martedì 19 aprile 2011

Corrado Augias e Quel treno da Vienna di Massimo Capuozzo

A mio padre,

che mi regalò il volume

alla sua prima uscita


In qualità di giallista, Corrado Augias è autore di una trilogia italiana di romanzi gialli d’ambientazione storica, scritta dal 1981 al 1985 e che copre il periodo della Storia d’Italia dal 1911 al 1921, anni cruciali per l’Italia in cui “le lacerazioni, le violenze e l’incertezza politica estesa ad ogni piega del funzionamento statale – secondo l’impietoso, ma forse realistico giudizio di Augias – non riguardano purtroppo soltanto quegli anni”.
In questo drammatico contesto storico, Augias inserisce felicemente una figura singolare: il protagonista della trilogia è, infatti, l’affascinante e controverso Giovanni Sperelli, fratellastro povero del celeberrimo dannunziano Andrea, dandy e dissoluto, che D’Annunzio ha voluto come protagonista di Il piacere.
Giovanni Sperelli è un commissario di pubblica sicurezza a riposo, colto, profondo ed un po’ schivo che dà ancora consigli alla procura e ai servizi segreti, ma è sicuramente più noto per la sua stretta parentela con Andrea che, come lui, appartiene al bel mondo romano.
Un’interessante chiave di lettura del commissario Sperelli si rileva in Quel treno da Vienna, il primo dei tre romanzi: “…La sommità dell’obelisco della Trinità dei Monti in lui evocava, per personalissime ragioni, un vago sentimento di rancore”. Questo risentimento provato da Giovanni Sperelli, affonda le radici in intimi conflitti familiari. Proprio nei pressi dell’obelisco e della celeberrima chiesa sorge Palazzo Zuccari, dimora del fratellastro Andrea. I due fratelli non potrebbero essere più diversi: Andrea incline alla mollezza e alla voluttà senza limiti e senza morale, Giovanni alla ricerca della verità e di un equilibrio, cui aspira, ma che sembra non riuscire a raggiungere.
Con Quel treno da Vienna, Augias dà inizio alla trilogia, con al centro sempre Giovanni Sperelli, protagonista rispettivamente dei successivi Il fazzoletto azzurro, ambientato durante la Grande Guerra in cui Giovanni combatte e L’ultima primavera, ambientato nel dopoguerra, mentre Giovanni è intento ad indagare su un piano di finanziamento del movimento fascista alla vigilia della Marcia di Roma.
Augias affida ad un unico protagonista, il compito di condurre le indagini e, mentre narra, ci racconta anche un pezzo di storia italiana, descrivendo gli eventi e l'atmosfera di anni cruciali nella nostra Storia, dall'impresa di Libia nel 1911 e, passando per la Grande Guerra, alla vigilia del fascismo nel 1921.
Nell’arco dei tre romanzi, alcune problematiche chiave di quegli anni inquadrano gli eventi narrati: debolezza del Regno a cinquant’anni dalla sua formazione per via del conflitto tra Stato e Chiesa; trasformismo giolittiana, inteso quale gioco d’equilibrio tra una sinistra riformista e una destra conservatrice e autoritaria; relazioni diplomatiche per il mantenimento dell’Italia nella Triplice; critica dello Stato privo di progetti federali, intorno ai quali ricucire le differenze endemiche tra le varie zone del paese.
Quel treno da Vienna, pubblicato per la prima volta nel 1981, è il primo dei tre romanzi.
La struttura è quella di un giallo variegato di spionaggio, che chiama in causa gli eventi della Storia, nello specifico l’impresa in Libia, cui il Governo guidato da Giovanni Giolitti si stava accingendo proprio in quel contesto.
Il romanzo è un pregevole affresco della Roma giolittiana e neo-imperialista dei primi del Novecento, una Roma sfarzosa, in cui, tra l'inaugurazione di una mostra, la costruzione di arditi viadotti e le celebrazioni in pompa magna, il governo Giolitti si prepara all’ingloriosa impresa di Libia, con la quale sperava di inserirsi nel concerto delle grandi nazioni europee.
Augias intende invece accompagnare il lettore in un’Italia confusa ed arrabbiata, dove Roma, da poco capitale d’Italia, splende di rinnovata bellezza per le nuove costruzioni realizzate, sebbene rimanga ancora una capitale di rango inferiore, rispetto alle altre grandi capitali d’Europa, ancora molto legata se non addirittura in parte assediata dal mondo agricolo.
Il romanzo si apre in una Roma in festa per celebrare i cinquant'anni del Regno d'Italia. In questa temperie, tra costruzioni di infrastrutture per l’ammodernamento della città, esposizioni mitologiche e crisi del governo Giolitti, è scoperto il cadavere di un’entraneuse Amelia Battiferri, una di quelle modelle giovani e formose, venute a Roma come farfalle alla luce. La sua morte nel quartiere borghese del Macao potrebbe far pensare all’ennesimo regolamento di conti nel mondo della prostituzione di lusso romana: apparentemente sembrerebbe un banale omicidio, che inizialmente sembra un comune delitto passionale limitato alla sola cerchia di sprovvedute fanciulle e dei loro mentori, ma in realtà, l’inchiesta condotta da Sperelli e Marchisio svela come, nello scenario dei festeggiamenti per il Giubileo, quel semplice omicidio nasconda risvolti di spionaggio internazionale legato al mantenimento dell’Italia nell’equilibrio della Triplice Alleanza. L’omicidio di Amelia Battiferri, diventa così il cardine di un mosaico più complesso e sfaccettato che coinvolge la Mitteleuropa ed i lembi nordafricani dell’Impero ottomano. Amelia si trova, infatti, suo malgrado al centro di una guerra di spie austriache, italiane e turche, a pochi mesi della guerra di Libia e la sua morte si rivela un caso di spionaggio internazionale dai risvolti inaspettati in cui, tra gli intrighi di un quartiere residenziale, si muovono personaggi misteriosi: il doppio gioco di Achille Galignani, uomo forte del ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano, porta al tradimento degli accordi con l’Austria ed alla vendita ai Turchi di informazioni riguardanti gli armamenti dell’esercito italiano in vista dello sbarco in Libia nell’ottobre 1911.
Nella vicenda entrano in scena tanti altri elementi: accordi di diplomazia internazionale, problemi di politica interna, la preparazione dei festeggiamenti per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, l’arrivo di nuove mode e di quant’altro dall’Oltralpe.
In questo paesaggio articolato e scabroso si muove il commissario Sperelli, uomo moderno e completamente privo di certezze, che ha difficoltà a trovare un suo ruolo nell’Italia del 1911. Pur conservando il gusto e la passione per il bello di suo fratello Andrea, Giovanni ha il pregio di un’intelligenza analitica che lo pone a capo delle indagini per risolvere il mistero.
La vicenda poliziesca passa tuttavia in subordine: il nodo centrale del romanzo è, infatti, la Roma degli anni Dieci, quando il giovane Regno celebra i cinquant’anni dell’Unità e la ricostruzione storica di una Roma del periodo antecedente la guerra italo-turca, raramente oggetto di attenzione, una Roma splendida nei suoi palazzi nobiliari, nei suoi monumenti artistici e anche nella stretta commistione urbanistica con la campagna, all’epoca non tanto distante quanto oggi. Corrado Augias ricostruisce con rigore topografico luoghi che rievocano alcune atmosfere del passato.
Sperelli, oltre al suo fratellastro Andrea, appare profondamente diverso anche dal maresciallo Marchisio, il suo collaboratore di origine piemontese, che, non riuscendo a comprendere la complessità della politica romana, vive il trasferimento al Nord come un premio, contento di fuggire dai salotti della capitale ed incapace di concepire un’Italia diversa che non andasse dalle Alpi al Ticino.
L’atmosfera che si respira, nel romanzo è anche molto sapida d’attualità e, nelle polemiche politiche sui due deputati radicali che dapprima avevano fatto cadere il governo per poi appoggiare la formazione di quello successivo, si intravede la posteriore storia repubblicana e già si percepisce l’assoluta mediocrità della monarchia sabauda, che non riuscirà, o non vorrà, ostacolare l’ascesa del Fascismo.
Il romanzo mantiene una grande freschezza narrativa, animata da un’elegante prosa e da uno stile ricercato – interessante l'espediente dell’uso di un tipo di scrittura che ricorda quella dell'epoca in cui il romanzo è ambientato – ma non per questo il suo stile è meno spigliato. Augias tratteggia elegantemente e sempre con grande accuratezza, senza mai abbandonare la vena ironica, un’epoca affascinante in una prosa asciutta ed al tempo stesso raffinata, in cui ogni vocabolo è scelto con estrema cura.

Massimo Capuozzo

mercoledì 13 aprile 2011

Uno stravagante SS dalla penna di Cardini e Gori. Di Annamaria Del Balzo

Intendo presentare un articolo della Sig.ra Annamaria Del Balzo e ringraziarla della sua gentile e colta collaborazione

Massimo Capuozzo


La rappresentazione delle difficili convivenze con i nazisti, cui spesso la guerra poteva dare vita anche sul piano investigativo, è seguita in questa particolare prospettiva in Lo specchio nero, tra il capitano Bruno Arcieri, un investigatore animato da un profondo senso dello Stato e ad un codice morale rispetto al quale non transige, ed il colonnello Dietrich Von Altenburg delle SS, i due protagonisti di una sfaccettata indagine che recupera interessanti e aspetti del nazismo esoterico poco noti al grande pubblico. Scritto a quattro mani – è prassi ormai consolidata quello della scrittura di polizieschi da parte di scrittori di matrici culturali diverse, a partire dalla premiata ditta Fruttero & Lucentini – da Leonardo Gori e da Franco Cardini, Lo specchio nero, pubblicato da Hobby & Work nel 2004, non è solo un romanzo poliziesco al fulmicotone, ma è soprattutto un viaggio nella memoria di una generazione che ha ricostruito l’Italia a favore di tutti, ma per il vantaggio di pochi, una rievocazione storica di una pagina fondamentale per lo sviluppo del nostro Paese: Franco Cardini, studioso dotto ed apprezzato docente di Storia medievale – notevoli i suoi saggi sulle Crociate – scrittore di romanzi a sfondo storico alla Eco, sebbene meno dotati di battage pubblicitario, e Leonardo Gori, già apprezzato maestro del poliziesco, riuniscono ed intrecciano temi civili e politici che condizionano ancora il nostro presente, plasmandoli in un giallo serratissimo, esplosivo, indignato, col cuore in gola e senza un attimo di tregua. Il romanzo è ambientato a Firenze a novembre del 1940 negli anni bui delle leggi razziali. I protagonisti sono Elena Contini, un’eterea ragazza ebrea fiorentina, storica dell’arte colta, raffinata, appartenente all’èlite sociale, non più ricca, per chiari motivi, Dietrich Von Altenburg, discendente da una famiglia nobile della Turingia – un suo avo era stato Gran Maestro dei Cavalieri dell’Ordine teutonico – è un colonnello delle SS, ma un SS anomalo, eccentrico e raffinato, che ha affinità notevoli con la giovane e con la sua cerchia ristretta ed ultimo, ma non meno interessante il capitano dei Regi Carabinieri, Bruno Arcieri, già protagonista di altri romanzi di Gori, borghese, di buona, ma non di eccelsa cultura, innamorato della ragazza, disgustato da molte cose, geloso del tedesco ed al tempo stesso consapevole che il mondo della donna che ama non è e non potrà mai essere il suo. Von Altenburg ed Arcieri sono divisi dalla rivalità amorosa che si scatena a causa della seducente e sfuggente Elena, che richiama per certi versi la bassaniana Micol Finzi Contini. Elena e Von Altenburg attendono sullo stesso marciapiede della stazione di Firenze l'arrivo di Giacomo Anagni, un anziano artigiano, anch’egli ebreo, proveniente da Parigi, ma nessuno dei due sa dell’altro. Quando il treno giunge, Giacomo Anagni è morto. Nel corso di una cena, Elena è convinta ad accettare una richiesta di collaborazione da parte di Von Altenburg: aiutarlo a scoprire chi ha ucciso Anagni e recuperare una preziosa copia dello Specchio di Montezuma, che l'artigiano avrebbe dovuto consegnargli. Tutta la vicenda si svolge tra una Firenze, che emerge nei suoi vari aspetti, culturali, sociali, storici, ambientali ed una Parigi sotto il giogo di Hitler, minacciosa ed insieme soggiogata. Fra le due città c’è uno strano traffico di opere d’arte, anzi di copie, di omicidi, di razzismo in cui nessuno è quello che sembra. Dopo il successo de Lo specchio nero, Franco Cardini e Leonardo Gori sono tornati a narrare un’avventura coinvolgente ed appassionante in Il fiore d'oro, edito da Hobby & Work nel 2006, un racconto in cui la fantasia più sfrenata si unisce ad una ricostruzione storica impeccabile e ad un intreccio giallo tesissimo. In questo romanzo che intesse scienza ed esoterismo il protagonista assoluto è Von Altenburg. La vicenda è ambientata nella primavera 1944, l'ultimo anno di guerra tra Venezia – raccogliticcia Cinecittà che il Fascismo di Salò cercò di crearvi – ricamata di calli pittoresche, ma capaci anche trasformarsi in trappola, dove da ogni viuzza può spuntare la pistola di un sicario in agguato, e Gardone, tra gli sfarzi decadenti delle stanze del Vittoriale degli Italiani, la lussuosa villa-mausoleo in cui Gabriele D’Annunzio visse dal 1921 fino alla morte. Il fiore d’oro intreccia misteri da spy story, con l'individuazione del mandante di omicidi seriali da detective story, l'avventura con la spasmodica ricerca del Fiore d'oro, il tutto rinsaldato dal romanzo storico: significative le pagine dedicate a Wagner, a Jung, a D’Annunzio – con la descrizione architettonica della sua villa sul lago di Garda e con i suoi versi – alla cultura giapponese, alle ricerche segrete del Terzo Reich, alla lotta clandestina contro la tirannia. E queste sono soltanto le suggestioni salienti che i due autori utilizzano con gusto squisito e con citazionismo mordace, per confezionare un romanzo originalissimo, avvincente, vorticoso, una pietra miliare del poliziesco italiano per la sua capacità di avvincere e di stupire il lettore dalla prima all’ultima pagina. Il romanzo si apre con il cadavere di un certo Carlo Manin, un uomo qualunque, ripescato dal Canale di San Pietro: le autorità dichiarano che è un annegamento accidentale, ma la sua morte si rivela pian piano il fulcro di una straordinaria trama, che ha diramazioni sulle acque della Laguna, ma il suo centro è su quelle del Garda. Alla morte di Carlo Manin ne seguono altre ed altrettanto misteriose ed a Dietrich Von Altenburg, ormai caduto in disgrazia agli occhi del Terzo Reich – attraverso una serie di incastri nelle pagine del libro emerge la memoria della guerra vissuta dal protagonista sfuggito al fronte russo, dove ha rischiato la corte marziale per non aver obbedito ad un ordine di rappresaglia nei confronti di un paese della Crimea – due agenti impongono un nuovo compito, che non può rifiutare: seguire la missione tedesca a Gardone per recuperare un misterioso e mistico gioiello, il fiore d'oro, un potente talismano dall’ambiguo potere, che Wagner aveva ricevuto da Schopenhauer e di cui D’Annunzio s’era appropriato alla morte del compositore. Ma Il fiore d’oro è anche il titolo di un film mai realizzato dal poeta ed una spedizione di ricerca dell’Ente Cinematografico di Berlino sta setacciando il Vittoriale alla ricerca delle fantomatiche didascalie che il Vate scrisse di suo pugno per un kolossal mai realizzato: nessuno ne conosce il soggetto, ma i nazisti intendono trovarle per farne un film di propaganda. A Gardone Von Altenburg ritrova Elena Contini che prima della guerra lavorava alla sovrintendenza alle belle arti a Firenze, ma che ora lavora in una troupe cinematografica italiana che intende realizzare il film incompiuto di D’Annunzio. Obbedendo alle direttive di misteriosissimi superiori, Elena e Dietrich uniscono le loro forze per risolvere l’enigma e si addentrano a poco a poco in un labirinto disseminato di trappole mortali, risalendo l’esile traccia di un fiore d’oro. Ma dietro le mura della villa si celano però altri giochi, altri segreti ed altri ambigui personaggi. Che cos’è realmente il fiore d'oro e che cosa lega tra loro D'Annunzio e Guglielmo Marconi? Forse è qualcosa di più importante di un gioiello o di una sceneggiatura sia pur dannunziana: forse è un’arma di inimmaginabile potenza, un’invenzione dagli immani effetti, nata dalle ricerche di Guglielmo Marconi sulle radiazioni elettromagnetiche ed il cui segreto potrebbe ancora essere custodito nella casa dell’amico poeta, qualcosa di così terribile il cui possesso potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte non solo dei due investigatori, ma che potrebbe influenzare l'esito della guerra in corso ed i destini dell’intero genere umano. Il Vittoriale diventa una perfetta trappola, la collocazione ideale per una trama gialla piena di colpi di scena. A sostanziarla c’è la ricostruzione puntigliosa di un momento storico preciso, quello dell’Italia allo sbando della Repubblica di Salò, degli ultimi, macabri, lampi di guerra, dell’insicurezza e del sospetto, ma anche l’evocazione di un certo clima culturale: gli autori si intrattengono, infatti, senza remore nelle descrizioni delle stanze, degli ambienti, della cultura giapponese e di quella tedesca, Jung Wagner e Nietzsche, legati da un segreto carteggio, fino ad arrivare alla cultura himalayana, col culto della luce azzurra. In queste pagine affiora la storia del cinema italiano del Ventennio, dagli anni d'oro di Cabiria e Quo Vadis agli anni bui, con la crisi seguente all'ingresso del sonoro. Nel mentre emergono piccoli dettagli, apparentemente insignificanti di una storia che man mano, diventa sempre più intricata e pericolosa. Più di Elena se ne rende conto Dietrich, quando anch’egli sfugge ad un misterioso imprendibile sicario che ha cominciato a seminare cadaveri anche nella villa: non sa chi di può fidarsi, se degli italiani – non sa se sono antifascisti o solo persone di cinema – ma nemmeno dei suoi connazionali, che nel frattempo stanno svuotando il Vittoriale che D'Annunzio aveva trasformato in un enorme museo antitedesco.Dietrich capisce di essere al centro di una vicenda che coinvolge i servizi segreti dei diversi paesi belligeranti e che la sua unica salvezza sarà quella di doversi fidare per forza, oltre che del suo istinto che lo aveva già salvato dall'orrore della guerra, di una persona del fronte opposto, in nome di quei valori umani che trascendono l'appartenenza ad un fronte o ad un altro.

