martedì 3 agosto 2010

Corpo, gender e rappresentazione nella pittura di nudo tra Cinquecento e Seicento: L. Fontana, A. Gentileschi ed E. Sirani di Alessia Murani

L’intervento prende le mosse da preliminari considerazioni sullo status delle artiste a cavallo fra Cinque e Seicento, là ove il genere rappresenta la cifra caratteristica ed insieme la più forte limitazione ad un libero operare artistico delle donne.
Da una parte infatti lo stupore – e i sospetti – ingenerati nei contemporanei dall’esistenza di donne artiste favoriscono l’attenzione appassionata del pubblico, per quanto viziata da aspettative di fondo che spostano l’accento più sull’eccezionalità, sulla mostruosità dell’evento, che sulle reali doti artistiche e creative delle stesse. D’altra parte, però, l’operare di dette artiste è fortemente limitato dalla prima e più importante delle “rappresentazioni”, delle immagini che queste donne devono fornire: quella cioè di se stesse, come donne che pur agendo in campo prettamente maschile, non per questo rinunciano e anzi, accentuano quelle caratteristiche che rassicurano sulla loro femminilità, modestia, virtù, castità.
Ne nascono alcune fondamentali caratteristiche dell’attività artistica delle donne: formazione in ambito esclusivamente privato e familiare, scarsa (anche se non nulla) partecipazione alla vita delle accademie, proibizione dello studio del nudo specie maschile – che pure è banco di prova per eccellenza della valentia di ogni artista – sfiducia ed effettive difficoltà nella possibilità di dedicarsi alla pittura “alta”, vale a dire di storia, limitazione/predilezione per i generi minori: la natura morta, la miniatura, il ritratto, la scena di genere.
I.
Così come affermatosi nella pratica di bottega medioevale, ancora nel Rinascimento e poi fino al XVIII secolo l’insegnamento dell’arte seguirà modelli inscindibili e ben consolidati. Alunnato in bottega presso un maestro, anni e anni di pratica certosina delle tecniche studiate per gradi, dalla preparazione delle materie prime –macinare i colori, costruire i pennelli, preparare le tele – ai primi interventi nelle opere del maestro, preparando fondi o abbozzando alla buona figure e architetture; poi l’affidamento di lavori sempre più complessi, fino al perfezionamento: allorquando l’allievo poteva scegliere se aprire bottega in proprio, o rimanere invece presso il maestro in qualità di fidato collaboratore.
La didattica pittorica era affiancata da materie complementari ma altrettanto importanti: il disegno dal vivo e sui modelli del maestro, lo studio particolare del nudo, e di altre tecniche dal modellato alla scultura in pietra alla fonditura. Non minore importanza avevano poi quei momenti di socialità condivisi da tutti i membri della bottega, in cui scambio intellettuale e professionale sostanziavano una formazione artistica completa: discussioni teoriche o su specifici problemi tecnici, studio di opere esemplari, forse la visita ad altre botteghe o cantieri, incontri con committenti e patroni, viaggi di formazione in Italia e in Europa. Dal XVI secolo vi era poi, a carriera avviata, la partecipazione alla vita delle Accademie, fucine intellettuali che premiavano l’appartenenza dei membri fornendo occasioni di incontro e scambio ma anche di lavoro e pubblici riconoscimenti. L’allievo insomma veniva introdotto in una dimensione professionale completa che univa conoscenza teorica e pratica, formazione manuale, intellettuale, identitaria.
Nulla di tutto ciò era possibile per una donna. Ad essa, per debolezza del temperamento, per innata modestia, a scudo dell’innocenza muliebre, a protezione soprattutto dell’onor del nome familiare, veniva vietato tutto ciò che in qualche modo poteva minacciarne castità, virtù ed equilibrio: lo studio del nudo, il contatto con altri artisti, la frequentazione delle botteghe. Quando ammesse nelle

Accademie, esse comunque non potevano viverne la parte più stimolante: “Le donne insigni nell’Arte siano accetate accademiche, ma non abbiano luogo in seduta” recita il regolamento dell’Accademia di San Luca, del 1607.
È fatto statistico evidente che la stragrande maggioranza delle artiste conosciute abbia avuto accesso all’arte figurativa grazie ad un tradizione familiare preesistente, trovandosi insomma bottega in casa: accade così per le tre artiste di cui ci occuperemo, Lavinia figlia di Prospero Fontana, Artemisia figlia di Orazio Gentileschi, Elisabetta figlia di Giovanni Andrea Sirani, ma anche Marietta figlia di Jacopo Robusti detto il Tintoretto, Fede figlia di Nunzio Galizia, Barbara figlia di Luca Longhi, Elisabeth figlia di Louis Vigée, Levina Teerlinc figlia di Simon Bening, Louise figlia di Nicolas Moillon, Diana figlia di Giovanni Battista Scultori e altre ancora.
In altri casi l’eccezionalità di un talento si impose, in condizioni familiari favorevoli, sulle convenzioni: è così per le sorelle Anguissola, allieve di Bernardino Campi, o per le sorelle Carriera, avviate alla pittura in giovanissima età.
Non che una limitata conoscenza e pratica delle arti non facesse parte, già dall’epoca del Cortegiano di Baldassarre Castiglione1, della formazione di una dama. Ma il dilettantismo di acquerelli e musiche alla spinetta non doveva stravolgersi inopinatamente nel virtuosismo dell’arte e nella professionalità di un mestiere riconosciuto, rispettato, remunerato. Inoltre, la sempre spinosa questione del rapporto allieva-maestro-compagni di studio poneva problemi a non finire, e non solo in epoca antica2. I problemi della didattica dell’arte alle donne si trascinano in realtà fino ad epoca tardissima: le donne sono ammesse nelle accademie di Belle Arti solo nella seconda metà del XIX secolo3, tra grandi polemiche.
Quanto alle nostre artiste, sappiamo che la loro formazione, anche qualora la bottega sia “di casa”, avviene in separata sede, e con le limitazioni del caso sullo studio di determinate materie.
Da ciò discendono una serie di fenomeni ben noti. Innanzitutto, la scarsa considerazione accordata alla professionalità delle artiste, che solo con fatica accedono ad uno status riconosciuto; e la loro trasformazione in monstra, creature anomale le cui opere vengono ricercate al pari del corno di unicorno e della mummia egizia nelle wunderkammern rinascimentali, o che sono costrette a pubbliche esibizioni delle loro capacità, su cui grava spesso e volentieri il soggetto di essere, in realtà, paravento per l’operato di un uomo nascosto nell’ombra.
Poi, la difficoltà ad accedere ad una formazione completa e ad una pratica artistica approfondita, che ne limita le effettive potenzialità tecniche.
Ma il problema più evidente è certo la predilezione/imposizione alle artiste di soggetti e tematiche che aggirino una “menomazione tecnica” sulle modalità di rappresentazione anatomica: il ritratto, la natura morta, la scena di genere. Una imposizione che trova alimento da una parte nella presunta e/o programmata inferiorità tecnica delle donne, dall’altra in una idea gerarchica e competitiva4 dei generi artistici che pone al sommo della piramide la pittura di storia, che richiede mano ed intelletto virili.
Power Point: Pittura di genere
Power Point: Autoritratti
II.
Buona parte della trattatistica rinascimentale verte su due grandi temi di base: il paragone tra le arti, e la gerarchia dei generi nella pittura.
1 “Voglio che questa donna abbia notizia di lettere, di musica, di pittura, e sappia danzare e festeggiare, accompagnando con quella discreta modestia e col dar bona opinione di se”, Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano, III, IX (ed.consult. Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di Luigi Preti, Einaudi, Torino, 1965)
2 Maria Montessori ad esempio poté frequentare le lezioni di medicina solo scortata in classe dal padre; cfr. Marta Boneschi, Di testa loro. Dieci italiane che hanno fatto il Novecento, Mondadori, Milano, 2002, pp. XXXX
3 Date
4 Cfr. Rona Goffen, Renaissance Rivals, New Haven, 2002, p. 26

5 Vari
Se il paragone tra le arti, in special modo tra pittura e scultura, ma anche tra pittura e poesia, ad onta di accesi schieramenti e autorevoli prese di posizione – Michelangelo, Leonardo, Pietro Aretino ed altri – cercherà col tempo la strada di una cauta e conciliante sospensione di giudizio, la gerarchia dei generi stabilirà presto confini netti e sprezzanti.
Il problema della maggiore o minore importanza di generi e tematiche pittoriche parte da lontano, da Aristotele, e riguarda sia le arti figurative che la letteratura. Si trasmette nella cultura medioevale per poi trovare nuovo impulso nelle traduzioni aristoteliche in latino del 1498 (Giorgio Valla, Venezia) e del 1536 (Alessandro e Guglielmo de’Pazzi, Firenze), oltre che nella celebre edizione greca del 1508 (Aldo Manuzio, Venezia). È però Leon Battista Alberti, nel De pictura, 1436, a rilanciare per primo e in modo circostanziato la riflessione sui generi nella pratica artistica figurativa. Ove, sebbene siano auspicati (libro III) l’abilità e l’ingegno del rappresentare i minuti aspetti del naturale, animali, oggetti, effetti atmosferici, è pur sempre la storia, e la narrazione degli affetti e delle azioni in uno spazio fisico e narrativo codificato, il vero banco di prova dell’abilità dell’artista.
Dall’epoca manierista in avanti la nascita delle Accademie e dei cenacoli artistici di corte impone una codificazione più netta: si sente il bisogno di distinguere tra arte e mestiere, tra artisti e professori del pennello da un lato e decoratori ed artigiani dall’altro. Distinzioni che fino alla fine del XV secolo non avevano avuto alcun senso, essendo la bottega dell’artista un luogo di produzione differenziata ove il desco da parto aveva la stessa importanza, nell’economia d’impresa, di un cassone dipinto, di una pala d’altare o dei modelli per un ricamo.
