venerdì 23 luglio 2010

Storia sociolinguistica dell’unità d’Italia di Biagio Morrone

Lingua e società nell'Italia unita – Si è spesso sottolineata la situazione di emarginazione dall'italiano, caratteristica della maggior parte degli abitanti della penisola; si è visto che, fino al XIX secolo, la lingua fosse parlata da pochissimi e che lo scambio all'in­terno delle aree regionali, fosse assicurato dal solo dialetto. È opportuno ora esaminare più da vicino la concreta situazione che i responsabili della vita nazionale dovettero affrontare nell'immediato periodo postunitario.
l’analfabetismo nell’Italia unita
Al momento dell'unificazione, la popolazione italiana contava circa l'80% di analfabeti e solo il restante 20% era dunque in grado di usare la lingua scritta: sarebbe tuttavia un errore credere che tutti coloro che erano definiti come «alfabeti» fossero in grado di parlare l'italiano, infatti, molti erano lontani dalla reale capacità di leggere e di scrivere. Una fetta molto grande degli alfabetizzati ufficiali del nostro Paese, all'atto dell'unità, era semianalfabeta, cioè erano appena in grado di scrivere il proprio nome o poco più: per costoro il contatto con l'italiano era limitatissimo e lontano dalla possibilità della comunicazione. Del resto, negli anni immediatamente successivi all'unità, le scuole erano poche, povere di mezzi, poco frequentate, infatti, intorno al 1870, oltre il 60% della popolazione in età scolastica evadeva l'obbligo e l'insegnamento era spesso impartito da un insegnante spes­so impreparato ed in certi casi al limite dell'analfabeti­smo, infatti l'insegnamento avveniva in dialetto.
In queste condizioni, dunque, non bastava aver frequentato le scuole elementari per padroneggiare la lingua comu­ne in modo soddisfacente. Solo tenendo conto di tutti questi elementi, possiamo dire quanti, nell'Italia del 1861, conoscevano l'italiano: quanti lo conoscevano non nel senso che lo parlavano in tutti i momenti, perché, la lingua d'uso era il dialetto nativo, ma nel senso di saperlo leggere e scrivere e, all'occorrenza, parlare, anche se in maniera forzata e faticosa.
la minoranza dell’istruzione postelementare
Se l'istruzione inferiore riusciva a stento a sottrarre gli allievi all'analfabetismo, un contatto con la lingua nazio­nale era riservato solo a quelli che continuavano gli studi. «Nel 1862-63 – scrive Tullio De Mauro in Storia linguistica dell’Italia unita – l’istruzione postelementare era impartita all'8,9 per mille della popolazione in età fra gli 11 e i 18 anni». Ciò non valeva naturalmente per l'intera popolazione adulta, né si è si­curi che il profitto scolastico di tutti costoro fosse accettabile. Tuttavia, «adottando criteri di grande larghezza, si può conclude­re che, negli anni dell'unificazione, coloro che fuori di Roma e del­la Toscana erano giunti ad apprendere l'italiano erano circa l'8 per mille della popolazione, ossia circa 160.000 persone […], in una massa di 25 milioni di individui». L'Italiano fuori di Toscana e di Roma, era lingua di studio: non si imparava dalla nascita, ma attraverso un lungo esercizio sui li­bri. Tra l'altro, la Toscana e Roma erano fra le poche zone dove le scuole funzionavano, a differenza della maggior parte del Paese. Quindi, alle 160.000 unità di prima dobbiamo aggiungere i circa 400.000 toscani e 70.000 romani presumibilmente in discre­te condizioni di italofonia. Si giunge così ad una cifra di poco più di 600.000 persone, il 2,5% della popolazione italiana che era costituita da 25 milioni di abitanti. Il numero coincide con quello di coloro che, pur abitando nei confini italiani, parlavano dialetti o lingue diverse dai dialetti italoromanzi: il francese in Val d'Aosta, il tedesco nel ve­ronese, il greco o l'albanese in qualche zona della Calabria, della Puglia o della Sicilia. «Questa coincidenza è per noi simbolica: chi parlava italiano, come chi parlava altre lingue europee nell'Italia appena unificata, era in realtà, proprio per questo, uno straniero in patria». Gli italofoni non erano insomma che una pattuglia in un vasto esercito di analfabeti e di dialettofoni.
