i morti abbandonati sull’erba, resa dura dal ghiaccio.
[14] al lamento d’agnello...: alle innocenti voci di lamento dei bambini: nei riti di purificazione dei popoli antichi l’agnello era la vittima innocente.
[15] urlo nero… telegrafo: disperato, di morte; l’urlo disperato della madre che, impazzita, corre verso il figlio crocifisso su un palo di telegrafo.
[16] Alle fronde... vento: anche le cetre dei nostri poeti, simbolo della poesia, erano appese, impotenti, smarrite, ai rami dei salici, per una promessa di silenzio. C’è un riferimento storico: il Salmo CXXXVI della Bibbia rievoca la deportazione degli ebrei a Babilonia: “Abbiamo appeso ai salici le nostre cetre... Come potremmo cantare in terra straniera?”.

Dino Grandi: il fedele disubbidiente di Ferdinando Di Martino

Paolo Nello, da tempo il maggior studioso di Dino Grandi, ha condensato i suoi studi in una biografia complessiva, che mette a frutto ancora nuove indagini, ma soprattutto presenta la figura nel numero due del Fascismo nella sua interezza di politica e di uomo. Al centro del volume stanno la precoce carriera politica di Grandi, il suo rapporto di fedeltà disubbidiente con Mussolini, che egli considerò sempre l’Uomo della sua vita, la preparazione e la realizzazione del piano per esautorare Mussolini concretatosi nel voto del Gran Consiglio 1943 e nel successivo arresto di Mussolini ordinato dal re.
Dino Grandi, conte di Mordano è stato uno degli uomini più importanti e controversi del XX secolo, costruttore ed organizzatore del Fascismo, artefice del prestigio Italiano all’estero e del rinnovamento dei codici giuridici Italiani, eroe di guerra, ma, primo responsabile del cosiddetto tradimento del 1943. Odiato nel dopoguerra tanto dai rossi quanto dai reduci Repubblichini, trascurato dalla storiografia ufficiale, Grandi ebbe una vita non comune, lunghissima, ricca di avvenimenti, costellata sia di successi sia di insuccessi.
Grandi nacque il 4 giugno 1895 a Mordano, piccolo paesino in provincia di Bologna, da una famiglia romagnola di proprietari terrieri. Suo padre, amministratore di una grande tenuta, era un ex seminarista, divenuto nel tempo anticlericale e liberal-monarchico di stampo risorgimentale; tra le amicizie di suo padre si annoverava Andrea Costa, primo socialista italiano ad entrare in Parlamento. Andrea Costa era uno dei capi del movimento socialista, movimento politico che si diffuse in Italia non grazie a Karl Max, ma grazie al movimento anarchico: il Socialismo di Karl Max ha ragione d’esistere, quando in uno stato è presente un’economia basata sulle industrie, poiché in Italia queste non erano numerose, le idee di Max non furono seguite, quindi il Socialismo si diffuse grazie al movimento anarchico. Quest’ultimo era un movimento ostile al potere, il quale si basava sul malcontento del popolo, infatti i cittadini erano completamente esclusi dalla vita politica ed il potere era in mano dei politici. Grazie al movimento anarchico, i cittadini incominciarono ad avere importanza e ad avere una voce in capitolo, cioè essi incominciarono ad esprimersi attraverso i giornali e questi furono i primi mass media della storia della società di massa.
Nonostante l’anticlericalismo paterno, Dino Grandi si avvicinò giovanissimo alle strutture ecclesiastiche, diventando assiduo frequentatore della parrocchia. Da giovanetto si recò a Ferrara, per frequentare il liceo. Quindi conobbe e si entusiasmò degli scritti di D’Annunzio e di Marinetti e le sue letture preferite erano Croce e Nietzsche: con la sua educazione religiosa si avvicinò agli ideali del Socialismo cristiano di Romolo Murri.
Nel 1913, Dino Grandi, finito il liceo ed indeciso inizialmente tra le facoltà di medicina e di lettere, si risolse infine per giurisprudenza, a Bologna. Voce principale dell’interventismo rivoluzionario universitario bolognese, in questo periodo, Grandi, insieme a Mussolini, futuro capo del Fascismo, fu acceso «interventista», sostenitore cioè della tesi che l’unico modo per l’Italia per acquistare importanza politica internazionale era quello di partecipare attivamente alla prima guerra mondiale. Personaggio di acuta intelligenza, Grandi iniziò il suo percorso politico nelle file della sinistra, prima di seguire, nel 1914, l’estrema destra: Nello Quilici, amico di Italo Balbo, scoprì il diciannovenne Grandi e lo fece entrare nel partito: nel periodo dell’interventismo rivoluzionario, Grandi iniziò un’intensa attività giornalistica, entrando nella redazione del giornale Il Resto del Carlino.
Nello Quilici lo portò con sé a Roma, per farsi aiutare come giornalista parlamentare: la capitale viveva un periodo di grandi fermenti politici che lo misero in contatto con le idee del Fascismo ed il ventenne Dino rimase affascinato da quelle idee, ma in un modo piuttosto confuso. Quando rientrò a Ferrara, nel fare un discorso interventista davanti al monumento di Garibaldi, indossò perfino la camicia rossa e fece proclami di guerra di redenzione. Anch’egli, come tanti socialisti rivoluzionari, credette che la guerra li portasse finalmente alla tanto attesa rivoluzione popolare‘ del tipo democratico-rivoluzionaria.
Nella vita di Dino Grandi ci fu una svolta, quando conobbe Mussolini, quasi per inerzia psicologica. A tale conclusione si arrivò ben presto, facilitato anche dall’atteggiamento, nei confronti dello stesso movimento, di alcuni uomini di governo tra i quali fa spicco l’errata visione politica di Giovanni Giolitti. La possibilità, infatti, che i fascisti si organizzassero soprattutto per entrare in un governo era un’ipotesi da tutti completamente scartata e ritenuta ideologicamente contraria al loro credo, almeno originario. In definitiva mancava in tutti i politologi la reale visione di quello che fosse in “potenza” il movimento fascista e la comprensione della reale forza politica e di penetrazione che vi era in quel “piccolo” movimento che tutti sottovalutavano o non avevano realmente compreso.
Dino Grandi voleva continuare a far politica, ma oltre gli impegni del nuovo lavoro, non aveva, come tanti le idee molto chiare; anche egli annaspava fra quelli che cercavano di imporsi in mezzo a tante incognite nei due anni più critici che abbia conosciuto l’Italia: Stato in crisi, Socialismo in crisi, agrari ed industriali a fare serrate, lavoratori in sciopero, ceto medio amareggiato, reduci dimenticati, ufficiali bistrattati, mediazioni e repressioni che si alternano, ed infine nel malcontento generale un Fascismo combattivo, ma ancora minoritario, del tutto incapace anch’esso di coalizzare delle forze, né sapeva ancora con chi appoggiarsi.
Grandi non sospese per questo di dare vita alle organizzazioni sindacali contadine fasciste con prospettive velleitarie, piuttosto rivoluzionarie, comunque rivolte contro le forze conservatrici e borghesi: organizzazioni molte diverse da quelle che voleva Mussolini, più realista, che vedeva invece nelle alleanze dei borghesi la tattica per affermarsi con il suo Fascismo. Mussolini aveva già cancellato dal suo Popolo d’Italia il sottotitolo Quotidiano Socialista, sostituendolo con Quotidiano dei combattenti e dei produttori: Mussolini spiegò dalle sue colonne: «...bisogna esaltare i produttori perché da loro dipende la ricostruzione... e ci sono proletari che comprendono benissimo l’ineluttabilità di questo processo capitalistico... produrre per essere forti e liberi...». Ed ancora «...se occorre sostenere i produttori e i proprietari terrieri per impedire lo sfascio della società e impedire la rivoluzione sociale, alla guerra civile, allora il Fascismo dovrà schierarsi in difesa della borghesia, di tutta la borghesia».
Grandi annaspava fra i vari ceti, le varie categorie, le varie ideologie, finché sterzò tutto a destra; una destra ideologica, che non aveva nulla a che vedere con quella precedente; questa è e rimarrà fino alla fine mussolinista cioè di Mussolini e basta, e fin dalla sua nascita a qualcuno della destra estrema o moderata piaceva e a qualcun altro, pure lui della destra estrema o moderata, non piaceva; questo perché ognuno credeva di poter fare, o sostituire il Mussolini. Grandi scrisse e inviò la sera una lettera al giornale La Squilla, palesando l’iscrizione al partito socialista, poi nella notte ci ripensò e il mattino dopo corse al giornale per riprendersi la lettera per poi iscriversi al fascio di Mussolini. Da socialista ad antisocialista dalla sera al mattino. Poche ore prima, con un altro suo compagno di scuola Buscaroli, si era espresso in questi termini opportunistici in questa difficile decisione con chi schierarsi: «bisogna prima vedere da che parte si delinea il successo».
Grandi fu fra i fondatori dei fasci emiliani: alla vigilia della prima adunata a Bologna dei Fasci dell’Emilia e della Romagna nel 1921, Mussolini fu accolto alla stazione da migliaia di fascisti, guidati da Arpinati e Baroncini, poi un imponente corteo lo accompagnò in piazza Vittorio Emanuele II. Il 3 aprile Mussolini pronunciò un discorso al Teatro comunale, presentato da Dino Grandi. Alla presenza della vedova di Giulio Giordani, assassinato nel corso dell’eccidio del novembre 1920 in palazzo d’Accursio, Mussolini ricordò la nascita del Fascismo, contrappose al Primo maggio socialista il 21 aprile fascista, data del Natale di Roma, ridicolizzò gli esponenti moderati del Socialismo bolognese, citando Bucco, Zanardi e Bentini. Grandi divenne segretario regionale dei Fasci dell’Emilia e della Romagna. In questo particolare ambito, là dove il successo del Fascismo passava necessariamente attraverso le maniere sanguigne del locale squadrismo rustico e ruspante, si sviluppò la sua vicinanza alle ali più animose e di fatto più discutibili del movimento e gli squadristi accompagnarono sempre Grandi nella sua lunga carriera di fascista, garantendogli una base di supporto importante per molti aspetti, anche se con sempre minore evidenza, quando la sua figura venne raffinandosi e ingentilendosi col crescente prestigio delle cariche che avrebbe assunto. Lo squadrismo fascista affascinava Grandi, uomo di azione, per questo ne diventò subito uno zelante organizzatore, ma con l’inconveniente, che perse tutto quel consenso socialista che aveva ottenuto soprattutto nelle campagne ferraresi. Mussolini, schierandosi, come stava facendo con gli agrari antisocialisti, voleva dire perdere questo consenso.
Ma lo squadrismo, il manganello, gli assalti alla Camera del lavoro e la promessa del Fascismo di restaurare in Italia la disciplina e l’ordine, come stava operando appunto Mussolini, ben visto dagli industriali, Balbo e Grandi, in zona ferrarese ebbero ben altri consensi, quello degli agrari, che erano pochi, ma potenti.
Questo voltafaccia da un lato comportò a Grandi il ferimento in un agguato da cinque colpi di pistola il 17 ottobre 1920, ma dall’altro ripagò Grandi al punto che nel maggio del 1921 gli agrari lo candidarono alle elezioni, dalle quali Grandi fu eletto deputato il 15 maggio 1921. Dopo neppure due settimane dalle votazioni, Grandi comunque, aveva diretto un assalto fascista contro il circolo Andrea Costa di Imola, dove, il successivo 17 giugno, una squadra di 500 fascisti occuparono il palazzo comunale, issando il tricolore sulla torre dell’orologio, episodi che tennero Imola sotto assedio per un lungo periodo.
Solo successivamente quando, dopo aver preso piede in Italia, il movimento trasformandosi in partito politico, si apprestava ad entrare in Parlamento l’azione del fascismo, ideologicamente, assunse un volto preciso e diverso da quello che molti avrebbero voluto aspettarsi.