Il dibattito porta alla fioritura di un e vero e proprio “genere” della storiografia artistica, la letteratura sui generi, che arriva almeno fino al XVIII secolo e oltre5. Si delinea una piramide che vede alla base il ritratto, il paesaggio, la natura morta, la miniatura, la decorazione, e al vertice la pittura di storia, religiosa e profana, con il punto d’eccellenza della pittura di nudo. Ecco dunque che le donne si pongono “naturalmente” in posizione di svantaggio sociale e gerarchico.
Ma la preponderanza della pittura di genere nella produzione artistica femminile ha un altro drammatico risvolto: l’anonimato.
Sulle pareti e nei depositi dei musei di tutto il mondo giacciono non identificate né identificabili centinaia di migliaia di opere anonime. L’anonimato di un’opera d’arte può segnalare un accidenti del caso – una firma cancellata da una caduta di colore, una tela ridotta nelle dimensioni con l’asportazione della firma, eccessive ridipinture che hanno alterato la superficie della tela – o può, invece, significare una valutazione non adeguata dell’opera. E da cosa nasce questa svalutazione, da una serialità della produzione, o da una volontà specifica dell’autore? Pensiamo alle tante scrittrici che hanno lavorato sotto nome maschile, o addirittura in anonimato, costrette a tale pratica dai pregiudizi legati soprattutto alla moralità. Esporre il proprio nome, magari farne guadagno: un rischio, sempre, anche quando al rischio si accompagnano onori e fama. Quante artiste, di cui magari conosciamo il nome ma che non sappiamo collegare ad alcuna opera, si offrono in tele non riconosciute ai nostri sguardi? E di quante abbiamo perso il nome perché sulle loro opere non c’era? Quante ancora sono perdute al nostro ricordo e alla nostra considerazione critica perché ignorate dalla storiografia ufficiale basata sui grandi nomi e sulla gerarchia dei generi? Delle quattro figlie di Nicolas Régnier, che lavoravano con lui a Venezia, ad esempio, non possediamo nulla.
Da questo punto di vista, non sorprende che un genere pittorico abbia invece lavorato a favore delle artiste: l’autoritratto. Mantenendone la memoria. Tra le 35 artiste ospitate nella Galleria degli Autoritratti degli Uffizi, di alcune l’autoritratto è l’unica testimonianza storica esistente. Niente opere, niente documenti, niente menzioni in dizionari e trattati di pittura. Niente, se non la tela che ne conserva col volto il nome e ne evidenzia con la sua stessa presenza la competenza tecnica. Una situazione disperante, anche in casi in cui la preminenza del nome avrebbe dovuto garantire una maggiore documentazione. Di Marietta Robusti, infatti, figlia del Tintoretto, attiva dunque in una delle botteghe più importanti e studiate di Venezia, possediamo solo l’autoritratto.

Dal momento in cui l’artista assurge ad un ruolo definito rispetto alla produzione artistica, l’autoritratto diviene pratica ricorrente: esso è contemporaneamente luogo d’esercizio prediletto dell’osservazione esteriore e psicologica, diario artistico ed esistenziale (pensiamo agli autoritratti di Rembrandt per esempio, o a quelli di Bernini), testimonianza visiva della fisicità, dell’esistenza stessa dell’artista, e soprattutto manifesto di poetica, di stile, di visione. Vi è poi da onorare la tradizione delle gallerie, letterarie e pittoriche di uomini illustri, tra cui rientrano ovviamente gli artisti che sono tenuti a parteciparvi fornendone la materia prima.
Tutto ciò ritorna amplificato nell’autoritratto femminile.
Esso infatti deve certificare l’esistenza dell’artista; il suo stile; la sua abilità artistica anzi il virtuosismo. Ma anche riconfermarne la femminilità; garantirne l’onorabilità e la modestia; testimoniarne il garbo, l’appropriatezza dei modi, l’autocontrollo.
Lo statuto dell’autoritratto femminile è dunque sospeso tra eccezionalità e regolarità, dichiara mentre nega, proclama la meraviglia di un “caso” ma rassicura sulla sua riconducibilità alla norma di genere.
Negli epistolari delle artiste è facile trovare indizi di tale uso degli autoritratti: alle pittrici viene richiesto di fornire un’immagine di sé che testimoni della propria valentia. Ma perché un autoritratto e non un’opera qualsiasi? Perché l’opera deve testimoniare non solo che l’artista è brava ma che c’è, che esiste. Perché c’è sempre il dubbio che sia un uomo, invece, a compierne le opere, tanto più quando esse testimonino di una abilità che davvero non pare appartenere alle donne.
Scriveva Rodolfo Weyberg a Rosanna Carriera: “Vi è noto, Madame, che io viaggio molto e che il re [Federico IV di Danimarca] m’impegna presso grandi corti. I vostri lavori mi inseguono dappertutto e dovunque sono ammirati. Ma sovente mi è capitato di trovare chi rifiutò di crederli fatti da una signorina: avendolo io assicurato mi fu chiesto perché non avessi il suo ritratto. Queste rimostranze acuirono in me il desiderio di averlo in miniatura dipinto da voi medesima. Vi prego, dunque, in nome dell’amicizia che avete per me concedetemi tale grazia”. Alla stessa funzione assolvevano le pubbliche esibizioni delle artiste nel proprio studio: sappiamo infatti che esse ricevevano ospiti durante il lavoro, e che anzi, tali visite erano a volte inserite negli itinerari dei notabili in visita nelle città: Bologna ad esempio, città particolarmente fiera delle sue donne, amava esibire sia Sirani che Fontana, meraviglie dell’Arte ma anche, in un certo senso, e proprio per via del loro sesso, della Natura. Donne che facevano cose da uomini dovevano confermare, insomma, di esser prima di tutto donne.
[Analisi di alcuni autoritratti, tra cui ovviamente quelli di Fontana, Gentileschi e Sirani]
Power Point: Fontana, Gentileschi, Sirani. Le opere, i nudi
III.
Lavinia Fontana (1552-1614), Artemisia Gentileschi (1593-1652) ed Elisabetta Sirani (1638-1665).
Nell’opera di ciascuna di esse è possibile rintracciare la straordinarietà della pratica del nudo all’interno della pittura di storia, religiosa e profana.
Pratica eccezionale all’interno di una eccezionalità di base, che può ben essere letta come affermazione del diritto dell’artista, donna o uomo che sia, a percorrere i sentieri dell’arte senza limitazioni di sorta, in virtù della propria professionalità. E affermazione di sé come donna, proprio in quanto essere umano, in virtù della qualità e anzi dell’eccellenza del proprio agire artistico. L’analisi iconografica e stilistica di opere delle tre artiste deve però partire da considerazioni preliminari sull’effettiva difficoltà che molte artiste testimoniano nella resa anatomica.
È oggettivamente vero che molte di loro non sanno dipingere non diciamo un corpo nudo, ma uno scorcio anatomico appena più complesso della resa frontale richiesta ad esempio da un ritratto. È oggettivamente vero che esse testimoniano nella propria pittura una reticenza, un pudore malcelato. La prima delle preoccupazioni di queste artiste è sottolineare la loro onestà: “Lavinia Virgo

Prospero Fontanae Filia…” firma Lavinia Fontana il proprio autoritratto ora all’Accademia di San Luca a Roma; “Sofonisba Anguissola Virgo…” leggiamo nell’autoritratto di Sofonisba del 1554.
Un sospetto di latente immoralità avvolge l’opera di donne che osano forzare i naturali limiti del loro sesso, ed esse, se cercano di esorcizzarne i pericoli nelle auto presentazioni di sé, ancora meglio vi riescono evitando tematiche rischiose e soggetti che potrebbero metterne alla luce conoscenze non opportunamente giustificabili, cosa che spiega anche il motivo per cui, di fatto, la maggior parte dei nudi che vedremo siano in realtà nudi femminili: ove il guardare è di per sé già problematico, ma è sempre meglio guardare il proprio corpo allo specchio, o quello di una fantesca compiacente, piuttosto che testimoniare di aver osservato un corpo maschile nudo nelle penombre della bottega o peggio, altrove.
“E questo spiega anche perché ogni famiglia vittoriana ha nell’armadio lo scheletro di una zia che è stata mandata a convertire gli indigeni visto che suo padre sarebbe morto piuttosto che lasciarle guardare un modello nudo. E così è diventata missionaria; e così è andata in Cina; e così è morta nubile; e così rotolano fuori dall’armadio, insieme alle sue ossa, una mezza dozzina di nature morte floreali dipinte all’ombra di un ombrellone bianco, in un giardino del Surrey, quando la regina Vittoria era sul trono”, Virginia Woolf.

Martin Bora: l'uomo giusto nella divisa sbagliata. La creatura letteraria di Ben Pastor di Massimo Capuozzo

Ben note e molto apprezzate sono le inchieste del giovane ufficiale dell’esercito tedesco Martin Bora o più precisamente Martin Heinz Douglas Von Bora, un singolare personaggio, creato dalla scrittrice americana, italiana di nascita, Ben Pastor (1950), annoverata ormai tra le “regine” del giallo storico internazionale, che ne ha fatto il protagonista di quasi tutti i suoi romanzi, ambientati durante la seconda guerra mondiale, con l’eccezione de “La canzone del cavaliere” che ha per sfondo la guerra civile spagnola.
Con la realizzazione del figura di Martin Bora, Ben Pastor ha il merito di aver realizzato un personaggio non esente da ambiguità politiche, che lo rendono sicuramente più intrigante, quasi inafferrabile e ad un tempo ella ha creato un tipo di romanzo che esula dai consueti schemi del poliziesco, a cui aggiunge la forza di una scrittura meticolosa capace di restituire, sul piano di un tessuto unitario, della ricostruzione storica, di ambienti e di moti dell’animo, che rende sicuramente inadeguata la classificazione di genere “Mistery”.