Nell'Italia postunitaria il 78% della popolazione era dunque analfabeta, uno tra i tanti segni delle profonde fratture esistenti nel paese.
l’Italiano come lingua eccezionale
Negli anni dell'unità, l'Italiano non era una lingua morta, perché esisteva e serviva allo scambio per una ristrettissima minoranza della popolazione, tuttavia il suo uso non era spontaneo e comune, ma sempre eccezionale; la dimestichezza con esso si acquistava, attraverso uno studio assiduo sui libri non attra­verso la pratica. Parlava italiano chi aveva potuto studiare e studiava chi apparteneva ad un ceto sociale abbiente: il possesso dell'italiano divenne pertanto un preciso contrassegno di classe, un elemento per distinguere dagli altri gli “uomini civili” ed i “galantuomini”, i benestanti.
La secolare divisione dialettale del paese non si poneva solo come ostacolo passivo alla divulgazione di un tipo linguistico co­mune, ma in certi casi anche come ostacolo attivo: dove il dialetto aveva una forte tradi­zione come lingua delle classi colte, come a Napoli o a Milano, in cui parlare ita­liano sembrava simbolo di affettazione ed era avvertito con vi­vo fastidio. In altri casi, inoltre il dialetto era usato consapevolmente co­me strumento di distinzione o di chiusura: in polemica coi recen­ti inurbati, come salvaguardia della propria posizione di indigeni e di cittadini, a Bologna, ma anche nelle altre maggiori città set­tentrionali come a Torino , o con spirito regressivo e antiunitario a Napoli ed in altre zone del Mezzogiorno.
Inizia a diffondersi l’Italiano
Il periodo fra il 1871 e gli inizi del Novecento diede un primo durissimo colpo alle antiche barriere dialettali e cominciò a diffondere l'italiano, sia pure in forme approssimative, a vaste masse di popolazione. Ini­ziò l'erosione del secolare sistema dei dialetti, nacquero quelle varianti regionali dell’italiano, base di gran parte del nostro linguaggio odierno.

I motivi di questo gigantesco fenomeno furono indiret­ti ed incidentali, infatti essi non dipesero tanto da iniziative consapevoli dello Stato, quanto dai profondissimi mutamenti socioambientali e culturali, determinati dai processi economici, sociali, istituzionali, che attraversano l'Italia in un trentennio decisivo per il suo diventare nazione moderna.
Il flusso migratorio
Quali furono i motivi di questi cambiamenti? La situazione cambiò velocemente negli anni successivi all'unità, considerando i dati relativi al numero degli analfabeti i quali, dal 68% del 1871, scesero al 62% del 1881; nei vent'anni seguenti passarono dal 62% al 48,7%; nel 1911 gli analfabeti si ridussero al 37,9% della popolazione. Come si desume dai dati statistici, avvenne un balzo in avanti dell'alfabetismo, dovuto soltanto in parte all'intervento della scuola statale: in quegli anni era infatti avvenuto un fenomeno nuovo, un vero e proprio sconvolgimento demografico: il grande flusso migrato­rio verso i paesi stranieri alla ricerca del lavoro. Il fenomeno dell'emigrazione investì con violenza l'Italia postunitaria, toccando punte assai alte specialmente dal 1881, ma quando si parla di flussi migratori non si parla solo di emigrazione all’estero ma anche di flussi migratori interni. Questo massiccio fenomeno migratorio era conseguenza delle storture profonde del meccanismo economico italiano che, accentrato in alcuni poli di sviluppo nel Nord del Paese, lasciava zone immense nell'arretratezza e nella miseria.
Questo grande movimento migratorio ebbe conseguenze profonde, non soltanto economiche: queste regioni, infatti, private del necessario sostegno di investimenti produttivi, non potevano in nessun modo progredire e, producendo in maniera scarsa e tradizionale, non creavano posti nuovi di lavoro, sicché l'unica soluzione per le masse contadine era cercare all'estero la possibilità di sopravvivere in modo appena decoroso.
Per quanto riguarda le migrazioni verso paesi stranieri, diversamente da quanto accadde in altri Paesi europei, l'emigrazione non si ridusse con il decollo industriale dell'Italia anzi, viceversa, dopo il 1895 si intensificò, fino a raggiungere proporzioni enormi nel periodo 1900-1914, con una media annua di espatri pari a 615.980 unità.