Quel che risulta importante ricordare è che si arrivò alle elezioni politiche del 1921 con l’ingresso in Parlamento di ben 37 fascisti che trasformarono il Fascismo da movimento sentimentale a movimento politico. Con le seguenti parole «... Dopo le elezioni il Fascismo si è trasformato ad un tratto da movimento sentimentale in movimento politico ...» pronunciate da Grandi al congresso fascista tenutosi a Roma dal 7 al 10 novembre 1921, si ha la vera svolta politica del movimento.
Ed ancora una volta, sotto questa luce si intravedeva, erroneamente, nel nuovo partito l’abbandono di tutte le posizione estremiste e sovversive in favore di una nuova linea democratica e liberale.
In seguito alle elezioni del 1921, Mussolini il 3 agosto firmò il cosiddetto Vai a: Navigazione, cerca patto di pacificazione, un patto tra socialisti e fascisti: preoccupato per le sorti del Fascismo in vista del crescente interesse per il Socialismo, dopo aver discusso con Ivanoe Bonomi, con i deputati socialisti ed i deputati fascisti, e volendo attuare le volontà auspicate dal Presidente della Camera Enrico De Nicola e del Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi strinse il patto di pacificazione, per far cessare ogni possibile rappresaglia con l’altro partito. Mussolini, mosso anche dalla necessità di consolidare la sua leadership nei rapporti con le altre forze politiche, tentò di elaborare un patto di pacificazione fra i gruppi fascisti e quelli di sinistra, ma non ci riuscì, vista l’avversa volontà di entrambe le parti: egli stava facendo un compromesso con produttori i borghesi, con il governo, con la monarchia, con i proletari bolscevichi e con i socialisti, aprendosi con il suo patto di pacificazione anche alle leghe rosse, che spiazzò quelli della linea dura della prima ora del fascio.
Mussolini voleva la fine del rassismo tipico del Fascismo provinciale e voleva prendere le distanze dai vari Balbo, Farinacci, Arpinati, Gaggioli, Grandi, che invece non volevano scendere a nessun compromesso, e non per una questione ideale, ma perchè essi avevano ottenuto il consenso nelle campagne con il rassismo antisocialista; un consenso che con il patto era messo in discussione.
Il 6 agosto 1921, Grandi fu il primo a ribellarsi a Mussolini e lo fece sull’Assalto, rimproverandogli la linea morbida fu il patto che giudicò un tranello cioè un tradimento.
Mussolini passò un brutto momento, ma all’attacco rispose tre giorni dopo la firma del patto, sul Popolo d’Italia, accusando i ribelli e il loro Fascismo bolognese provinciale di aver semmai essi tradito l’ispirazione del Fascismo e di essersi ridotti alla difesa di interessi privati e delle caste più opache, sorde, miserabili che esistono in Italia. Dalle stesse colonne Mussolini pretese un chiarimento, mettendo in conto nella sfida, anche un’eventuale scissione e perfino le dimissioni dal Movimento dei Fasci.
Grandi guidò la rivolta dello squadrismo agrario, legato alla borghesia agraria e sostenitore della lotta armata violenta da condurre contro la sinistra fino al loro annientamento, respinsero il patto. contro la dirigenza dei Fasci: il 16 agosto a Bologna Grandi riunì l’ala oltranzista i ras locali, rappresentanti di 544 fasci dell’Emilia-Romagna che, temendo di perdere la loro influenza si schierarono contro Mussolini (chi ha tradito, tradirà, si leggeva sui manifesti affissi nella città), esprimendo la loro estraneità ai patti stretti decisero all’unanimità di chiedere a Mussolini la rescissione del patto, mentre i fascisti di Firenze, di Venezia e dell’Umbria denunciarono il patto stesso.
Per superare l’insidia, Mussolini dovette rischiosamente presentare le dimissioni della sua giunta esecutiva, ammonendo che sarebbe tornato a ruoli più modesti di portatore d’acqua; come aveva correttamente preveduto, ed ovviamente sperato, le dimissioni non furono accettate per mancanza di validi potenziali sostituti: tutte le accuse furono respinte dal Consiglio Nazionale riunito a Firenze il 26 e 27 agosto e nello stesso tempo furono respinte le dimissioni dei vari rappresentati effettuate solo per protesta.
Frattanto si diffuse il sospetto che Grandi, emergente con sempre maggior piglio fra i notabili del partito e contrario con nitida decisione al patto, potesse ambire a sostituire Mussolini: insieme a Balbo, aveva esperito un tentativo, forse non così ingenuo come allora parve, per convincere Gabriele D’Annunzio a prendere il posto di Mussolini. Tutto il suo operato stava quasi per franare quando Grandi e Balbo si diedero da fare per creare una fronda, per dar vita ad una scissione e per sostituire Mussolini. Grandi e Balbo credevano di avere idee, ma si ritrovano a non avere una guida: ai primi di autunno del 1921 Grandi e Balbo si recarono segretamente a Gardone, cercando inutilmente di convincere D’Annunzio a prendere la guida dei fasci per proporre al Vate di approfittare del grande raduno nazionale di ex combattenti programmato per il 4 Novembre, anniversario della Vittoria, per dare l’avvio ad una Marcia su Roma, mettendosene alla testa. Il Vate, che li aveva ricevuti vestito da frate, dopo averli ascoltati, rispose: «Fratelli, prima di prendere una decisione così grave, debbo consultare le stelle» e li rimandò all’indomani. Il giorno dopo disse loro che le stelle, coperte dalle nuvole, non si erano rivelate e così andò avanti per quasi una settimana, finché i due, stanchi, se n’andarono imprecando. Mussolini lo seppe, o almeno lo sospettò.
Se D’Annunzio aveva addirittura evitato di entrare nel merito della proposta, rifiutando il contatto, ma Grandi si era ormai posto, pur relativamente giovane qual era, come un candidato alternativo alla guida del movimento.
Mussolini riuscì a riappacificarsi anche con gli oppositori interni guidati da Dino Grandi, in occasione del III Congresso Nazionale dei Fasci, svoltosi a Roma dal 7 novembre al 10 novembre 1921, data di nascita del Partito Nazionale Fascista.
Durante il congresso tutti si aspettavano la scissione, la resa dei conti fra le due fazioni: lo spettro politico di Grandi, che si aggirava intorno ai votanti, ben presente seppur mai nominato, non aveva convinto. Grandi nel suo discorso (che a aprì un dibattito interno), forse perchè era più colto dei suoi colleghi, forse perchè temette con una scissione di fare un salto nel buio, forse per l’ammirazione sviscerata che aveva per Mussolini che, per nulla turbato, ribatté punto per punto alle sue dialettiche tesi, e forse per calcolato opportunismo, Grandi non fece il rozzo ribelle, parlò molto, espose i suoi concetti, ma le sue furono solo teorie che non fecero presa ai fidati di Mussolini, né fecero presa sulle masse; forse fu proprio Grandi il primo a rendersene conto.
Mussolini cedette sul Patto, che non si fece più, ma ottenne la sua vittoria, quando, a fine congresso, il Fascismo si trasformò a grande maggioranza da movimento a Partito, con alla guida, Benito Mussolini, ormai per tutti il Duce. Grandi, che votò contro si sentì perso, isolato, e uno sconfitto, ma, non perdendo il suo opportunismo, con un melodrammatico colpo di teatro, scese dalla tribuna ed andò ad abbracciare Mussolini, scatenando un fragoroso applauso di tutto il congresso. Con quell’atto Grandi manifestava la sua avvenuta sottomissione e quel plateale ‘fraterno abbraccio’ ammetteva il suo ruolo di gregario, barattandolo con la cancellazione del patto e con qualche chance politica. Grandi quindi, l’unico reale antagonista di Mussolini all’interno del movimento, l’unico ad aver mai posto davvero in discussione il suo potere, fece il suo atto di sottomissione. Mussolini aveva definitivamente sconfitto Grandi e con lui tutte le opposizioni interne, sebbene non senza costo.
Grato, Mussolini gli affidò un buon posto nella commissione esecutiva del nuovo ‘Partito Nazionale Fascista’, in cui Grandi si diede subito da fare per emergere.
Nel 1922, un anno dopo le elezioni, a conclusione di un lungo dibattito parlamentare, l’elezione di Grandi, insieme a quelle di Bottai e di Farinacci, fu annullata perché al momento del voto non avevano ancora l’età necessaria.
Già il 2 aprile del 1922, Grandi ricevette dello spazio su Il Popolo d’Italia, per affermare in un suo articolo, fra le altre cose, che «...nella riforma del Fascismo, vi è una necessità doverosa ed urgente per tutti noi, ed è quella di inserire il Fascismo...nel corso della concreta realtà storica italiana». Il Grandi rivoluzionario, il Grandi ribelle, non esisteva più.
Pur avendo stabilito rapporti profondi con lo squadrismo, Dino Grandi diventò poi uno dei ‘moderati’ fra i più importanti gerarchi del regime. Nel luglio del 1922, Grandi diresse duemila fascisti all’occupazione di Ravenna. Mussolini ebbe dei dubbi su questa improvvisa conversione, e lo mise alla prova mandandolo a moderare proprio i rivoluzionari in Romagna.
Il giovane bolognese aveva assunto un ruolo di una certa autorevolezza presso gli squadristi una truppa civile organizzata in forma militare e grazie a loro ottenne un ruolo di primo piano in seno al partito. Questa squadriglia, gli consentì comunque di mettere le mani su un elettorato contiguo a quello dello stesso Mussolini che, essendo nativo della Romagna, avrebbe ovviamente preferito rappresentare più direttamente i suoi conterranei, ma dovette volgersi invece all’elettorato milanese. Grandi restò il riferimento degli squadristi e dei fascisti di quella regione molto cruciale sul piano elettorale.
Grandi diventò così moderato, così legalitario, così morbido, che quando fu presa la decisione della Marcia su Roma, egli temette le conseguenze di un atto di forza, quasi dissociandosene, per paura di un fallimento e di una rottura con la monarchia, che aveva dalla sua parte l’esercito.
Il 24 ottobre, a Napoli si tenne una grande adunata di camicie nere, raduno che doveva servire da prova generale. In quell’occasione, Mussolini proclamò pubblicamente: "O ci daranno il governo o lo prenderemo calando a Roma".
A condurre la marcia sarebbe stato un quadrunvirato composto da Italo Balbo, Emilio De Bono, comandante della Milizia, Cesare Maria De Vecchi, e Michele Bianchi, segretario del partito fedelissimo di Mussolini; il quadrunvirato avrebbe assunto i pieni poteri a Perugia nella notte tra il 26 e il 27 ottobre. Dino Grandi, di rientro da una missione a Ginevra, era stato nominato capo di stato maggiore del quadrumvirato. Truppe fasciste avrebbero poi dovuto occupare uffici pubblici, stazioni, centrali telegrafiche e telefoniche.
Il 26, però, Antonio Salandra che si era incontrato con Mussolini e che manteneva i contatti con De Vecchi, Ciano e Grandi, riferì a Facta che la marcia su Roma stava per partire e che se ne volevano le dimissioni. Facta si limitò ad indire un consiglio dei ministri nel quale cercò di riprendersi le deleghe affidate ai ministri, onde poter disporre di "valori" negoziabili, con Mussolini o con altri. Il 27 ottobre, alla vigilia della Rivoluzione, De Vecchi entrò in contrasto con Bianchi, che mandò una lettera a Mussolini in cui definiva De Vecchi disertore: la colpa di De Vecchi sarebbe consistita nel prosieguo a fianco di Grandi dei negoziati politici con Salandra, che avrebbe ambito ad un incontro diretto con Mussolini che ripetutamente chiese invano. Grandi, De Vecchi e Federzoni cercavano una possibile soluzione con Salandra e quasi la avevano trovata, infatti, altri ministri accettarono di presentare a Facta le dimissioni e di accettare il loro eventuale avvicendamento con nuovi ministri fascisti. Telefonando all’impaziente Mussolini, che era a Milano in attesa con il cuore in gola, prospettandogli un’eventuale partecipazione al governo come ministro degli Interni Mussolini, che stava giocandosi tutto rispose Mai.