Ben Pastor, alias Maria Verbena Volpi, trasferitasi negli Stati Uniti subito dopo la laurea in Lettere, ha acquisito la cittadinanza statunitense senza tuttavia rinunciare a quella italiana, sposò un ufficiale dell’aviazione militare di lontane origini basche da cui mutuò il cognome Pastor. Diventata docente di Scienze Sociali presso numerose Università, accanto ad un’intensa attività saggistica e didattica, la Pastor si è cimentata nel giallo storico, scrivendo decine di racconti per le principali riviste di letteratura poliziesca ed impegnandosi nella narrativa di stampo sovrannaturale con una serie di novelle che riscossero il plauso di critici e di appassionati. Già tra queste incursioni compaiono con chiarezza due dei temi portanti della futura narrativa della scrittrice, ossia l’amore per l’antichità classica e la dolente disamina della condizione esistenziale dell’uomo in guerra. Quando nel 2000 Ben Pastor pubblicò negli Stati Uniti “Lumen”, il primo romanzo poliziesco della serie di Martin Bora, il buon esito del romanzo spinse l’autrice a scrivere ulteriori seguiti, tradotti e pubblicati in molti paesi in molte lingue: sono stati pubblicate così “Luna Bugiarda”, “Kaputt Mundi”, “La canzone del cavaliere”, “Il morto in piazza”, “La Venere di Salò” e “La morte, il diavolo e Martin Bora”.
Lo stile di Ben Pastor è caratterizzato da un taglio profondamente influenzato dal postmodernismo, per cui le regole classiche della letteratura di genere si incontrano e si contaminano con quelle del romanzo storico e del racconto di introspezione psicologica. Del resto, lo stile della Pastor è estremamente sofisticato ed articolato, frutto, probabilmente, della passione dell’autrice per scrittori quali Herman Melville, Yukio Mishima, Joseph Roth, Toni Morrison, Nikos Kazantzakis e Georges Simenon, dei quali ella stessa non ha mai negato queste influenze letterarie, accanto a quelle che ella ha mutuato da Raymond Chandler, da Hans Hellmut Kirst, autore del romanzo “La notte dei generali” e dai grandi maestri della letteratura gialla.
Per queste ragioni insieme a Margareth Doody ed ad Elizabeth George, Ben Pastor è oggi unanimemente considerata una delle voci più intense ed originali dell’odierna narrativa poliziesca al femminile.
La sua creatura letteraria è Martin Bora – amata come dice la scrittrice stessa di cui si considera madre – che ella segue con occhio vigile ed amorevole di madre e del resto sembra impossibile non affezionarsi ad un personaggio come lui: un militare così tedesco e, paradossalmente, allo stesso tempo così umano e tormentato. È difficile trovare in altri libri un uomo che soffre, per le sue ferite: quelle fisiche che si vedono e quelle interne, che non si vedono. Già questo mostra che ci si trova di fronte ad una produzione colta, in assoluta controtendenza con lo stereotipo dell’immaginario collettivo del soldato tedesco, senz’anima, macchina da guerra che ottunde la sua coscienza nel rispetto supino degli ordini ricevuti.
La scelta di un eroe che è un ufficiale della Wehrmacht è singolare, non provocatoria né reazionaria, ma umanistica come la cultura stessa della scrittrice: l’uomo è centrale di fronte alle vicende del mondo, poco etichettabile ed impossibile da ricondurre a stereotipo.
Scegliere dunque come “eroe”, un ufficiale tedesco che indossa un’uniforme che, per l’immaginario collettivo, è la quintessenza della malvagità politica e militare, mira a smantellare stereotipi e facili generalizzazioni: Martin è un ufficiale dell’esercito e non delle SS, la branca politica più che militare, sebbene ci fu una Waffen SS associata all’esercito, che funzionò tristemente sia in Italia sia nelle altre nazioni invase dalla Germania.
È ormai noto che la relazione tra Wehrmacht ed SS fu complicata fin dall’inizio, in parte perché l’esercito, con un quadro di ufficiali spesso aristocratici, conservatori, ma in ogni caso democratici, non si trovasse mai d’accordo con un corpo militare puramente politico, che non aveva nessuna delle tradizioni dell’esercito tedesco vecchio di secoli quando il Nazismo vi innestò il suo malevolo ceppo che non rispettava le nobili regole di guerra: un recente libro dell’Istituto per la Ricerca Sociale di Amburgo conferma che comandanti e truppe dell’esercito si macchiarono di complicità nei crimini nazisti.
Martin Bora non fa questo: a volte direttamente, a volte servendosi del Paragrafo 47 1.b del Codice Penale Militare, secondo cui ci si poteva rifiutare di commettere atti contrari alla decenza umana, pochi ebbero il coraggio di farlo, ma per questo la Pastor ha creato un personaggio che ‘resiste’ dall’interno del sistema: sebbene non siano mancate situazioni in cui l’esercito tedesco collaborò con le SS, gli ufficiali mantennero generalmente le distanze e per questo Bora rientra in un’intercapedine interessante sia dal punto di vista etico sia dal punto di vista politico, che gli concede di servire la sua nazione e, allo stesso tempo, di prendere le distanze fin dall’inizio dalla tetra e lugubre dittatura nazista.
Del resto la Pastor non ha creato ex nihilo il personaggio di Martin Bora, ma si è ispirata alla figura del colonnello Claus von Stauffenberg, che attentò invano alla vita di Hitler il 20 luglio del 1944 e pagò amaramente il suo eroismo, ma fa di Martin Bora un agente volontario al servizio dell’Abwehr, il servizio di “intelligence” dell’esercito tedesco della Wehrmacht, l’uomo giusto nella divisa sbagliata.
Martin Bora è infatti un personaggio difficile: sebbene egli non condivida l’ideologia ed i metodi nazisti, è pur sempre un ufficiale dell’esercito tedesco durante il regime di Hitler.
Un’autentica sfida scegliere proprio un soldato della Wehrmacht come ‘eroe’, una battaglia anche contro i luoghi comuni della Storia. «Quanto alla sfida al luogo comune del nazista cattivo (o di qualsiasi cattivo ‘tout court’) – dichiara Ben Pastor – mi sembra necessario ricordare […] che ogni delitto è individuale, e che le responsabilità sono, anche nei casi più clamorosi, quelle dell’essere singolo. Nell’America del selvaggio West si diceva che ‘l’unico indiano buono è un indiano morto’; nel Medio Oriente, vediamo oggi come intere nazioni siano accusate di atrocità, come se non fossero individui che le commettono, da una parte e dall’altra. Le generalizzazioni sono troppo semplici, e spesso pericolose. Si tratta piuttosto di dire la verità. Il che cerco di fare modestamente come modestamente la narrativa fa da ancella alla storia in ogni romanzo».
Alto, slanciato, occhi con iridi verdi cerchiate di azzurro, impeccabile nel vestire, “nato ricco e aristocratico”, di madre inglese, discendente addirittura di Lutero, a Martin dunque non manca niente se non fosse per la mano sinistra artificiale, avendo perso quella vera durante un incidente in cui era rimasto vittima di una granata, evento che non gli ha in ogni caso impedito di fare carriera nelle Forze Armate tedesche e di assumere responsabilità di investigatore nel corso delle quali egli ha sempre rifiutato tutto quello che politicamente gli è imposto. Uomo colto, laureato in filosofia, eccellente suonatore di pianoforte, cita Dante e Virgilio, legge “Gli esercizi spirituali” di Ignazio di Loyola e le poesie di Garcia Lorca, le massime di Le Rochefoucauld, le poesie di Hoelderlin, l’Odissea, la Bibbia, i Promessi Sposi e via discorrendo. Sposato con Benedikta, che chiama affettuosamente Dikta invano nella attesa di un figlio che non riesce a portare avanti con tre aborti. Sicuro di sé, dotato di fermo autocontrollo, ma, di tanto in tanto, “una lama di malinconia” sembra turbare la solidità della sua sicurezza. È il contrasto fra il forte senso del dovere di Martin nello stesso tempo la sua quasi certezza che qualcosa non quadri: «Eppure spesso gli sembrava che soldati come lui fossero carta straccia, appallottolata in mano a qualcuno e in procinto di essere buttata via».
I casi criminali che egli ha risolto, sono estremamente diversi uno e anche più di uno per ogni romanzo.
Trattandosi di una saga, è preferibile seguirne l’ordine cronologico del personaggio piuttosto che le date di pubblicazione dei romanzi che, invece fanno dei passi avanti e indietro, che servono alla scrittrice a completare il personaggio, per indicare gli aspetti che ella ritiene essere rimasti in ombra. Martin fa la sua prima apparizione alla fine del 1936, appena ventiduenne comincia a combattere e comincia ad indagare nel 1937 in piena Guerra Civile Spagnola.
Già alla fine della guerra civile spagnola, Bora comincia ad avere dei dubbi sulla realtà politica a lui contemporanea: Martin riesce sì ad avere l’attrattiva dell’uniforme del soldato, ma anche la dignità personale di un uomo che resta democratico dentro di sé e nemico delle sopraffazioni, a suo rischio chiaramente, perché non si trova nella posizione di potersi opporre in maniera sfacciata.
Il romanzo “La canzone del cavaliere” del 2004 è ambientato in Spagna nel 1937. La guerra civile tra repubblicani ed insorti franchisti non conosce un momento di tregua: i luoghi, il clima, le città ed i paesi, i contesti storico-culturali della Spagna del 1937 sono resi in maniera storicamente ineccepibile. Le persone, la natura l’ambiente sono fermi, immobili, come in attesa dello scatenarsi di qualcosa.
In questo contesto, Martin, convinto volontario tedesco ventenne, addestrato in un battaglione del “Tercio”, la legione straniera spagnola franchista, vive il conflitto spagnolo come un’avventura entusiasmante, dove il rigore delle scelte politiche si sposa all’impeto vitalistico dell’azione pura.