L'al­lontanamento dalle regioni di origine riguardò il ceto rurale: per la mag­gior parte, quelli che partivano si sottrassero al numero degli analfabeti, cosicché i dati statistici ne risultano progressivamente alleggeriti. Uno dei fattori che maggiormente contribuì a determinare la regressione dell'analfabetismo fu dunque proprio l'emigrazione, che agì in due sensi: in primo luogo l’emigrazione sottrasse al Paese vaste masse di dialettofoni esclusivi ed analfabeti: infatti il gran corpo degli emigranti, una fetta notevole del popolo italiano, proveniva dal Mezzogiorno, cioè dalle regioni più ricche di analfabeti, o più povere di istruzione e si trattava di milioni di individui. In secondo luogo, l'emigrato, obbligato dalle necessità a venire in contatto con un altro paese, con altra gente ed altre abitudini, si sprovincializzava, capiva l'importanza dell'istruzione, capiva che doveva saper leggere e scrivere, per difendere i propri interessi, per orientarsi nel mondo nuovo in cui le circostanze lo hanno sbattu­to, per comunicare con la propria famiglia rimasta in patria. Cosi l'emigrazione divenne scuola di emancipazione. «Vanno via bruti e tornano uomini civili», dichiarava un dirigente delle associazioni contadine del Sud all'intervistatore di un'inchiesta parlamentare. Imparavano che bisognava mandare a scuola i figli, che questi dovevano «saper lettera», parlare l'italiano per farsi intendere e rispettare nella società.
Fossero rimasti ad aspettare, in patria, tanti lavoratori italiani sarebbero rimasti confinati ancora a lungo nel ghetto del dialetto e nell'analfabetismo.
Se gli emigranti che lasciarono definitivamente l'Italia furono, dal 1871 al 1951, ben 7 000 000, addirittura 14 000 000 furono coloro che, dopo essere emigrati, rimpatriarono. Costoro portavano aria nuova nell'immobilità delle regioni d'origine: la loro esperienza lontano dai parenti, l'impossibilità di scrivere una lettera privata senza l'aiuto di terzi, li convinse dell'utilità di saper leggere e scrivere.
Una maggiore affluenza alla scuola ed un maggior interesse per essa fu quindi conseguenza immediata dell'emigrazione. Del resto non era più soltanto attraverso l'uso scritto che si entrava in contatto con la lingua italiana.
Gli effetti dell’industrializzazione
Accanto ai movimenti migratori verso i paesi stranieri, bisogna tener conto degli spostamenti interni dovuti agli effetti dell'industrializzazione, che produsse un fenomeno di vasta crescita degli agglomerati urbani, raccogliendo masse provenienti da aree dialettali diverse. Grandi masse di popolazione si spostarono dal contado al centro urbano più importante della regione e lo gonfiarono a dismisura, oppure lasciarono la regione e si trasferirono nella zona, dove l'industria era più svi­luppata, come nel «triangolo industriale» Genova-Torino-Milano, o in quella cui facevano capo le funzioni dello Stato, come nel caso di Roma.

Il grande rimescolamento sociale ed umano che si verificò nel Paese dal 1870 al 1900 ebbe conseguenze linguistiche ancor più vaste e profonde di quelle dell'emigrazione verso paesi stranieri. Le cause furono molteplici: alla base vi era ancora una volta il particolare tipo di sviluppo impresso dai gruppi capitalistici all'economia italiana, fondato sulla concentrazione delle attività industriali in aree delimitate alle zone urbane: le campagne, subalterne allo sviluppo industriale, infatti, non produssero sufficiente ricchezza né posti di lavoro dignitosi. Su questo rapporto città-campagna si innesta l'intervento dello Stato volto a creare tutte le infrastrutture di cui aveva bisogno l'Italia per costruirsi come nazione unitaria.