Mussolini ebbe ragione, quando poche ore dopo gli arrivò il telegramma del Re, per recarsi a Roma a formare il nuovo governo.
Gli storici, analizzando bene quest’atteggiamento di non azione di Grandi, si dividono chiedendosi se era già un frondista o no. Guido Nozzoli – in I ras del regime, Bompiani, 1972 – lo esclude, affermando che egli ebbe solo qualche timore per il fallimento della Marcia. De Felice invece sostiene che Grandi, cercando una soluzione moderata e legalitaria, mirasse ad una democrazia produttivistica. Ed infatti, dopo nemmeno due mesi, Grandi che ventilò sul Popolo d’Italia l’abolizione dei partiti politici e sostanzialmente anche il Partito Fascista.
Mussolini – e lo manifestò – fu certamente molto insoddisfatto e anche molto deluso dell’atteggiamento di Grandi, per due importanti motivi: in primo luogo che al momento dell’azione Grandi si era tirato indietro; in secondo luogo per non aver creduto in lui e per non aver avuto fiducia nelle sue doti politiche.
Per due anni Mussolini non affidò nessun incarico a Grandi, nonostante le lettere ‘di devozione e lealtà’ come quella accorata del 1923.
Contrario come Bianchi ad una coalizione con i popolari, Grandi propose in un articolo del 12 Gennaio 1923 su Il Popolo d’Italia una soluzione tecnica con un gabinetto apartitico, soluzione però non accettata da gran parte del P.N.F. perciò Grandi rifiutò di diventare Ministro del nuovo governo.
Grandi restò in disparte, fino alle elezioni del 1924, quando lo stesso Mussolini, nella necessità di riguadagnarsi un’immagine rassicurante nel Paese, ebbe bisogno di voti moderati. Grandi fu richiamato, candidato e fatto eleggere.
Mussolini non gli affidò nessun incarico ministeriale, lo nominò solo vice-presidente della Camera, ma questo già bastava a Grandi, per rientrare nel giro.
Pur avendo dunque stabilito rapporti profondi con lo squadrismo, manovra che però era in assoluto anche un modo astuto di accrescere il peso e le dimensioni della sua corrente politica in poco tempo e con minimo dispendio di energie e di filosofia, Grandi sarebbe poi diventato uno dei «moderati» fra i gerarchi più importanti del regime, in compagnia di Bottai, Balbo e Federzoni, mentre Starace, Farinacci e De Bono, altri componenti di questo non ufficiale direttorio del Fascismo, di questo «quadrumvirato allargato», avrebbero invece preso direzioni più estremiste, fino al folklore, sebbene questi posizionamenti fossero più di facciata che non di contenuto.
Appena eletto e prima di assumere la carica, Grandi, che aveva 29 anni, sposò la bella e colta, Antonietta Brizzi, una ricca possidente della provincia bolognese, che gli portò in dote due milioni di lire. A parte la consistenza patrimoniale, questa donna fu anche la sua fortuna nella sua futura ascesa diplomatica: colta ed intelligente, oltre che bella, fine ed elegante, la Brizzi fu la donna ideale per le mire che aveva Grandi, che amava la mondanità, il successo e nuove ‘scalate’ ai vertici della politica.
Dal 1924 al 1929, Grandi fu sottosegretario all’Interno ed agli Esteri: nel nuovo governo Mussolini gli affidò la carica di sottosegretario agli interni, e nel maggio del 1925, cooptandolo, Mussolini lo nominò sottosegretario al ministero degli Esteri, carica che poi fu ricoperta dallo stesso Mussolini. Grandi iniziò a vivere nella sua ombra.
Grandi fu nominato ambasciatore d’Italia a Londra e con lui l’Italia riuscì ad ottenere una grande reputazione internazionale e il suo incarico durò per 7 anni. Grandi era un bell’uomo, era simpatico, cordiale, aveva una preziosa e bella compagna come moglie, inoltre oltre che essere laureato in legge, conosceva bene l’inglese. Insomma aveva una buona immagine da mandare in giro per il mondo, l’immagine desiderata da Mussolini.
Il 12 settembre del 1929, Mussolini, liberatosi dei suoi otto dicasteri, affidò a Grandi il ministero degli Esteri in una fase molto delicata, il suo incarico durò fino al 1939.
Grandi, che, per quattro anni si era fatto le ossa all’ombra del Mussolini, ma non trascurando di migliorarsi e di professare a Mussolini tutta la sua fedeltà e tutta la sua lealtà, terminata la sua fase di apprendistato governativo da sottosegretario, si occupò di rappresentare l’Italia presso le altre nazioni, e fu forse questa l’attività in cui riuscì ad esprimere le sue doti migliori. La ‘Farnesina’ era allora un organismo ancora ottocentesco, liberale nel senso culturale del termine, e Grandi vi entrò per applicarvi, burocraticamente, i nuovi stili ed i nuovi concetti della rivoluzione fascista, in primis, dando l’opportunità a chiunque fosse laureato in giurisprudenza, scienze politiche o economia e commercio di partecipare al concorso per l’accesso alla carriera diplomatica, opportunità questa fino ad allora riservata solo ai rampolli della nobiltà.
Oltre al riassetto organizzativo, Grandi si trovò presto dinanzi alla necessità di stabilire buoni rapporti con le potenze straniere, in vista di una crisi economica, che avrebbe avvinto l’intero mondo e certo anche l’Italia, e l’opportunità di poter contare su nuove leve di giovani di talento, e cresciuti lontano dagli ambienti nobiliari, gli diede modo di rinnovare la classe diplomatica italiana dalle fondamenta.
I suoi tre anni da ministro furono di estrema intensità politica e diplomatica. Riuscì in così breve tempo a dare all’apparato un’organizzazione omogenea con quella degli altri apparati dello stato, compiendovi la richiesta «fascistizzazione». Operò in sostegno degli italiani all’estero, rassicurando gli emigrati (che, se pur indirettamente, potevano rafforzare il consenso presso i parenti rimasti in Patria) e li dotò di una rete di strutture consolari, che tuttora è quella da lui ideata. Si adoperò anche per l’esenzione dall’obbligo di leva per i figli dei lavoratori emigrati, mettendo fine agli episodi che vedevano molti giovani italiani cresciuti all’estero venire arrestati per renitenza non appena sbarcati in patria ed obbligati a scontare lunghe pene detentive a cui erano stati condannati in contumacia da tribunali militari, e delle quali erano totalmente ignari.
Nei rapporti con le altre nazioni, Grandi infilò l’Italia dovunque gli riuscisse possibile, in tutti gli organismi anche inutili dai quali già sapesse che non sarebbe stata rifiutata, inserendosi in tutte le discussioni più importanti sui problemi internazionali. L’Italia stava conoscendo una popolarità estera che forse non si è mai più ripetuta.
Fu in questo punto che l’efficace attivismo del ministro richiamò l’attenzione di Mussolini, il quale, ancora una volta, temette che Grandi avrebbe potuto guadagnare più prestigio di lui e «scippargli» il ruolo di interlocutore nazionale esterno.
L’occasione fu data dalle concessioni dialettiche che il ministro cominciava ad avallare informalmente in tema di disarmo; sebbene al tempo le fabbriche d’armi e dunque la capacità di armamento costituissero uno dei primati italiani, e sebbene tutta la non esigua tecnologia industriale civile fosse accompagnata da una non occulta analoga produzione militare, tali che l’Italia poteva considerare eventuali concessioni come nei fatti niente affatto significative, Mussolini non amava parlare della sicurezza patria con altri. Accusando Grandi di essere andato a letto con l’Inghilterra e con la Francia, lo rimosse dall’incarico, nominandolo ambasciatore a Londra; non un «promoveatur», ma certo in tutto un «amoveatur».
Grandi, consapevole della limitata forza geopolitica italiana, inaugurò la cosiddetta idea del “peso determinante”, che l’Italia avrebbe dovuto giocare nello scacchiere mondiale, disgregando così gli equilibri tra le grandi potenze dell’epoca: l’impostazione che infatti Grandi diede alle relazioni internazionali fu forse, senza destare sorpresa né rammarico, assai differente da quella prevista da Mussolini. Se Mussolini, nonostante grandi capacità di mediazione, vi si affacciava con aggressività, il suo ministro si incamminò su una strada di saggia e delicata prudenza. Mentre il capo del Governo pensava a come poter trarre eventualmente vantaggi competitivi dalla crisi, Grandi si convinse e convinse forse anche altri che la crisi avrebbe potuto creare positivi vincoli di collaborazione fra i grandi Stati europei e che il farsene promotore avrebbe accresciuto il prestigio italiano fino all’ammissione dell’Italia nel novero delle potenze, obiettivo comunque perseguito dal Fascismo di tutte le correnti e sempre più facile da raggiungere man mano che la crisi riduceva i disvalori economici fra gli stati. La sua posizione istituzionale, si fece più delicata quando in ottobre il mondo entrò in crisi dopo il crollo di Wall Street.
Fu il momento che ci fu il bisogno di rilanciare l’iniziativa italiana e soprattutto il Fascismo che ora, con l’America in crisi, l’Inghilterra isolazionista, la Russia nel caos staliniano e con la Germania sull’orlo del baratro, divenne il sistema economico e politico che tutti guardavano come modello. «A favore di Grandi giocavano – scrive Renzo De Felice – tutti gli argomenti possibili...era un vecchio fascista...era un moderato...aveva fascistizzato il ministero...era intelligente, abile, duttile...si era fatto apprezzare nella carriera....si era inserito in essa anche umanamente... e in un paio di occasioni si era difeso dall’eccessiva invadenza del partito».
Denis Mack Smith, in Storia del Fascismo, afferma invece che «affidando questa grande responsabilità a Grandi, Mussolini si riservava di ‘coprirla’ o - alle brutte - di sconfessarla. Inoltre Mussolini, scaricandosi questa incombenza (mandando in giro un moderato) mirava a dare di sé all’estero una sua immagine, mentre all’interno poteva ‘scaricarsi’ più liberamente con la platea nazionale con furiosi discorsi».
Erano insomma atteggiamenti che nei discorsi di Grandi e di Mussolini, spesso contraddittori, procurarono a Grandi nelle sue caute azioni diplomatiche all’estero qualche imbarazzo e Grandi non mancò di lamentarsi, ma per sentirsi rispondere «ma che t’importa di quello che dico alle mie folle, ti ho fatto appunto ministro agli esteri, per poter parlare qui proprio come mi piace».
In effetti Grandi stava facendo all’estero grandi cose con abilità e con una grande arte diplomatica sottile, da anni bistrattata dalle altre nazioni, perché frammentaria, improvvisata, per nulla oculata. I rapporti che impostò Grandi tra gli Stati esteri erano ottimi e prescindevano dalla considerazione dei regimi. Basti pensare ai buoni rapporti costruttivi italo-sovietici: seguirono infatti importanti accordi commerciali, quando Mussolini riconobbe il regime dell’URSS, come fecero del resto successivamente perfino gli Usa, anche per ripicca al protezionismo inglese.
L’obiettivo di Grandi fu di puntare al mantenimento e al consolidamento di una pace in Europa e fu molto realista: «Una guerra oggi fra le Nazioni d’Europa altro non si risolverebbe se non in una immane catastrofica guerra civile, in un vero e proprio tramonto e suicidio del nostro vecchio e glorioso continente».