I primi dubbi di Bora cominciano, dunque, ad apparire quando si imbatte nella provincia di Aragona nel cadavere di un uomo barbaramente assassinato da un colpo di pistola alla nuca: è Federico Garcia Lorca, brillante poeta, progressista, omosessuale. Il romanzo comincia dal rinvenimento del cadavere del poeta da parte di Martin che tuttavia non lo riconosce. Contemporaneamente, sul campo opposto, l’americano “Felipe” Walton, che attendeva l’arrivo di Lorca, va alla sua ricerca e scopre anche egli il cadavere del poeta, ma Bora nel frattempo se ne è andato, ed egli lo porta al suo campo e si preoccupa di seppellirlo.
Nel campo internazionalista convivono sia combattenti comunisti, come il francese Brissot, sia anarchici ed anche un evaso dalla galera, il basco Maetzu.
Walton, comandante del gruppo, ha combattuto al massacro di Guadalajara e prima ancora nei campi della I guerra mondiale a Soisson, ma si porta dentro un segreto: egli ha provato paura, la paura della morte, che non ha condiviso con nessuno, infatti, a Guadalajara stava scappando, quando è stato ferito.
Nel campo nazionalista è presente il colonnello Serrano, “Hildago” della migliore nobiltà ispanica: questi chiede a Bora di indagare sull’omicidio, per verificare se sono stati i comunisti. Nel campo franchista si trovano, tra gli altri, Fuentes, un ex poliziotto, Tomè, un omosessuale e Niceto un ex attore. Bora deve riferire dell’indagine a Cziffra, enigmatico ufficiale dei servizi segreti tedeschi, suo superiore all’Abwher, che confida a Bora che Lorca era protetto dai servizi segreti.
A Teruel, Bora si imbatte in altri militari, che sembrano legati a quella morte, agenti dei servizi, ma si imbatte anche in Walton, che, come lui, vuole sapere chi e perchè ha ucciso il poeta. Le versioni ufficiali non convincono Martin, che inizia una pericolosissima inchiesta per vederci chiaro, in sincronia con l’indagine condotta da un “nemico”, l’americano Philip Walton.
L’indagine porta Martin a conoscere Remedios, una donna considerata una “Brujos”, una strega, affascinante figura di donna e di amante che vive in cima alla montagna a Mas del Aire in una cappella sconsacrata: sia Bora sia Walton sono attratti da Remedios e l’americano ne è geloso.
L’incontro di Martin con Remedios è fondamentale: per lui è la scoperta dell’amore.
L’azione ha una svolta decisiva con il faccia a faccia tra Martin e Walton: dopo uno scontro fisico, essi decidono di raccontarsi ciò che sanno per condividere le informazioni.
Bora riesce a scoprire l’assassino, un militare dell’esercito franchista, ma non riesce a comunicarlo all’americano, perchè il suo superiore lo trasferisce a Teruel, dove stanno per iniziare i combattimenti.
Contemporaneamente, l’americano sopravvive all’attacco di uno Stukas, che gli fa rivivere le paure da cui sta sfuggendo.
Anche se l’azione del romanzo è debole e passa da un campo all’altro, repubblicani e franchisti, distanti solo poche centinaia di metri, in esso prevalgono le riflessioni dei due protagonisti: Bora che vive il suo battesimo di fuoco, come militare, nel pieno delle sue illusioni militari combatte questa crociata per purificare la Spagna e, nel futuro l’Europa intera. Il suo vigore non gli fa temere la morte. Walton invece è colui che è sfuggito da tutto: dalla famiglia, che lo costringeva ad una vita già preordinata, dal campo di battaglia e che, dunque, si sente già morto molte volte.
Per entrambi si avvera la profezia di Remedios: aveva detto a Bora che sarebbero vissuti per altri 7, senza specificare se si tratti giorni, mesi, anni. Walton muore al settimo mese di guerra, nell’assedio di Teruel, per Martin passeranno sette anni, dunque nel 1944.
Il libro si conclude nel 1939, in Polonia: Bora scrive nel suo diario le memorie dei giorni in Spagna e dei primi giorni dell’invasione della Polonia. Annota: «La canzone del cavaliere finisce qui e qualcos’altro - qualcosa di indistinto che vorrei chiamare gloria, ma che so fin d’ora fatto di sangue - è gia iniziato».
In tutto il romanzo aleggia F. Garcia Lorca e le sue poesie: ogni capitolo del resto inizia con dei versi tratti da classici ed in particolare dalle “Caside” del “Divàn del Tamarit”. Mistero, passione e morte aleggiano in tutto il libro, dove premonizioni e sogni inquietanti sono parte integrante della trama.
Particolarmente emblematico è il discorso sul “Duende”, fra Martin Bora e Niceto, uno dei suoi soldati, ex attore di teatro, amico di Lorca.
«A ogni conto ignoro chi abbia ucciso fisicamente Federico Garcia Lorca. E non è davvero che sia poi così importante. Quello che l’ha ucciso davvero è altro. Bora spostò lo sguardo oltre Niceto, verso il povero albero mutilato sotto cui Tomè stava abbeverando Pardo.
– Cosa significa “altro”?
– Il duende.
– Duende. Gliel’ho già sentito nominare. Non conosco il significato della parola. Cos’è il duende?
Niceto sorrise con garbo. – Non è una domanda cui si possa rispondere.
– Se il duende esiste, avrà pure una definizione!
– Si, certo. Ma è una di quelle cose meglio descritte dalla loro assenza. Posso riconoscere al primo sguardo chi non ha duende. Ma se uno ce l’ha, bè… è difficile esprimerlo a parole. Un termine utile potrebbe essere “spirito”. Oppure “anima”. Tuttavia, non esiste alcun sostantivo in grado di spiegare compiutamente il duende. Mi consenta di metterla in un altro modo, teniente. Ho notato che lei disegna, legge, apprezza l’arte… Per caso suona uno strumento?
Bora annuì, incerto della direzione che stava imboccando la conversazione. – Si, il pianoforte.
– E come se la cava alla tastiera?
– Mi esercito da quando avevo 5 anni. Ritengo di suonare bene. Estremamente bene, a volte.
Niceto battè le mani, producendo un vago suono d’applauso.
– Si, ma così bene da farle sentire Dio nelle dita, come se lei fosse un’unica cosa col piano, la musica e Dio stesso?
Bora esitò.
– Capisce, teniente? Come se lei e la musica…
– A volte si. Ci sono momenti così.
– Al di là della tecnica?
– Al di là e al di fuori.
– Ma è un fuoco, un fuoco che brucia nel midollo e nelle viscere? Qualcosa come…
Bora non fraintese più quello che voleva dire Niceto. E anche se gli risultava imbarazzante ammetterlo, riconobbe: – Come l’amore? Si. Ma anche come la morte. Quando suono in quel modo, qualunque sia la musica, ovunque mi trovi, è… non so perché, ma è come morire.
– Ecco! – Niceto si illuminò. – Una passione che è come la morte: questo è il duende, qualunque sia il campo a cui tale passione si applica: la musica, la poesia, la guerra. Quando fa qualcosa così bene che nessuno può sostenere il confronto in quel momento, quando il limite è troppo vicino per dire cosa sia la vita, quello è il duende. E Lorca ce l’aveva. Troppo – credo che averne troppo sia un male, quanto non averne affatto.
Bora si tormentò il taglio sulla mano, annuendo. Tomè, sul crinale, aveva finito di abbeverare Pardo, e tornando indietro rivolse uno sguardo intenso ai due uomini all’ombra della tettoia. Il tedesco ne fu seccato.
– Capisco cosa vuol dire – rispose in fretta a Niceto.
– Il duende forse spiega l’arte di Lorca e la sua attrazione nei confronti della morte, ma come potrebbe averlo ucciso?
Niceto poteva aver notato o meno lo sguardo di Tomè. In ogni caso uscì dall’ombra della tettoia. – Los enduendados se mueren jovenes, teniente. – Indietreggiò di un passo, in pieno sole. – Il prezzo è morire giovani. Per questo non mi dispiace essere un attore appena sopra la media: potrebbe assicurarmi una vita più lunga.»
Martin Bora vive la Seconda Guerra Mondiale sempre al centro della scena bellica e si trova casualmente a svolgere le indagini con problematicità sempre più intensa. I dubbi ed i tormenti di Martin, le sue opposizione alle SS ed alla Gestapo cominciano in sordina nel romanzo ”Lumen” del 2001, ambientato nella Cracovia del 1939, nei primi giorni dell’invasione nazista.
Acquattato nel chiostro di Nostra Signora delle Sette Pene, un misterioso assassino uccide la reverenda Kazimierza, madre superiora dello stesso convento: ella però non era una semplice suora, aveva ricevuto le stimmate ed aveva dato prova di una miracolosa capacità profetica, al punto da guadagnarsi la venerazione spontanea del popolo.
L’omicidio della badessa, un crimine molto inusuale, suscita imbarazzo sia nelle autorità tedesche sia nel clero polacco. Per sciogliere l’enigma di un crimine, che sfiora il sacrilegio, si costituisce, quasi suo malgrado, una coppia investigativa assai poco ortodossa: il capitano Martin Bora dei servizi di sicurezza tedeschi, ufficiale ligio al dovere, ma tutt’altro che nazista, e padre John Malecki, un sacerdote di Chicago di origine polacca alle dipendenze dirette del Vaticano.
Gli occupanti nazisti temono che nascano dei disordini e che l’omicidio sia attribuito ai tedeschi, ma anche il Vaticano, che già pregustava le entrate economiche che sarebbero derivate dai futuri pellegrinaggi in un nuovo luogo di culto dedicato alla santa, apre un’inchiesta. Così Martin e padre Malecki si ritrovano a tentare assieme di “districare la matassa” e risolvere un caso che non ha precedenti nella storia del crimine, un enigma sacrilego, senza contare le ripercussioni diplomatiche tra la Chiesa ed il III Reich: unico indizio nelle tenebre della loro inchiesta è un’ambigua profezia della vittima con al centro la parola latina “lumen”.