Annamari Del Balzo

Notti e nebbie di Castellaneta: anticipazione di un fenomeno narrativo. Di Massimo Capuozzo

Il romanzo Notti e nebbie del 1975 di Carlo Castellaneta è il primo dei romanzi italiani che hanno raccontato dalla parte del Fascismo repubblichino, il tragico periodo di Salò, della Resistenza, della guerra civile. La chiave di lettura è il melodramma, sulla scia del noir, filtrato con un gusto quasi viscontiano per il senso di putrefazione morale e corruzione fisica, la ridondanza sempre controllata, la misoginia dei ruoli femminili, la cura dei particolari, nella rievocazione di una Milano livida e allucinata. Nell'inverno del 1944, Milano è occupata dai nazisti ed i fascisti si stanno riorganizzando nella Repubblica di Salò: la città è occupata dalle truppe tedesche e repubblichine, mentre gli alleati risalgono la penisola con esasperante lentezza. Protagonista del romanzo è Bruno Spada, commissario di polizia uno squadrista della prima ora, attivista sprezzante che persevera nella fedeltà a Mussolini. In considerazione del suo curriculum di poliziotto severo e crudele nei confronti dei fermati per motivi politici e per antifascismo, Spada è nominato responsabile operativo della Squadra politica e svolge i suoi compiti di polizia politica con due scopi: controllare la fedeltà dei quadri della Repubblica Sociale Italiana, controllando la fedeltà dei dirigenti e funzionari della Repubblica e di smantellare la rete clandestina della resistenza antifascista, in una Milano e un'Italia lacerata da una vera e propria guerra civile. Per il suo lavoro Spada si avvale delle delazioni e delle soffiate di alcune amanti. Attentati, violenze, torture, tradimenti, attraversano la vita di questo funzionario, lacerando a loro volta la sua coscienza e facendo vacillare le sue motivazioni di funzionario fascista, portandogli enormi dubbi esistenziali. Assolve i suoi compiti con la feroce e disperata coerenza di chi si vuole ritagliare un inferno personale nel quadro fosco di tempi tristi. In lui sesso e violenza si esaltano e vivono in stretto contatto, sfociando in una crudeltà bestiale e cieca con cui cerca di arginare i cambiamenti drastici che stanno avvenendo in Italia. Ma qualcuno incomincia a braccarlo, il nemico è più vicino di quanto egli voleva credere. Bruno Spada è fucilato il 25 aprile 1945 per mano dei partigiani che quel giorno rovesciarono il regime repubblichino e liberarono la città dall'occupazione nazifascista.

domenica 10 aprile 2011

Letture dal Principe di Machiavelli

Cap. XII I DIVERSI TIPI DI ESERCITI E LE MILIZIE MERCENARIE Dopo aver trattato nel dettaglio tutte le caratteristiche dei principati e aver considerati i loro aspetti positivi e negativi e dopo aver visto in quali modi essi possono essere conquistati e conservati, mi rimane da discutere in generale delle modalità con cui ciascun principato può attaccare o si può difendere. Si è già detto che un principato deve avere delle sicure basi se non vuole crollare. Le basi fondamen­tali per ciascun principato, sia esso nuovo, di antica formazione oppure misto, sono le buone leggi e un buon esercito. Poiché però non ci possono essere buone leggi dove non c'è un esercito efficiente e viceversa, mi occuperò ora di considerare il problema dell'esercito e non quello delle leggi. Le milizie di cui si può servire un principe per difendere il suo territorio possono essere sue, mercenarie, ausiliarie oppure miste. Le milizie mercenarie e quelle ausiliarie sono inutili e pericolose: chi affida la sicurezza dello stato a truppe prezzolate non potrà mai essere sicuro e stabile perché queste sono disunite, ambiziose, senza regole e infedeli; coraggiose con gli amici e vigliacche con i nemici, senza timor di Dio e inca­paci di lealtà con gli uomini; quando ci si affida ad esse la completa rovina è scongiurata solo se la battaglia viene rinviata; in tempo di pace si rischia di essere spo­gliati da loro, in tempo di guerra dai nemici. La ragione è che i soldati mercenari non hanno altro scopo nella guerra che ottenere uno stipendio, che senza dubbio non è sufficiente a convincerli a morire per il principe. Sono fedeli al principe in tempo di pace ma, quando scoppia la guerra, si comportano da vili o da traditori. Non è certo difficile dimostrarlo, dato che oggi la ro­vina dell'Italia non è provocata da altro che dall'essersi messa a lungo nelle mani delle milizie mercenarie. Queste consentirono a qualcuno di ottenere dei vantaggi e sembravano particolarmente valorose quan­do guerreggiavano fra loro, ma non appena arrivarono gli stranieri si mostrarono per quello che erano. Così Carlo VIII, re di Francia, riuscì a impossessarsi "con il gesso" della penisola; c'era chi sosteneva che tutta la responsabilità era nelle colpe di cui gli Italiani si erano macchiati e in un certo senso diceva il vero; i peccati cui si riferiva erano però ben diversi ed erano quelli di cui si è detto sopra; erano colpe dei principi e, infatti, ne hanno sofferto anche loro. Voglio dimostrare meglio il danno commesso dalle milizie mercenarie. I capitani di ventura possono essere assai esperti, oppure no: se lo sono, non ci si può fidare di loro perché aspireranno al successo personale a scapito di chi li ha assoldati o, anche contro la sua volontà, di altri; se non sono valorosi il più delle volte porteranno alla rovina. Qualcuno potrebbe osservare che chiunque, prezzolato o no, può comportarsi così. Si può replicare a ciò, osservando che le armi possono essere utilizzate da un principe o da una repubblica. Il principe deve essere in prima persona il capitano dell'esercito; la repubblica deve mandare i suoi cittadini in modo che se uno non si dimostra valoroso lo possa cambiare, mentre se si dimostra tale lo possa obbligare a rimanere, senza però andare al di là dei suoi compiti. L'esperienza insegna che i principi e le repubbliche con armi proprie ottengono notevoli successi, mentre le milizie mercenarie non fanno che danni. Una repubblica dotata di esercito proprio più difficilmente diventa serva di un suo cittadino, al contrario di una repubblica che utilizza soldati prezzolati. Per molti secoli Roma e Sparta furono armate e li­bere. Gli Svizzeri sono ancora più armati e ancora più liberi. I Cartaginesi sono invece un esempio di popolo antico che si servì di milizie mercenarie, ma che, finita la prima guerra contro i Romani, venne sopraffatto dai soldati prezzolati anche se aveva a disposizione dei condottieri propri. Dopo la morte di Epaminonda, Filippo il Macedone venne riconosciuto capo dai Tebani, ma egli, dopo la vittoria, tolse loro la libertà. I Milanesi, alla morte del duca Filippo Visconti, assoldarono Francesco Sforza contro i Veneziani, ma egli, dopo aver sbaragliato gli avversari a Caravaggio, si alleò con loro contro i Milanesi, suoi padroni. Suo padre Attendolo Sforza, al soldo della regina Giovanna I di Napoli, la abbandonò improvvisamente così che lei, per non perdere il regno, fu costretta ad allearsi al re Alfonso d'Aragona. Anche se nel passato i Veneziani e i Fiorentini hanno accresciuto il loro potere grazie a questo tipo di truppe e i loro capitani non sono mai diventati principi, ma li hanno difesi, bisogna dire che i Fiorentini vennero favoriti dalla buona sorte perché i migliori capitani, dei quali potevano aver paura, o non vinsero o incontrarono un'efficace opposizione, oppure ancora rivolsero la loro ambizione altrove. Giovanni Acuto non vinse, pertanto è difficile verificare il suo grado di fedeltà; se avesse vinto però tutti i Fiorentini sarebbero stati ai suoi piedi. Lo Sforza ebbe sempre come avversario Braccio da Montone, così che le truppe di uno controllavano sempre quelle dell'altro: Francesco rivolse la sua attenzione alla Lombardia, Braccio da Montone al regno di Napoli e alla Chiesa. Consideriamo ora ciò che è appena successo. I Fiorentini assoldarono come capitano Paolo Vitelli, uomo saggio che, da privato cittadino, aveva raggiunto grandissima fama. Se avesse espugnato Pisa, nessuno può negare che ai Fiorentini sarebbe convenuto tenerlo con sé perché, se si fosse messo con il nemico, i Fiorentini non avrebbero avuto scampo. Se però avessero deciso di tenerselo avrebbero dovuto obbedirgli. Esaminando ora con attenzione la linea di condotta dei Veneziani, si vedrà che essi hanno ottenuto sicurezza e fama fino a quando hanno combat­tuto con armi proprie, e cioè prima che decidessero di abbandonare il mare, dove i nobili e il popolo ar­mato si erano mostrati sempre valorosi. Quando cominciarono a combattere sulla terraferma persero questo valore e seguirono l'usanza degli altri stati italiani. All'inizio delle loro imprese su terra, poiché non vi erano mai stati e godevano di un'ottima reputazione, non avevano da temere molto dai loro capitani di ventura; non appena però le loro mire espansionistiche aumentarono, mi riferisco qui al Carmagnola, ebbero un saggio di questo errore. Dopo aver sperimentato il valore del loro capitano e dopo aver battuto grazie a lui il ducato di Milano, si resero conto che egli non desiderava più combattere. Capirono che con lui non avrebbero più potuto vincere, perché non lo desiderava, ma non potevano allontanarlo per non perdere ciò che, grazie a lui, avevano conquistato, per cui, per sbarazzarsene, dovettero ucciderlo. Ebbero poi altri capitani come per esempio Bartolomeo Colleoni, Ruberto di San Severino, il conte di Pitigliano e altri con i quali non dovevano sperare di avere dei vantaggi, ma temere di perdere, come successe a Vailà, dove in un sol giorno i Veneziani persero quello che in ottocento anni, con tanta fatica, avevano conqui­stato. Con le milizie mercenarie le conquiste sono sempre lente, tardive e precarie mentre le perdite sono rapide e mirabolanti. Poiché gli esempi che ho portato riguardano l'Italia, che è stata a lungo governata con gli eserciti mercenari, voglio esaminare l'origine e gli sviluppi che essi hanno avuto, così da trovare un rimedio efficace. Bisogna ricordare che in questi ultimi tempi l'autorità imperiale è venuta meno in Italia, che il potere temporale della Chiesa è invece aumentato e che l'Italia si è divisa in più stati. Molte grandi città hanno preso le armi contro i nobili i quali, in precedenza appoggiati dall'imperatore, le tenevano oppresse. La Chiesa le proteggeva per aumentare il suo potere temporale. In molti altri luoghi dei notabili lo­cali divennero principi. L'Italia, insomma, è diventata quasi del tutto soggetta all'autorità della Chiesa e di poche potenze, ma i prelati e i cittadini saliti al potere non conoscevano l'uso delle armi e hanno cominciato dunque ad assoldare milizie. Il primo a dar fama ai mercenari fu il romagnolo Alberigo da Conio. Dalla sua scuola uscirono poi, tra gli altri, Braccio da Montone e Attendolo Sforza che, ai loro tempi, divennero arbitri della situazione italiana. Dopo di loro vennero tutti gli altri che fino ai nostri giorni hanno capitanato le truppe. Come risultato finale di tali virtù l'Italia è stata sottomessa da Carlo VIII, depredata da Luigi XII, sottoposta a ogni violenza da Ferdinando il Cattolico e disonorata dagli Svizzeri. La tattica che inizialmente hanno seguito è stata quella di togliere prestigio alle fanterie per aumentare la propria fama. Si comportarono così perché, es­sendo senza terre e vivendo della propria attività, pochi fanti non potevano dare loro sufficiente fama, mentre non avrebbero potuto nutrirne un numero elevato; decisero allora di tenere solo cavalieri perché un limitato numero permetteva loro di mantenerli e di ottenere fama. Si era giunti al punto che in un eser­cito di ventimila soldati c'erano solo duemila fanti. Per eliminare parte della paura e della fatica propria e dei soldati, i capitani inoltre avevano coltivato l'abitudine di azzuffarsi senza uccidersi, di fare prigio­nieri, ma senza riscatti. Di notte non andavano all'assalto e quelli che erano assediati non assalivano il campo nemico; intorno all'accampamento non ponevano steccati o fossati; non combattevano d'inverno. Tutto ciò era permesso dalle regole militari, fatte apposta per consentir loro di fuggire la fatica e i pericoli. Costoro hanno condotto l'Italia alla schia­vitù e alla vergogna. Cap XV. LE QUALITÀ PER CUI SI LODANO O SI BIASIMANO GLI UOMINI E SOPRATTUTTO I PRINCIPI Ci rimane da osservare quali devono essere i rapporti di un principe con gli amici e con i sudditi. Poiché molti hanno già scritto sull'argomento, io temo di essere considerato presuntuoso, soprattutto perché in­tendo discostarmi dal punto di vista degli altri; ma, es­sendo il mio obiettivo quello di essere utile a chi vuole capire, mi è sembrato opportuno esaminare la realtà e non la teoria. Molti hanno immaginato repubbliche e principati che non sono mai esistiti. C'è tuttavia tanta differenza tra ciò che è reale e ciò che è imma­ginario che colui il quale si preoccupa di ciò che potrebbe essere e non di ciò che è, prepara la sua rovina e non la sua salvezza. Un uomo che voglia essere buono in tutto in mezzo a tanti che non lo sono, non può che andare incontro al disastro. È perciò necessario che un principe, se vuole rimanere tale, impari a non essere buono sempre, e ad esserlo o a non es­serlo secondo le necessità. Lasciando perdere le fantasie relative a un prin­cipe e ragionando intorno ai fatti, secondo me tutti gli uomini e soprattutto i principi, posti più in alto degli altri, sono contraddistinti da alcune qualità che li rendono degni di lode o di biasimo. C'è chi viene considerato generoso e chi misero (usando un termine toscano, perché avaro nella nostra lingua è anche chi desidera avere di più con furti, mentre chiamiamo mi­sero chi, in modo eccessivo, non usa del suo); qualcu­no è considerato capace di donare, qualche altro ra­pace; qualcuno crudele, qualche altro pietoso; uno tra­ditore, un altro fedele; uno effeminato e vile, un altro virile e coraggioso; uno affabile, un altro scostante; uno lascivo, un altro casto; uno schietto, un altro tor­tuoso; uno implacabile, un altro benevolo; uno severo, un altro superficiale; uno religioso, un altro miscre­dente, e così via. Ognuno dirà che sarebbe estrema­mente lodevole per un principe possedere di tutte queste caratteristiche solo quelle positive, ma poiché tutte non si possono avere, perché la natura umana non lo consente, è necessario essere così prudenti da sfuggire soprattutto la fama dei vizi che potrebbero fare perdere il potere. Se è possibile, è prudente evi­tare anche quei vizi che non possono far perdere il potere, abbandonandosi tuttavia ad essi senza troppo timore, se invece non è possibile. Il principe non deve preoccuparsi di essere criticato per quei vizi che in­vece gli consentono di mantenere il potere. A ben considerare ci sono virtù che possono condurre alla rovina e vizi che portano al benessere e alla sicurezza. Cap XVII. LA CRUDELTÀ E LA CLEMENZA: SE SIA MEGLIO ESSERE AMATI PIUTTOSTO CHE TEMUTI O TEMUTI PIUTTOSTO CHE AMATI Prendendo in considerazione altre qualità, secondo me è meglio che il principe venga considerato cle­mente e non crudele: è necessario però che non usi male di tale virtù. Cesare Borgia era considerato cru­dele; tuttavia la sua crudeltà gli permise di restaurare la Romagna, di unirla, di pacificarla e di renderla fe­dele. Esaminando attentamente le cose si vedrà che il Borgia fu più clemente del popolo fiorentino che, per non essere considerato crudele, permise la distru­zione di Pistoia. Un principe non deve curarsi della cattiva fama dì essere crudele se ciò gli consente di te­nere uniti e fedeli i suoi sudditi: pochi esempi gli basteranno e sarà in fondo più clemente di quelli che, per troppa pietà, consentono il sorgere di disordini, dai quali nascono poi delitti e furti che colpiscono la collettività, mentre le esecuzioni ordinate dal principe riguardano il singolo individuo. Tra tutti i prin­cipi a quello nuovo è impossibile sfuggire alla fama di crudeltà perché gli stati appena conquistati presen­tano i maggiori pericoli. Virgilio fa dire a Didone: La difficile impresa e il nuovo regno dura mi fanno, i vasti confini a preservare. D'altra parte il principe deve essere prudente nel prendere decisioni e nell'applicarle, ma non deve avere timore e procedere con equilibrio, prudenza e umanità in modo che l'eccessiva fiducia non lo renda incauto e l'eccessiva diffidenza non lo renda insop­portabile. Nasce però un problema, e cioè se sia meglio es­sere amato che temuto o il contrario. Sì può risolverlo affermando che sono valide entrambe le soluzioni, ma poiché è difficile mettere in pratica le due cose insieme, quando sì è costretti a rinunciare ad una, è più sicuro essere temuti piuttosto che amati. Gli uo­mini, infatti, sono generalmente ingrati, volubili, bu­giardi, vili, avidi e, se si decide di fare il loro interesse, e non si ha bisogno di loro, sono disposti a promet­terti il loro sangue, i loro beni, la loro vita, i loro figli, come già ho detto altrove; se invece si ha bisogno di loro, si rivoltano contro. In tale caso il principe che si è fidato delle loro promesse, se non ha altre difese, crolla. Le amicizie basate sul denaro e non sulla grandezza e nobiltà d'animo sono come prese a prestito e non possono poi essere spese. Gli uomini hanno meno paura a colpire un principe che si fa amare piuttosto di uno che si fa temere, perché tale legame non è sincero e può essere rotto in qualunque occasione dall'uomo, che è malvagio. Il timore invece è un legame reso saldo dalla paura della punizione, che non viene mai meno. Il principe tuttavia deve farsi temere in modo tale da non suscitare odio, anche in assenza di amore; può essere, infatti, temuto e non odiato nello stesso tempo. Ciò è possibile se rispetta i beni dei suoi cittadini e dei suoi sudditi, nonché le loro donne. Se giudica indi­spensabile condannare a morte qualcuno, deve avere delle valide giustificazioni e dei motivi evidenti, ma soprattutto non deve toccare i beni altrui: gli uomini, infatti, dimenticano prima la morte del padre che la perdita del patrimonio. Le occasioni per depredare qualcuno, d'altra parte, non mancano. Chi sin dall'i­nizio vive di rapine trova sempre un pretesto per impadronirsi dei beni altrui; al contrario, le necessità di colpire persone fisiche sono rare e si esauriscono in fretta. Quando il principe è a capo dell'esercito e deve controllare le sue truppe è necessario che non si preoc­cupi di essere giudicato crudele, perché senza questa fama nessuno è mai riuscito a dominare un esercito e a condurlo alla guerra. Una delle mirabili imprese di Annibale fu quella di condurre in terra straniera un enorme esercito, composto di genti diverse, senza che sorgessero mai dissensi interni o verso di lui, sia nella buona sia nella cattiva sorte. E ciò fu possibile perché Annibale manifestò tutta la sua crudeltà, che, insieme ad altre doti, lo fece sempre apparire agli occhi dei suoi uomini come degno di venerazione e terribile insieme. Senza la crudeltà, le altre sue qualità non sarebbero bastate. Gli storici, stoltamente, da una parte ammi­rano i suoi risultati e dall'altra criticano la causa prin­cipale che li ha permessi. Quanto sia vero che le altre sue qualità non sa­rebbero state sufficienti lo si vede bene in Scipione, uomo di qualità rarissime non solo per il suo tempo ma per tutta la storia dell'umanità. Il suo esercito in Spagna si ribellò e ciò dipese dalla sua eccessiva cle­menza, perché aveva concesso alle truppe troppa li­bertà rispetto alle esigenze imposte dalla disciplina militare. Quinto Fabio Massimo in Senato gli rim­proverò tale atteggiamento e lo definì corruttore dell'esercito romano. Gli abitanti di Locri, in Sicilia, fu­rono sottoposti a ogni serie di angherie da parte di un luogotenente di Scipione, ma questi non fece mai giu­stizia e non punì il colpevole, proprio per il suo ca­rattere indulgente. In Senato si disse che Scipione era simile a quegli uomini in grado di non commettere er­rori, ma incapaci di correggere gli errori altrui. Il suo, atteggiamento avrebbe con il tempo compromesso la sua fama e la sua gloria, ma poiché si rimise all'auto­rità del Senato non ne subì le conseguenze, ma addi­rittura ne trasse motivo di gloria. Posso concludere tornando al problema di par­tenza: gli uomini amano per loro volontà ma temono per volontà del principe e dunque il principe saggio deve fare affidamento solo su ciò che dipende da lui e non da altri. Deve solo fare in modo di non essere odiato, come si è detto. Cap. XVIII. I PRINCIPI E LA PAROLA DATA Tutti sanno quanto sia lodevole che un principe man­tenga la parola data e viva con onestà, senza ricorrere all'inganno. Tuttavia la realtà dei fatti ci mostra dei principi che hanno ottenuto quello che volevano senza tener fede alle promesse e ingannando gli uo­mini; questi principi hanno superato nelle loro im­prese quelli che hanno sempre agito con lealtà. Ci sono due modi di battersi: uno con le leggi, l'altro con la forza. Il primo è proprio dell'uomo, l'altro delle bestie, ma poiché il primo non sempre funziona conviene ricorrere anche al secondo. Un principe deve dunque servirsi dei mezzi degli uomini e di quelli delle bestie. Gli antichi scrittori lo hanno sempre insegnato tra le righe nelle loro opere. Achille e nume­rosi altri principi dell'antichità furono affidati al centauro Chirone perché li allevasse sotto la sua disci­plina. L'avere per maestro qualcuno che era metà be­stia e metà uomo voleva appunto sottolineare il fatto che il principe deve essere in grado di servirsi delle sue due nature, perché l'una senza l'altra non dura a lungo. Della sua natura bestiale il principe deve sfruttare le qualità della volpe e del leone, perché il Icone non sa difendersi dalle insidie e la volpe non sa difendersi dalla forza bruta dei lupi. Bisogna essere volpe per ri­conoscere l'inganno e essere leone per spaventare i lupi. Coloro che fanno semplicemente la parte del leone non sanno governare. Un principe saggio non può e non deve mantenere la parola data quando ciò può tornare a suo svantaggio e quando sono venute a mancare le ragioni che lo avevano indotto a darla. Se gli uomini fossero tutti buoni non varrebbe questa regola, ma siccome non lo sono e in generale non la os­servano, non è una regola da osservare nei loro con­fronti. A un principe non sono mai mancati dei pre­testi legali per farlo. Nella storia moderna ci sono infiniti esempi di trattati di pace e di promesse non man­tenute per la slealtà dei principi, e di essi i più simili alla volpe hanno avuto la meglio. E necessario però essere abili nel mascherare questa natura e essere ca­paci di fingere e ordire inganni. Sono tanto numerosi gli uomini ingenui e legati alle esigenze del momento che l'ingannatore troverà sempre chi è disposto a la­sciarsi ingannare. Voglio ricordarvi un esempio recente. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare e trovò sempre il terreno adatto. Non ci fu mai uomo pronto a giurare e spergiurare che osservasse meno i suoi giuramenti e tuttavia egli riuscì sempre nei suoi intenti perché conosceva bene i punti deboli della natura umana. Un principe non deve possedere tutte le qualità ci­tate prima, ma è necessario che mostri di possederle. Anzi oserei quasi dire che se le ha e ne fa uso, gli sono dannose; se invece fa credere di averle, gli sono utili. Il principe deve apparire indulgente, fedele, umano, schietto, religioso e deve esserlo; nel momento in cui però non può esserlo, deve essere capace di trasfor­marsi nel contrario. Bisogna capire che un principe e soprattutto un principe nuovo non può rispettare tutte quelle norme per cui uno è considerato buono, avendo spesso la necessità, per mantenere il potere, di operare contro la lealtà, la pietà, l'umanità, la reli­gione. E indispensabile che abbia un animo disposto a mutare in concomitanza dei mutamenti della sorte, in modo che, quando gli è possibile, non si allontani dal bene ma, quando la necessità lo impone, sappia accollarsi il male. Il principe non deve mai farsi uscire dalla bocca una parola che non sia in linea con le cinque qualità di cui si è parlato, così che appaia a chi lo vede e lo ascolta tutto indulgenza, tutto lealtà, tutto integrità, tutto integrità, tutto pietà religiosa. Nulla gli è più in­dispensabile che manifestare quest'ultima virtù. In ge­nere gli uomini giudicano più dall'apparenza che dall'esperienza diretta, perché tutti vedono, ma pochi toccano con mano. Ciascuno vede l'apparenza, pochi si rendono conto della realtà e questi pochi non hanno il coraggio di opporsi alle opinioni della mag­gioranza che hanno dalla loro l'autorità pronta a di­fenderli: nelle azioni degli uomini e soprattutto dei principi, quando non c'è tribunale a cui ricorrere, si deve considerare il fine. Un principe deve dunque conquistare uno stato e conservarlo: i suoi metodi saranno sempre considerati onorevoli e verranno lodati da tutti perché il popolo, e tutti sono uguali in questo, bada sempre alle appa­renze e al risultato. Le sparute minoranze di savi non avranno alcun ruolo perché tutti gli altri si appogge­ranno al principe. Un principe contemporaneo, che non è opportuno citare, predica sempre la carità e la lealtà, ma non rispetta né l'una né l'altra; se lo avesse fatto avrebbe certo perso la sua autorità e i suoi domini. Cap. XXV: Quanto può la fortuna nelle cose umane e come si può resistere ad essa So che molti uomini pensavano e tuttora pensano che le cose del mondo sono governate dalla fortuna e da Dio e che gli uomini, anche se sono saggi, non sono in grado di modificarle e neppure di portare qualche rimedio. Di conseguenza si potrebbe pensare che non vale la pena di affannarsi e che ci si debba lasciar governare dal destino. Questa opinione ha avuto parti­colare successo ai nostri tempi a causa degli sconvolgimenti che si sono visti e che si vedono quotidianamente e che nessuno avrebbe potuto prevedere. An­ch'io in qualche caso sono stato tentato di pensare allo stesso modo. Tuttavia affinché il nostro libero arbitrio non sia completamente annullato penso che la fortuna possa determinare la metà delle nostre azio­ni, mentre per l'altra metà gli eventi dipendono da noi. Voglio paragonare la fortuna a uno di questi fiumi in piena che, quando rompono gli argini, allagano le pianure, abbattono alberi e costruzioni, portano via terra da una parte e la spingono dall'altra; tutti fuggono e ciascuno cede alla furia dell'acqua senza op­porre resistenza. Benché la situazione sia questa, gli uomini hanno la possibilità, in tempi tranquilli, di premunirsi apprestando ripari e costruendo argini in modo che se il livello delle acque si fa pericoloso, queste confluiscano nei canali o non siano sfrenate e dannose. La fortuna si manifesta nello stesso modo: mostra tutta la sua forza là dove non ci sono abilità e organizzazione che siano capaci di resisterle e rivolge il suo impeto proprio là dove sa che non esistono ar­gini o difese. Se si osserva l'Italia, che è il cuore e la causa degli sconvolgimenti, si può riconoscere una terra senza argini e ripari. Se essa fosse stata protetta convenientemente come la Germania o la Spagna e la Francia, l'inondazione non avrebbe provocato danni così grandi o non ci sarebbe stata. Non voglio dire altro circa il modo di fronteggiare la fortuna in generale. Restringendo il campo d'osservazione è possibile vedere un principe avere oggi successo e domani ca­dere nella polvere, senza che ci siano stati cambia­menti nel suo modo di essere. Io penso che ciò av­venga prima di tutto per le ragioni di cui abbiamo fi­nora ampiamente parlato: il principe che si affida alla sola fortuna crolla appena questa cambia. Penso anche che possa avere successo il principe che adatta il suo modo di agire alle particolari condizioni del mo­mento, mentre penso che vada incontro al fallimento quello che non è in grado di adattarsi ai tempi. Gli uomini, infatti, per raggiungere il loro obiettivo e cioè ottenere onori e ricchezze possono procedere in di­versi modi, con cautela o impetuosità, con violenza oppure astuzia, con pazienza o impazienza e ciascuno in modo diverso ottenere ciò che si era prefisso. Di due persone prudenti una arriva all'obiettivo e l'altra no e similmente capita che giungano allo stesso suc­cesso una persona prudente e una impetuosa: ciò dipende dall'adeguarsi o meno della situazione al loro modo di agire. È facile concludere che due persone, operando in modo diversa,, raggiungono lo stesso scopo, mentre due che operano nello stesso identico modo non riescono a farlo. Dallo stesso motivo di­pende il mutarsi del bene in male. Può succedere, in­fatti, che governando con rispetto e pazienza, le cir­costanze consentano al principe di mantenere il po­tere, ma, nel momento in cui la realtà cambia, gli può succedere di perderlo perché non ha saputo cambiare il suo atteggiamento. Non è possibile trovare un uomo che sia in grado di adattarsi ai mutamenti, perché è nella sua indole che non sappia cambiare il suo modo di essere e anche perché, avendo ottenuto buoni ri­sultati seguendo un certo percorso, non si persuade a cambiarlo. L'uomo mite non sa trasformarsi in ir­ruente, donde la sua rovina; perché se, ammaestrato dal tempo e dagli eventi, sapesse adeguarsi ai muta­menti, la sua fortuna non cambierebbe. Papa Giulio II si comportò sempre da irruente e i suoi tempi erano così adatti al suo modo di fare che raggiunse ogni volta il suo scopo. Si esamini la sua prima impresa a Bologna, quando era ancora in vita Giovanni Bentivoglio. I Veneziani erano contrari come anche il re di Spagna; la Francia era in trattative con lui e tuttavia si mosse in prima persona con tutto il suo spirito bellicoso. Veneziani e Spagnoli vennero pa­ralizzati dalla sua mossa, i primi dalla paura di questa sua azione e Ferdinando II dal desiderio di imposses­sarsi di tutto il regno di Napoli. Riuscì inoltre a tra­scinare nell'impresa il re di Francia che, vedendolo de­ciso all'azione e desiderandolo come alleato per inde­bolire i Veneziani, si rese conto di non potergli negare il suo aiuto senza arrecargli palese offesa. Giulio con la sua azione irruente ottenne quello che nessun altro pontefice, con tutta la possibile prudenza, avrebbe potuto avere. Se avesse, infatti, indugiato a Roma in at­tesa che tutto fosse perfettamente in regola, come avrebbe fatto qualunque altro papa, avrebbe fallito perché il re di Francia avrebbe trovato mille scuse e gli altri avrebbero avuto il tempo di intimorirlo. Non voglio occuparmi delle altre sue imprese, del tutto si­mili a questa e tutte vittoriose. La brevità della vita non gli fece conoscere sconfitte, ma se i tempi fossero cambiati e avessero preteso un atteggiamento più cir­cospetto, il papa avrebbe conosciuto la sconfitta. Giulio II non avrebbe mai mutato il suo modo di pro­cedere, che era connaturato alla sua indole. Per finire se la fortuna cambia e gli uomini si osti­nano nei loro atteggiamenti, essi hanno successo fino a quando i due elementi si accordano, ma vanno verso la rovina se questo non succede. Io sono convinto che è meglio essere impetuosi piuttosto che prudenti, perché la fortuna è donna ed è indispensabile, per sottometterla, percuoterla e sbatterla. Essa si lascia domi­nare dagli irruenti più che da coloro che si compor­tano senza slanci. In quanto donna predilige i giovani che sono meno cauti, più focosi e audaci nel dominarla. Esercizio 2. Comprensione complessiva 1 - Esponi a parole tue il contenuto del testo. Qual è il problema generale affrontato nel brano e quali sono gli eventuali sotto-problemi affrontati e come sono esposti? 21 Qual è la tesi di fondo sostenuta? quali sono gli argomenti a sostegno della tesi generale? 22 Vengono presentate antitesi o argomenti altrui non condivisi? se sì, quali sono quali sono le antitesi ed attraverso quali argomenti vengono eventualmente confutate? 23 - Quali sono le prove di validità degli argomenti? quali fra di esse sono dati oggettivi (fatti, nozioni, leggi generalmente valide, testimonianze, pareri o citazioni di esperti)? Quali sono dati soggettivi (opinioni personali dell'autore, suoi giudizi, sue interpretazioni, opinioni di persone diverse dallo scrivente o di determinati gruppi)?24 - A quale conclusione giunge l'autore?