Inoltre fu realista sull’Italia bellica e sull’Italia politica: «Il Paese era ricco di uomini, ma è povero di risorse, e non può permettersi il lusso di competere con le grandi potenze sulla preparazione bellica». E andava dicendo in giro: «Bisogna impegnarsi coraggiosamente in una politica di pace, volta al disarmo e alla collaborazione internazionale. L’Italia può conquistare un suo ruolo specifico e decisivo nel contesto europeo e porre così le condizioni per far valere le proprie ‘storiche’ rivendicazioni...(...) fino a condizionare la politica estera italiana non soltanto in Africa o sul Mar Rosso, ma anche su un più vasto terreno internazionale, in Europa e nei rapporti intercorrenti con la Francia e l’Inghilterra. Non dobbiamo parificarci nei loro confronti come grande potenza, né possiamo imporlo, ma creare le condizioni per arrivare a confrontarci questo lo possiamo fare. Il problema sarà quello di creare un ruolo stabile nel contesto internazionale, dobbiamo darci delle direttive di fondo e ispirarci all’azione. Una potrebbe essere quella di fare dell’Italia l’arbitro della situazione europea, l’ago della bilancia, pronto a spostarsi nell’uno o nell’altro campo a secondo del proprio interesse nazionale e dei vantaggi che potrebbe trarne». Mai nessun ministro degli esteri scrisse cose così tanto sensate; e nella sua relazione sempre.
Il 2 ottobre 1930, Grandi fu ancora più esplicito, preveggente e concreto: «La Nazione italiana non è ancora abbastanza potente, politicamente, militarmente ed economicamente, da potersi considerare come una nazione protagonista della vita europea. Ma la Nazione italiana è già tuttavia abbastanza forte per costituire col suo apporto politico e militare il peso determinante alla vittoria dell’uno o dell’altro dei protagonisti del dramma europeo, che prima o dopo esploderà. Posizione quindi di forza e di prestigio, posizione aperta a tutte le possibilità nel futuro a condizione beninteso che l’Italia rimanga libera di scegliere il proprio posto in caso di conflitto a secondo di quelli che essa giudicherà al momento opportuno essere esclusivamente i suoi vitali interessi nazionali».
Quando poi Grandi partì per Ginevra alla riunione della Società delle Nazioni, il 31 agosto, scrisse un appunto a Mussolini, ancora più determinato, quasi cinico, citando proprio Machiavelli: «Il tempo lavora per noi. Noi saremo arbitri della guerra. Ma dobbiamo prendere più alta quota possibile nella politica continentale europea. Fare della diplomazia e dell’intrigo, applicare Machiavelli un po’ più di quello che non abbiamo fatto finora. Il Trattato di Locarno è un pezzo di carta inventato dalla democrazia, può diventare nelle nostre mani la biscia che morde il ciarlatano. Con tutti e contro tutti...»
Nell’ottobre del 1931 Grandi ripeterà le stesse cose al Gran Consiglio.
Eppure i vecchi nemici lo accusano di pacifismo e disarmo. Mentre Grandi cercò di mettere in difficoltà con la diplomazia la Francia che da tempo era arrogante si credeva egemone in Europa; addirittura credeva che la sicurezza europea dipendesse da essa, mentre Grandi non la volle subordinata, la sicurezza europea la volle tenere separata da quella della Francia. «Se riusciamo a far questo sarà la stessa Francia a cercare accordi con noi». Per questo che Grandi insistette sulla rivalutazione della Società delle Nazioni, mirando a farla diventare politicamente una comunità di eguali, misurandosi unicamente sul prestigio e sulla forza politica, l’unica cosa che poteva fare l’Italia del 1931.
Che cosa altro del resto avrebbe potuto fare? In un momento di grave crisi economica l’Italia mica poteva permettersi di spendere in armamenti. E sempre per la stessa crisi, chi avrebbe volontà di fare una politica di avventure come quella di attizzare un conflitto? Operando così non solo Grandi trovò l’appoggio degli Italiani pacifisti, ma spiazzò anche gli antifascisti, che accusavano il Fascismo di essere bellicista. Inoltre questa politica di Grandi stava rafforzando le buone relazioni con la Gran Bretagna. Non solo, ma gli stessi Stati Uniti, quando Grandi nel novembre del 1931 volò ad incontrare il presidente Hoover, ricevette molti apprezzamenti e la politica del Fascismo in Europa iniziò ad avere molto credito, che proseguì fino al 1938-39, nonostante l’Abissinia, la Spagna e l’Albania.
Sebbene Grandi operasse diplomaticamente con queste idee costruttive, la Francia non demorse, e anche se lo stesso Grandi smascherò a Londra la scarsa volontà della Francia al disarmo, ottenne alla fine solo una moratoria nella costruzione di nuove armi per un anno; ma il fastidio e le ostilità di fondo rimasero; e quel desiderio di vedere ridimensionata la potenza della Francia sembrò solo più una chimera irraggiungibile.
Nel 1931, stavano accadendo altre cose: le grandi potenze, non erano solo due, ma in fondo erano tre. Si era infatti affacciata sulla scena europea la terza potenza, con l’esasperato nazionalismo di Hitler, con le sue durissime tesi revisionistiche e con le sue richieste di annullamento delle riparazioni di guerra. Hitler stava iniziando a scalare il potere con quegli slogan che i tedeschi volevano sentirsi dire e far ritornare ai francesi la paura della guerra 1915-18. I Tedeschi non dimenticavano come si era conclusa né le umiliazioni subite dai tedeschi a Versailles e a Coimpegne.
Vista l’inutile opera di Grandi, quando l’Italia fascista e non fascista, anche se con meno umiliazioni e meno debiti di guerra, iniziò, con il mal comune, ad avvicinarsi alla nuova politica della Germania nazional-socialista, lo stesso Grandi corse a Berlino, a fine ottobre 1931, cercando qualche intesa per intimorire maggiormente l’arrogante Francia. Una visita che non solo allarmò di più la Francia, ma indispose anche le altre nazioni, che si chiedevano che gioco facesse l’Italia. Grandi sembra salvarsi (Balbo lo accusò che lo fece per tornare in Italia a prendere applausi) quando alla conferenza del disarmo, nell’aprile del 1932, accettò il piano varato dagli USA per la riduzione degli armamenti in tutte indistintamente le sue parti.
Grandi in questa accettazione commise un gravissimo errore: fece riavvicinare la politica anglo-francese che così portò ad escludere il suo progetto dell’Italia arbitro della situazione e ago della bilancia. Sfumava inoltre quella eventuale intesa Italia-Francia che secondo Grandi avrebbe facilitato il via libera all’espansione coloniale; inoltre ciò che gli fu maggiormente rimproverato fu di non essere riuscito ad impedire il pasticcio, che scaturì dall’accordo anglo-francese.
Ma le cose si complicarono e lasciarono tanto amaro in bocca agli italiani, quando nel successivo luglio ritornò sul tavolo alla conferenza di Losanna il grave problema delle riparazioni e dei debiti della Germania. E anche dei debiti che aveva l’Italia: fu deciso di dare un colpo di spugna sulle riparazioni tedesche, ma non sui debiti, che per l’Italia era la questione più pressante. "Hanno ricevuto i soldi i vincitori? e allora che paghino!" questa la lapidaria affermazione di un segretario di Stato Usa (ma qualcuno dice del Presidente).
Qui non è solo Mussolini ad essere amareggiato, ma tutti gli italiani.
Nel 1931, l’Italia aveva ancora debiti, per altri 57 anni. Un cappio al collo sulla sua economia in ripresa, ma svilita dai debiti fino al 1988, cioè fino ai pronipoti di chi aveva combattuto e vinto, e non perso la Grande Guerra.
I due Paesi creditori furono implorati con l’invito a rinunciare a queste esazioni, per poter conservare la pace economica, politica e soprattutto sociale dell’intera Europa. Non ci fu nulla da fare e ci fu la rottura per la forte opposizione degli Usa.
L’Europa rimase quasi in ginocchio, ma la Germania stava ancora peggio. Mussolini si sfogò il 12 gennaio su “Il Popolo d’Italia”: «... la struttura economica e sociale dell’Europa si avvicina al precipizio; la cruda verità è che se le cose vanno avanti così come stanno andando, la scelta è semplicemente fra il ripudio dei debiti ed il caos. Invece di una libera partecipazione con uomini e mezzi alla causa, gli alleati hanno tracciato la più strana, illogica, antistorica distinzione. Quando un proiettile americano è stato sparato da un artigliere americano, con un cannone americano, gli Stati Uniti non hanno imposto agli alleati di pagare né l’uomo, né il costo del proiettile. Ma quando il proiettile americano è stato sparato da soldati alleati per il medesimo scopo, per la causa comune, nello stesso comune interesse... questo ha creato un debito in oro da pagarsi agli Stati Uniti. Mai prima d’ora nella storia era stato mai così ingiustamente applicato. Il giusto messaggio che tutto il mondo aspetta è: "Rimetti i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori"».
Per Grandi fu insomma un clamoroso fallimento di tutta la sua politica. Ora c’era la Francia che accelerava spasmodicamente il suo riarmo contro la Germania, e contemporaneamente la Germania mobilitava con il fanatismo tutte le sue risorse umane ed economiche per prepararsi alla rivincita con la Francia mentre la stessa Inghilterra subdolamente le diede qualche aiuto.
La politica estera italiana, ripresa in mano da Mussolini che assunse personalmente anche quel dicastero (la procedura di revoca fu eseguita tutta a bordo di un bigliettino che diceva fra l’altro: «Domattina alle otto verrò a prendere le consegne») vide la conclusione del revisionismo pacifico ed il definitivo distacco dalle tradizioni della diplomazia.
Il 20 luglio Mussolini destituì Grandi da Ministro degli Esteri, assumendo egli la carica, ma non fu solo Mussolini a ribaltare la politica estera "non ideologica" di Grandi, ma il rancore si impossessò di tutto l’establishment fascista che iniziò a camminare in parallelo con il nazional-Socialismo hitleriano, che andava dicendo le stesse cose.
Perfino Italo Balbo sul “Popolo d’Italia” si scagliò contro Grandi, firmando un articolo che in parte – per la troppa durezza – causò Mussolini, ma che comunque scatenò una violenta reazione di Grandi. Mussolini fu costretto a scendere in campo a far da paciere fra i due e a smorzare i toni da bettole.
Balbo dileggiò e profondamente il già ferito Grandi, dandogli dello zimbello in cerca di applausi, e Grandi invece, lamentandosi con Mussolini lo definì un «vigliacco, e so quello che dico, al momento buono ti dirò di più. C’è tempo per tutto».
Mussolini stava guardando con interesse la Germania, che secondo lui apriva nuove possibilità di manovra all’Italia. E non fece altro che applicare la stessa teoria di Grandi, ma invece di attuarla con la Francia-Gran Bretagna, tentò ora di realizzarla con la Germania, voleva fare lui dell’Italia l’"ago della bilancia" fra Francia e Germania. Ma non fece solo questo, ma cercò di minare l’accordo tra Francia e la Gran Bretagna e con quest’ultima cercò di fare delle intese e Mussolini mandò in Inghilterra a fare questo machiavellico gioco proprio Grandi, che nominò ambasciatore. A Londra Grandi avrebbe potuto meditare con calma sul contrasto fra la sua linea metodica e prudente, condivisa con Bottai, e la linea drastica del capo del regime.
E Londra fu la sua grande occasione, non sprecata. Qui si fece apprezzare anche dai politici inglesi, dei quali ne conobbe molti e con molti fu in rapporti di viva cordialità. Seguì da vicino le fasi di avvicinamento di Churchill all’Italia e caldeggiò taluni atteggiamenti pubblici del premier, di ottima simpatia verso l’Italia, poi rinnegati dallo stesso: sostenitore di una politica di concertazione con la Gran Bretagna, nel luglio stesso del 1932 andò a Londra dove restò per sette anni, mantenendo ottimi rapporti con gli inglesi, alternandosi fra la mondanità e la politica.