Inoltrandosi nei meandri di un labirinto di menzogne, di inganni, di false piste e di doppi giochi, Martin e padre Malecki conducono un’inchiesta sul filo del rasoio, disseminata di pericoli mortali e sorprese sconcertanti ed alla fine, per giungere alla verità sull’omicidio di Madre Kazimierza, si troveranno a rischiare non solo la propria incolumità fisica, ma anche qualcosa di ben più prezioso: la loro stessa anima.
Tra Malecki e Bora si sviluppa un’amicizia intellettuale. Insieme, essi alla fine non solo sono in grado di risolvere il crimine che rischia di provocare una rivolta in Polonia, ma anche quello dell’inaspettata misteriosa morte del donnaiolo compagno di stanza di Bora. Nonostante la loro differenza di età, l’educazione e credenze, i due uomini condividono un idealistico ed ardente desiderio di giustizia. Il coraggio di Malecki lo conduce in pericolose acque politiche, mentre il senso di indignazione morale di Bora è alimentato dall’azione genocida dei suoi compatrioti. Sarà Padre Malecki capace di risparmiare l’anima in una terra già insanguinata dall’Olocausto?
Martin ormai separato dalla sua attraente ed egoista moglie, nel corso del romanzo rischia anche di perdere il suo self-control con l’attrice Ewa Kowalska e per la sua bellissima figlia Helenka. Nel romanzo si trova un piccolo capolavoro: l’incontro al ristorante tra il Capitano Bora e Ewa Kowalska in cui si vede tutta la classe e anche la differenza fra uno scrittore ed una scrittrice. Difficilmente un uomo sarebbe riuscito a penetrare così la psicologia dell’atteggiamento e delle posture di una bella donna che invecchia.
Ma mano che gli anni della guerra procedono Martin si oppone sempre più frequentemente e con sempre maggiora esasperazione alla SS e alla Gestapo, in un crescendo sia della sua malinconia e del suo orrore per quello che sta succedendo, sia del suo coraggio per affrontare un rischio che diventa sempre più palese.
Nella raccolta di racconti “La morte il diavolo e Martin Bora” del 2008 Ben Pastor dedica ben tre racconti a Martin, cui, l’ultimo lavoro della Pastor riserva poco più di cento pagine, affidandogli tre casi che diventano altrettanti racconti capaci di replicare, in scala ridotta, lo schema narrativo dei romanzi.
I tre episodi del nuovo libro si inseriscono come dei cunei, come dei tasselli nelle vicende della vita di Martin – se si trattasse di un quadro si potrebbero definire delle pennellate utili a creare un effetto di luci e ombre.
Dettagli della sua vita privata si aggiungono al racconto della grande Storia e alle indagini investigative che Martin deve seguire suo malgrado, tormentato dalla convinzione che il Male debba essere perseguito e tuttavia consapevole di un confronto continuo con un Male dalle proporzioni infinitamente più grandi. E Martin riesce a dare il suo contributo per il trionfo del Bene contro ogni apparenza, anche se è solo una particella minuscola di Bene, anche se significa, paradossalmente, tacere il vero o coprire quella che è una colpa per le leggi degli uomini.
Il primo racconto di “La morte, il diavolo e Martin Bora” è ambientato in Russia, in Ucraina nel 1941. Tutto inizia un mese dopo l’inizio dell’“Operazione Barbarossa”, l’attacco nazista all’Unione Sovietica. Il giovane capitano Martin Bora è tra i primi a varcare il confine tra Germania e Russia: mentre si appresta ad affrontare l’inferno del fronte russo, Bora è costretto a dare prova del suo talento investigativo, inciampando quasi subito nel cadavere mutilato di una contadina di un villaggio in cui si trova a studiare il folclore locale Vladimir Propp, una Balka, cioè una prostituta, uccisa con le mani mozzate. Considerato il suo ruolo nella vicenda, l’autore della “Morfologia della fiaba” non avrebbe esitato a definire se stesso, in questo caso, un "aiutante" dell’eroe. Nel brutale assassinio ci sono tre possibili indiziati: il vecchio beone, il mercante ebreo ed un giovane fannullone innamorato.
Il secondo racconto di “La morte, il diavolo e Martin Bora” è ambientato nella Praga del feroce Reinhard Heydrich, il ‘boia’ di Praga, del 1942, obbligato ad un pericoloso doppio gioco: un uomo ucciso, un cane morto, un microfilm, un attentato mortale e Martin indaga sull’assassinio di un informatore civile del Reich, mentre un attentato uccide il gerarca nazista Heydrich. A Praga incontra la moglie dalla gelida bellezza e dal cuore altrettanto gelido.
Con “Luna Bugiarda” del 2002, Ben Pastor si conferma narratrice raffinata ed intelligente, elargendo sorprese e ritmo in una perfetta architettura narrativa popolata da personaggi splendidamente caratterizzati. “Luna Bugiarda”, seducente ed appassionante, è dominato dalla forte umanità di Martin Bora: dopo la detection a sfondo religioso in “Lumen”, l’eroe imperfetto Martin si muove tra delitti, indizi ed assassini invisibili, sullo sfondo di un conflitto che sembra accentuare ancor più la sua inadeguatezza al ruolo di soldato irreprensibile e spietato.
Il romanzo è ambientato a Verona nel 1943. Martin, reduce dall’inferno del fronte russo da cui di recente trasferito si trova in Italia all’indomani dell’8 settembre 1943, dislocato a Lago, un piccolo paese del Veneto a ridosso di Verona, un presidio di retroguardia ancora lontano dalla linea del fronte, dove egli si sta ancora riprendendo dalle ferite ricevute in un attentato partigiano.
Qui, quasi suo malgrado, Bora, la cui ortodossia politica è fortemente in dubbio, è “invitato” nell’indagine sul bizzarro quanto misterioso omicidio di Vittorio Lisi, il più illustre e potente gerarca del Partito Fascista della regione, investito da un’auto che sembra essersi dileguata nel nulla: un crimine scandaloso, che minaccia di infangare l’immagine pubblica del Regime.
Prima di morire l’uomo ha tracciato sulla ghiaia una lettera, la “C”, e la vedova, Claretta, diventa la prima sospettata, visti i difficili rapporti col marito e l’inspiegabile ammaccatura comparsa sul cofano della sua automobile.
Investigatore brillante, ma in crisi con se stesso, Bora accetta l’incarico. L’ispettore Sandro Guidi, un placido funzionario locale, a sua volta alle prese con un inafferrabile assassino seriale, che sta insanguinando i dintorni, che lascia dietro sé una scia di cadaveri senza scarpe, affianca Bora nell’indagine, che si annuncia intricata come una ragnatela ed esplosiva come un campo minato.
L’ispettore Guidi, che riassume in sé tutti i vizi e le virtù dell’italiano degli anni Quaranta, è presto catapultato in un mondo di inganni e di intrighi. Esiste un collegamento tra i due casi? Per quali motivi le autorità fasciste fanno di tutto per ostacolare le indagini? E perché la vittima del primo omicidio ha disegnato sulla ghiaia l’enigmatica “C”?
La collaborazione tra i due, fin dall’inizio fredda e difficile, si complica, quando Guidi si accorge di nutrire un sentimento importante per la principale indiziata, ma le verità possono avere mille facce, e man mano che Bora mette assieme i tasselli del puzzle, il passato degli attori impegnati nell’intricata recita di morte, amore e guerra rivela segreti imprevedibili.
Mentre sullo sfondo infuria la lotta partigiana con la paura di rappresaglie e si consuma il dramma dell’Olocausto e le deportazioni degli ebrei italiani, ha così inizio una serrata caccia al colpevole, densa di insidie mortali, all’inseguimento di una verità innominabile che molti, troppi, preferirebbero seppellire nel silenzio.
Sono tempi pericolosi e la guerra sullo sfondo è nemica della misericordia. I due uomini, a loro volta, si sostengono e collaborano. Le domande si moltiplicano. L’uomo morto era un eroe o un mascalzone bigamo? Che cosa significano le sigle misteriose segnate a matita sul suo calendario? E, che cosa significa la lettera graffiato nella sabbia accanto al suo corpo per stare in piedi? Presto ognuno è un potenziale sospetto, dalla milizia fascista ad un ex amante della vedova, da nemici politici a coloro che conoscono la verità sul passato della vittima.
Ossessionato dalla sua nota opposizione alla politica delle SS in Russia, Bora deve meritare la sua promozione anche mentre indaga sull’omicidio, mentre Guidi è turbato ed innamorato ed affronta l’enigma più contorto e insidioso della sua carriera, in un labirinto di inganni dove ogni passo può costare la vita. Ad accompagnare la sua indagine, solo il chiarore della luna... Una luna bugiarda. La soluzione del delitto arriva inaspettatamente.
Un romanzo magistrale, in magico equilibrio tra affresco storico e suspense. Un giallo trascinante e raffinatissimo, che dispensa colpi di scena dalla prima all’ultima pagina e colpisce al cuore. «Ben Pastor – scrive Danila Comastri Montanari – è un’autrice con un talento meraviglioso. I suoi romanzi sono dei magnifici gialli, forti, intensi, emozionanti».
Martin Bora è un detective dotato di una rara umanità dotato di un impeccabile senso di giustizia ed è interessante osservare come si giunge alla conclusione dello scontro tra Bora della Wehrmacht e i suoi molti nemici della SS e della Gestapo che lo seguono nell’ombra ormai da molti anni.
Da Verona, a Roma ad un paesino dell’Abruzzo all’Appennino emiliano a Salò, Martin manifesta di avventura in avventura il maturare di un progressivo allontanamento dalla barbarie del Nazismo, come già testimoniano chiaramente le splendide pagine sulle Fosse Ardeatine di ”Kaputt Mundi”.