lunedì 4 aprile 2011

Il romanzo giallo: ragioni di un'assenza di Massimo Capuozzo

Crescendo in un periodo in cui era impossibile trovare libri polizieschi o noir scritti da autori italiani, eccetto Gadda, Sciascia ed Eco, in cui però l’elemento “poliziesco” è solo pretesto per altro narrare, ipotizzavo in modo personalissimo spiegazioni di questo vuoto nel panorama letterario.
Per l’influenza dalle prefazioni di Oreste del Buono o di altri critici ai gialli tradizionali della Christie, di Ellery Queen, di Wallace, di Van Dine, era nata in me la convinzione che un elemento fondamentale, imprescindibile dei romanzi Mistery dovesse essere l’ambientazione, un’ambientazione Anglosassone o perlomeno nord Europea, persuadendomi ingannevolmente che il presupposto per il quale in Italia non si scrivessero romanzi di un certo tipo era proprio l’inadeguatezza del nostro paese ad essere scenario di crimini e delitti.
Il problema, tuttavia, non era tanto legato all'ambientazione e neppure che gli eroi di un certo tipo di romanzi dovessero ricalcare degli stereotipi impossibili da attribuire ad un personaggio italiano, quanto piuttosto altri, talmente evidenti e semplici da sembrare troppo difficili da vedere distintamente e tutti da ricercare nei meccanismi sociologici della letteratura.
Innanzitutto in Italia gialli e noir erano visti dal pubblico come libri di rango inferiore, cosicché gli autori evitavano di scrivere un certo tipo di libri convinti che non avrebbero trovato gli editori disposti a pubblicarli, gli editori a loro volta evitavano di pubblicare un autore sconosciuto italiano, quando potevano stampare autori americani ed inglesi i cui diritti tra l’altro in alcuni casi erano a costo zero ed i critici erano inoltre disposti a guardare con favore le loro opere.
Agli inizi degli anni 90 del Novecento, nel panorama editoriale si verificò però una svolta: pubblicare giovani e sconosciuti autori divenne una moda. Si scoprì così una serie di talentuosi giovani scrittori che si dimostrarono capaci di mutuare generi in auge all’estero e di riproporli alla maniera italiana.
Il Noir-Giallo-poliziesco esplose in Italia, aprendo un filone fino a quel momento quasi inesplorato.
Il giallo classico – quello che si legge con un’unica domanda chi è l’assassino? – è stato reinterpretato e svolto secondo una chiave di lettura diversa, infatti, chi legge non si dovrà più domandare soltanto chi è l’assassino, ma anche cosa succede e perché?

venerdì 1 aprile 2011

Romanticismo e Risorgimento: il contributo della lirica all'unificazione

Questo breve saggio è il frutto del lavoro di quattro miei studenti del IV anno – Espedito Avella, Raffaele Cuomo, Luigi Delle Donne e Lorenzo Mirabile – che hanno avuto la pazienza di riordinare gli appunti delle mie lezioni di Storia sociale della letteratura italiana, inerenti al rapporto fra Romanticismo e Risorgimento.A loro va il mio più sincero ringraziamento, per aver dato una forma organica ad appunti e riflessioni che caoticamente si erano accumulati nel corso degli anni.
Massimo Capuozzo