Sette anni nonostante l’impresa dell’Italia in Etiopia, nonostante le ‘Sanzioni’ all’Italia proposte proprio dagli inglesi, nonostante la Spagna, nonostante la creazione dell’Asse, nonostante il Patto d’Acciaio. A Londra, Grandi sembrava non preoccuparsi di nulla; fece la bella vita nei salotti; Mussolini ogni tanto gli aumentava il già congruo stipendio e mantenne ottimi rapporti con lui; ed il Re gli fece pervenire anche il titolo di Conte di Mordano per non farlo sfigurare – essendo di natali umili – in mezzo alla nobiltà londinese, dove egli fu sempre presente. Con le imprese mussoliniane sull’Etiopia, sull’Albania, e perfino nelle piccole cose, Grandi dimostrò di essere un entusiasta; scrisse a Mussolini in ogni momento per dirgli «...bravo; ...fai camminare la rivoluzione col moto fatale e spietato; ...mi hai elettrizzato lo spirito; ...devi essere soddisfatto come l’Italia risponde al tuo ordine di marcia; ...non faccio dell’isterico entusiasmo ma dico le cose come sono; ...Starace sta facendo cose straordinarie con la rivoluzione del costume e con il potente strumento della pedagogia fascista; ...i Romani avrebbero chiamato questo il tempo della Fortuna Virile».
Nell’aprile 1938, Grandi fu tra i principali artefici dell’accordo anglo-italiano. Grandi visse tranquillo fino al 1939. Mussolini aveva fatto con Hitler il patto d’Acciaio. La diplomazia britannica girava nelle varie ambasciate d’Europa: in Germania, in Russia, in Francia, in Italia. Grandi da Londra all’improvviso fu richiamato da Mussolini in Italia in luglio e Mussolini gli affidò la carica di Guardasigilli. Grandi ci restò male, voleva rifiutare, poi disse che aveva accettato su insistenza del Re. Grandi divenne anche presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Il 27 marzo del 1939, quando varò come Guardasigilli i Codici Fascisti, Grandi scrisse a Mussolini: «Ti sono profondamente grato; sono uno degli italiani nuovi che tu sbalzi a martellate. Questo vogliono la mia vita, la mia fede, il mio spirito, che da 25 anni sono tuoi, del mio Mussolini».
A settembre Hitler invase la Polonia; Grandi temette che l’Italia, a causa di una clausola capestro del patto d’Acciaio, intervenisse a fianco della Germania. Dissuase Mussolini a farlo ed apprezzò la sua decisione della non belligeranza.
Poi alla dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra, fu il giorno dell’attacco alla Francia, Grandi pronunciò alla camera un discorso dai toni aggressivi. Il neutrale ora si è schierato, come del resto avevano fatto un po’ tutti nell’ora fatale.
Quando Mussolini poi aprì il fronte greco, anche Grandi fu costretto a mettersi in divisa e partire per ‘l’avventura’: nel novembre del 1940, egli fu inviato sul fronte greco E fu proprio un’amara avventura: egli, infatti, così mondano, abituato a muoversi nei salotti dei nobili di Londra, non solo provò con i piedi in mezzo al fango a calpestare il fango di una ritirata, ma fu costretto a prendere atto di una totale impreparazione militare non solo di mezzi, di vedere nei comandi tanta superficialità e di tante accuse reciproche (quelle di Farinacci contro Badoglio e con quest’ultimo silurato e meditò vendette), avvertendo la crisi di regime, e raccontò successivamente di avere già abbozzato il famoso ordine del giorno del 25 luglio 1943; quando con la fronda più estrema (Re, Badoglio, Di Bono, Ciano ecc.) provocherà la caduta del Mussolini.
Intelligente com’era, Grandi forse fu l’unico a rendersi conto della gravità della situazione e questa volta senza tanto machiavellismo – i fatti sono quelli, piuttosto chiari – dirà in seguito, che egli già aveva visto in quel fango greco la crisi del regime e di aver abbozzato proprio allora il famoso ordine del giorno che tenne in tasca fino al 25 luglio 1943. Nell’aprile del 1941 i nazisti, chiamati in aiuto salvarono la situazione in Grecia e tolsero dal pantano Mussolini.
Grandi rientrò a Roma: ne aveva viste tante in sei mesi dall’impreparazione italiana all’arroganza tedesca, dalla liquidazione di Badoglio come capro espiatorio, che pur avendo tante responsabilità non era il colpevole. Forse con proprio con Badoglio iniziò a covare vendetta ed a riunire la vecchia fronda, con Badoglio che andava ad esprimere tante perplessità al Re, che però fu impenetrabile o perché fu ancora troppo presto; i drammi seri, i bombardamenti americani e gli sbarchi in Sicilia, dovevano infatti ancora iniziare.
Nel 1941, amante delle vie tortuose, come lo definì Bottai, Grandi si guadagnò la fiducia di Casa Savoia ed in particolare di Vittorio Emanuele III, ottenendo il ‘Collare dell’Annunziata’, con la conseguenza di diventare «cugino del Re».
Il 22 giugno del 1941 ci fu l’invasione tedesca alla Russia e dall’avventura si passò al dramma. Grandi decise di dedicarsi al suo compito di Ministro della Giustizia: in tale veste, avvalendosi della collaborazione dei maggiori esperti di diritto procedette alla riforma dei codici di Procedura Civile, del Codice di Navigazione e del Codice Civile, nonché della Legge fallimentare, dell’ordinamento giudiziario e di altre norme speciali, impegno ultimato brillantemente nel 1942: contrario alle leggi razziali fin dal 1938, ottenne che non fossero inserite nel Codice Civile, ma che restassero nella legislazione transitoria ordinaria. Si deve dunque a Grandi l’ultimazione della codificazione, con l’entrata in vigore nel 1942 del codice civile del codice di procedura civile e del codice della navigazione. Seguì in prima persona le fasi finali della codificazione, avvalendosi di giuristi di altissimo livello, molti dei quali, come Piero Calamandrei e Francesco Messineo, notoriamente antifascisti.
Nella vita di partito Grandi seppe far fruttare le posizioni raggiunte all’epoca dello scontro con Mussolini, ma pian piano si creò numerosi detrattori fra quei gerarchi dei quali non condivideva la rozzezza o la stupidità.
L’elevatissimo livello delle sue relazioni internazionali, lo condusse ad un distacco quasi anglosassone e certamente snob verso la popolaresca classe politica italiana. Il suo disprezzo, ad esempio, verso Achille Starace, segretario nazionale del PNF ed autore delle campagne di immagine più goffe e più irritanti, come quella sulla italianizzazione dei cognomi, del quale diceva che non fosse in fondo cattivo, ma che era «un pover’uomo», lo mise ancora una volta in contrasto con Mussolini che, a sua volta, per difenderlo e per difendere la sua scelta, epigraficamente definì Starace come «un cretino, sì, ma obbediente». Il contrasto con Starace, di modi, di concetti e di stili, oltre che la differenza di capacità e di potenzialità di pensiero, simbolizza vividamente la distanza di Grandi dal mondo in orbace. Egli stesso disse di sé, parlando con Ciano nel 1942: «Non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista durante vent’anni». E del suo rapporto con Mussolini, e della sua supposta insubordinazione, scrisse note nelle quali, con artifici della retorica, giunse a spiegare che la fedeltà non è sinonimo di obbedienza, a giustificare le sue originali prese di posizione politiche.
Nel 1942, Grandi si rese conto che la guerra non poteva essere vinta. Un anno dopo l’Italia rimase in ginocchio e Mussolini, rassegnato e abulico. L’unico punto di riferimento restava, dunque, il re Vittorio Emanuele III di Savoia. Per salvare il Fascismo, Grandi cominciò a pensare ad un’uscita dell’Italia dalla guerra, attraverso una semplice destituzione di Mussolini. Dino Grandi, presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, si recò in visita al re, al quale espose i suoi timori per la gravità della situazione e la necessità di un intervento della Corona. Il re tuttavia fu ancora titubante sul da farsi, ma invitò Grandi ad avere fiducia ed a «fare di tutto per mettere in moto la macchina del Gran Consiglio».
L’episodio della seduta del Gran Consiglio è passato alla storia come la Congiura delle barbette: occorre ricordare che già nel 1939, dalla fine di luglio al 19 agosto, fu messo in atto un tentativo per evitare la catastrofe dell’implicazione italiana nel conflitto che ebbe per protagonisti Dino Grandi ed il Principe Umberto di Savoia. La rivelazione dell’episodio proviene da un giornalista americano, Frank Stevens, che il 10 ottobre 1939 scrisse per "El Tiempo", una corrispondenza dall’Italia in cui, esaminando la situazione politica del nostro Paese, dava notizia di una congiura "delle barbette" che, facendo perno su Grandi e su Balbo, mirava a provocare un voto di sfiducia nel Gran Consiglio fascista, per consentire al Re di destituire Mussolini e di formare un nuovo governo presieduto dal maresciallo Badoglio e formato da personalità ostili al Fascismo o da fascisti di tendenza antitedesca. I generali Badoglio ed Ambrosio già da tempo lavoravano per sganciare l’Italia dalla Germania. Badoglio avrebbe agito quasi un anno prima, se avesse avuto un solido aiuto dagli inglesi e un consenso deciso del Re. Liquidato Mussolini, l’Italia avrebbe denunciato il Patto d’acciaio e rinsaldato i legami con la Francia e con l’Inghilterra. Il Principe Umberto, protagonista del complotto, si sarebbe adoperato per mandare in porto l’operazione e avrebbe avuto tre incontri con il Papa Pio XII Pacelli, al quale avrebbe chiesto consiglio e sostegno.
Scrisse Stevens: «Umberto si è recato in tutta segretezza dal Pontefice. Il cardinale Maglione lo ha introdotto nelle stanze private di Pio XII. Il Principe ha uno sguardo triste, preoccupato. È latore di una proposta audace. L’Imperatore e Re suo padre è disposto a rinunciare al trono in favore del figlio se questo gesto e le sue ripercussioni possono permettere al nuovo sovrano di liberare l’Italia dalla degradante obbedienza agli ordini di Berlino. Il Papa chiede due giorni per riflettere e allo scadere del secondo giorno Umberto riattraversa il cortile di San Damaso in Vaticano per conoscere il responso del capo della Chiesa. Pio XII parla a lungo, tristemente. Il Principe ascolta in silenzio. Quando Umberto lascia la biblioteca sa che il Papa teme, non per lui ma per il Paese, che un così radicale mutamento sconvolga la situazione interna, conduca a una guerra civile e favorisca l’avvento di un razzismo pagano».
Senza l’appoggio del Papa il "golpe" non avvenne. La fonte americana fu avvalorata nel 1966 da Cascais dallo stesso Umberto II, che ammise l’intenzione, maturata nel 1939, e concretamente condotta a termine solo il 25 luglio 1943, di provocare un voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo, per mettere in minoranza Mussolini e per chiederne le dimissioni.
Resta da capire l’atteggiamento contrario del Papa al tentativo di destituzione di Mussolini: Pio XII Pacelli era ostile a Hitler e al suo regime, che esaltava i valori pagani. Probabilmente il Papa, nella sua valutazione negativa, aveva anteposto all’avversione per il dittatore nazista il timore di peggiorare la situazione, provocando le sue violente ritorsioni contro l’intero popolo italiano.
La stessa nomina di Ambrosio alla guida dello SM dell’esercito all’inizio del 1943 rappresentava un avvicinamento di Mussolini al ripristino dell’autorità suprema del Re.
Sulla posizione di Grandi si è ipotizzato che l’eterno antagonismo con Mussolini, risultato di un lento strisciante rancore che aveva accompagnato le loro carriere fin dal 1914, fosse giunto a suscitargli un cupio dissolvi che, nonostante la raggiunta freddezza di modi, egli avesse comunque preservato il furore della vendetta e l’ambizione alla vittoria finale sull’avversario. Ma lo spessore dell’uomo e la sua esperienza internazionale fanno credere invece che le note dei suoi diari siano espressione di una convinzione politica e morale, la cui distanza dalle visioni ed esperienze mussoliniane erano la vera causa del loro antagonismo.