“Kaputt mundi” del 2003 è ambientato a Roma nel terribile periodo gennaio-giugno del 1944, durante l’occupazione nazista. Anche questo romanzo è molto di più di un giallo: per gli “appassionati” del periodo storico, infatti, l’elemento investigativo lascia il posto alla precisa ricostruzione dell’ambientazione, una Roma fra il dicembre 1943 ed il giugno del 1944. Mentre le truppe alleate stanno risalendo lentissimamente la penisola, la Capitale d’Italia, città ancora “chiusa”, vive i momenti più drammatici dell’occupazione nazifascista: il coprifuoco, la fame, le retate, l’attentato di via Rasella ed il conseguente eccidio delle Fosse Ardeatine, fino alla liberazione del giugno 1944. Il romanzo è dedicato ad Aldo Sciaba, che compare anche come personaggio minore nel romanzo: Sciaba non esiste storicamente, ma esiste una delle vittime delle Fosse Ardeatine di cui non si conosce né il nome né l’età, si sa che era un uomo e la Pastor ne ha fatto un personaggio perché non esiste niente di più doloroso dopo la morte, e una morte così crudele e immeritata, che rimanere ignoti.
In questo romanzo emerge ancor più chiaramente il tormento interiore di Martin Bora, un uomo d’onore dimidiato tra l’obbligo di servire il suo Paese e quello di seguire la sua coscienza: ricorda lo sgomento da lui provato nel vedere le umiliazioni inflitte agli ebrei in Polonia ed ora sa che la sua presenza a Roma, è sorvegliata dalla Gestapo.
Oltre a Martin Bora, Ben Pastor caratterizza con efficacia sia i personaggi inventati sia quelli reali e la sua rievocazione senza nessuna retorica del clima di angoscia e di disperazione, ma anche di speranza, che regnava a Roma durante l’occupazione tedesca, è magistrale: le pagine dedicate all’attentato di via Rasella ed alla strage delle Fosse Ardeatine varrebbero quasi da sole la lettura del romanzo. La repressione nazista, contro ebrei, partigiani e renitenti, gli attentati contro le forze di occupazione tedesche, che porteranno all’attentato di Via Rasella, le fasi concitate, che portarono alla tremenda rappresaglia: l’ordine prima di far saltare il quartiere, poi di uccidere 50 italiani per ogni tedesco morto, fino alla scelta della proporzione di 10 a uno.
I personaggi del romanzo si mescolano alle figure storiche quali Kesserling, l’ambiguo colonnello Dollmann, che fu assoldato dalla CIA al termine della guerra, Maelzer, Kappler e Priebke, un giovane “hauptsturmfuerher” delle SS, rimasto sconosciuto ai più fino all’inizio degli anni ‘90, Monsignor Montini, sostituto della segreteria di Stato in Vaticano ed il questore Pietro Caruso. Ma soprattutto autentica è la ricostruzione della città, dal punto di vista dell’ambientazione, dell’umore della popolazione, dei gerarchi e dei funzionari fascisti, che non si rendono conto della loro fine.
Un discorso a parte merita Eugenio Dollmann, cattolico, conoscitore dell’arte e della cultura italiane, colonnello “per incidente”, che diventa un compagno di viaggio di Martin. Il suo libro, ”Roma nazista”, recentemente ripubblicato, offre una visione interessante, completa e maligna degli eventi che hanno circondato la seconda guerra mondiale, in particolare l’occupazione di Roma in cui Dollmann si trovava.
In questo drammatico contesto, caratterizzato da un clima di attesa, di paura e di speranza, Martin Bora deve risolvere un delicatissimo caso di duplice omicidio. Le vittime sono una segretaria tedesca, il cui corpo è trovato sfracellato in strada, “accidentalmente” caduta da una finestra del quarto piano dell’ambasciata del Reich, per un presunto apparente suicidio ed un cardinale del Vaticano, vecchio amico di Bora e, al pari di Martin, silente oppositore del regime nazista.
La morte sospetta di Magda Reiner è certamente un crimine minore in uno scenario di morte violenta per azioni di guerra o per le feroci rappresaglie eseguite dai nazisti, e la lotta contro il tempo di Martin, nella ricerca angosciata del luogo dell’eccidio che verrà ricordato con il tristemente noto nome delle Fosse Ardeatine, come se la sua vita stessa dipendesse dal riuscire a salvare almeno una vittima, “se avrai salvato anche una sola persona...”, dice il Talmud, ha una valenza etica e una tensione drammatica incomparabili nella letteratura di genere.
Martin deve muoversi in un territorio ostile, la città di Roma, di cui egli, uomo di cultura che ha studiato filosofia, è affascinato: i tedeschi sono però visti come invasori, sgraditi ospiti, che occupano militarmente una città definita “aperta”. In tal senso è fondamentale la visita al monumento della lupa, che difende i cuccioli d’uomo contro un nemico: Martin si rende conto che il nemico è lui, che i nemici sono loro, i Tedeschi.
Mentre Martin è a Roma, gli giunge la notizia del bombardamento di Lipsia. Di recente si è messa in discussione la necessità del massiccio bombardamento delle città tedesche da parte degli Alleati. I bombardamenti di Lipsia e di Dresda sono stati disastrosi sebbene nei libri di storia contemporanea non si parli delle sofferenze dei civili in Germania. Quali responsabilità avevano i civili tedeschi nell’evoluzione del nazismo? Erano tanto colpevoli da meritare un bombardamento a tappeto? I civili sono raramente responsabili delle malefatte dei propri governi, ma fino a che punto possa un dittatore arrivare al potere senza l’appoggio del popolo, è un’altra questione. È stupefacente che fino ad ora non si sia trovato modo di parlare in modo convincente di tutte le vittime civili dei bombardamenti. «Vorrei ricordare agli altri – dichiara Ben Pastor – a quelli della mia generazione, di quella precedente e, soprattutto, della generazione seguente, che le vittime innocenti di una guerra sono quelle che più chiaramente gridano contro la guerra. Tutti gli altri hanno fatto una scelta, i civili no, per questo è giusto parlarne».
Nell’indagine, Martin è affiancato ancora una volta dall’ispettore Sandro Guidi, con cui aveva già lavorato nei giorni trascorsi a Verona. Il questore Caruso consegna a Guidi una soluzione già impacchettata: dare la colpa ad un gerarca fascista, Merlo, amante della morta. Ma Guidi e Bora riusciranno, nonostante la guerra, le SS, ad arrivare alla soluzione. Se la storia della morte non è vera, è molto verosimile: sono vere invece le vicende raccontate dalla scrittrice e che coinvolgono direttamente Bora e Guidi.
Al centro della scena ci sono continuamente Roma e Martin Bora.
In “Kaputt Mundi”, Roma è protagonista molto di più di quanto non lo siano Cracovia o Verona nei precedenti romanzi, che pur essendo erano state centrali della scena, è certamente protagonista perché Roma in guerra è una città singolarissima, così antica, così disincantata. Guerre e sofferenze vengono e vanno, e Roma sopravvive, smitizzando le sue sofferenze, è una città capace di sopportare e andare oltre. «Mi interessava – scrive la Pastor – questa città grande, potente, sconfitta in questo momento, afflitta, invasa eppure capace di funzionare in certi modi. Volevo mostrare la sua bellezza sia pure sotto le bombe, sotto le sofferenze degli imprigionamenti, delle rappresaglie, la sua capacità vitale di andare oltre».
L’atmosfera di Roma all’arrivo degli americani è descritta attraverso gli occhi di Bora in altre splendide pagine: la gioia, le signorine attorno ai militari, la gente in piazza.
Poi c’è Martin Bora, amante della guerra, ma paradossalmente anche antinazista. Nella nota a termine del libro, l’autrice cita il libro di Omero, l’Iliade, poiché uno dei temi affrontati dal libro è quello del soldato in territorio nemico, come l’oplita sotto le mura di Troia. Il tono del romanzo è epico e Bora, come uno degli eroi greci, è capace, sotto un bombardamento ad un ospedale, di uscire dalle rovine. «Con uno sforzo inaudito, attraverso le macerie Bora raggiunse il letto e afferrò la mano frenetica dell’americano che vi giaceva».
Martin è entrato nell’esercito che era poco più che un ragazzo, ora è un giovane uomo di 30 anni più che mai solo: un po’ alla volta ha perso tutti, si trova isolato sia come essere umano, sia come credente, in quanto uomo “contro” dentro un sistema politico tremendo e crudele.
Nei suoi rapporti con Guidi e Dolmann, con la contessa Ascanio, con Kesselring e con Nora Murphy, sembra che Martin sia in cerca del fratello, del padre, della madre e di una donna da amare. In “Kaputt Mundi”, Martin collabora non solo con Guidi, ma anche con Dollmann, colonnello sui generis delle SS, con l’ex-moglie del patrigno, con il capo delle forze tedesche Kesselring, con una donna nuova, Nora Murphy, si confronta con personaggi che riempiono il suo vuoto interno in un modo rischioso, perché è un tentativo di rifarsi i contatti primari in modo avventizio, perché sono incontri in un periodo distruttivo e lui stesso non sa quanto fidarsi di queste ricostruzioni sia di parentela sia di affetto. La scrittrice vuole ostinatamente metterlo a confronto con questo bisogno d’amore, e il suo successo o mancanza di successo nell’ottenerlo durante la storia.
L’alter ego di Martin, l’ispettore Guidi che vive con lui un rapporto controverso: egli sente di poter provare per lui un’amicizia, ma l’episodio delle Fosse Ardeatine tronca ogni possibile evoluzione. Guidi pensa per un attimo anche di uccidere Bora, ma non ci riesce e solo alla fine i due si salutano andando in direzioni opposte, Guidi verso la resistenza e Bora si ritira verso il nord con le truppe tedesche e seguirà il suo destino che lo porterà altrove in Italia, in due località, due del centro-Nord e poi a Salò stessa, dove si troverà alla fine della guerra.