L’attività intellettuale e pratica svolta dai gruppi illuministici italiani e la politica riformatrice svolta dai sovrani settecenteschi contribuirono a creare le condizioni da cui nacque il Risorgimento[1].
L’ideologia che sta alla base del movimento risorgimentale è il liberalismo, che si può sinteticamente riassumere nelle richieste di libertà e di indipendenza.
Per libertà si intendeva il regime costituzionale e l’insieme di garanzie che esso assicurava: partecipazione dei cittadini (o almeno della parte di essi che sola si considerava adeguatamente preparata) al governo dello Stato; uguaglianza dei cittadini di fronte al­la legge; difesa dell’individuo dall’arbitrio del potere statale; libertà di espressione a co­minciare dalla libertà di stampa.
Per indipendenza si intendeva invece l’autodecisione dei popoli, i quali, presa coscienza della loro identità nazionale, non intendevano più tollerare dominazioni straniere. Inizialmente la richiesta di indipendenza in Italia si traduceva nella prospettiva di cacciare dalla penisola l’Austria, considerata il baluardo della reazione ed il più grave ostacolo alla conquista delle libertà costituzionali, mentre solo successivamente si affermò sempre più la convinzione che i due problemi tra loro connessi della libertà e dell’indipendenza si legavano a quello dell’unificazione politica della penisola. Anticipando i tempi, già nel ‘21, Manzoni proclamava: «Liberi non sarem se non siam uni». Sarà questo lo sbocco delle lotte, non sempre con­cordi, dei liberali italiani.
Alla ideologia politica del liberalismo si accompagnava coerentemente la dottrina economica del liberismo. Fiduciosa nella capacità di autoregolazione delle forze economiche, che si pensava portassero ad un effettivo progresso globale, tale dottrina soste­neva che lo Stato doveva lasciare libero campo all’iniziativa privata, non interferendo, con regolamentazioni e dazi protettivi, sul libero sviluppo dell’economia. «Lasciate fa­re» è il motto dell’economia liberista.La classe sociale che sta alla base del movimento risorgimentale è la borghesia, protagonista dei nuovi tempi, quella che cercava, in ogni modo, di mutare l’assetto politico e sociale, in senso liberale. La borghesia in Italia era ancora allo stato nascente; agli inizi, ad operare sono piccole avanguardie che mirano a sensibilizzare quello che esse chiamano il popolo, costituito da possidenti, professionisti e commercianti, che cercano alleanze con gli artigiani e, solo più tardi e marginalmente, col proletariato urbano.
Nella prima metà dell’800 fino alla costituzione del regno del 1861, la borghesia si andò rafforzando, grazie alla progressiva crescita dell’economia italiana. Lo Stato costituzionale, che rappresentò il punto di arrivo di tale trasformazione, costituì anche lo strumento dell’ulteriore affermazione e sviluppo della borghesia.
Il processo di formazione dello Stato nazionale italiano (1815-61) prende il nome di Risorgimento, che tuttavia non deve essere inteso tanto come riconquista di una unità politica, mai esistita nel nostro Paese, quanto piuttosto come rinascita dell’Italia alla libertà, all’indipendenza, alla dignità di nazione, così da colmare il distacco che la separava dai maggiori Stati europei.Ma perché il Risorgimento cominciasse fu necessaria una più brusca rottura col passato: la Rivoluzione Francese ed il periodo napoleonico avevano determinato in Italia la formazione di un ceto politico, in cui maturano in forma cosciente le idee di indipendenza, di libertà e di unità.
Al Concorso bandito nel 1796 dall’Amministrazione Generale della Lombardia, i concorrenti risposero dividendosi tra la tesi unitaria e quella federalistica: il vincitore Melchiorre Gioia auspicava una Repubblica unitaria che assicurasse la libertà, rafforzando i legami regionali.
La delusione provata dai giacobini per la politica del Direttorio e di Napoleone in Italia, aveva provocato la reazione dei patrioti unitari, che si era espressa nella formazione di società segrete antifrancesi e nei piani di Filippo Buonarroti di legare il movimento patriottico italiano alla ripresa dei giacobini in Francia. Le esperienze del triennio 1796-1799 trovarono l’espressione più tipica nel «Saggio storico sulla rivoluzione napoletana» di Vincenzo Cuoco del 1801, costruito sulla tesi della rivoluzione napoletana come rivoluzione passiva.
La crescente opposizione al dominio napoleonico ed il risvegliato sentimento nazionale diedero vita al movimento settario: soprattutto nell’Italia meridionale, in particolare la Carboneria, espressione delle aspirazioni dei ceti borghesi del Mezzogiorno ad un regime costituzionale, acquistò crescente importanza.
A Milano, intorno al conte Federico Confalonieri (1785-1846), si formò il movimento degli «italici puri», che miravano ad eliminare dal paese l’influenza francese e ad evitare il dominio austriaco. Anche il Proclama di Rimini rappresentò un generoso tentativo di chiamare a raccolta gli Italiani, ma trovò eco in pochi intellettuali, fra i quali il giovane Manzoni.Milano, divenuta centro di intensa attività culturale, accolse i maggiori rappresentanti della vita intellettuale italiana, che elaborano originalmente i motivi illuministici d’Oltralpe, continuando il processo iniziato durante il rinnovamento settecentesco.
Gli scrittori italiani parteciparono attivamente anche alla vita politica, in vari posti di responsabilità civile e militare, spesso alternando l’attività intellettuale con l’azione, per una più rapida rinascita della patria italiana.
Anche gli studi storici e politici rivolti a problemi giuridici ed amministrativi suscitarono vivo interesse: mentre da un lato Melchiorre Gioia, assertore del liberismo economico, diede impulso agli studi economici e statistici, dall’altro Carlo Botta analizzò criticamente gli avvenimenti italiani dal 1789 al 1814 nella sua «Storia d’Italia dal 1789 al 1814» del 1824.
Con vigore e potenza espressiva, Ugo Foscolo (1778-1821) trasfuse nelle opere in prosa la sua passione politica e l’amore per la patria, che onorò anche come soldato, combattendo nella legione italiana per ridestare, con l’esempio, il valore militare nel suo popolo. Nel carme «I Sepolcri», rievocando le glorie passate, le considera miglior auspicio di futura grandezza per l’Italia. Nel mondo dei sentimenti di Foscolo e, prima ancora, di Alfieri sono già in germe spunti e motivi romantici che lievitarono con vigore nel movimento risorgimentale.
Santa Croce, sacrario delle glorie italiche
Da I sepolcri di Ugo Foscolo 1806
A egregie cose il forte animo accendonol'urne de' forti, o Pindemonte; e bellae santa fanno al peregrin la terrache le ricetta. Io quando il monumentovidi ove posa il corpo di quel grandeche temprando lo scettro a' regnatorigli allòr ne sfronda, ed alle genti sveladi che lagrime grondi e di che sangue;e l'arca di colui che nuovo Olimpoalzò in Roma a' Celesti; e di chi videsotto l'etereo padiglion rotarsipiú mondi, e il Sole irradïarli immoto,onde all'Anglo che tanta ala vi stesesgombrò primo le vie del firmamento:- Te beata, gridai, per le feliciaure pregne di vita, e pe' lavacriche da' suoi gioghi a te versa Apennino!Lieta dell'aer tuo veste la Lunadi luce limpidissima i tuoi colliper vendemmia festanti, e le con vallipopolate di case e d'olivetimille di fiori al ciel mandano incensi:e tu prima, Firenze, udivi il carmeche allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco,e tu i cari parenti e l'idïomadésti a quel dolce di Calliope labbroche Amore in Grecia nudo e nudo in Romad'un velo candidissimo adornando,rendea nel grembo a Venere Celeste;ma piú beata che in un tempio accolteerbi l'itale glorie, uniche forseda che le mal vietate Alpi e l'alternaonnipotenza delle umane sortiarmi e sostanze t' invadeano ed aree patria e, tranne la memoria, tutto.Che ove speme di gloria agli animosiintelletti rifulga ed all'Italia,quindi trarrem gli auspici. E a questi marmivenne spesso Vittorio ad ispirarsi.Irato a' patrii Numi, errava mutoove Arno è piú deserto, i campi e il cielodesïoso mirando; e poi che nullovivente aspetto gli molcea la cura,qui posava l'austero; e avea sul voltoil pallor della morte e la speranza.Con questi grandi abita eterno: e l'ossafremono amor di patria. Ah sí! da quellareligïosa pace un Nume parla:e nutria contro a' Persi in Maratonaove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,la virtú greca e l'ira. Il naviganteche veleggiò quel mar sotto l'Eubea,vedea per l'ampia oscurità scintillebalenar d'elmi e di cozzanti brandi,fumar le pire igneo vapor, corrusched'armi ferree vedea larve guerrierecercar la pugna; e all'orror de' notturnisilenzi si spandea lungo ne' campidi falangi un tumulto e un suon di tubee un incalzar di cavalli accorrentiscalpitanti su gli elmi a' moribondi,e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Come già si osserva nei succitati versi de «I sepolcri», non esiste soluzione di continuità fra cultura neoclassica e romantica, per il legame unitario dell’attaccamento alle tradizioni e i motivi patriottici che si perpetuavano, vivi ed operanti.
La polemica sul Romanticismo assunse pertanto in Italia una intonazione politica ben definita, che trovò l’espressione più significativa nel contrasto fra la austriacante «Biblioteca Italiana» ed «Il Conciliatore», giornale di cui era caporedattore Silvio Pellico.
Fra il 1818-19 «Il Conciliatore», portavoce delle nuove idee, diffuse i primi elementi del liberalismo romantico, incorrendo nella soppressione da parte dell’Austria.
In letteratura e nelle arti la coscienza dell’equilibrio e dell’armonia della forma classica restò inscindibile dall’esigenza del superamento dei valori formali della tradizione in nome dell’impulso naturale e della spontaneità. Nella situazione culturale ed artistica del primo Ottocento, Classicismo e Romanticismo furono dunque, solo due aspetti di un’unica realtà.
Il Romanticismo italiano si identificò sempre più nel Risorgimento, anche quando accettò i canoni dell’analogo movimento straniero e ne sviluppò le forme di espressione artistica, in difesa dei valori nazionali, in opposizione alla dominazione straniera ed al conservatorismo.
Si formò in tal modo un complesso di concezioni filosofiche ed estetiche che esaltavano come momento saliente dell’arte e della poesia, moralmente essenziale, la funzione educatrice, che esplicava rinnovando nei popoli la memoria delle glorie passate ed incitandoli a liberarsi da ogni servitù.
In campo artistico il Romanticismo, propugnando la libertà dell’artista da tutto quello che ne condizionava l’ispirazione e il suo dovere di essere po­polare cioè di accostarsi al gusto e alla mentalità del popolo e di esercitare fra il popo­lo la suddetta funzione educativa.
Uno dei tratti salienti della poetica romantica, ossia la religiosità, si concreta a volte nell’adesione a religioni rivelate come nel caso del cattolicesimo di Manzoni o alla sua religione laica del sepolcro e della «memoria» in Foscolo, contribuisce al Risorgimento: la tradizione religiosa, sottolineando il contrasto tra umili ed oppressori, diventato tipico tema dell’opera manzoniana, legittimò la ribellione contro lo straniero e nutrì il ricordo delle secolari lotte per la libertà.
Ma Romanticismo e Risorgimento si saldano indissolubilmente anche in termini di date: la fine del congresso di Vienna nel 1815 e la pubblicazione della Lettera semiseria di Giovanni Berchet del 1816.
La sconfitta di Napoleone era avvenuta nel segno del nascente sentimento nazionale, che la Rivoluzione francese aveva suscitato, affermando il principio dell’autodecisione dei popoli e che Napoleone aveva calpestato nella costruzione del suo impero personale e familiare.
Il congresso di Vienna, riunitosi in seguito alla sconfitta napoleonica, era stato cieco di fronte a questa realtà: l’ordine europeo fu da esso concepito in funzione dell’interesse delle grandi potenze ed i popoli furono considerati merce di scambio. Il congresso di Vienna volle dare l’idea di agire in nome dei popoli e delle nazioni, fissando princìpi ideali ai quali ispirarsi, come quello di legittimità: ciò che era stato fatto dalla rivoluzione e da Napoleone erano infatti violazioni dei diritti dei sovrani e dei popoli ed occorreva perciò ripristinare quei diritti. Su questa base furono rimesse sul trono le vecchie dinastie. La carta d’Europa non ne risultò sconvolta, caso mai fu riportata alla situazione precedente le grandi campagne napoleoniche ed il congresso si chiuse con la convinzione dei partecipanti di aver dato un assetto durevole al vecchio continente.
Tuttavia la restaurazione progettata dal congresso di Vienna si rivelò un «ordine» destinato a non durare.
L’assetto dato all’Europa dal congresso di Vienna, nel suo dispregio delle aspirazioni dei popoli all’unità nazionale e all’indipendenza, fu ben presto scosso da moti rivoluzionari che esplosero in varie parti del continente. Agitazioni, insurrezioni e rivoluzioni avrebbero portato al crollo dell’assetto stabilito a Vienna e al sorgere di nuovi stati nazionali: la Grecia, il Belgio, l’Italia, la Germania.Il cammino di paesi come la Germania e l’Italia, frazionati in molti staterelli e sottoposti all’egemonia diretta o indiretta dell’Austria fu assai più lento e contrastato. In Italia in particolare la via del progresso economico e civile passava necessariamente per l’unificazione nazionale e poteva essere imboccata solo dopo lunghe e difficili lotte.Nonostante la rivoluzione americana e quella francese avessero affermato i diritti dell’uomo alla libertà e all’uguaglianza di fronte alla legge, i sovrani rimessi sul trono dal congresso di Vienna nel 1815 ripresero a governare in generale come sovrani assoluti e restaurarono i privilegi della nobiltà. Contro questi sovrani, nei diversi Stati europei, gli uomini più aperti e animati da idee innovatrici si batterono con accanimento per strappare loro non solo l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e le libertà di parola, di stampa, di associazione, ma anche la partecipazione alla formazione delle leggi dello Stato, mediante l’elezione di propri rappresentanti alle assemblee legislative (parlamenti). In una parola, chiedevano la costituzione o carta o statuto: un documento scritto, che doveva valere come legge suprema dello Stato, con il quale il sovrano concedeva questi diritti e si impegnava a rispettarli. Coloro che si batterono in favore delle libertà individuali e della costituzione, furono detti liberali. Si trattava in genere di borghesi, cioè di intellettuali, commercianti, professionisti, oppure degli elementi più avanzati ed aperti dell’aristocrazia; le masse popolari, invece, condizionate dalla propaganda reazionaria e dall’ignoranza, erano ancora assai arretrate e non potevano ancora manifestare esigenze di progresso sociale e politico.Sul modo di partecipare al potere politico i liberali non erano però tutti d’accordo. Alcuni, i moderati, volevano una costituzione sul tipo di quella inglese, con un parlamento eletto dalla parte più ricca della popolazione. Altri, i cosiddetti democratici, volevano una vera e propria democrazia sul tipo di quella espressa dalla rivoluzione francese, con un parlamento eletto, senza distinzioni, da tutti i cittadini. Nei paesi soggetti ad un sovrano straniero, la lotta dei liberali divenne anche lotta per l’indipendenza nazionale.In Italia i liberali si mossero in diverse direzioni: da un lato svolsero attività cospirativa per tentare, con l’insurrezione armata, di costringere i sovrani a concedere la costituzione, dall’altro presero iniziative culturali, fondando giornali e riviste per diffondere le loro idee ed iniziative pratiche, adoperandosi, soprattutto nell’Italia settentrionale, per apportare le più urgenti riforme in ogni campo, per migliorare l’agricoltura e l’industria e fondare nuove scuole.In questa prima fase del Risorgimento si possono distinguere i seguenti momenti.In primo luogo la fase dei moti carbonari: i primi tentativi di mutare la situazione determinata in Italia dal congresso di Vienna furono opera delle società segrete ed in particolare della Carboneria, che fu l’artefice dei moti del 1820-1821 nel Napoletano e nel Piemonte. L’obiettivo dei patrioti era di ottenere dai prìncipi una moderata costituzione. Dopo un iniziale successo, i moti fallirono per l’intervento dell’Austria: nel Lombardo Veneto non si arrivò neppure all’azione perché le congiure furono preventivamente scoperte e i patrioti incarcerati (tra questi Pellico); nel 1831 scoppiò a Modena un moto, che si allargò a parte dell’Emilia e fu soffocato militarmente, anche questa volta dall’Austria.Legati a questa stagione del Risorgimento sono quattro testi, di cui il primo, «Canzone all’Italia» di Giacomo Leopardi (1798-1937) collegato al movimento romantico risorgimentale con la passione della sua anima.
All’Italiadai Canti di Giacomo Leopardi
O patria mia, vedo le mura e gli archiE le colonne e i simulacri[2] e l’ermeTorri degli avi nostri,Ma la gloria non vedo,Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchiI nostri padri antichi. Or fatta inerme,Nuda la fronte e nudo il petto mostri.Oimè quante ferite,Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,Formosissima donna! Io chiedo al cieloE al mondo: dite dite;Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,Che di catene ha carche ambe le braccia;Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta[3] e sconsolata,Nascondendo la facciaTra le ginocchia, e piange.Piangi, che ben hai donde, Italia mia,Le genti a vincer nataE nella fausta sorte e nella ria.

Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno[4];
Che fosti donna[5], or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perchè, perchè? dov’è la forza antica,
Dove l’armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse[6] il brando[7]?
Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
O qual tanta possanza
Valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna[8] per te? non ti difende
Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
Combatterò, procomberò[9] sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl’italici petti il sangue mio.

Dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi
E di carri e di voci e di timballi:
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di spade
Come tra nebbia lampi.
Nè ti conforti? e i tremebondi[10] lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L’Itala gioventude? O numi, o numi:
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari,
Ma da nemici altrui,
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.

Oh venturose e care e benedette
L’antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre;
E voi sempre onorate e gloriose,
O tessaliche[11] strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch’alme[12] franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l’onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprìr le invitte schiere
De’ corpi ch’alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l’Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio[13] agli ultimi nepoti;
E sul colle d’Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l’etra[14] e la marina e il suolo.

E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante[15], e vacillante il piede,
Toglieasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch’offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch’al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
Nell’armi e ne’ perigli[16]
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell’acerbo fato amor vi trasse?
Come sì lieta, o figli,
L’ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch’a danza e non a morte andasse
Ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
Ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’onda morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l’aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.

Ma non senza de’ Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L’ira de’ greci petti e la virtute.
Ve’ cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr fra’ primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
Ve’ come infusi e tinti
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d’infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L’un sopra l’altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.

Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell’imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un’ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
O benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall’uno all’altro polo.
Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest’alma[17] terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch’io per la Grecia i moribondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda[18]
Fama del vostro vate appo[19] i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la vostra duri.
Con il Romanticismo nacque anche il culto per le tradizioni storiche ed al recupero del passato si volsero in questo periodo ricercatori e scrittori. Di qui fiorirono le ricerche storiche e la moda dei romanzi, dei drammi, delle liriche di argomento storico. I romantici non ignoravano che nel passato vi fossero stati innumerevoli errori da respingere, ma sostenevano che vi erano state anche importanti conquiste positive, di cui si doveva tener conto, e che, soprattutto, il passato costituiva la storia di un popolo, si identificava con il complesso di vicende, di tradizioni, di sofferenze, di gioie che gli abitanti di uno stesso territorio avevano in comune; è quindi quel popolo, e solo partendo dal suo passato un popolo potrà conseguire il senso della propria identità. Non per niente ancora Foscolo, nella introduzione alle sue lezioni all’Università di Pavia, esortava con calore appassionato gli Italiani allo studio della loro storia. È evidente che nello storicismo romantico trovò le sue radici il principio della nazione, che cominciò a profilarsi in Italia nell’età napo­leonica e che ebbe sviluppo e maturazione nel Risorgimento.
Ad alti accenti di poesia giunse Alessandro Manzoni (1785-1873) che unì l’ispirazione religiosa al sentimento patrio come in «Marzo 1821», mentre nelle sue tragedie a soggetto storico, l’«Adelchi» ed il «Conte di Carmagnola», annunciava i temi del capolavoro, il romanzo storico «I Promessi Sposi» che, sullo sfondo della dominazione spagnola in Lombardia, svolge una vicenda popolare di gioie e dolori, vissuti alla luce della fede cristiana.
La battaglia di Maclodio è il coro con cui Alessandro Manzoni chiude il secondo atto della tragedia «Il Conte di Carmagnola» pubblicata per la prima volta a Milano nei primi giorni del 1820.
Il coro tratta della battaglia combattuta nel 1427 a Maclodio, nel territorio di Brescia tra i mercenari di Filippo Maria Visconti, Duca di Milano, e quelli della Repubblica Veneta comandati dal Carmagnola. Da ciò Manzoni prese occasione per scagliarsi contro le discordie italiane che permettevano la violenza straniera in Italia.
Questa lirica, subito diffusa in Italia e fuori, fa parte di quella letteratura che preparò il Risorgimento.
La battaglia di Maclodio
Da “Il Conte di Carmagnola” di Alessandro Manzoni
S’ode a destra uno squillo di tromba;
A sinistra risponde uno squillo:
D’ambo i lati calpesto rimbomba
Da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l’aria un vessillo;
Quindi un altro s’avanza spiegato:
Ecco appare un drappello schierato;
Ecco un altro che incontro gli vien.
Già di mezzo sparito è il terreno;Già le spade rispingon le spade;L’un dell’altro le immerge nel seno;Gronda il sangue; raddoppia il ferir. -Chi son essi? Alle belle contradeQual ne venne straniero a far guerraQual è quei che ha giurato la terraDove nacque far salva, o morir? -
D’una terra son tutti: un linguaggioParlan tutti: fratelli li diceLo straniero: il comune lignaggioA ognun d’essi dal volto traspar.Questa terra fu a tutti nudrice,Questa terra di sangue ora intrisa,Che natura dall’altre ha divisa,E ricinta con l’alpe e col mar.
Ahi! Qual d’essi il sacrilego brando
Trasse il primo il fratello a ferire?
Oh terror! Del conflitto esecrando[20]
La cagione[21] esecranda qual è?
Non la sanno: a dar morte, a morire
Qui senz’ira ognun d’essi è venuto;
E venduto ad un duce venduto,
Con lui pugna, e non chiede il perché.
Ahi sventura! Ma spose non hanno,
Non han madri gli stolti guerrieri?
Perché tutte i lor cari non vanno
Dall’ignobile campo a strappar?
E i vegliardi che ai casti pensieri
Della tomba già schiudon la mente,
Ché non tentan la turba furente
Con prudenti parole placar? -
Come assiso[22] talvolta il villano
Sulla porta del cheto[23] abituro[24]
Segna il nembo[25] che scende lontano
Sopra i campi che arati ei non ha;
Così udresti ciascun che sicuro
Vede lungi le armate coorti,
Raccontar le migliaja de’ morti,
E la piéta dell’arse città.
Là, pendenti dal labbro materno
Vedi i figli che imparano intenti
A distinguer con nomi di scherno
Quei che andranno ad uccidere un dì;
Qui le donne alle veglie lucenti
De’ monili far pompa e de’ cinti,
Che alle donne diserte de’ vinti
Il marito o l’amante rapì. -
Ahi sventura! sventura! sventura!
Già la terra è coperta d’uccisi;
Tutta è sangue la vasta pianura;
Cresce il grido, raddoppia il furor.
Ma negli ordini manchi e divisi
Mal si regge, già cede una schiera;
Già nel volgo che vincer dispera,
Della vita rinasce l’amor.
Come il grano lanciato dal pieno
Ventilabro nell’aria si spande;
Tale intorno per l’ampio terreno
Si sparpagliano i vinti guerrier.
Ma improvvise terribili bande
Ai fuggenti s’affaccian sul calle;
Ma si senton piú presso alle spalle
Scalpitare il temuto destrier.
Cadon trepidi a piè dei nemici,
Rendon l’arme, si danno prigioni:
Il clamor delle turbe pittrici
Copre i lai del tapino[26] che muor.
Un corriero è salito in arcioni;
Prende un foglio, il ripone, s’avvia,
Sferza, sprona, divora la via
Ogni villa si desta al romor.
Perché tutti sul pesto cammino
Dalle case, dai campi accorrete?
Ognun chiede con ansia al vicino,
Che gioconda novella recò?
Donde ei venga, infelici, il sapete,
E sperate che gioja favelli?
I fratelli hanno ucciso i fratelli:
Questa orrenda novella vi do.
Odo intorno festevoli gridi;
S’orna il tempio, e risuona del canto;
Già s’innalzan dai cori omicidi
Grazie ed inni che abbomina il ciel. -
Giú dal cerchio dell’alpi frattanto
Lo straniero gli sguardi rivolve;
Vede i forti che mordon la polve,
E li conta con gioja crudel.
Affrettatevi, empite[27] le schiere,
Sospendete i trionfi ed i giuochi,
Ritornate alle vostre bandiere:
Lo straniero discende; egli è qui.
Vincitor! Siete deboli e pochi?
Ma per questo a sfidarvi ei discende;
E voglioso a quei campi v’attende
Dove il vostro fratello perì. -
Tu che angusta a’ tuoi figli parevi,
Tu che in pace nutrirli non sai,
Fatal terra, gli estrani ricevi:
Tal giudizio comincia per te.
Un nemico che offeso non hai
A tue mense[28] insultando s’asside[29];
Degli stolti le spoglie divide;
Toglie il brando di mano a’ tuoi Re.
Stolto anch’esso! Beata fu mai
Gente alcuna per sangue ed oltraggio?
Solo al vinto non toccano i guai;
Torna in pianto dell’ empio[30] il gioir.
Ben talor nel superbo viaggio
Non l’abbatte l’eterna vendetta;
Ma lo segna; ma veglia ed aspetta;
Ma lo coglie all’estremo sospir.
Tutti fatti a sembianza d’un Solo;
Figli tutti d’un solo Riscatto,
In qual ora, in qual parte del suolo,
Trascorriamo quest’aura vital
Siam fratelli; siam stretti ad un patto:
Maledetto colui che l’infrange,
Che s’innalza sul fiacco che piange,
Che contrista uno spirto immortal!
Dagli atrii muscosiDa Adelchi [31]di Alessandro Manzoni (1822)

Dagli atrii muscosi[32], dai Fori[33] cadenti,dai boschi, dall’arse fucine[34] stridenti,dai solchi bagnati di servo sudorun volgo[35] disperso repente si desta;intende l’orecchio, solleva la testapercosso da novo crescente romor.
Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,qual raggio di sole da nuvoli folti,traluce de’ padri la fiera virtù:ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incertosi mesce[36] e discorda lo spregio soffertocol misero orgoglio d’un tempo che fu.
S’aduna [37]voglioso, si sperde tremante,per torti sentieri, con passo vagante,fra tema e desire[38], s’avanza e ristà;e adocchia e rimira scorata[39] e confusade’ crudi signori la turba diffusa[40]
che fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti[41] li vede, quai trepide fere,
irsuti per tema le fulve criniere,le note latebre del covo cercar;e quivi, deposta l’usata minaccia,le donne superbe, con pallida faccia,i figli pensosi pensose guatar.
E sopra i fuggenti, con avido brando,quai cani disciolti, correndo frugando,da ritta, da manca, guerrieri venir:li vede, e rapito d’ignoto contento,con l’agile speme[42] precorre l’eventoe sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti[43] che tengono il campo,che ai vostri tiranni precludon lo scampo,son giunti da lunge, per aspri sentiero:sospeser le gioie dei prandi[44] festosiassursero in fretta dai blandi riposi,chiamati repente da squillo guerrier.
Lasciar nelle sale del tetto natiole donne accorate, tornanti all’addio,a preghi e consigli che il pianto troncò:han carca la fronte de’ pesti cimieri[45],han poste le selle sui bruni corsieri,volaron sul ponte che cupo sonò.
A torme, di terra passarono in terra,
cantando giulive canzoni di guerra,ma i dolci castelli pensando nel cor:per valli petrose, per balzi dirotti,vegliaron nell’ arme le gelide notti,membrando i fidati colloqui d’amor.
Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
per greppi senz’orma le corsa affannose,il rigido impero, le fami durar;si vider le lance calate sui petti,a canto agli scudi, rasente agli elmetti,udiron le frecce fischiando volar.
E il premio sperato, promesso a quei forti,
sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,d’un volgo straniero por fine al dolor?tornate alle vostre superbe ruine[46],all’ opere imbelli dell’arse officine,ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
col novo signore rimane l’anticol’un popolo e l’altro sul collo vi sta.dividono i servi, dividon gli armenti[47];si posano insieme sui campi cruentid’un volgo disperso che nome non ha.
Giovanni Berchet (1783-1851) fu la più fervida espressione della lirica patriottica. Già nel 1816, con la «Lettera semiseria di Crisostomo», Berchet invitava ad una poesia popolare di alto contenuto morale, sociale e politico i cui contenuti si tradussero in modo particolare nel «Romito del Cenisio», nelle «Fantasie» e nelle «Romanze».
Il Giuramento di PontidaDa Le fantasie[48] di Giovanni Berchet[49] (1829)
L’han giurato li ho visti in Pontida[50]
convenuti dal monte e dal piano.
L’han giurato e si strinser la mano
cittadini di venti città.
Oh spettacol di gioia! I Lombardi
son concordi, serrati a una Lega.
Lo straniero al pennon[51] ch’ella spiega
col suo sangue la tinta darà.

Più sul cener dell’arso abituro[52]
la lombarda scorata non siede.
Ella è sorta. Una patria ella chiede
ai fratelli, al marito guerrier.
L’han giurato. Voi donne frugali,
rispettate, contente agli sposi,
voi che i figli non guardan dubbiosi,
voi ne’ forti spiraste il voler.

Perchè ignoti che qui non han padri
qui staran come in proprio retaggio?
Una terra, un costume, un linguaggio
Dio lor anco[53] non diede a fruir?
La sua patria a ciascun fu divisa.
E’ tal dono che basta per lui.
Maledetto chi usurpa l’altrui,
chi il suo dono si lascia rapir.

Sù Lombardi! Ogni vostro Comune
ha una torre, ogni torre una squilla:
suoni a stormo. Chi ha un feudo una villa
co’ suoi venga al Comun ch’ei giurò
Ora il dado è gettato. Se alcuno
di dubbiezze ancora parla prudente,
se in suo cor la vittoria non sente,
in suo cuore a tradirvi pensò.

Federigo? Egli è un uom come voi.
Come il vostro è di ferro il suo brando.
Questi scesi con esso predando,
come voi veston carne mortal.
- Ma son mille più mila - Che monta?
Forse madri qui tante non sono?
Forse il braccio onde ai figli fer dono,
quanto il braccio di questi non val?

Su! Nell’irto increscioso allemanno,
su, lombardi, puntate la spada:
fare vostra la vostra contrada
questa bella che il cel vi sortì.
Vaghe figlie del fervido amore,
chi nell’ora dei rischi è codardo,
più da voi non isperi uno sguardo,
senza nozze consumi i suoi dì.

Presto, all’armi! Chi ha un ferro l’affili;
chi un sopruso patì sel ricordi.
Via da noi questo branco d’ingordi!
Giù l’orgoglio del fulvo [54]lor sir
Libertà non fallisce ai violenti,
ma il sentier de’ perigli ell’addita;
ma promessa a chi ponvi la vita
non è premio d’inerte desir.

Giusti anch’ei la sventura, e sospiri
l’allemanno i paterni suoi fuochi;
ma sia invan che il ritorno egli invochi,
ma qui sconti dolor per dolor.
Questa terra ch’ei calca insolente,
questa terra ei morda caduto;
a lei volga l’estremo saluto,
e sia il lagno dell’uomo che muor.
Il tema del Risorgimento non fu solo ricorrente nella produzione lirica, ma anche in quella in prosa. La lezione manzoniana dei Promessi sposi ispirò numerosi romanzi storici a soggetto patriottico, di vario rilievo artistico, ma tutti fondamentali per la causa patriottica: fra questi si ricordano principalmente Ettore Fieramosca e Niccolò dei Lapi di Massimo d’Azeglio La «Battaglia di Benevento» e «L’assedio di Firenze» di Francesco Domenico Guerrazzi, Lorenzo Benoni, Il Dottor Antonio di Giovanni Ruffini (1807-81) e le «Confessioni di un Italiano» di Ippolito Nievo (1813-61), che già si orienta tuttavia verso il realismo. Anche i memorialisti con testimonianze autobiografiche danno un importante contributo al Risorgimento: Silvio Pellico (1789-1854) nelle «Le mie prigioni», il libro che costò all’Austria più di una battaglia perduta, narra la propria odissea di prigioniero politico allo Spielberg; Luigi Settembrini (1813-76) nelle «Ricordanze della mia vita» rivive le sue vicende di esule perseguitato dai Borbone. Fine essenzialmente educativo hanno «I miei ricordi», opera autobiografica di Massimo D’Azeglio.
La seconda fase del Risorgimento fu caratterizzata dalla «Giovine Italia» e dai moti mazziniani.
I moti carbonari erano falliti nel loro intento per tre motivi fondamentali: perché avevano confidato nella solidarietà dei sovrani, che invece li avevano traditi – Ferdinando I a Napoli, Carlo Alberto in Piemonte, Francesco IV a Modena; perché si erano proposti finalità solo locali, senza coordinare i vari moti; perché, per segretezza, mancavano di comunicazione col popolo.
Sono queste le critiche che Giuseppe Mazzini[55](1805-72), carbonaro egli stesso, mosse alla Carboneria. Mazzini contrappose all’individualismo illuminista, che affermava i diritti, i doveri degli uomini: la vita per lui é una missione, la patria una fede, un ideale in cui convergono le volontà di tutto il popolo. arbitro dei propri destini, perché depositario della provvidenziale volontà divina. Attraverso un’educazione spiritualista e religiosa, Mazzini riteneva che fosse necessario preparare la guerra di popolo che abbattesse la tirannide. Ogni nazione ha assegnata da Dio una missione, e l’Italia, nel ruolo delle nazionalità, sarà l’antesignana di una vasta comunità europea di libere nazioni e, attraverso la rivoluzione, diverrà una, libera, democratica, repubblicana.
In base a queste idee Mazzini fondò una nuova società, la Giovine Italia[56], che, facendo leva sulle forze di tutto il popolo, mirava a costituire uno Stato unitario, libero, indipendente, repubblicano. La Giovine Italia organizzò una serie di moti, caratterizzati tanto dalla generosa disponibilità al sacrifico dei loro protagonisti, quanto da una mancanza di realismo che li destinò al fallimento: nel 1834 Mazzini tentò di far sollevare il Regno di Sardegna con l’invasione della Savoia e la contemporanea sollevazione di Genova e nel 1844 i fratelli Bandiera sbarcarono in Calabria per far insorgere le popolazioni del Napoletano.
Tutti questi moti fallirono: l’insuccesso dei moti mazziniani ed il radicalismo della Giovine Italia, che turbava particolarmente la coscienza dei liberali cattolici, favorì il tramonto del mazzinianesimo ed il rafforzarsi di una corrente moderata che si attestò sostanzialmente su tre posizioni.
Nello spirito del cattolicesimo liberale, Vincenzo Gioberti[57] (1801-1852) diede vita al neoguelfismo. Nel «Primato morale e civile degli Italiani» del 1843, Gioberti si rifà al Medioevo, quando Roma cristiana educò i popoli barbarici. Le fortune italiane sono legate all’accordo fra la nazione e il Papato, che rinnovando le glorie del tempi passati potrà restituire all’Italia il primato perduto con le dominazioni straniere. Sul piano politico immediato Gioberti pensa a una Confederazione di principi riformatori guidata dal Pontefice. Per Gioberti dunque la soluzione del problema italiano risiedeva in una federazione di principi sotto la presidenza del Pontefice e nella concessione di limitate riforme liberali.La soluzione filosabauda di Cesare Balbo[58] (1789-1853) con le «Speranze d’Italia»del 1844, prospettava l’allontanamento dell’Austria dalla Penisola e proponeva anch’egli una federazione italiana sotto la presidenza del re di Sardegna, dalla quale però doveva essere esclusa l’Austria, compensata con territori nei Balcani; la proposta filosabauda di Massimo D’Azeglio[59] con «Ultimi casi di Romagna», del 1846, che sottolineava la necessità di cacciare l’Austria anche con le armi, fidando nell’esercito piemontese.Un posto a sé occupò il gruppo federalista repubblicano, nel quale primeggiava Carlo Cattaneo[60]: avversando le posizioni neoguelfe, questa corrente fu chiamata neo-ghibellina.L’opera chiarificatrice e stimolante di questi pensatori determinò un sempre maggior coinvolgimento della borghesia nella trasformazione delle istituzioni.Le teorie di Gioberti ebbero larga diffusione fra gli spiriti moderati, che desideravano una soluzione non traumatica del problema politico italiano. L’elezione al pontificato di Pio IX Mastai Ferretti, le riforme concesse prima da lui e poi dagli altri principi, il progetto di un’unione doganale tra il Papa, il re di Sardegna e il granduca di Toscana, fecero credere che la federazione auspicata da Gioberti stesse per realizzarsi.Il processo riformistico, avviatosi con un’intesa fra prìncipi e popolazioni, si concluse con la concessione di Costituzioni in tutti gli Stati: concessione che fu però subìta dai prìncipi con riluttanza e sotto la pressione del popolo.Il 1848 segnò una svolta nella storia d’Europa: in quell’anno un’unica grande rivoluzione, di carattere nettamente liberale, scosse tutta l’Europa, per realizzare le aspirazioni alla libertà, all’indipendenza e all’unità nazionale, come in Germania e nei Paesi dell’impero asburgico, tra cui l’Italia. Si trattò, quindi, di una rivoluzione europea, che nasceva da esigenze comuni.Per comprendere la vastità e la rapidità del grande incendio rivoluzionario che avvolse l’Europa nel 1848-49 occorre tener presente che lo sviluppo economico e sociale aveva reso la sistemazione politica fissata dal congresso di Vienna sempre più insoddisfacente ed inadeguata alle nuove esigenze dei popoli.Se le condizioni di crisi e di disagio economico erano comuni all’intera Europa, diversi erano, almeno in parte, nei singoli paesi i problemi da risolvere. In Italia, infatti, si lottò per conseguire l’unificazione politica e l’indipendenza da un governo straniero, oltre che per ottenere quelle riforme costituzionali che garantissero le libertà fondamentali e i diritti dei cittadini.I fermenti che erano incubati lella prima fase del Risorgimento trovarono esito nel 1848 con i relativi moti e con la prima guerra d’indipendenza: come conseguenza dell’insurrezione parigina, scoppiarono disordini anche in altre città.Su questi moti si innestò la prima guerra di indipendenza contro l’Austria, capeggiata, pur dopo molte sue incertezze, da Carlo Alberto. La partecipazione di truppe provenienti dalla Toscana, da Napoli, dallo Stato Pontificio sembrò trasformare la guerra regia in una guerra nazionale per l’indipendenza della penisola. Sembrava avverarsi la tesi sostenuta da D’Azeglio: Carlo Alberto, con l’aiuto degli altri prìncipi, avrebbe cacciato l’Austria, dando vita ad una federazione di Stati con costituzioni liberali.A questa fase appartengono due testi poetici, il primo mordace e satirico Giuseppe Giusti, il secondo entusiasta e commosso di Goffredo Mameli.
Sant’AmbrogioDa Poesie di Giuseppe Giusti[61] (1845)
Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco
per que’ pochi scherzucci di dozzina,
e mi gabella[62] per anti-tedesco
perché metto le birbe alla berlina,
O senta il caso avvenuto di fresco
A me che girellando una mattina
càpito in Sant’Ambrogio[63] di Milano,
in quello vecchio, là, fuori di mano.

M’era compagno il figlio giovinetto
d’un di que’ capi un po’ pericolosi,di quel tal Sandro, autor d’un romanzettoove si tratta di Promossi Sposi...Che fa il nesci[64], Eccellenza? o non l’ha letto?Ah, intendo; il suo cervel, Dio lo riposi,in tutt’altre faccende affaccendato,a questa roba è morto e sotterrato.
Entro, e ti trovo un pieno di soldati,
di que’ soldati settentrionali,
come sarebbe Boemi e Croati,
messi qui nella vigna a far da pali:difatto se ne stavano impalati,come sogliono in faccia a’ generali,co’ baffi di capecchio[65] e con que’ musi,davanti a Dio, diritti come fusi.
Mi tenni indietro, chè, piovuto in mezzodi quella maramaglia, io non lo negod’aver provato un senso di ribrezzo,che lei non prova in grazia dell’impiego.Sentiva un’afa, un alito di lezzo;scusi, Eccellenza, mi parean di sego,in quella bella casa del Signore,fin le candele dell’altar maggiore.