Questo sviluppo esaltato e basato sul duplice squilibrio città/campagna e Nord/Sud, portò con sé due imponenti fenome­ni: l'abbandono di fasce immense di terra e la concentrazione della gente in cerca di lavoro nella città. Nelle città, infatti, si addensarono le industrie e quindi le possi­bilità di trovare un impiego più redditizio e meno precario, nella città si trovavano gli uffici dello Stato, le scuole, gli eserciti che costituivano non solo occasioni di lavoro, ma anche mezzi di contatto con l'istruzione e di miglioramento della propria con­dizione sociale.
Un progressivo abbandono del dialetto
Dall'unità in poi si accentuarono nel paese forze che condussero progressivamente all'abbandono del dialetto. L'unificazione dello Stato ebbe come conseguenza la caduta delle barriere politico-amministrative tra regione e regione. L'unifica­zione burocratica trasportò da un paese all'altro della penisola funzionari delle varie regioni, costringendoli ad uscire dal dialetto per comunicare con gli abitanti dei nuovi luoghi di residenza. Le strutture scolastiche, anche se inadeguate, perseguivano il compito dell'unifi­cazione linguistica secondo gli ideali manzoniani, in cui credevano ed a cui si ispiravano in linea di massima funzionari e ministri della Pubblica Istruzione.
L'apparato statale, oltre che attraverso la buro­crazia e la scuola, fece sentire il suo peso attraverso un intervento di vasta portata come il servizio militare obbligatorio per tutti i cittadini: i giovani di leva erano trasferiti da un paese all'altro della penisola, vivendo a contatto con individui provenienti da regioni diverse.
Un peso grandissimo ebbe l’esperienza della guerra mondiale, dove, pagando un tributo di sangue, uomini di ogni parte d'Italia vissero fianco a fianco in trincea, costretti a superare la limita­zione dialettale, avvicinati nella prima grande esperienza 'nazionale'.
Una grande massa di italiani, privi o quasi privi di cultura, arrivava insomma a servirsi per la prima volta della lingua e, costretta da circostanze esterne, ne sperimentava l'uso scritto. Na­sceva così l' “italiano popolare”, l'italiano degli incolti, di cui non a caso abbiamo molti documenti che risalgono proprio agli anni 1915-1918.
Queste forze e questi sconvolgimenti provocarono il cambiamento delle condizioni linguistiche dell'Italia dopo l'unificazione. Sotto il loro stimolo l'assetto dialettale subì profondi mutamenti. Più tardi a queste cause di livellamento linguistico si aggiunsero lo sviluppo della stampa periodica a grande tiratura, la diffusione degli spettacoli e dei mezzi di comunicazione di massa. Il contatto con l'italiano non avvenne più solo attraverso l'uso scritto. L'intensità degli scambi e la vita sociale organizzata permisero di essere ammessi alla conoscenza dell'uso parlato della lingua comune, ma solo dopo la seconda guerra mondiale l'italofonia attaccò più duramente i dialetti.
L'italiano cominciò ad essere sentito come mezzo di ascesa sociale, come elemento di attenuazione delle differenze tra classe e classe.
Le migrazioni da Sud a Nord
Nel secondo dopoguerra i movimenti di popolazione dal Mezzogiorno verso i centri industriali del Nord raggiunsero i livelli più alti: lo spostamento da regione a regione ebbe come conseguenza lo scardinamento di abitudini e di tradizioni e significa generalmente spostamento dalla campagna alla città, dall'attività rurale a quella industriale.

Nella nuova condizione sociologica il dialetto cominciò ad essere sentito come una tara, come un difetto da superare la cui conseguenza fu l'abbandono di esso nelle manifestazioni della vita sociale. La borghesia cittadina adottò l'italiano anche all'interno dei rapporti familiari, creando dei modelli sociologici cui il resto della popolazione cercava di adeguarsi, riducendo ad un ambito sempre più limitato l'uso del dialetto ed avviando un processo di italianizzazione del lessico, della morfologia, della sintassi dialettale.
Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione
D'altra parte il modello dell'italiano ha potuto agire, raggiungendo zone vergini, lontane dai centri industriali, attraverso l'influenza dei mezzi di comunicazione di massa, i giornali e la radio, poi, la televisione ed il cinema. Soprattutto la televisione è stata protagonista di una penetrazione capillare di mo­delli dotati di una forza superiore ad ogni altro tipo di trasmissione e di fissazione di segni linguistici. Attraverso questo strumento si è diffuso un modello di italiano comune, uno stereotipo di lingua, che ha collaborato enormemente a produrre livellamento. L'italiano ra­diotelevisivo, non toscano, ma piuttosto tosco-romano (è a Roma che sono elaborati i programmi, a Roma è la redazione centrale del Telegiornale, e le sfumature romane sono le più largamente tollerate sui teleschermi) ha compiuto definitivamente l'opera di unificazione linguistica del paese.