Elemento scatenante avrebbe potuto essere il generale rimpasto delle più alte cariche dello Stato voluto da Mussolini nella prima parte del 1943. D’altro canto, il convulso giro di rapporti fra monsignor Montini ed il Re, anche tramite la nuora Maria Josè, Galeazzo Ciano e gli anglo-americani, ha lasciato sempre il sospetto che il Vaticano abbia avuto un ruolo più vasto di quello di spettatore. Ciano, genero di Mussolini e cugino del Re, per averne ricevuto il Collare dell’Annunziata, buon amico di Montini, era con Bottai e Grandi il terzo e più inatteso promotore della mozione di sfiducia.
Il piano scattò nella seconda parte dell’anno, ma fu pensato poco dopo il rimpasto. L’azione fu certamente concordata con Vittorio Emanuele III. La data di maggio dei diari di Grandi delinea un tempo di maturazione della decisione rilevante che, date le sue relazioni, avrebbe potuto consentire una lunga elaborazione, certo gradita alla lenta tradizione sabauda. Grandi espose il suo piano al Re il 4 giugno, in occasione di un’udienza privata. Grandi ricorda: «Vittorio Emanuele prese atto della mia richiesta e, conoscendo l’impossibilità di convocare le Camere, per la prima volta accennò al Gran Consiglio come possibile "surrogato"»
Paolo Di Nello ricorda le parole del Re: «Mi dia un voto del Gran Consiglio del Fascismo che mi offra un pretesto costituzionale per dimissionare Mussolini».
Il piano comprendeva anche l’arresto di Mussolini, che sarebbe stato condotto in un luogo sicuro, protetto da Carabinieri e Polizia, dopo di che, senza alcun commento, il nuovo governo avrebbe dato notizia delle sue dimissioni. Il Re avrebbe sostenuto Grandi nel suo tentativo e l’avrebbe incoraggiato, lasciandogli credere che il governo sarebbe stato affidato allo stimato generale Caviglia (invece a metà luglio il re decise di affidare l’incarico al Maresciallo Pietro Badoglio, gradito nelle alte sfere militari e appartenente alla massoneria).
Grandi, uscendo dal colloquio col re, pensò già a cosa fare dopo l’esautorazione di Mussolini: «[…] bisognava separarsi dalla Germania, scendere a combatterla senza indugio prima che l’inevitabile vendetta potesse prendere sostanza e, nello stesso tempo prendere i contatti con gli anglo-americani chiedendo loro di rinunciare [ad imporre] la resa incondizionata, in quanto l’Italia già aveva rivolto le armi contro il nemico comune»
Grandi ritornò a Bologna, dove rimase per oltre un mese e mezzo, nonostante fosse presidente della Camera, mantenendo il segreto sul colloquio con il re ed attendendo l’evolversi della situazione.
Il 15 luglio a Grandi giunse la notizia che gli anglo-americani avevano preso Augusta e Siracusa, il 18 luglio, Grandi seppe che il 16 luglio i gerarchi avevano chiesto a Mussolini l’urgente convocazione del Gran Consiglio. Il 19 luglio, Grandi partì per Roma, mentre Mussolini, quel stesso giorno, aveva un inconcludente colloquio con Hitler presso Feltre. Il 21 Grandi si recò nella sede del PNF dove seppe che Mussolini, dopo essere tornato da Feltre, aveva accolto la richiesta di convocazione del Gran Consiglio ed aveva fissato la data per il 25 luglio. Nei tre giorni che rimanevano, Grandi iniziò a contattare i membri dell’assemblea e chiese il loro appoggio all’ordine del giorno, che intendeva presentare. La mattina del 23 Grandi informò Mussolini del suo ordine del giorno e di che cosa avrebbe detto. Mussolini ascoltò senza batter ciglio. «Il mattino del 22 luglio, a casa di Bottai, incontravo Ciano il quale aveva domandato insistentemente di partecipare alla nostra azione. Feci presente a Ciano la sua posizione delicata di genero di Mussolini. Ciano rispose: "Perché non mi volete? Se mio padre fosse vivo sarebbe con voi". Egli avrebbe parlato in Gran Consiglio sul tradimento tedesco.
A questo punto si fece vivo in me il desiderio di conferire col Mussolini prima della riunione del Gran Consiglio. Domandai di essere ricevuto. L’udienza fu fissata per le ore 17 del 22 luglio.
Nell’anticamera della sala del Mappamondo incontrai il maresciallo Kesserling per il quale il Duce aveva riservato un colloquio di un’ora. Per me 15 minuti. Il mio colloquio col Duce sarebbe durato invece un’ora e un quarto. Mentre io parlavo, anticipando a Mussolini quello che avrei detto in Gran Consiglio, mi accorsi che aveva sotto gli occhi il testo del mio ordine del giorno, evidentemente trasmessogli dal segretario del partito. Nessuna ambiguità, nessun infingimento. Il Duce doveva sapere, primo fra tutti, le ragioni e lo scopo della nostra azione. Ricordo le parole esatte che il Duce, pacatamente, disse prima di congedarmi. "Hai finito?" mi domandò glacialmente. "Ho finito". "Ebbene sappi - replicò - alcune cose che dovrai ben fissarti in mente e sulle quali ti invito a meditare quando sarai uscito di qua: 1. La guerra è ben lungi dall’essere perduta; avvenimenti straordinari si verificheranno fra poco nel campo politico e militare, tali da capovolgere interamente le sorti della guerra. Germania e Russia si accorderanno, l’Inghilterra sarà distrutta. 2. Io non cedo i poteri a nessuno; il Fascismo è forte, la nazione è con me, io sono il capo, mi hanno obbedito e mi obbediranno. 3. C’è, è vero, molto disfattismo in giro, fuori e dentro il regime, ma esso sarà curato a dovere come si merita, non appena io giudicherò che sarà venuto il momento. 4. Per tutto il resto, arrivederci dopo domani in Gran Consiglio. Puoi andare". [...] Uscii triste da Palazzo Venezia. Non restava che andare diritti in fondo»
I gerarchi contattati a Grandi espressero il loro appoggio, ma Grandi riuscì a parlare solo con la metà dei componenti del Gran Consiglio. Tutto quindi sarebbe dipeso dall’esito della discussione a Palazzo Venezia.
Secondo l’avvocato Odoardo Ascari, non si può parlare di una congiura e gli intransigenti nella seduta del 25 luglio del Gran Consiglio erano con Grandi, sorpreso nel vedere al suo fianco perfino gli intransigenti del Fascismo, segno che ormai neanche essi avevano più fiducia nel regime mussoliniano. Non si può neppure parlare di complotto perché Grandi, tre giorni prima della seduta mostrò a Mussolini il testo dell’ordine del giorno.
Il 25 luglio 1943, Grandi fu l’estensore dell’ordine del giorno, che provocò la caduta di Mussolini. Il suo voto fu infatti decisivo e la sua opera di persuasione nei confronti degli altri membri del Gran Consiglio del Fascismo fu essenziale. Da tempo, insieme a Giuseppe Bottai e Galeazzo Ciano, Grandi riteneva che una via d’uscita per evitare la disfatta militare dell’Italia avrebbe potuto sortire soltanto dalla sostituzione (ovvero dalla deposizione) del Mussolini, che nella parossistica identificazione personale con il Regime (Fascismo = Mussolini, e viceversa) aveva condotto, a loro vedere, l’idea fascista originaria ad essere condizionata e compromessa dai suoi errori. In sostanza, gli sbagli di Mussolini avevano posto in pregiudizio la sopravvivenza stessa del Fascismo, e se non si trovava una soluzione, entrambi sarebbero destinati a perire. Conveniva piuttosto sacrificare il capo, e con esso tutto il regime, pur di consentire potenziali aperture per una successiva eventuale riformulazione, che non attendere gli eventi, che avrebbero portato probabilmente al disfacimento del regime.
Le posizioni di Grandi, di Ciano e di Bottai, comunque, erano lievemente differenti.
Grandi aveva scritto nei suoi diari, un paio di mesi prima del 25 luglio: «Siamo noi che, indipendentemente dal nemico, dobbiamo dimostrarci capaci di riconquistare le nostre perdute libertà. ... Mussolini, la dittatura, il Fascismo, debbono sacrificarsi, ... debbono "suicidarsi" dimostrando con questo loro sacrificio il loro amore per la Nazione...»
Se Grandi considerava ormai finita l’esperienza fascista e riteneva quasi un «dovere fascista» il suicidio politico, Bottai attribuiva a Mussolini la responsabilità unica delle deviazioni e confidava che il Fascismo (o forse l’altamente ideale concezione che ne nutriva) potesse presto risplendere di luce nuova appena caduto il suo discusso capo; Ciano, invece, pragmaticamente vedeva davanti a sé una soluzione «all’italiana»: Mussolini, disse al suo interlocutore, «se ne andrà e noi in qualche modo ci aggiusteremo». E previde anche le prossime attribuzioni di alcuni ministeri. E, per rendere un servigio più completo, già che c’era gli previde anche i rimpasti «poi ci si scambierà i posti».
Prima che queste trame venissero a conclusione, alcuni gerarchi del Gran Consiglio del Fascismo sconfessarono Mussolini e chiesero al Re, con una mozione di sfiducia a Mussolini, preparata da Dino Grandi e da Galeazzo Ciano, di destituire il Duce: il brano di Richard Collier, tratto da Il crollo del fascismo, narra la drammatica seduta del Gran Consiglio ed il suo drammatico svolgimento.
«Palazzo Venezia – scrive Grandi nelle sue memorie – il cortile, lo scalone, l’anticamera della sala dove si riunisce il Gran Consiglio è presidiato [il che non è mai accaduto] da reparti della milizia fascista in pieno assetto di guerra.»
La riunione del Gran Consiglio che segnò la fine del regime fascista fu aperta da una relazione sulla situazione militare di Mussolini, che concluse che era essenziale continuare la guerra a fianco della Germania.
Dopo alcuni interventi, Grandi legge l’ordine del giorno da lui presentato, che invita il Capo del Governo a rimettere nelle mani del re tutte le sue cariche e che il sovrano assuma il comando delle forze armate e l’iniziativa di decisione politica.
«Ora o mai, disse Grandi (andò alla riunione con due bombe a mano in tasca [n.d.r.]) fra sé. Si alzò. Le sue prime parole furono ponderate per infondere coraggio negli irresoluti: avrebbe dimostrato, sperava, che un uomo poteva dire a Mussolini la cruda verità e tuttavia sopravvivere.
«Non parlo per il Duce, ma per voi, camerati del Gran Consiglio, perché non faccio che ripetere quello che già dissi al Duce or sono quarantott’ore».
Distolse gli occhi da Mussolini, si protese tutto verso i colleghi guardandoli intensamente. Incominciò a leggere la sua mozione fissandoli di quando in quando; a molti la cosa risultava completamente nuova.
Finita la lettura, con voce fredda e modulata, si buttò a capofitto. La dittatura - disse - non la debolezza dell’Esercito era responsabile della situazione italiana.
«Il Popolo italiano è stato tradito da Mussolini il giorno in cui egli cominciò a germanizzare l’Italia. Questo è l’uomo che ci ha trascinato nelle braccia di Hitler. Ci ha costretti a una guerra che è contro l’onore, gli interessi, i sentimenti del Popolo italiano! »
Nel salone l’aria era greve come in una camera ardente. Mussolini sedeva inerte, appoggiato di fianco sul bracciolo sinistro della poltrona quasi a meglio distanziarsi da Grandi, la mano a proteggere gli occhi dalla luce viva della lampada da tavolo. Carlo Scorza, che gli era accanto, vide il suo ginocchio sinistro sobbalzare come al ritmo di un polso: era un indizio certo che l’ulcera lo tormentava. Ciascuno dei presenti poteva sentire, oltre al proprio, l’acuto disagio di lui. I tendaggi di velluto azzurro trattenevano l’aria notturna e non vi erano ventilatori. Si respirava appena. Il generale Enzo Galbiati smaniava all’attacco di Grandi, sentiva la camicia nera madida di sudore. A Giovanni Balella la notte del Gran Consiglio avrebbe sempre ricordato il supplizio degli stivali tanto stretti da tagliare il collo del piede. A un tratto, con un grido soffocato, Carlo Pareschi svenne. Qualcuno lo portò nell’anticamera; altri, trascinati dalle parole di Grandi, non gli prestarono neppure attenzione.