Ma, in quella che s’appresta il sacerdote
a consacrar la mistica vivanda,
di sùbita dolcezza mi percuotesu, di verso l’altare, un suon di banda.Dalle trombe di guerra uscian le notecome di voce che si raccomanda,d’una gente che gema in duri stentie de’ perduti beni si rammenti.
Era un coro del Verdi[66]; il coro a Dio
Là de’ Lombardi[67] miseri, assetati;
quello: “O Signore, dal tetto natio”,
che tanti petti ha scossi e inebriati.
Qui cominciai a non esser più ioe come se que’ còsi diventatifossero gente della nostra gente,entrai nel branco involontariamente.
Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello,poi nostro, e poi suonato come va;e coll’arte di mezzo, e col cervellodato all’arte, l’ubbie[68] si buttan là.Ma, cessato che fu, dentro, bel bello,io ritornava a star come la sa;quand’eccoti, per farmi un altro tiro,da quelle bocche che parean di ghiro,
un cantico tedesco, lento lento
per l’aër sacro a Dio mosse le penne;
era preghiera, e mi parea lamento,
d’un suono grave, flebile, solenne,tal, che sempre nell’anima lo sento:e mi stupisco che in quelle cotenne[69],in que’ fantocci esotici di legno,potesse l’armonia fino a quel segno.
Sentia, nell’inno, la dolcezza amarade’ canti uditi da fanciullo; il coreche da voce domestica gl’impara,ce li ripete i giorni del dolore:un pensier mesto della madre cara,un desiderio di pace e d’amore,uno sgomento di lontano esilio,che mi faceva andare in visibilio.

E, quando tacque, mi lasciò pensoso
di pensieri più forti e più soavi.
- Costor, - dicea tra me, - re paurosodegi’italici moti e degli slavi,strappa a’ lor tetti, e qua, senza ripososchiavi li spinge, per tenerci chiavi;gli spinge di Croazia e di Boemme,come mandre a svernar nelle maremme.

A dura vita, a dura disciplina,
muti, derisi, solitari stanno,
strumenti ciechi d’occhiuta rapina,
che lor non tocca e che forse non sanno;
e quest’odio, che mai non avvicinail popolo lombardo all’alemanno,giova a chi regna dividendo, e temepopoli avversi affratellati insieme.
Povera gente! lontana da’ suoi;in un paese, qui, che le vuol male,chi sa, che in fondo all’anima po’ poi,non mandi a quel paese il principale!Gioco che l’hanno in tasca come noi.Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale,colla su’ brava mazza di nocciolo,duro e piantato lì come un piòlo.

Il canto degli Italiani [70]
Di Goffredo Mameli[71] (1847)
Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta;
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma;
ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Noi siamo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci;l’unione e l’amorerivelano ai popolile vie del Signore.Giuriamo far liberoil suolo natio:uniti, per Dio,chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Dall’Alpe a Sicilia,
dovunque è Legnano[72];
ogn’uom di Ferruccio[73]
ha il core e la mano;
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla[74];
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò[75].
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Son giunchi che piegano
le spade vendute;
già l’aquila d’Austria
le penne ha perdute.
Il sangue d’Italiae il sangue Polaccobevé col Cosacco[76],ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte!Siam pronti alla morte;Italia chiamò.
La sconfitta finale di Carlo Alberto a Novara nel 1849, rimasto solo dopo il ritiro dalla guerra degli altri prìncipi italiani, segnò la momentanea eclissi del programma moderato. Per contraccolpo si affermarono governi radicali di ispirazione mazziniana: in Toscana con Guerrazzi; a Roma, dopo la fuga del Papa, fu proclamata una repubblica al cui governo partecipò lo stesso Mazzini e la cui difesa fu demandata al mazziniano Garibaldi; a Venezia, fu proclamata la Repubblica democratica di San Marco. La difesa di Roma e di Venezia, che caddero dopo strenua resistenza, nel loro disperato eroismo e nel lucido olocausto di giovani patrioti, fu la più alta testimonianza del valore morale, religioso, che la causa italiana aveva assunto, grazie anche alla predicazione di Mazzini.Mentre la reazione imperversava negli Stati italiani, il Piemonte, il cui re, Vittorio Emanuele II, aveva mantenuto la Costituzione emanata da Carlo Alberto, e che era diventato rifugio di esuli e perseguitati, richiamò su di sé le speranze dei liberali italiani. Tanto più che, per l’opera soprattutto di Cavour, diventato primo ministro nel 1852, il Piemonte si avviava ad assumere in campo politico, economico e sociale, la fisionomia di uno Stato moderno. Cavour riuscì, con la partecipazione alla guerra di Crimea e il successivo congresso di Parigi, a fare del problema italiano un problema europeo e a trovare consensi e alleanze militari per la sua azione contro l’Austria.La reviviscenza del mazzinianesimo che si manifestò in attentati e moti ed ebbe la sua espressione più rilevante nella spedizione di Sapri, fornì a Cavour motivi per sollecitare la soluzione del problema italiano.A questa fase appartiene un celebre testo.
La spigolatrice di Sapri[77] (1857)
dai Canti[78] di Luigi Mercantini[79]
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti[80]!

Me ne andavo un mattino a spigolare
quando ho visto una barca in mezzo al mare:
era una barca che andava a vapore,
e alzava una bandiera tricolore.
All’isola di Ponza si è fermata,
è stata un poco e poi si è ritornata;
s’è ritornata ed è venuta a terra;
sceser con l’armi, e noi non fecer guerra.

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!

Sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra,
ma s’inchinaron per baciar la terra.
Ad uno ad uno li guardai nel viso:
tutti avevano una lacrima e un sorriso.
Li disser ladri usciti dalle tane:
ma non portaron via nemmeno un pane;
e li sentii mandare un solo grido:
Siam venuti a morir pel nostro lido[81].

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!

Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro
un giovin camminava innanzi a loro[82].
Mi feci ardita, e, presol per la mano,
gli chiesi: - dove vai, bel capitano? -
Guardommi e mi rispose: - O mia sorella,
vado a morir per la mia patria bella. -
Io mi sentii tremare tutto il core,
né potei dirgli: - V’aiuti ‘l Signore! -

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!

Quel giorno mi scordai di spigolare[83],
e dietro a loro mi misi ad andare:
due volte si scontraron con li gendarmi[84],
e l’una e l’altra li spogliar dell’armi.
Ma quando fur della Certosa ai muri,
s’udiron a suonar trombe e tamburi,
e tra ‘l fumo e gli spari e le scintille
piombaron loro addosso più di mille.

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!

Eran trecento non voller fuggire,
parean tremila e vollero morire;
ma vollero morir col ferro in mano,
e avanti a lor correa sangue il piano;
fin che pugnar vid’io per lor pregai,
ma un tratto venni men, né più guardai;
io non vedeva più fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro.

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!
La politica italiana era ormai nelle mani di Cavour, che nel 1859 tirò le fila della trama precedentemente ordita: stretta un’alleanza con Napoleone III, desideroso di sostituire in Italia il predominio francese a quello austriaco, Cavour affrontò l’Austria nella seconda guerra di indipendenza ed ottenne, se non tutto il LombardoVeneto, almeno la Lombardia. Il dilagare dei moti filosabaudi nell’Italia centrale e la conseguente cacciata dei prìncipi, consentì al Piemonte di annettere anche la Toscana e l’Emilia-Romagna.Nell’impresa dei Mille che portò ad una rapida occupazione della Sicilia e del Napoletano, si manifestò in modo quasi emblematico l’opposizione fra le due anime del Risorgimento: quella mazziniano-popolare e quella sabaudo-piemontese.La spedizione dei Mille, nonostante i proclami di lealtà di Garibaldi a Vittorio Emanuele, fu di chiara ispirazione mazziniana, sia per gli uomini che la costituirono, sia per il suo porsi al di fuori della politica diplomatica di Cavour. E del resto Mazzini aveva raggiunto Garibaldi a Palermo. Se l’impresa avesse potuto raggiungere indisturbata le mete che si prefiggeva, avrebbe dovuto concludersi con la convocazione di un’Assemblea Costituente, cui sarebbe spettato di decidere l’assetto da dare al nuovo Stato nazionale; Garibaldi inoltre non si sarebbe fermato a Napoli, ma avrebbe proseguito sino alla liberazione di Roma.Timoroso di questi sviluppi istituzionali e delle complicazioni interne ed estere che essi potevano portare – la rottura con la Francia – Cavour fece intervenire l’esercito regio e raccolse politicamente i frutti dell’impresa garibaldina. La Sicilia, il Napoletano, e le Marche – già appartenenti allo Stato Pontificio – furono così annesse al Piemonte mediante il solito plebiscito. Roma e il Lazio rimasero al Pontefice.
Si era costituito un nuovo Stato: a Torino il primo Parlamento italiano, cui partecipavano rappresentanti di tutte le regioni annesse, ne prendeva atto, proclamando Vittorio Emanuele II «per grazia di Dio e volontà della Nazione, Re d’Italia»
In un tempo brevissimo – dall’aprile del ‘59 all’ottobre del ‘60 – si era realizzata l’unificazione politica della penisola, spezzata dai tempi dell’invasione longobarda (VI secolo).
Vi avevano concorso più fattori: la preparazione spirituale di una generazione che Mazzini aveva formata al culto del sacrificio per la causa nazionale; l’iniziativa popolare di stampo mazziniano prevalente nella spedizione dei Mille; la maturazione dell’idea unitaria grazie all’influsso dei pensatori moderati che avevano reso il problema italiano oggetto di pubblico dibattito; l’azione politico-militare del Regno di Sardegna e in particolare di Cavour, che seppe cogliere un complesso di circostanze favorevoli presenti nella politica internazionale.
La soluzione cui si pervenne – la costituzione di un nuovo Stato, che nasceva per annessione al Piemonte dei territori degli Stati preesistenti, tramite plebisciti – privilegiava il momento sabaudo.
La proclamazione del nuovo sovrano «per grazia di Dio e per volontà della Nazione» accentuava questo aspetto, dando la preminenza al diritto divino sulla designazione popolare; il titolo di «secondo» che Vittorio Emanuele volle mantenere, mirava a far prevalere il carattere di continuità col precedente regno sabaudo. Erano fatti che sottolineavano la piemontizzazione dell’Italia, dando ragione a Mazzini che, al metodo delle annessioni per plebiscito, aveva sempre contrapposto quello della convocazione di una Assemblea Costituente che definisse l’assetto istituzionale del nuovo Stato nazionale. Si sarebbe, così, evitata l’impressione (e il fatto) di una aggregazione dall’esterno, quasi di una conquista, in luogo di una creazione popolare. E questo fatto avrebbe avuto le sue conseguenze.
L’Italia, in questo periodo, era ancora ai margini della rivoluzione industriale. La sua economia, infatti, era ancora quasi esclusivamente un'economia rurale che, per mancanza di investimenti, fruisce scarsamente dei processi di modernizzazione tecnica.
È vero che, parlando dell’economia in Italia, bisogna tener presente la grande diversità delle situazioni delle varie parti della penisola, diversità che ha le due espressioni estreme nell’Italia settentrionale (in particolare Lombardia e Piemonte) e nel Sud.
Nell’Italia settentrionale e in Toscana, già nel Settecento l’agricoltura, anche per l’impulso dato ad essa da intellettuali (membri di Accademie e Associazioni agrarie) si era avvantaggiata dell’introduzione di innovazioni tecniche (bonifiche e irrigazioni) e della conseguente razionalizzazione delle colture.
Nel Sud, invece, dopo qualche tentativo di rinnovamento che rimase senza seguito, la situazione ristagnò, e il quadro era dominato dalla presenza schiacciante del latifondo. Il proprietario, appartenente di solito all’aristocrazia, non era interessato ad uno sfruttamento intensivo delle sue terre, che spesso rimanevano semincolte.
L’industria aveva uno sviluppo molto limitato e predominava ancora la forma di produzione artigianale. Di conseguenza, in questi anni non esisteva in Italia un proleta­riato operaio urbano; quello italiano era sostanzialmente un proletariato agricolo. Si trattava di una massa di contadini che costituiva la quasi totalità della popolazione.
La condizione di questi ultimi era, in generale, molto dura, anche se bisogna ancora una volta distinguere tra regione e regione. Era una condizione caratterizzata da una diffusa indigenza, da insufficiente alimentazione, dallo squallore delle abitazioni, dalla costante presenza di malattie endemiche derivate da carenze alimentari ed igieniche, dall’ignoranza aggravata dall’analfabetismo diffuso.
Né la rivoluzione nazionale, cioè la costituzione del regno nazionale unitario, contribuì a mutarne le condizioni. Diversamente dalle diffuse speranze suscitate nelle masse contadine, ad essa non si accompagnò la rivoluzione sociale, per cui i contadini, delusi, o si ripiegarono su se stessi assumendo un atteggiamento di indifferenza, o esplosero in furiose rivolte. Significative, in questo senso, le testimonianze di Abba, di Nievo, e l’episodio di violenza e di sangue che ebbe luogo a Bronte in Sicilia.
Questa situazione di estrema indigenza risultava aggravata dalla sua immobilità, derivante da più cause:
a) il disinteresse per una migliore condizione contadina da parte della classe borghese impegnata a realizzare i propri progetti politici ed economici e timorosa di sbocchi socialistici;
b) la mancanza di organizzazione delle grandi masse ru­rali, che le privava di ogni forza politica;
c) la sovrabbondanza di manodopera, che consentiva alla borghesia di imporre salari al limite della pura sussistenza.
L'Italia era stata fatta, bisognava fare gli Italiani