Nel romanzo “Il morto in piazza” del 2004 siamo nel giugno del 1944, durante la ritirata dell’esercito tedesco dall’Italia centrale.
Mentre le truppe tedesche si stanno ritirando da Roma, il tenente colonnello Martin Bora, lascia Roma a bordo della sua Mercedes diretto a Bolsena, per prendere il comando del 96° Reggimento Granatieri. Ma a Casale Malborghetto, intercettato da un nucleo antinazista, Martin è fermato ad un posto di blocco, dove il generale Senger und Etterlin della Wehrmacht gli conferisce un nuovo incarico, molto delicato e riservato.
Gli ordini sono di raggiungere Faracruci, un piccolo paese alle pendici del Gran Sasso, in Abruzzo, per una missione ad altissimo rischio: Bora deve prendere in custodia Borgonovo, un prigioniero politico al confino e convincerlo a consegnare alcuni documenti riservati. I documenti sono stati consegnati al confinato da Benito Mussolini stesso, mentre era prigioniero a Campo Imperatore, prima che fosse liberato dal raid dai paracadutisti tedeschi: si tratta di recuperare alcune lettere del carteggio Churchill-Mussolini, che quest’ultimo aveva affidato all’avvocato Luigi Borgonovo, un suo vecchio amico socialista, attualmente al confino politico, per non farlo cadere nelle “mani sbagliate”.
Bora è preoccupato per la missione, per cui dovrà eliminare un civile, per i ricordi del suo passato che riemerge: la morte del fratello, gli orrori della Russia, le SS, che stanno accumulando un dossier contro di lui. Ma anche il ricordo dell’amore lasciato a Roma, solo poche ore prima.
Tutti vogliono quei documenti: gli Alleati, che ormai sono alle porte di Roma, ma anche la RSAH cioè l’Ufficio Centrale di Sicurezza del Reich. Inizia così l’operazione in codice Elster, gazza ladra, e Bora riprende il suo servizio per l’Abwehr.
Fedele alla consegna, Bora raggiunge Faracruci, il paese dove Borgonovo sta scontando il confino.
Ma, preso contatto con Borgonovo, nel giro di poche ore, le cose diventano terribilmente complicate col ritrovamento del “morto in piazza”, un uomo ucciso misteriosamente e lasciato in vista di tutti sulla piazza del paese. Bora e Borgonovo iniziano ad indagare. Chi è il morto? Quale motivo l’ha spinto a Faracruci? Perchè è stato ucciso? Forse lo stesso di Bora oppure una ragione diversa, magari ancora più complicata, contorta, drammatica? E chi è l’assassino?
L’indagine li porta indietro nel tempo, fino agli anni della prima guerra mondiale, finché non scoprono che il morto di Faracruci è legato ad un vecchio omicidio, di 25 anni prima.
Bora e Borgonovo capiscono che antichi torti nel paese bruciano ancora oggi: «un antico crimine che non a caso sanguinava di nuovo, rivelandosi più importante dell’omicidio appena commesso, così che il morto in piazza che un simbolo per quell’altro morto».
Molto ben fatta la descrizione del paesino abruzzese e della popolazione che vi abita: in questo sperduto paese la guerra è lontana, ma la si percepisce lo stesso attraverso le rappresaglie dei soldati tedeschi contro i contadini e i partigiani, attraverso la miseria, attraverso i giovani strappati alle loro case, dove sono rimasti solo anziani, donne e bambini.
L’iniziale intreccio delle storie dei paesani fanno da contraltare alla missione di Martin Bora, come se la storia si sviluppasse su due livelli paralleli: da una parte il recupero del carteggio, dall’altra le storie personali dei protagonisti. È un continuo rincorrersi fra i due mondi, ma pian piano che si procede nella lettura, i nodi si sciolgono e le verità vengono a galla.
La Pastor propone con questo giallo un mirabile affresco dell’Italia di quel periodo, con i suoi punti oscuri, ma anche con le sue nitide luci. Mirabile la descrizione dei colloqui di Bora con il socialista Borgonovo: uno specchio dei rapporti fra antifascisti di sempre e occupanti, la cui divisa comincia a stare sempre più stretta.
Il romanzo associa al giallo d’azione, le pause riflessive di Bora, narrate con lo stile epico della Pastor: riesce ad essere appassionante e commovente, riportando a galla pagine della nostra storia resistenziale. Ma l’aspetto che più si apprezza è l’utilizzazione della guerra come mezzo per raccontare un dolore ed una sofferenza personali, di un uomo costretto ad ascoltare la propria coscienza, ma anche a rispettare i suoi doveri di soldato. Un uomo in bilico tra desiderio della vita e la paura della morte: «Ci sono momenti in cui penso che le SS mi abbiano dopotutto ucciso al limite del bosco di Swiety Bor, nel 39, e tutto questo sia l’incubo di un morto. Che gli ultimi cinque anni siano stati un trascurabile frammento dell’eternità che dovrò passare in Purgatorio, condannato a fare esperienza della guerra in tutte le sue facce ... E a volte penso invece che sto solo dormendo, e mi sveglierò nel 36, quando mi sono addormentato. La casa di famiglia, i miei genitori, Peter, ci saranno tutti. La via, il parco, la città. Benedikta mi sarà ancora ignota, e il dolore un’ombra lunga proiettata davanti a me, che dovrò cercare di evitare con tutte le mie forze».
Il tema portante del libro è quello dell’esilio, della lontananza dalla casa, come spiega l’autrice alla fine, un tema che accomuna Bora e Borgonovo, personaggi così diversi per cultura, provenienza ed esperienze personali, ma entrambi esuli, lontani dalla loro terra e dalla loro casa. La pagina dove si confidano i propri dolori è una delle più profonde del romanzo. Per questo dolore, la lontananza dalla propria terra, la scrittrice dedica questa storia a tutti gli abruzzesi, e tutti gli emigranti con loro, che non poterono tornare a casa.
Una piccola nota storica ma di grande rilevo storico è l’ipotesi formulata nel romanzo in base alla quale nel carteggio Churchill-Mussolini siano contenute delle informazioni così stravolgenti, che se fossero cadute in mano delle SS o degli americani, avrebbero potuto portare alla rovina l’Italia, vittima di atroci rappresaglie come la Polonia nel 1939, ma anche una parte della Germania stessa. Il tema del carteggio è uno degli argomenti più misteriosi e affascinanti della seconda guerra mondiale. Secondo alcuni storici, come Arrigo Petacco, tale carteggio non sarebbe mai esistito, ad ogni modo, le lettere non conterrebbero contenuti particolarmente interessante. Per alcuni storici è invece esistito, ed è durato fino al 1943, almeno. È indubbio che fino agli inizi della guerra ci sia stato uno scambio di lettere, d’altronde Churchill era un ammiratore di Mussolini della prima ora. A tal proposito la Pastor ha svolto un’ampia ricerca presso gli archivi dell’esercito americano (a Washington, Philadelfia, Boston), dove sono conservate alcune “veline” di rapporti dell’OSS su questo fantomatico carteggio. Ovviamente le veline nulla dicono sull’effettivo contenuto del carteggio, salvo il fatto che esisteva e che andò avanti “anche” durante l’ultimo scorcio della guerra. Ben Pastor si è rivolta anche ad archivi ufficiali londinesi, ricevendo un cortese rifiuto alla consultazione di carte ancora incredibilmente “secretate”. Qui in Italia, il suo principale consulente è stato il professor Marco Patricelli, giornalista, docente universitario e storico uno dei principali esperti di “crimini e misfatti” della Seconda Guerra Mondiale.
Il terzo racconto di “La morte, il diavolo e Martin Bora” è ambientato in Italia prima sull’Appennino, costretto a risolvere il mistero di un rapimento, conclusosi in una strage: un rapimento nell’Appennino nord-occidentale del 1944, una povera donna vedova con tre figli, tre persone uccise, partigiani fatti prigionieri, un’ausiliaria fascista dispersa, fatti che si intrecciano, si seguono, si incontrano e ricompongono in modo quasi naturale: a Bocca d’Inferno ricorda l’americana conosciuta a Roma.
L’ultimo romanzo dedicato a Martin Bora è “La Venere di Salò” una detective story di straordinaria originalità e di esemplare tenuta narrativa: un romanzo intenso, concitato, nel contempo virile ed introspettivo, che avvince e sorprende grazie alla sua magistrale fusione di thriller, mystery, cronaca di guerra e racconto morale.
In questo capitolo, forse l’ultimo della sua lunga storia di guerra iniziata nel 1936 con la guerra di Spagna ne “La canzone del Cavaliere”, Martin Bora è richiamato a Salò, come ufficiale di collegamento tra l’esercito tedesco e gli italiani, quel caotico mondo formato da GNR, brigate autonome come la Brigata Muti, i reparti della X Mas di Borghese.
Il titolo, di per sé ammiccante, si riferisce ad una grande tela di Tiziano, sparita dalla collezione di un imprenditore italiano arricchitosi con i traffici di guerra.
Nell’ottobre del 1944 è ormai chiaro a tutti, tedeschi e italiani, che la guerra sia persa: siamo a Salò, in piena Repubblica Sociale, nell’inverno del 1944, nei giorni che precedono la caduta del Fascismo, col maresciallo Graziani che si rende artefice di delitti per i quali, con quelli commessi durante la campagna d’Africa, passerà alla storia come criminale di guerra.
I tedeschi sono presenti in forze sul territorio, contrastati, insieme ai fascisti, dalla guerra partigiana. Reduce dall’avventuroso recupero del carteggio Mussolini-Churchill narrato ne “Il morto in piazza”, il colonnello Martin Bora si trova di nuovo sulle sponde del lago di Garda come ufficiale di collegamento tra la Wehrmacht e la Repubblica Sociale Italiana.