Grandi fissò in volto Mussolini puntando l’indice contro di lui; era come se i due uomini fossero soli, faccia a faccia su vent’anni di vita come su un abisso, mentre Grandi faceva sul regime la requisitoria di un pubblico accusatore.
«Voi credete di avere la devozione del popolo! — disse con impeto amaro. — Voi l’avete perduta il giorno in cui avete legato l’Italia alla Germania. Avete soffocato la personalità di ciascuno sotto il mantello di una dittatura storica e perenne. Voi vi credete un soldato. Lasciate che vi dica che l’Italia fu perduta il giorno stesso nel quale metteste i galloni di maresciallo sul berretto!».
Con un rimescolio di compassione e di rabbia, Grandi alzò la voce: «Strappati quella ridicola greca da Maresciallo e torna ad essere quello che eri: il nostro Mussolini, il Mussolini che abbiamo obbedito eseguito!».
«Il popolo è con me!», proruppe il Duce con ira. Erano le sue prime parole dall’inizio della requisitoria.
Grandi, cosciente di non poter transigere, attaccò di nuovo a fondo: «Nella passata guerra seicentomila madri italiane piansero la morte dei loro figli, ma esse sapevano che erano morti per il loro Re e per il loro Paese. In questa guerra noi abbiamo avuto finora centomila morti e abbiamo centomila madri che gridano “Mussolini ha assassinato mio figlio”».
«Non è vero! — urlò Mussolini con tutta la sua voce. — Non è vero! »
Grandi, sedendosi finalmente, dopo un’ora, gli rilanciò le parole che egli stesso aveva detto nel 1924, quando ancora cercava un accordo con i socialisti: «Periscano tutte le fazioni, anche la nostra, purché sia salva la Patria».
Ormai gli animi erano surriscaldati. Parlò Bottai, sulle prime con il tono pacato e sarcastico, che Mussolini detestava, ma ben presto accalorandosi, rosso in volto, battendo il pugno sul tavolo.
«Il vostro rapporto è stato un colpo mortale alle nostre ultime illusioni e speranze», disse rivolto a Mussolini.
I fedeli al Duce trattennero il fiato attendendo da lui una risposta che non venne. Si levò Ciano, parlò logico, con calma, elencando a uno a uno i tradimenti che Hitler aveva fatto costantemente seguire al Patto d’Acciaio.
«Noi non saremmo, in ogni caso, dei traditori, ma dei traditi», concluse.
Mussolini fissò suo genero con disgusto gelido.
«So dov’è il traditore! », disse, la voce carica di minaccia.
Parlò Farinacci, ringhioso e aggressivo. Difese la dittatura, propose una sua soluzione: la completa attuazione delle disposizioni di Feltre, che i Tedeschi subentrassero nel comando supremo delle Forze italiane.
Soltanto Giovanni Mannelli sedeva immobile, la mano all’orecchio, evidentemente senza sentire una parola.
Per il generale Galbiati le cose erano andate al di là di ogni limite. Era chiaro che Mussolini aveva toccato il fondo delle sue forze. Fece un cenno a Scorza, seduto in diagonale a lui e il segretario del Partito, comprendendolo, scribacchiò un appunto e lo passò a Duce.
«Alcuni camerati, data l’ora tarda, chiedono che la seduta venga rinviata a domani», egli annunciò.
Grandi non cedette; fiutando una trappola, balzò in piedi con impeto; un campanello d’allarme squillò alla mente di Scorza.
«No, no! Quando si trattò di discutere la Carta del Lavoro, ci avete trattenuti qui fino alle sette del mattino — argomentò Grandi. — Adesso che si tratta della vita della Patria possiamo rimanere a discutere, se occorre, una settimana. I nostri soldati stanno morendo mentre noi parliamo!»
«Sta bene, continuiamo pure», rispose Mussolini con un gesto di stanchezza.
Ascoltò Federzoni e poi Bignardi che sostenevano Grandi; improvvisamente impose una pausa di quindici minuti e si ritirò nel suo studio.
A pochi isolati, in piazza Colonna, battevano al comando generale del Partito i rintocchi lenti e cupi della mezzanotte.
Nella sala adiacente, qualcuno bevve in fretta l’ultimo bicchiere di aranciata. Venticinque minuti dopo mezzanotte il Gran Consiglio si ricomponeva. Annio Bignardi quasi non credeva ai suoi occhi: nelle sette ore precedenti, la mozione di Grandi aveva avuto solo dieci sostenitori, ma in quel breve intervallo c’era stata «una vera pioggia di firme». Nemmeno i nuovi venuti, come Carlo Pareschi, che si era ripreso dal suo malore, tentennavano più. Due giorni prima, quando Bignardi lo aveva interpellato per la prima volta, il ministro dell’Agricoltura gli aveva risposto apertamente: «Le questioni politiche non interessano un ministero tecnico. Certo non firmerò».
Ma ora Pareschi, ferrarese e un tempo compagno e protetto di Balbo, si avvicinava frettolosamente all’ordine del giorno che giaceva sulla cartella di Grandi. Sgomento delle sonanti vacuità di Mussolini, disse a Bignardi, che gli era accanto: «Considerate la cosa a questo modo: io firmo per Balbo».
L’ultimo ad apporre la propria firma fu l’ambasciatore Dino Alfieri. Appena incominciato l’intervallo, il Duce lo aveva convocato d’autorità nella sala del Mappamondo. Nella penembra che il paralume della lampada lasciava sul tavolo, egli sorseggiava una tazza di latte zuccherato; con noncuranza aveva chiesto ad Alfieri:, « Che cosa succede in Germania?».
Dino Alfieri colse l’occasione per riaffermare quanto egli e il generale Ambrosio gli avevano già detto a Feltre: il Duce doveva fare un estremo tentativo per convincere Hitler a rendersi conto della situazione italiana.
«E siete voi, ambasciatore a Berlino, a dire ciò?», commentò freddamente Mussolini nel congedarlo.
Mentre Carlo Scorza entrava, Alfieri, perduta del tutto la pazienza, uscì e andò dritto verso Grandi. Risolutamente appose la sua firma, la ventunesima e ultima.
Nessuno più del generale Galbiati sentiva il pericolo. Durante l’intervallo il Capo di S.M. della Milizia era passato ansioso da una sala all’altra, cercando l’aiutante di campo che lo aveva accompagnato a palazzo Venezia. Ma era irreperibile; soltanto più tardi seppe che un Corpo speciale di polizia aveva isolato il palazzo. Vide solo gli uscieri con i colletti madidi di sudore, la paura negli occhi e pochi membri del Consiglio che gli volsero le spalle con fredda ostentazione. A un funzionario che passava, Galbiati — interpretando la paura che gli pareva di avvertire nei presenti — borbottò: «Qui se la fanno tutti addosso».
Nel riprendere il loro posto, Grandi e i suoi si chiedevano come si sarebbe difeso Mussolini. Il maresciallo De Bono, dal canto suo, era convinto che il Duce nell’intervallo avesse chiamato la Milizia. Una cosa era certa: avrebbe usato tutta la sua astuzia, tutta la sua abilità di attore per riprendere il suo ascendente su di loro.
Mussolini incominciò a parlare, lentamente, senza sfumature di tono, con argomenti patetici.
«Pare che vi sia qualcuno qui dentro che amerebbe sbarazzarsi di me», disse con tristezza. Riconobbe la sua piena responsabilità nella guerra, parlò del suo lavoro di vent’anni, confessò per la prima volta di averne sessanta e che non escludeva di «prendere persine in considerazione, date le circostanze, la possibilità di mettere fine a quella magnifica avventura».
A questo punto alcuni provarono per un momento un senso di compassione. Per Luigi Federzoni il Duce era «il grande attore invecchiato che per la prima volta nella sua trionfale carriera non sapeva la parte e si impaperava». Annio Bignardi sentì amarezza e tristezza insieme: quello pareva un consiglio di famiglia radunato «per discutere il fallimento di un padre che non era più in grado di mantenerli». Guido Buffarini Guidi, creatura del Duce, ex sottosegretario agli Interni, pensò per assurdo a Cesare: «egli riceveva i colpi come se ferissero altri».
Ma a poco a poco il malanimo inveleniva le parole di Mussolini. Puntando da un volto all’altro, come la bacchetta di un maestro di scuola, la sua matita blu rivestita di cuoio di Firenze, insinuò una domanda: se vi era una frattura fra il Partito e il popolo italiano, non poteva dipendere dal fatto che molti gerarchi si erano arricchiti a spese altrui? Un sussulto, e la compassione divenne risentimento. Se il Duce era ben documentato, se poteva citare nomi ed esempi, perché non lo aveva fatto prima? Già egli proseguiva con l’aria di un bambino che propone un indovinello.
«Potrei comunicarvi una grande notizia relativa ad un importantissimo fatto che capovolgerà la situazione della guerra a favore dell’Asse. Ma preferisco non darvela per ora».
Grandi si accorse che egli andava lentamente riprendendo sicurezza in sé. Diceva infatti: «Ma non me ne andrò. Sia il Re che il popolo sono con me».
Quel diabolico bluff mozzò il fiato all’oppositore: Mussolini sapeva benissimo che Grandi non poteva compromettere la monarchia in quelle circostanze. Nessuno intervenne e il Duce attizzò il suo vantaggio: «Quando io parlerò al Re, domani, di questa seduta, egli mi dirà: “Qualcuno dei vostri vi abbandona. Ma io, il Re, sono con voi”».
I presenti incominciavano a vacillare. Grandi se ne rese conto. Il Duce ne approfittò prontamente.
«Non ho mai avuto un amico — disse giocando di nuovo sui loro timori — ma il Re è con me. Io mi domando che cosa sarà di coloro che si sono opposti a me stanotte».
Sorrise loro in uno strano modo, dominando le due ali del tavolo, cosciente che nessuno era in condizione di rispondere. Per un momento Grandi vide balenare la forza del Duce di un tempo e, turbato, lanciò uno sguardo ai colleghi. Su ogni volto lesse soltanto una completa rassegnazione.
« Il Duce ci ha fatto un ricatto, — disse — poiché ci ha invitati a scegliere tra la nostra antica fedeltà alla sua persona e la nostra devozione alla Patria. Ebbene, io gli rispondo che non possiamo esitare un solo istante quando si tratta della Patria! »
Carlo Scorza si alzò. Secondo le istruzioni ricevute da Mussolini durante l’intervallo, il segretario del Partito propose una terza soluzione, draconiana come quella di Farinacci: prospettò non soltanto un radicale rimpasto nei ranghi dello Stato Maggiore, ma domandò che si garantissero al Partito fascista i pieni poteri, non escluso quello di dichiarare la legge marziale.
Il presidente del Senato, Giacomo Suardo, si alzò a fatica; tremante, con gli occhi velati di lacrime, ritrattò la firma che Grandi lo aveva persuaso ad apporre durante l’intervallo.
Gaetano Polverelli, da poco passato alla causa, fu il secondo apostata: «Sono nato e morrò mussoliniano! », proclamò con voce stridula.
Grandi contava ancora su diciannove firme. Ma quanti altri avrebbero ritrattato, quando le carte fossero tutte in tavola? «Abbiamo perduto», pensò amaramente.
Alcuni suggerirono un compromesso. Perché non unificare tutti gli ordini del giorno? - propose Ciano. Poi un comitato poteva forse stendere un nuovo abbozzo di soluzione accettabile da parte del Duce. Grandi si alzò di nuovo; rifiutava di ritirare il suo ordine del giorno: ogni parola doveva rimanere com’era. Detto questo, gettò il documento al dittatore.