Il processo che ha portato ingenti masse di dialettofoni alla dignità della lingua si è dunque compiuto solo di recente, ed ha avuto il suo massimo sviluppo negli ultimi settant’anni.
Oggi la lingua nazionale è una realtà, quotidiano strumento di comunicazione; resta da vedere quali sono i caratteri dello strumento linguistico che è uscito da questo travagliato processo di formazione.
Dieci anni dopo, all'inserimento nella compagine dì zone, come Roma ed il Veneto, più alfabetizzate, la percentuale diminuiva al 73%. Le condizioni restava­no tuttavia drammatiche.
Non è difficile capire che così vasti fenomeni hanno esercitato una fortissima influenza sui fatti linguistici. I contadini, i brac­cianti che si riversano nella città entrano in contatto con gente che mai avrebbero altrimenti conosciuto: e sia gli uni sia l'altra sono obbligati dalle circostanze a parlarsi, a cercare di capirsi, a venirsi in qualche modo incontro.
In tal modo il dialetto locale, importato dal paese del contado, deve «spianarsi», perdere le sue caratteristiche più strette, incrociarsi con le parlate degli al­tri lavoratori immigrati e soprattutto con quella del centro ospite.
Dal dialetto all’Italiano
La città presenta un linguaggio necessariamente più prestigioso e forte, non fosse altro che per motivi numerici: e il dialetto urba­no si pone così come quadro di riferimento, come una specie di strumento di amalgama per le altre parlate regionali. Ma la città è anche e soprattutto un centro di diffusione dell'italiano: in es­sa si trovano i pubblici uffici, le scuole, le classi borghesi più avanti nell'apprendimento e nella pratica della lingua nazionale. La stessa terminologia industriale, le nomenclature degli attrezzi e degli strumenti di fabbrica e d'azienda diventano vie di cono­scenza e di diffusione popolare dell'italiano. Abbiamo insomma due ordini di movimenti linguistici:

· dal dialetto locale, familiare, verso un dialetto regionale;
· dal dialetto regionale verso l'italiano.
Cause sociali, ambientali, professionali guidano dunque mi­gliaia e migliaia di cittadini italiani alla scoperta della lingua: mostrano loro la necessità di impararla non solo per farsi capire, ma per contare qualcosa nella società.
Attraverso le prime crepe apertesi, a prezzo di fatiche, di scon­tri, anche di violenza, fra queste barriere, popoli sconosciuti l'uno all'altro prendono a scoprirsi e a comunicare.
Anche in questo caso, dunque, una grande novità nella storia linguistica e culturale d'Italia può verificarsi solo attraverso il fil­tro di un enorme trauma sociale come lo sconvolgimento dell'ambiente familiare, delle mentalità, delle abitudini, delle tradizioni di grandi masse umane costrette ad abbandonare casa, terra, amicizie. E la novità che si prepara è davvero grossa: parte di qui l'avvicinamento fra le diversissime realtà etniche, culturali, che da secoli costituiscono il tessuto dell'Italia e, con esso, comincia a indebolirsi l'antico sistema dialettale.
Un'azione importante ai fini della diffusione di tipi linguistici unitari è, poi, quella svolta, fin dagli anni della Sinistra, dalle mag­giori infrastrutture su cui si basa il nuovo Stato. Non tanto dalla scuola bensì dalla burocrazia, che già pochi anni dopo l'unità di­spone di una catena di uffici nelle maggiori città d'Italia, di un corpo di funzionari, e si avvia a costituire un suo linguaggio tec­nico. I burocrati provengono da regioni diverse, ma, approdando ad un istituto e ad un ruolo pubblico, statale, sono costretti a rinunciare al loro dialetto d'origine e a servirsi, per i rapporti ufficiali, dell'Italiano.