[1] APPROFONDIMENTO: Il Risorgimento italiano e l’Europa - Da questa rapida esposizione risulta chiaro che il Risorgimento italiano non fu un movimento a sé stante, ma si inserì nel più vasto movimento politico e culturale europeo e per più ragioni:
a) I moti insurrezionali e le successive guerre di indipendenza che portarono alla costituzione del Regno furono resi possibili dall’evolversi della situazione politica europea e dal conseguente venir meno della forza repressiva della Santa Alleanza; il che consentì il formarsi di un più libero gioco di potenze.
b) Gli eventi italiani rappresentarono il contraccolpo di analoghi eventi stranieri. Ad esempio, i moti italiani del ‘21 furono ispirati dalla insurrezione spagnola di Cadice (1820); quelli del ‘31 furono promossi dalla Rivoluzione francese del luglio 1830; le insurrezioni del ‘48 furono uno dei movimenti di rivolta che percorsero l’Europa a seguito della rivoluzione scoppiata in Francia nel febbraio dello stesso ‘48.
c) La politica di Cavour si inserì abilmente nel gioco europeo, sfruttando a proprio vantaggio l’ambizione di Napoleone III che mirava a porre un’ipoteca francese sul nuovo assetto che veniva delineandosi in Italia.
d) Il patrimonio di idee che costituì il supporto all’azione degli uomini del nostro Risorgimento era comune a tutta l’Europa liberale frutto di un lungo processo al quale l’Italia, rimasta appartata nei secoli XVI e XVII, si era ricongiunta a partire dalla seconda metà del secolo XVIII.
I protagonisti del Risorgimento ebbero coscienza del significato europeo della loro azione, sia i carbonari che si collegavano agli altri liberali europei, sia il Mazzini che vedeva il Risorgimento italiano come un momento del risorgimento europeo, sia il Cavour che considerava l’applicazione della concezione liberale, affermatasi in Inghilterra e Francia, come l’elemento che avrebbe portato l’Italia al livello dei grandi Stati d’Europa.
[2] Statua, ritratto, spec. di un dio, di un eroe, di un personaggio insigne e sim.: vogliam, per sempiterna tua memoria, / un s. farti d'oro saldo Pulci
[3] Trascurato
[4] Grave umiliazione e vergogna
[5] Donna nel significato di padrona
[6] Scindere, dividere.
[7] arma
[8] combattere
[9] Cadere in avanti, cadere prono
[10] Che trema
[11] Della Tessaglia, regione storica della Grecia centrale
[12] Persona magnanima
[13] Scherno, beffa oltraggiosa
[14] aria
[15] ansimante
[16] Correre pericolo
[17] Anima
[18] onesta
[19] Presso
[20] odiando
[21] causa
[22] Far sedere
[23] Quieto
[24] capanna
[25] Nube temporalesca
[26] disgraziato
[27] Impeto
[28] tavola
[29] sedere
[30] impietoso
[31] Adelchi - L’Adelchi è una tragedia di Alessandro Manzoni, pubblicata per la prima volta nel 1822 e narra le vicende di Adelchi, figlio dell’ultimo re dei Longobardi, Desiderio, che si sono svolte tra il 772 e il 774, anno della caduta del regno longobardo a opera di Carlo Magno.
Ermengarda, figlia di Desiderio per ragioni di Stato, è ripudiata da Carlo Magno. Desiderio per vendicarsi vuole fare incoronare i figli di Carlomanno, fratello di Carlo Magno, rifugiatisi presso di lui. Carlo Magno manda un ultimatum a Desiderio, il quale rifiuta e dichiara guerra. Grazie al tradimento di duchi longobardi l’esercito di Carlo Magno avanza verso Verona. Ermengarda, che si era rifugiata presso la sorella Ansberga nel monastero di San Salvatore a Brescia, scopre delle nuove nozze di Carlo Magno e delirando muore. Sempre grazie all’aiuto di traditori, Carlo Magno riesce a conquistare Verona e fa prigioniero Desiderio.
Adelchi prima aveva cercato inutilmente di opporsi alla guerra contro i Franchi, poi combatte fino alla morte. Condotto in fin di vita alla presenza di Carlo e del padre prigioniero, invoca, prima di morire, clemenza per il padre e lo consola per aver perduto il trono: non aver più alcun potere infatti non lo obbligherà più a far torto o subirlo.
L’Adelchi mette in scena la caduta del regno longobardo in Italia da parte dei Franchi nell’VIII secolo. Il significato profondo della figura di Adelchi e del suo dialogo con il padre è importante e allo stesso tempo innovativo: infatti riflette sul fatto che anch’essi, prima di essere stati sconfitti da Carlo e dai Franchi, si erano dovuti imporre su altre popolazioni: egli povere riflette sulla ciclicità della storia, e si ha così un miglioramento sul piano morale del personaggio.
Nell’Adelchi Manzoni inizia a sviluppare il tema della Divina Provvidenza fulcro tematico dei Promessi Sposi.
[32] dai fori cadenti
[33] Foro - Il foro era la piazza centrale di ogni città romana, anche se il termine foro indica, oltre che la piazza, gli edifici che la circondano. Esso era il centro della vita politica, sociale, economica di ogni città romana. Per definizione il foro è un ampio spazio rettangolare pavimentato talvolta con lastre di marmo, circondato da edifici quali basiliche, templi, la curia, il comizio, colonne, archi di trionfo, monumenti, statue, il banco delle unità di misura, altari ed altri ancora. Spesso il foro era anche circondato da un portico.
[34] Focolare dove si lavorano i metalli
[35] popolo
[36] mescolare
[37] raccogliere insieme persone o cose
[38] desiderare
[39] scoraggiata
[40] De’ crudi…diffusa: fa riferimento ai Longobardi, una popolazione originaria della Germania settentrionale, si insediò nell’area danubiana alla fine del V secolo d.C. Dopo aver brevemente partecipato come mercenari dei bizantini alla guerra greco-gotica, nel 568 iniziarono l’invasione dell’Italia, conquistando, tra VI e VII secolo, la pianura padana, la Toscana e l’area tra Spoleto e Benevento; il territorio italiano fu così segnato da numerose fratture territoriali tra le dominazioni longobarde e bizantine, divise anche dalle differenze religiose.
Distrussero il vecchio ceto senatoriale ed esclusero dal potere la popolazione romana, mentre probabilmente i due gruppi etnici si assimilarono abbastanza rapidamente. Persero in breve tempo le caratteristiche di nomadismo, si insediarono per tribù, guidate da duchi, con una continua tendenza a distaccarsi dal potere regio. I re quindi, tra VI e VII secolo, operarono per affermare la propria superiorità e creare uno stato unitario. In questo processo rientrarono la creazione di una capitale stabile, Pavia, e la redazione dell’editto di Rotari (643), prima legislazione scritta longobarda, che unì consuetudini germaniche e alcuni accenni del diritto romano. Questa azione unificatrice del regno non ebbe mai pieno successo e fu in ogni caso limitata alla pianura padana e alla Toscana, mentre i ducati meridionali mantennero un’ampia autonomia.
Si realizzò nel contempo un avvicinamento politico e culturale al mondo romano e al papato, che, pur tra grandi resistenze, fu sancito nella prima metà del VII secolo dalla conversione al cattolicesimo.
Tuttavia continuarono, nel secolo successivo, i contrasti tra il regno, che aspirava alla conquista del Lazio, e il papato, che iniziava in questo periodo a costruire una propria dominazione politica attorno a Roma. Fu decisivo, a metà dell’VIII secolo, l’intervento militare del re franco Pipino, che obbligò i longobardi a restituire al papato alcune terre conquistate. Questo intervento franco fu una premessa dell’invasione di Carlo Magno (774), che segnò la fine del regno longobardo. Restò indipendente, seppur formalmente sottomesso ai Carolingi, il ducato di Benevento, dove si realizzarono autonomi sviluppi sociali e politici fino alla conquista normanna.
[41] affannato
[42] Speranza
[43] Franchi – La popolazione franca si formò nella prima metà del III secolo dall’unione di diverse tribù germaniche. Comparsi intorno al 235 sulla riva orientale del basso Reno, compirono incursioni nelle province romane Germania e Belgica, apparendo ai Romani come dei giganti dai capelli rossi e dai lunghi baffi, abili combattenti a piedi e specializzati nel lancio della scure a doppio taglio.
Nel IV secolo, sconfitti da Aureliano, furono ammessi nell’esercito romano come ausiliari
Nel 357 i Franchi che si stabilirono ad occidente della Mosa ebbero da Giuliano l’Apostata lo status di foederati. Essi furono allora chiamati con il nome di franchi salii, mentre quelli rimasti sulla riva destra del Reno furono chiamati franchi ripuari.
Nel 451 furono alleati di Ezio ai Campi catalaunici, contro gli Unni
Alla fine del V secolo, i Franchi avevano fatto della Renania e del Belgio settentrionale regioni interamente germanizzate: i Franchi ripuari si impossessarono di Colonia e Treviri, mentre i Franchi salii arrivarono fino alla Loira.
Dinastia di re dei franchi salii, stanziati nella regione di Tournai, che con il re Clodoveo unificò e ampliò a tutta la Gallia il regno franco.
Nel 486, Clodoveo eliminò i resti dell’esercito romano in Gallia, nel 496 sconfisse sul Reno gli Alemanni e cominciò a penetrare nella Gallia visigota.
Nel 498, con il battesimo di Clodoveo, i Franchi godettero dell’appoggio dei vescovi della Gallia e condussero la guerra contro i visigoti ariani anche in nome della religione.
Nel 507, dopo la battaglia di Vouillé, annetté la Gallia visigota.
Prima di morire, Clodoveo riuscì ad imporre la sua autorità anche sui ripuari.
Benché diviso in quattro regni, il popolo franco restò per due secoli inquadrato dal potere dei Re merovingi, una dinastia che deriva il nome dal loro capostipite, Meroveo, fu la prima dinastia dei franchi.
I re Merovingi sono stati chiamati a lungo re fannulloni, per il fatto che il loro potere ben presto si affievolì a favore di un casato di servi, i Pipinidi. Le implicazioni e le cause di ciò sono tante, tra storicità e leggenda, e spiegano anche le ragioni di un altro epiteto dei Merovingi: re taumaturghi. Al tempo dei Merovingi il potere politico era diviso tra il re e il signore o maggiordomo di palazzo. Allo stesso modo infatti, formalmente il Maggiordomo non poteva avere un potere maggiore del suo sovrano, tuttavia era proprio il Signore di Palazzo che radunava le truppe al campo Maggio (il campo Maggio era il campo nel quale venivano reclutate le truppe dell’esercito) e portava avanti le campagne militari.
Proprio questo potere che cresceva sempre di più nelle mani dei maggiordomi, permise ai maestri di palazzo Pipinidi, dalla quale proveniva la maggior parte dei signori di palazzo, prese progressivamente il sopravvento sui Merovingi per poi sostituirli completamente assumendo nel 751 il titolo regio con Pipino il Breve.
[44] Nutrire
[45] pennacchi
[46] rovine
[47] Mandrie di mucche
[48] Fantasie – Le Fantasie del 1829, sono un poemetto polimetro, costituito da cinque visioni o quadri, in cui un esule racconta al pubblico ciò che in sogno ha visto dell’Italia, e contrappone alla viltà e alla miseria del suo tempo le lotte gloriose dei Comuni italiani contro l’Impero.
[49] Giovanni Berchet - Nato a Milano nel 1783 da una famiglia di origine savoiarda, da giovane fu traduttore non solo di opere poetiche, all’avanguardia che esprimevano il nuovo gusto romantico, come l’ode Il bardo di Thomas Gray, ma anche di romanzi, come Il vicario di Wakefield di Oliver Goldsmith.
Nel 1816 fu l’autore del più famoso manifesto del romanticismo italiano, ovvero la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo; il titolo completo di tale opera era Sul cacciatore feroce e sulla Eleonora di G.A. Bürger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo.
Nel 1818 fece parte del gruppo che fondò Il Conciliatore, il foglio che era portavoce delle posizioni romantiche. Due anni dopo si iscrisse alla Carboneria, coltivando contemporaneamente la passione politica e quella letteraria. Partecipò ai moti del 1821 e per sfuggire all’arresto fu costretto ad andare in esilio prima a Parigi, poi a Londra ed infine in Belgio.
A questo periodo belga risale la sua produzione poetica: il poemetto I profughi di Parga (1821), le Romanze (1822-1824) e l’altro poemetto Le fantasie (1829).
Nel 1845 Berchet tornò in Italia.
Nel 1848 partecipò alle cinque giornate di Milano del 1848 e lottò con tutti i mezzi possibili per il raggiungimento dell’unità d’Italia, al quale però non poté assistere per motivi anagrafici: dopo il fallimento della prima guerra d’indipendenza e la iniziale prevalenza dell’Austria fu costretto a riparare in Piemonte.
Nel 1850 si schierò con la destra storica e fu eletto al Parlamento subalpino.
Morì a Torino nel 1851.
[50] Giuramento di Pontida - Il giuramento di Pontida è stata una cerimonia che avrebbe sancito il 7 aprile 1167 nel piccolo comune vicino a Bergamo l’alleanza tra i Comuni lombardi contro il Sacro Romano Impero di Federico Barbarossa. La coalizione nata a Pontida è conosciuta come Lega lombarda, un’alleanza formata il 7 aprile 1167 presso l’abbazia di Pontida, per contrastare Federico I di Hohenstaufen detto il Barbarossa, imperatore del Sacro Romano Impero, nel suo tentativo di estendere l’influenza imperiale soprattutto nella regione padana.
Nella Battaglia di Legnano del 29 maggio 1176, Federico I fu sconfitto dalle truppe comunali, guidate Alberto da Giussano.
Dopo diverse altre sconfitte, l’imperatore accettò una tregua di sei anni dal 1177 al 1183, fino alla pace di Costanza, dove i Comuni padani accettarono di restare fedeli all’Impero in cambio della piena giurisdizione locale sui loro territori.
[51] Asta sulla quale si innalza la bandiera
[52] tugurio
[53] anche
[54] Giallo rossiccio
[55] Giuseppe Mazzini – Giuseppe Mazzini nacque a Genova il 22 giugno del 1805 da Giacomo, professore universitario ex giacobino e da Maria Drago.
A soli quindici anni fu ammesso all'Università, in un primo tempo venne avviato agli studi di medicina, poi a quelli di legge, ma sin dall'adolescenza si mostrò più interessato agli studi politici e letterari.
Nel 1826 scrisse il suo primo saggio letterario, Dell'amor patrio di Dante (pubblicato poi nel 1837). Nel 1827 si laureò in legge, e nello stesso periodo entrò a far parte della Carboneria, per la quale svolse incarichi vari di carattere organizzativo in Liguria e in Toscana.
Animo rivoluzionario, concepiva la rivoluzione non come rivendicazione di diritti individuali non riconosciuti, bensì come un dovere religioso da attuare in favore del popolo. Negli anni seguenti collaborò con l'Indicatore genovese, scrivendo articoli e note bibliografiche. Nel 1830 Mazzini iniziò a viaggiare in tutta Italia per trovare nuovi adepti per la carboneria. Tradito e denunciato alla polizia quale carbonaro venne arrestato e rinchiuso nella fortezza di Savona. L'anno seguente, prosciolto per mancanza di prove e quindi liberato, gli venne imposto di scegliere tra il confino, sotto la sorveglianza della polizia, o l'esilio. Scelse quest'ultimo, recandosi a Ginevra dove incontrò altri esuli.
Si laureò in giurisprudenza, ma era interessato allo studio della letteratura come impregno civile. Affiliato alla carboneria genovese svolse un’intensa attività sperando che la rivoluzione francese del 1830 aprisse prospettive rivoluzionarie anche in Italia. Fu arrestato nel 1830 e esiliato nel 1831.
In seguito, a Marsiglia, fondò la Giovine Italia, che ebbe come sottotitolo: Serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e letteraria dell'Italia, tendenti alla sua rigenerazione, società con cui propugnò l'unità nazionale in senso repubblicano e democratico. Appena salito al trono Carlo Alberto, gli scrisse per esortarlo a prendere l'iniziativa della riscossa italiana, ma senza ottenere risultati. Allargò poi il suo impegno ideologico con la fondazione della Giovine Europa.
Giuseppe Mazzini morì a Pisa nel 1872, con la consolazione di spegnersi in patria, dopo aver vissuto quasi sempre in esilio.
[56] L'organizzazione Giovine Italia – Mazzini fondò a Marsiglia la Giovine Italia.
Nel 1832, a Marsiglia, inizia la pubblicazione della rivista "La Giovine Italia", che ha come sottotitolo "Serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e letteraria dell'Italia, tendenti alla sua rigenerazione". Mazzini individuò nel tipo di azione politica svolta dalla carboneria e ancor prima dalla massoneria le cause del fallimento dei moti italiani. I difetti di questa organizzazione erano stati la segretezza e la mancanza di un programma ben definito. La segretezza aveva impedito ai cospiratori di avere ampia partecipazione da parte delle popolazioni che si erano trovate coinvolte in moti di cui non conoscevano né i capi né la finalità. La mancanza di chiari programmi aveva determinato anche negli stessi organizzatori incertezze e divisioni. Gli affiliati della Giovine Italia dovevano propagare le proprie idee perché l’opera di educazione era fondamentale per ottenere la rigenerazione morale e spirituale del popolo italiano.
L’opera di educazione doveva concludersi con l’impegno all’insurrezione e la partecipazione diretta alla guerra armata. Tra educazione ed insurrezione esisteva un rapporto di dipendenza. La propaganda avrebbe accresciuto il numero delle persone disposte a lottare e lo lotta avrebbe costituito un ulteriore momento di educazione. Lo sforzo di organizzazione compiuto da Mazzini da 1831 al 1843 fu enorme: la "Giovine Italia" era penetrata in tutti gli stati italiani, faceva proseliti soprattutto nei ceti borghesi, ma reclutava aderenti anche tra artigiani e proletari. Scarsa fu invece la penetrazione nelle campagne. Secondo il programma di Mazzini l’Italia doveva essere una- indipendente- sovrana. La "Giovine Italia" conobbe una rapida espansione caratterizzandosi nella sostanza come partito di quadri, composto cioè da persone preparate e pronte all'azione insurrezionale. Ma i tentativi insurrezionali compiuti si conclusero con l'insuccesso. Nel 1833 e poi nel 1834 l'organizzazione fu decimata da arresti e condanne. Mazzini, constatata l'immaturità politica italian, fondò a Berna (Svizzera) la “Giovine Europa”
Mazzini non si riconosceva in alcuna Chiesa, malgrado ciò, il rivoluzionario genovese era uno spirito profondamente religioso, convinto che dio avesse assegnato agli uomini la missione di vivere nella pace e nella giustizia. Gli individui, pertanto, dovevano concepire la propria esistenza in primo luogo come un dovere e dedicare ogni energia alla costruzione del nuovo mondo libero e giusto che Dio chiedeva loro di costruire. Dio, inoltre, secondo Mazzini, aveva assegnato all’Italia un ruolo di primaria importanza. Proprio perché la sua condizione era particolarmente difficile, essa doveva dare l’esempio a tutti gli altri popoli e indicare la via della liberazione dal dominio straniero e dall’oppressione.
L’idea di nazione, dunque, era al centro del pensiero mazziniano. A giudizio di Mazzini, tutti i popoli avevano pari dignità e pari diritti alla libertà e all’indipendenza, non a caso degli fondò nel 1834 la Giovine Europa. La scelta repubblicana si spiega con il fatto che, per Mazzini, la sovranità apparteneva solamente al popolo: questi non poteva delegare a nessuno a governare al duo posto. Un popolo che con le proprie forze fosse riuscito a conquistare la libertà sarebbe riuscito pure ad esercitare il potere, senza far ricorso ai re, che per altro erano tutti, secondo Mazzini, dei potenziali tiranni e dittatori spietati.
Il contributo del mazzinianesimo al Risorgimento è da riconoscere in questa affermazione che il popolo italiano avrebbe conquistato la sovranità e la libertà solo assumendo direttamente l’iniziativa politica. La futura Italia avrebbe dovuto essere una repubblica perché solo la forma repubblicana avrebbe permesso al popolo italiano di attuare la missione affidatagli da Dio. La Giovine Italia determinò un salto di qualità nella organizzazione della lotta politica in Italia.
[57] Vincenzo Gioberti – Il filosofo, teologo, sacerdote e uomo politico Vincenzo Gioberti, nacque a Torino il 5 aprile 1801 figlio di Giuseppe, un piccolo borghese di condizione economiche modeste, che lo lasciò orfano in giovane età. Sotto l’influenza della madre, una donna di forti sentimenti religiosi, Gioberti. intraprese un percorso d’educazione e studi ecclesiastici, presso i Padri Oratoriani, culminato con la laurea in teologia nel gennaio 1823 e l’ordinazione a sacerdote nel marzo 1825.
Nel 1826 egli fu nominato cappellano di corte ed, in seguito, entrò progressivamente nella vita sociale e politica del Piemonte dell’epoca, dapprima allacciando rapporti con la società segreta dei Cavalieri della Libertà, d’orientamento costituzionalista liberale moderato, poi collaborando, sotto lo pseudonimo di Demofilo, con la rivista di Giuseppe Mazzini dal1805 al 1872, La Giovine Italia.
Tuttavia le sue idee filosofiche panteistiche e, soprattutto, il pensiero politico d’ispirazione repubblicana mazziniana, lo misero in cattiva luce: fu, infatti, arrestato dalla polizia nel giugno 1833, e, dopo qualche mese di carcere, costretto ad andare in esilio nel settembre dello stesso anno.