Oltre alla lotta antipartigiana, nel cui inferno deve districarsi, Martin Bora è subito incaricato da un generale dell’Aviazione di investigare sull’incredibile furto della “Venere di Salò”, un preziosissimo dipinto di Tiziano, sottratto con sconcertante facilità dalle sale di una villa requisita dai tedeschi, ovvero deve scoprire chi ha rubato il prezioso dipinto.
Il sospetto è che il ladro si annidi tra gli alti ufficiali tedeschi, che erano soliti fare man bassa delle opere d’arte nei paesi occupati, nasconderle, per poi godersele privatamente o rivenderle, traendo notevoli profitti, a guerra finita. Ma sono possibili anche altre piste di occultamento, per opera di un esperto d’arte di origini ebraiche che, dopo aver autenticato il Tiziano, ha pensato bene di salvare la tela dalle razzie tedesche. Il suo arresto, da parte della Gestapo, seguito a quello delle figlie già deportate, e poi la sua morte, impedisce di accertare una verità in questo senso, nonostante l’uomo abbia tentato di dare in proposito indicazioni a Martin Bora.
Ad affiancare l’ufficiale nelle indagini è un efficiente poliziotto italiano, il commissario Passaggeri, che sembra interessato solo al suo lavoro, che ben presto si complica.
Mentre Martin inizia ad indagare tra una quantità enorme di personaggi civili e militari, tutti ampiamente sospetti per un motivo o per un altro, tra mille reticenze, la scoperta di tre cadaveri rimette tutto in discussione ed aggiunge una nuova dimensione al mistero: sono tre bellissime donne, una amante di un gerarca fascista, le altre due, frequentatrici di un locale, lo "Spielcasino", in cui è facile incontrare ufficiali tedeschi. Apparentemente suicide, ma in realtà, come Martin intuisce da microscopici dettagli, sono state elegantemente assassinate da un’unica mano omicida e le modalità degli omicidi, tutte uguali, fanno subito pensare alla presenza di un serial killer che ha più a che fare con proprie turbe sessuali, piuttosto che con la guerra, ma si tratta di un serial killer oppure questi delitti sono intimamente connessi al furto de “La Venere”? Perché l’assassino lancia messaggi cifrati a Martin Bora, quasi invitandolo ad una partita mortale? E per quale motivo le autorità italiane e tedesche si sforzano di far ricadere i sospetti sullo stesso Bora?
Qualcuno ha deciso di chiudere i conti definitivamente con Bora, per i suoi scontri con le SS in Polonia: gli stermini degli Einsatzgruppen in Polonia, e a Roma l’omicidio di un informatore della Gestapo. Qualcuno che, nell’ombra, sta raccogliendo prove, documenti, foto, per accusare Bora di alto tradimento.
Messo alle strette dagli imprevedibili sviluppi del caso, tallonato sempre più da vicino dalla Gestapo, perdutamente innamorato di un’enigmatica “Venere” in carne e ossa, Bora dovrà ancora fare affidamento al proprio fiuto investigativo per risalire al colpevole delle morti e sciogliere il mistero e smascherando l’assassino, ma anche, in un finale al cardiopalma, per evitare il plotone di esecuzione e garantirsi una via di scampo per salvare la propria vita dalla trappola della Gestapo.
Ma non è solo la guerra al centro dei pensieri di Bora: egli subisce il fascino della Venere del dipinto, dietro cui si celano i desideri dei gerarchi nazisti perché nasconde un segreto, ma anche di una Venere in carne ed ossa. Egli, infatti, comincia a temere per la vita di Annie Tedesco, figlia del proprietario al quale è stato rubato il Tiziano, e della quale si è invaghito, corrisposto. Esemplari al riguardo sono la pagine di intenso erotismo legato allo sguardo che Martin Bora rivolge alla donna, così ricco di sfumature, ora il mostrarsi di un’ascella depilata, ora il colore della pelle che emerge nella penombra, ora il liberarsi di una coscia nell’accavallarsi delle gambe, per cui la nudità non è mai totale, ma sempre evocata, con una malizia tutta femminile di un’autrice che sa quali siano le armi della seduzione. Ecco come Ben Pastor descrive l’attrazione crescere nel protagonista: «Aveva una bellezza diversa dalle donne che preferiva – donne del suo colore, come le definiva – ma in lei percepiva uno spazio, un vuoto, nel cui lasciarsi andare. Era come un margine, possedere una donna come lei aveva un significato. [..] Il processo fu troppo rapido per capirlo. Bora, che per anni aveva severamente controllato i suoi istinti, si ritrovò a concludere in un solo inesplicabile istante che doveva possedere questa donna, che entrare in lei sarebbe andato bel oltre l’atto carnale. Sarebbe stato come possedere il vuoto per dominarlo, e scoprire che il vuoto stesso è.»
Su tutti questi elementi, cui si aggiunge la persecuzione sempre più assidua della Gestapo nei confronti di Martin Bora, che sempre più manifesta, con la sua indipendenza dalle gerarchie naziste, la sua opposizione al regime, si andrà verso la conclusione della storia che, se risolverà i casi per i quali l’ufficiale indagava, non lo salverà dall’annuncio di una condanna a morte.
Molto realistica la descrizione della Repubblica di Salò e del suo microcosmo, nel quale la scrittrice, ancora una volta ci permette di aprire uno squarcio su un periodo buio della nostra storia nazionale: una radiografia dei 600 giorni di Salò, bella forte e senza sconti.
I delitti del serial killer sono chiaramente una scusa per poter mettere in evidenza le fisioniomie, i tic dei vari personaggi, relazionandoli con “l’occupante” Bora.
Molto interessante la rappresentazione delle figure degli italiani coinvolti, da Graziani con i suoi “furbismi”, al commissario della PS, piccolo funzionario di uno Stato che non c’è più, che cerca di uscire indenne da quest’inferno, fino alla raffigurazione della famiglia Pozzi, degni rappresentanti di una borghesia arricchita di quegli anni, con i suoi piccoli segreti e le sue manie.
Il romanzo parte con la “ridotta” nella parte iniziale, ma è un crescendo continuo nel suo proseguire. Le storie si intrecciano, a volte si confondono. I fatti incalzano soprattutto nella parte finale in cui ci si arriva quasi “correndo”.
Nella prima parte sembra che partigiani e nazisti siano pericolosamente simili, ma andando avanti ci si accorge che il discorso è un po’ diverso: non è che il sadico partigiano Cristomorto sia uguale al sadico colonnello Kappler; è solo la disperata ferocia della resa dei conti della guerra che li rende simili.
Nell’ultima parte, la soluzione del giallo, si rintraccia anche una specie di visione profetica del futuro: l’Italia liberata e democratica sarà gestita da uomini per tutte le stagioni come il cavalier Pozzi, alla faccia di chi è morto in montagna, da una parte e dall’altra.
Ma su tutto domina la guerra con le sue morti, tutte descritte con una propria dignità, i lutti, i rastrellamenti, i cecchini e le rappresaglie, la guerra civile, la lotta contro i partigiani, guidati da un misterioso capo, Cristomorto, italiani contro italiani. Ma anche la guerra “vera” al fronte, e i bombardamenti alleati sulle città. E lui: il soldato, ma anche l’uomo, sempre in bilico tra il dovere, che gli impone di obbedire agli ordini, e gli obblighi morali. Sempre più uomo e meno soldato, su cui pesano i ricordi delle passate campagne, la Russia, l’Italia, la Polonia, ma anche la profezia di Remedios, la strega che gli predisse altri sette anni. Un uomo solo: abbandonato dalla moglie, Dikta, disilluso sul proprio destino, ma sempre alla ricerca dell’amore, della sua Venere.
Sorprende che, proprio una donna, sia stata in grado di descrivere così bene particolari così “intimi” di un uomo.
“La Venere di Salò” è un romanzo appassionante, coinvolgente, incalzante, fin dalle prime pagine: la descrizione degli eventi storici è forte, energica, incalzante, rigorosa ed è finissima nel tratteggio dei personaggi, una lunga corsa alla caccia del mistero sulle morti, dove il cacciatore alla fine diventa preda di nuovi aguzzini. Tutto questo lo rende un romanzo epico dei giorni nostri.
Mentre gli investigatori italiani sono sostanzialmente degli individualisti ben inseriti nelle strutture dello Stato, per questo è diversa dal nostro panorama la figura dell’investigatore privato come, ad esempio, il Bernie Gunther protagonista della trilogia berlinese di Philip Kerr, Ben Pastor dà notevole risalto alla figura degli estemporanei collaboratori di Martin Bora: l’ispettore Guidi, che compare in ”Luna bugiarda” e ”Kaputt mundi” del 2003, rappresenta quell’”area grigia” che maturerà tardivamente un’adesione alla Resistenza; Luigi Borgonovo è l’antifascista custode del carteggio Mussolini-Churchill di ”Il morto in piazza” e riecheggia la figura classica dell’esule di ovidiana memoria, mentre il duro, disincantato commissario Cesare Vismara della polizia repubblicana coadiuva Bora nella complessa e rischiosa avventura di “La Venere di Salò”, giocata tra partigiani ed alte gerarchie nazifasciste. In tal senso, Ben Pastor risulta vicina ad altri esempi della narrativa gialla europea, che sfruttano volentieri questo espediente per mettere in scena anche la rappresentazione delle difficili convivenze cui spesso il conflitto poteva dare vita. È il caso, per esempio, del ciclo, ancora inedito in Italia, creato dallo scrittore canadese J. Robert Janes, che ambienta le proprie storie nella Francia di Vichy e pone come protagonisti l’investigatore J. Louis St. Cyr della Sureté e l’ispettore Hermann Kohler della Gestapo, determinando complessi rapporti tra i due investigatori.

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