Gli edifici presso i quali si vanno a pagare le tasse, a chiedere un certificato, ad iscriversi all'anagrafe, diventano in questo modo delle piccole centrali, disseminate in tutto il Paese, dalle quali ir­radiano spezzoni di lingua nazionale, sia pure filtrati attraverso una terminologia oscura. D'altra parte la provenienza regionale degli impiegati finisce con l'esercitare un certo influsso. Si pensi a parole tipiche della burocrazia come incartamento o disguido: esse giungono al linguaggio amministrativo nazionale dai dialetti meridionali, che a loro volta le avevano attinte, con accezioni di­verse, dallo spagnolo. La forza di diffondersi, tipi lessicali del ge­nere la trovano proprio nel fatto che una fetta consistente del personale impiegatizio proviene dalla piccola borghesia meridionale. Ecco perciò un primo caso in cui i dialetti locali comincia­no a funzionare, con le opportune mediazioni, da serbatoi di in­novazione per la lingua nazionale.
Un caso analogo è dato dal linguaggio dell'esercito. Anche quando si fu costituito l'esercito nazionale, gli ufficiali piemontesi continuarono a lungo ad usare il loro dialetto: così «una serie di piemontesismi, come cicchetto, grana, ramazza, sono restati nel gergo delle caserme e di qui sono rimbalzati nel gergo popolare comune». Tuttavia, abbastanza presto si diffuse all'interno dell'esercito la consegna di parlare italiano. Non poteva essere al­trimenti, dato che la gran massa dei soldati di leva giungeva ad arruolarsi da tutte le regioni e dai paesi più sperduti della peni­sola, fornendo un mosaico impressionante della varietà dei dia­letti italiani.
Il ruolo della stampa
Infine la stampa potè funzionare come robusto agente di diffusione dell'Italiano. Essa profittò della caduta delle barriere doga­nali fra uno Stato e l'altro e della crescita delle possibilità di comunicazione da città a città per costruire una rete di corrispondenti su base nazionale, una redazione efficiente, un respiro non più solo locale e particolaristico. Il “Fanfulla” di Ferdinando Marti­ni fu il primo campione di questo modo nuovo di pensare e ge­stire l'informazione. Ora il giornale può circolare, diffondersi, può poggiare su una professionalità di tipo nuovo, il pubblicista e il giornalista, che esercita un mestiere della sua capacità di scrivere e di commentare.

In questo contesto compaiono le prime testate di grande tira­tura, come “La Tribuna di Roma” e “Il Secolo di Milano”, che dal 1890 toccano le centomila copie e talvolta le superano. Agli inizi del secolo, poi, a Torino, Roma e Milano nascono i primi tre grandi giornali dell'Italia contemporanea: la “Stampa” di Frassati, il “Giornale d'Italia” di Bergamini, il “Corriere della Sera” di Albertini. Essi si rivolgono al vasto pubblico delle classi medie, in queste trovano e fanno opinione, e collaborano autorevolmen­te alla formazione dello spirito pubblico della nuova Italia.
Su tali basi si può comprendere che potente fattore di unificazio­ne linguistica riesca a diventare la stampa. Non solo diffonde fra i leggenti e scriventi una lingua che finalmente comincia a vivere di vita reale, ma vi apporta innovazioni e dà a queste la forza di espandersi con rapidità. Così per lo stile telegrafico, legato inizialmente alla necessaria brevità delle comunicazioni per telegra­fo e che il giornale riprende adeguandolo alle proprie esigenze di contenere lo spazio tipografico. Così per l'impulso dato alla rapi­dità dell’informazione a scapito dell'infiocchettamento letterario e retorico: ciò che significava cominciare a svecchiare in profon­dità il nostro tradizionale linguaggio colto. Così, infine, per le pa­role straniere che, attraverso gli inviati speciali nei loro resoconti dall'estero, trovano facile circolazione.
Naturalmente il pubblico del giornale è un pubblico ancora selezionato e molto ristretto: sappiamo quanto precarie fossero in Italia le condizioni dell'istruzione del popolo. Tuttavia fin da ora il giornale mostra la stupefacente efficacia linguistica, non meno che la capacità di agevolare la circolazione culturale, tipica dei nuovi strumenti di cui la civiltà moderna impara a servirsi per trasmettere messaggi: i mezzi di comunicazione di massa.

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