Mussolini vi posò lo sguardo, ricordò Alfieri più tardi, «con ostentata indifferenza». Anche se fu colpito dal peso delle firme, non lo lasciò trasparire. D’un tratto con voce metallica annunciò: «La discussione è stata lunga ed esauriente. Sono stati presentati tre ordini del giorno. Quello di Grandi avendo la precedenza, lo metto in votazione. Scorza, fate l’appello».
Si protese, i gomiti puntati sul tavolo, gli occhi fissi in loro quasi a magnetizzarli.
Erano le due e quaranta. Scorza, lasciando tutti meravigliati, derogò alla prassi: De Bono, essendo il più anziano, avrebbe dovuto votare per primo, ma il segretario del Partito, giocando una carta psicologica in favore di Mussolini, chiamò il proprio nome e rispose con un fermo «No!». Fu la volta di De Bono. «Sì», rispose distintamente, ma sembrò che la sua vecchia voce si spegnesse affondando nell’assoluto silenzio della sala.
La votazione continuò. Scorza scriveva si o no accanto a ciascun nome, secondo le risposte. Suardo si astenne. Farinacci votò il proprio ordine del giorno. Gottardi e Pareschi, gli incerti nuovi venuti, votarono sì, incoraggiati dall’apparente acquiescenza di Mussolini. Scorza chiamò il nome di Ciano. Gli occhi di Mussolini cercarono, socchiusi, quelli di suo genero. I due uomini — ricordò Alfieri — si scambiarono «uno sguardo lungo e penetrante». Ciano, sostenendo perfettamente tranquillo lo sguardo del Duce, rispose: «Sì». A poco a poco Grandi si rese conto che l’incredibile accadeva: stavano vincendo.
Che cosa passava in quel momento nella mente di Mussolini? Grandi non cessava di chiederselo. La pressione della granata gli ricordò i timori di dieci ore prima: che il duce li facesse arrestare tutti, se avessero osato portare a termine l’iniziativa. O forse voleva che votassero contro di lui, sperando di presentare a Hitler un fatto compiuto, come appiglio per uscire dalla guerra? In realtà il Duce, come Grandi, non sapeva nulla dei complotti paralleli del generale Ambrosio e della principessa Maria José nel Gran Consiglio — per quanto amaro — costituiva un ammutinamento interno dei suoi burattini e niente altro.
Scorza sommava i voti. Il silenzio pareva eterno. Finalmente egli annunciò: «Diciannove sì, otto no, una astensione».
Mussolini accennò ad alzarsi. Nel raccogliere le sue carte disse: «L’ordine del giorno Grandi essendo approvato, gli altri decadono. La seduta è tolta».
Fissò con odio palese l’uomo che era stato il cervello del complotto. Più tardi riferì di aver detto: «Voi avete provocato la crisi del Regime. La seduta è tolta». Grandi ricorda parole più nette: «Voi avete ucciso il fascismo».
Scorza, mentre Mussolini si alzava, pronunciò il grido di rito: «Saluto al Duce!». Persino Alfieri si scoprì a rispondere piano, meccanicamente: «A noi!». Mussolini fece immediatamente il gesto di respingere da sé qualcosa di disgustoso: «No, no — disse con brusca violenza — vi dispenso».
Nel silenzio che seguì la sua uscita, passò la voce querula di Mannelli: «Che cosa ha detto? Che cosa succede? La mozione di Grandi è stata approvata?».
Più della metà dei presenti (19 sì, su 28, tra cui anche quello del genero di Mussolini, Ciano; 7 no; 1 astenuto) votarono a favore della mozione di Grandi, che proponeva la messa in minoranza di Mussolini e la riassunzione da parte del re delle prerogative costituzionali, e Mussolini, amareggiato, tolse la seduta, dichiarando che portava al re l’ordine del giorno approvato.
«La deliberazione da me proposta – scrive Grandi – quale surrogato di un voto parlamentare è approvata a grande maggioranza: 19 contro 5. Con voce stupefatta il segretario del partito comunica all’assemblea i risultati della votazione. Dopo un attimo di silenzio il Duce si alza e si avvia a passo lento verso l’uscita. Ferma con un gesto del braccio il segretario del partito, mentre questi si accinge a dare il consueto saluto al Mussolini. Sulla soglia della sala del Mappamondo il Duce si volge verso l’assemblea e dice: "Il Gran Consiglio stasera ha aperto la crisi del regime".[...] Prego il ministro della Real Casa di recapitare il documento immediatamente nelle mani del Sovrano. Insisto sulla necessità di decisioni immediate per prevenire l’inevitabile rappresaglia tedesca. Insisto sul nome del maresciallo Caviglia come eventuale successore di Mussolini, quale Primo Ministro e di Alberto Pirelli come ministro degli esteri.[...] Il ministro della Real Casa osserva: "Perché Caviglia e non Badoglio? [Durante la prima guerra mondiale d’Acquarone era stato per molto tempo ufficiale dell’allora generale Badoglio e aveva mantenuto con lui dimestichezza di rapporti.] Gli rispondo spiegando gli ovvi motivi di questa mia convinzione. [...] Alle ore 12 il ministro della Real Casa mi fa sapere che il Sovrano ha affidato poco prima al maresciallo Badoglio il compito di succedere a Mussolini nella carica di Primo Ministro. Il Re riceverà a Villa Savoia, residenza privata del Sovrano, il Duce alle ore 17. Il Mussolini non è più dittatore d’Italia».
Vittorio Emanuele III, incoraggiato dall’esito della riunione, destituì Mussolini, che fu arrestato. Alle 22.45 la radio trasmise il comunicato di «Sua Maestà il Re e Imperatore» nel quale annuncia «le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini» e la nomina a «Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato, il Cavaliere, Maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio».
All’annuncio dei comunicati radio in tutta Italia la popolazione scese in piazza per festeggiare la caduta del Fascismo, che nell’immaginario collettivo rappresentava la fine della guerra e di tutto quanto essa aveva rappresentato negl’ultimi due anni. Uomini e donne in queste ore sventolarono bandiere tricolori e inneggiarono «all’Italia, a casa Savoia, al re, al maresciallo Badoglio, alle forze armate, alla pace». Accanto alle manifestazioni di lealismo patriottico si registrarono scoppi di malcontento popolare verso il Fascismo, che variarono dagli slogan contro Mussolini, alla distruzione dei simboli del regime, di busti ed immagini del Duce, alla devastazione delle sedi del Fascio.
La situazione era precipitata: il 26 luglio il Re fece arrestare Mussolini e nominò capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio. Grandi reagì con grande delusione e disappunto all’arresto di Mussolini: si sentì tradito nella sua visione tutta strategica e politica del passaggio dei poteri al re.
Hitler, dopo aver appreso la notizia della sostituzione di Mussolini con Badoglio, diede l’ordine al generale Jodl di far marciare verso Roma la III divisione corazzata: credendo che il Fascismo italiano fosse solo stordito, sperò di restaurare il governo fascista a Roma.
Grandi si trovò a questo punto tra due fuochi: fu braccato dai tedeschi che lo considerarono un traditore, mentre Badoglio e il nuovo governo lo temevano come promotore di nuovi complotti. Nell’agosto del 1943, Grandi, tuttavia, avendo presagito quanto stava per accadere già immediatamente dopo la caduta di Mussolini, riparò in Spagna. Nello stesso anno si trasferì in Portogallo dove visse fino al 1948: i suoi familiari rischiarono di essere deportati dai nazisti.
Nel gennaio 1944 si celebrò il ‘Processo di Verona’ contro i "traditori del Fascismo": per la mozione del 25 luglio, Grandi fu condannato a morte in contumacia al ‘Processo di Verona’, che si tenne nel territorio della ‘Repubblica Sociale Italiana’, a Verona, tra gli altri, fu fucilato Galeazzo Ciano, marito di Edda, figlia di Mussolini. Grandi quando seppe dell’esecuzione di coloro che avevano votato il suo ordine del giorno precipitò in una “tragedia interiore”. Tra Grandi e Ciano non erano mai intercorsi buoni rapporti, ma con la morte del "fascista", Grandi ne rivalutò la dignità perchè "era morto bene", secondo il mito fascista della "bella morte".
Dal 1948 Grandi si trasferì in America Latina, vivendo per lo più in Brasile: durante gli anni Cinquanta, Grandi lavorò come informatore delle autorità americane ed in particolare di Clare Boothe Luce, ambasciatrice americana a Roma e servì spesso da intermediario in operazioni politiche ed industriali tra Italia e Stati Uniti.
Grandi tornò in Italia negli anni Sessanta per aprire una fattoria nella campagna modenese.
Nel 1983 Dino Grandi, rompendo un silenzio durato quarant’anni, decise di esporre la sua verità sul regime dittatoriale di Mussolini e sulla fine della dittatura mussoliniana, e lo fece autorizzando infine la pubblicazione di un libro che egli aveva scritto a ridosso ancora dei fatti, nel 1944, e aveva poi conservato inedito. Quella di Grandi non era una verità qualunque: questo memoriale viene, infatti, da colui che dopo essere stato per molti anni, tra fedeltà e disubbidienza, l’antagonista di Mussolini, fu l’artefice primo della sua fine. Il 25 luglio 1943, che si chiude con il faccia a faccia tra il re e Mussolini e con il licenziamento e l’arresto del Mussolini, si era, infatti, aperto, alla seduta del Gran Consiglio, con le diciannove firme che, approvando l’ordine del giorno proposto da Grandi, siglarono, di fatto, la sfiducia del supremo organo del Fascismo a Mussolini. In esso Grandi racconta il suo 25 luglio. Scritto in Portogallo mentre la guerra era ancora in corso, e quando già l’effimera "repubblichina" fascista condannò a morte i traditori del Gran Consiglio, Grandi in testa, questo libro, puntigliosamente documentato, ma insieme reso caldo da un’aperta e orgogliosa difesa della propria azione e della lealtà patriottica che la motivava, rimane la testimonianza più cospicua, autorevole e diretta su quell’evento e sulle settimane che lo precedettero e che lo seguirono: poco più di un mese, fra luglio e settembre, che ha continuato a proiettare la sua ombra sui lunghi anni dell’Italia repubblicana. Curato e introdotto da Renzo De Felice, il libro è ripresentato con una nuova prefazione di Giuseppe Parlato.
Dopo aver goduto di tutto ciò che il Fascismo gli aveva regalato, Dino Grandi morì a 93 anni, nel suo austero appartamento nel centro di Bologna, popolato di mobili antichi e di ritratti di famiglia il 21 maggio del 1988: Grandi, l’ultimo testimone del ventennio fascista era ormai cieco, viveva solo da tempo, ancora lucidissimo, accumulando diari e memorie, in parte raccolti e pubblicati dallo storico Renzo De Felice, in parte conservati in microfilm al Dipartimento di Stato americano. Per la sepoltura in Certosa, il cimitero di Bologna, un funerale così sobrio e privato che dice molto di un uomo che ha fortemente voluto tornare nell’ombra, da San Paolo del Brasile i figli Franco e Simonetta, i cugini, coltivatori diretti di Mordano, l’omaggio di Amedeo d’Aosta, la famiglia Mussolini comunica che terrà una messa nella chiesa di San Casciano. Un addio senza ufficialità, un centinaio di persone in tutto, fra parenti e conoscenti, che non hanno mai ripudiato l’affetto tenace e orgoglioso verso un protagonista discusso, odiato e infine rimosso di un pezzo importante della storia d’Italia. Poi la sepoltura nella tomba di famiglia, dove Grandi raggiunse la moglie e i genitori, sovrastata dallo stemma dei conti di Mordano. Nella sue memorie Grandi ha scritto: «sono stato vicino a Mussolini nei momenti difficili. L’ho attaccato, ma sempre alla luce del sole. Gli ho voluto bene, e anche lui me ne voleva».
Prima di morire Grandi aveva detto: «Quando ho dovuto scegliere fra la fedeltà al mio capo e quella al mio paese, ho scelto senza esitazione la seconda», mostrando un estremo attaccamento alla propria patria.
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