Visse quindi per ben quindici anni all’estero, dapprima a Parigi, poi lungamente a Bruxelles, dove campò come insegnante e scrivendo svariati trattati filosofici e politici. La sua fama è soprattutto legata alla pubblicazione, nel 1843, del trattato “Del primato morale e civile degli Italiani”, dedicato a Silvio Pellico. Accolto in maniera molto fredda, se non ostile dal mondo ecclesiastico. In particolare, esso diede inizio ad un’annosa polemica tra Gioberti e l’ ordine dei gesuiti, che proseguì con le “Prolegomeni al Primato” del 1845,” Il Gesuita Moderno” del 1847 e “l’Apologia del Gesuita Moderno” del 1848, e che portò, qualche anno dopo, alla messa all’Indice dei suoi libri.
Sempre al periodo franco-belga risalgono alcuni suoi scritti polemici contro Antonio Rosmini “Errori filosofici di Antonio Rosmini”, del 1842, ”Felicité de Lamennais“, del 1840) e contro il filosofo hegeliano francese Victor Cousin.
Nel 1846 il re sabaudo Carlo Alberto (1831-1849) proclamò un’amnistia, ma Gioberti., che nel frattempo si era trasferito a Parigi, non ne usufruì e fece ritorno in patria solo nel 1848, il 29 aprile, dopo un rientro a Torino, a Gioberti,. fu offerto un seggio di senatore, ma egli preferì quello di rappresentante nella Camera dei Deputati del regno di Sardegna, di cui fu eletto primo presidente.
Poco dopo Gioberti. divenne capo del governo piemontese, tuttavia lo scoppio della seconda fase della 1° guerra d’indipendenza e le polemiche con gli altri ministri sulla sua proposta di restaurare il Granduca di Toscana e il papa,scacciati dai moti popolari del 1848 dai loro rispettivi troni, misero fine alla sua carriera politica. Non piaceva, tra l’altro, la sua idea di una federazione di stati italiani sotto la presidenza del papa, che gli valse il titolo di neo-guelfo.
Dopo la sconfitta di Novara del 23 marzo 1849, il nuovo re Vittorio Emanuele II re di Sardegna: 1849-1861; re d’Italia: 1861-1878 offrì a Gioberti. un incarico diplomatico a Parigi, dove si trasferì e da dove non fece mai più ritorno in Italia. A Parigi Gioberti, compose l’altra sua opera fondamentale dopo il “Primato morale e civile”, “il Rinnovamento civile d’Italia”; morì per un colpo apoplettico il 26 ottobre 1852.
La sua filosofia è una miscela di ontologismo panteistico, tradizionalismo e neoplatonismo. Il tutto è riassunto in un processo ciclico, che presenta una fase discendente, la mimesi il processo di derivazione del mondo da Dio, ed una fase ascendente, la metessi il processo con cui il mondo e l’uomo ritornano a Dio.
Dio si presenta al nostro intuito come l’Idea, o l’Essere reale assoluto, o Ente (Ens), che non può essere causato da altro ed esiste quindi “necessariamente”.
Tutte le creature sono invece “esistenze” e sono state create ex nihilo da Lui ; per Gioberti. la mimesi era riassunta nella frase “l’Ente crea l’esistente”, e da Lui discendono, ma non possono essere confusi con Lui. La creazione non si conclude, in ogni caso, con l’atto creativo, ma con l’anelito dell’esistente – in particolare l’uomo – a ritornare all’Ente, sintesi della metessi era la frase “l’esistente torna all’Ente”.
[58] Cesare Balbo (Torino 1789-1853) – Conte di Vinadio, uomo politico e storico italiano. Figlio di Prospero e di Enrichetta Taparelli d'Azeglio, subì in gioventù l'influenza di Alfieri, e fondò, nel 1804, con alcuni coetanei l'Accademia dei Concordi, nelle cui discussioni cominciarono a prendere forma le sue idee liberal-moderate.
Durante la dominazione francese in Italia fu al servizio di Napoleone, ricoprendo successivamente le cariche di segretario generale della giunta governativa di Toscana (1808), di segretario della consulta per i territori già pontifici (1809) e infine di uditore al Consiglio di Stato di Parigi (1811).
In seguito al moto liberale piemontese del 1821, al quale peraltro non aveva partecipato, fu esiliato nel 1822. Si concentrò da allora negli studi storici e filosofici ed oltre alle Memorie sulla rivoluzione del 1821, la Storia d'Italia sotto i barbari, cioè dal 476 al 774 (1830), i Pensieri ed esempi di morale e di politica, scritti nel 1832-1833 e pubblicati postumi nel 1854, la Vita di Dante (1839), le Meditazioni storiche (1842-1845) e il classico Sommario della storia d'Italia (1846).
Iniziato, col Primato di Gioberti, il movimento d'opinione moderato per la soluzione della questione italiana, Cesare Balbo, in sostegno, aveva pubblicato nel 1844 Le speranze d'Italia.
Dopo la concessione dello statuto albertino Balbo fu il primo presidente del consiglio del regno di Sardegna (13 marzo - 25 luglio 1848), e in seguito fu capo della Destra nel parlamento subalpino. Ma negli ultimi anni della sua vita tornò a dedicarsi agli studi, scrivendo articoli e saggi che confluirono nella raccolta postuma Della monarchia rappresentativa in Italia (1857).
[59] Massimo d'Azeglio – Massimo d'Azeglio nacque a Torino nel 1798 da nobile famiglia.
Figura politica di primo piano , durante la sua vita si dedicò anche alla pittura e alla letteratura, sia in veste di scrittore politico che di romanziere. E' stato una persona liberale moderato, arrivò a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852. Nel 1860 fu nominato governatore di Milano.Fu anche pittore, noto per i paesaggi e i quadri di battaglie. Tra i suoi opuscoli politici sono famosi "Gli ultimi casi di Romagna" (1846) in cui invitava gli italici a abbandonare la via delle cospirazioni, e "I lutti di Lombardia" (1848)
Tra le sue opere più famose ricordiamo Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta (1833), accolto da grandissimo successo, e Niccolò de' Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni (1841). Durante gli ultimi anni della sua vita, trascorsi sul Lago Maggiore, si dedicò alla scrittura delle sue memorie, pubblicate postume col titolo I miei ricordi nel 1867. Più riuscito forse il libro autobiografico "I miei ricordi" (1867), ritratto di un gentiluomo moderato, combattuto tra il vecchio e il nuovo. Domina l'intento civile, la prosa scorre limpida e piena, colorita, ritrae con preciso gusto figure e paesaggi.
D'Azeglio morì infatti a Torino nel 1866.
[60] Carlo Cattaneo – Carlo Cattaneo è stato patriota e politico italiano del XIX secolo. E' considerato uno dei padri del federalismo. Nasce a Parabiago (MI) il 15 giugno 1801.
Diplomatosi negli studi classici, intraprende la professione dell'insegnante e frequenta i circoli intellettuali nella Milano della prima metà del secolo. Nel 1848 partecipa alle cinque giornate di Milano e successivamente costretto a riparare in fuga a Lugano dove muore il 6 febbraio 1869.
Carlo Cattaneo è ricordato per il suo pensiero politico federalista. Pur avendo combattuto nelle cinque giornate di Milano, si oppone al progetto di unificazione dei Savoia preferendo al suo posto un modello di Stato confederato sulla stregua di quello svizzero.
Per non giurare fedeltà ai Savoia rifiuta di tornare in Italia, rinunciando anche al posto in Parlamento come neoeletto deputato nelle file dei repubblicani. Rispetto a Mazzini, Cattaneo è più pragmatico e più vicino alle idee illuministe. E' considerato uno dei padri del federalismo. Secondo Cattaneo i popoli possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica soltanto ricorrendo al federalismo ed evitando di delegare la propria libertà a popoli lontani dalle proprie esigenze. Da qui la sua contrarietà al Regno dei Savoia.
Carlo Cattaneo è anche ricordato per le sue forti convinzioni liberiste.
[61] Giuseppe Giusti - Figlio di Domenico, possidente terriero e di Giulia Chiti, donna facoltosa di Pescia: la sua famiglia era stata innalzata al rango nobiliare quattro anni prima della sua nascita, nel 1805.
Dopo aver studiato a Montecatini, Firenze, nel seminario di Pistoia, nel Collegio dei Nobili di Lucca, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa presso la quale, dopo un’interruzione di tre anni dovuta sia ai dissidi con il padre, che lo criticava per la vita sregolata, sia a particolari vicende politiche, si laureò nel 1834.
Dopo la laurea, si trasferì a Firenze per esercitare la professione; lì entrò in contatto con il mondo dei potenti, cui avrebbe rivolto i suoi Scherzi; a Firenze, conobbe Gino Capponi, esponente liberale e direttore del Gabinetto Vieusseux, che molto influì sulla sua coscienza politica e sulla sua poetica.
Negli anni successivi, mentre componeva Le poesie, compì viaggi a Roma, Napoli e, nel 1845, a Milano, dove conobbe Alessandro Manzoni, con cui avrebbe mantenuto una fitta corrispondenza.
Nel 1847, Giusti entrò a far parte della Guardia civica e iniziò ad apprezzare le riforme granducali, precedentemente oggetto della sua critica feroce.
Nel 1848, durante i moti toscani, entrò nella politica attiva e fu eletto deputato al parlamento di Firenze, dove appoggiò le tesi moderate dei governi Ridolfi e Capponi.
Con il rientro del Granduca Leopoldo II, ritornò a vita privata, anche a causa delle sue precarie condizioni di salute. Contrasse, infatti, una terribile forma di tubercolosi polmonare e, nel 1850, morì.
Fu sepolto nel cimitero di San Miniato al Monte, sulla collina di Firenze.
I suoi Versi satirici furono pubblicati dapprima in forma sparsa, poi raccolti in varie edizioni nel 1844, 1845 e 1847. Scrisse anche una Cronaca dei fatti di Toscana, edita postuma col titolo di Memorie inedite (1890), una raccolta di Proverbi toscani, edita anch’essa postuma (1853) e il ricco Epistolario, vivo esempio di parlata toscana e testimonianza della sua adesione alle teorie manzoniane della lingua.
[62] Imposta, tributo
[63] Basilica di Sant’Ambrogio - Edificata tra il 379 e il 386 per volere del vescovo di Milano Ambrogio, fu costruita in una zona in cui erano stati sepolti i cristiani martirizzati dalle persecuzioni romane. lo stesso Ambrogio voleva riporvi tutte le reliquie dei santi martiri Satiro, Vittore, Nabore, Vitale, Felice, Valeria, Gervasio e Protasio.
Nel IX secolo, subì importanti ristrutturazioni volute dal vescovo Angilberto, ma la basilica prese il definitivo aspetto tra il 1088 e il 1099, quando, sulla spinta del vescovo Anselmo, fu radicalmente ricostruita secondo schemi dell’architettura romanica: fu mantenuto l’impianto a tre navate e tre absidi corrispondenti, oltre al quadriportico, anche se ormai non serviva più a ospitare i catecumeni, ma come luogo di riunione.
[64] fingere di non sapere
[65] Color pannocchia
[66] Giuseppe Verdi - Giuseppe Verdi (1813 – 1901) è stato un compositore italiano, autore di melodrammi che fanno parte del repertorio operistico dei teatri di tutto il mondo.
Verdi partecipò attivamente alla vita pubblica del suo tempo. Fu un patriota convinto, anche se nell’ultima parte della sua vita traspare, dall’epistolario e dalle testimonianze dei suoi contemporanei, una disillusione, un disincanto, nei confronti della nuova Italia unita, che forse non si era rivelata all’altezza delle proprie aspettative. Fu sostenitore dei moti risorgimentali (pare che durante l’occupazione austriaca la scritta "Viva V.E.R.D.I." fosse letta come "Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia"). Il Paese lo volle membro del primo parlamento del Regno d’Italia (1861-1865), eletto come Deputato nel Collegio di Borgo San Donnino, l’attuale Fidenza, e, successivamente, senatore a vita dal 1874. Fu anche consigliere provinciale di Piacenza. Rappresentò, e continua a rappresentare per molti italiani la somma di tutti quei simboli che li hanno guidati all’unificazione nazionale contro l’oppressione straniera.
[67] I Lombardi alla prima crociata - Quarta opera scaligera di Verdi, milanese fin nel titolo e nella provenienza dell’autore del soggetto, Tommaso Grossi, dal quale Temistocle Solera trae il libretto.
Dramma di argomento religioso, intessuto di scene di processioni, preghiere, un battesimo e naturalmente una crociata. Le autorità clericali si insospettiscono e incaricano gli amministratori della giustizia di controllare. Il capo della polizia Torresani dopo aver preso visione del libretto intima a Verdi di apportare alcuni cambiamenti: in teatro non si può cantare un’Ave Maria, poiché luogo non adatto ad una preghiera, così che il Maestro si deve piegare suo malgrado a cambiare l’aria in Salve Maria. Con questa piccola modifica I Lombardi alla prima Crociata vanno in scena alla Scala il primo febbraio 1843, nell’estate dello stesso anno a Senigallia e in inverno a Venezia.
Lo spartito dell’opera porta una dedica di Verdi a Maria Luigia d’Asburgo, Duchessa di Parma, terra natale del Maestro.
[68] Idea priva di fondamento
[69] pelli
[70] Il canto degli Italiani - Il Canto degli Italiani, meglio noto come Inno di Mameli.
Scritto nell'autunno del 1847 dall'allora ventenne studente e patriota Goffredo Mameli, musicato poco dopo a Torino da Michele Novaro, il Canto degli Italiani nacque in quel clima di fervore patriottico che già preludeva alla guerra contro l'Austria. L'immediatezza dei versi e l'impeto della melodia ne fecero il più amato canto dell'unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi. Non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, affidò al Canto degli Italiani il compito di simboleggiare la nostra Patria, ponendolo accanto a God Save the Queen e alla Marsigliese.
Fu quasi naturale, dunque, che il 12 ottobre 1946 l'Inno di Mameli divenisse l'inno nazionale della Repubblica Italiana.
[71] Goffredo Mameli - Goffredo Mameli dei Mannelli nasce a Genova il 5 settembre 1827. Studente e poeta precocissimo, di sentimenti liberali e repubblicani, aderisce al mazzinianesimo nel 1847, l'anno in cui partecipa attivamente alle grandi manifestazioni genovesi per le riforme e compone Il Canto degli Italiani. D'ora in poi, la vita del poeta-soldato sarà dedicata interamente alla causa italiana: nel marzo del 1848, a capo di 300 volontari, raggiunge Milano insorta, per poi combattere gli Austriaci sul Mincio col grado di capitano dei bersaglieri. Dopo l'armistizio Salasco, torna a Genova, collabora con Garibaldi e, in novembre, raggiunge Roma dove, il 9 febbraio 1849, è proclamata la Repubblica.
Nonostante la febbre, è sempre in prima linea nella difesa della città assediata dai Francesi: il 3 giugno è ferito alla gamba sinistra, che dovrà essere amputata per la sopraggiunta cancrena. Muore d'infezione il 6 luglio, alle sette e mezza del mattino, a soli ventidue anni.
Le sue spoglie riposano nel Mausoleo Ossario del Gianicolo.
[72] Fu la battaglia cruciale nella lunga guerra con cui il Sacro Romano Impero Germanico tentava di affermare il suo potere, almeno in linea di principio, sui Comuni dell'Italia settentrionale; questi però avevano messo da parte le loro reciproche rivalità per unirsi, dando vita alla Lega Lombarda, presieduta da Papa Alessandro III.
[73] Ferrucci divenne celebre per la strenua difesa che l'esercito della Repubblica Fiorentina, da lui guidato, oppose agli imperiali.
[74] Giovan Battista Perasso ( Balilla) patriota che si ribellò contro le truppe austro-piemontesi
[75] I vespri suonò – fa riferimento alla rivolta dei Vespri siciliani. Tutto ebbe inizio mentre si era in attesa della funzione del Vespro del 31 marzo 1282, sul sagrato della Chiesa dello Spirito Santo, a Palermo. A generare l'episodio fu la reazione al gesto di un soldato dell'esercito francese, che si era rivolto in maniera irriguardosa ad una giovane donna accompagnata dal marito, mettendole le mani addosso con il pretesto di doverla perquisire; a difesa di sua moglie, lo marito sottrasse la spada al soldato francese e lo uccise. Tale gesto fu appunto la scintilla che dette inizio alla rivolta. Nel corso della serata e della notte che ne seguì i palermitani si abbandonarono ad una vera e propria "caccia ai francesi"che dilagò in breve tempo in tutta l'isola, trasformandosi in una carneficina. I pochi francesi che sopravvissero al massacro vi riuscirono rifugiandosi nelle loro navi, attraccate lungo la costa
[76] russi
[77] La Spigolatrice di Sapri - Per più di mezzo secolo inserita, come testimonianza della poesia patriottica risorgimentale, in quasi tutte le antologie letterarie scolastiche italiane, ha contribuito alla conoscenza della tragica spedizione di Carlo Pisacane, infatti, ben presto non sarebbe rimasta che l’eco e l’epica musicalità popolaresca della poesia di Mercantini, ricca di quella fantasia sublime che proietta un semplice episodio in un tempo senza età e senza confini.
[78] Canti - I Canti accompagnarono le vicende liete e tristi del Risorgimento italiano e suscitarono grandissima commozione tra i contemporanei che lo amarono per la delicatezza del sentimento, per quel fare popolaresco delle sue poesie, per la sincerità patriottica e per la vena spiccatamente romantica dei versi. I grandi critici della nostra letteratura lo hanno quasi sempre accomunato a Francesco Dell’Ongaro, a F. Montanelli e a molti altri poeti minori del Risorgimento, mentre la critica più recente non ha dubbi nel giudicarlo come il poeta dei teneri affetti.
I versi di Luigi Mercantini furono sempre la candida espressione dei suoi sentimenti.
[79] Luigi Mercantini - Luigi Mercantini fu tra i più significativi rappresentanti della lirica patriottica.
Mercantini nasce a Ripatransone (Ascoli Piceno) il 19 settembre 1821.
Nel 1824, la famiglia Mercantini si sposta Fossombrone, in provincia di Pesaro-Urbino.
Nel 1831 Luigi entra nel locale seminario diocesano ove è seguito da validi maestri.
Nel 1841, prima assume l’incarico di bibliotecario della Biblioteca comunale, poi gli fu affidata la cattedra di Umanità e Retorica di Arcevia, mentre l’anno successivo fu nominato maestro di Eloquenza a Senigallia.
Nel 1845 sposa Anna Bruni, che muore dopo appena otto mesi.
Nel 1846, salito al soglio pontificio Pio IX, Mercantini si accende di entusiasmo per le riforme iniziate e per le idee di libertà e di indipendenza espresse dal nuovo Papa.
Nel 1849 partecipa alla sfortunata difesa di Ancona, assalita dagli Austriaci e, dopo la capitolazione della città, si reca in volontario esilio prima a Corfù, dove incontra Manin, Tommaseo e Pepe, poi, nel 1850, a Zante.
Nel 1852 torna in Italia, dapprima a Torino, dove conosce il fior fiore dei nobili patrioti piemontesi, come Lamarmora, Mamiani, Valerio, Castellengo, Casati; di lì a Genova, dove, nel 1854, è nominato docente di Letteratura Italiana e Storia nel Collegio femminile delle Peschiere.
Nel 1855 sposa Giuseppina De Filippi, giovane milanese di vent’anni.
Nel 1856 assume la direzione del settimanale La Donna al quale collaborano personaggi di spicco, come Niccolò Tommaseo, Francesco Dell’ Ongaro, Ferdinando Bosio.
Nel 1858, a Genova Mercantini conosce Giuseppe Garibaldi e, su suo invito scrive la Canzone Italiana del 1859 che, musicata da A. Olivieri, diverrà l’Inno di Garibaldi.
Segretario del commissario regio Lorenzo Valerio, dopo l’annessione delle Marche (1860), fonda il quotidiano Corriere delle Marche ed è nominato docente di Storia e di Estetica nell’Accademia di Belle Arti di Bologna, città dove si trasferisce con la famiglia.
Eletto deputato per l’VIII legislatura, la sua elezione viene annullata il 15 marzo 1861 per incompatibilità con il suo impiego.
Nel 1865 nominato titolare della cattedra di Letteratura Italiana dell’Università di Palermo nel 1868 traduce l’Ecerinide di A. Mussato, nel 1869 fonda il giornale La Luce, pronuncia discorsi commemorativi e continua a scrivere prose e versi.
Morì a Palermo il 17 novembre 1872 e fu sepolto nel cimitero di S. Maria del Gesù ove, l’anno successivo gli fu dedicato un monumento recante una iscrizione dettata da Aleardo Aleardi.
[80] Eran trecento…. Sono morti: fa riferimento alla spedizione di Sapri. Nel Regno delle Due Sicilie si era costituito nel 1853 un ristretto comitato repubblicano segreto che aveva esordito esordì con l’insurrezione del barone Bentivegna e con l’attentato a Ferdinando II da parte di Agesilao Milano.
L’ipotesi di una spedizione nel mezzogiorno era stata ventilata già nel 1855, quando l’esule Antonio Panizzi aveva organizzato un’incursione improvvisa, poi fallita, all’isola di Santo Stefano per liberare i prigionieri politici. L’idea fu ripresa da Pisacane e da Mazzini, sebbene quest’ultimo sembrò metterla in discussione negli ultimi mesi.
Pisacane, durante il soggiorno torinese del 1856, diede forma a quell’impresa che avrebbe dovuto rappresentare la prova concreta della sua teoria della via nazionale al Risorgimento: Pisacane prese contatto con i repubblicani napoletani, invitandoli ad affrettare i tempi.
Dopo il tentativo fallito del 10 giugno del 1857, il 25 dello stesso mese Pisacane e i suoi uomini s’imbarcarono sul piroscafo Cagliari, della compagnia Rubbattino, che collegava Genova a Tunisi. Il piano prevedeva che una piccola goletta con le armi a bordo, guidata da Rosolino Pilo, avrebbe intercettato il Cagliari in navigazione. Ma Pilo perse l’orientamento e mancò l’appuntamento col piroscafo. I venticinque patrioti furono costretti ad improvvisare, impossessandosi dei soli fucili rinvenuti sul brigantino. Il 27 pomeriggio, dirottata l’imbarcazione, si sbarcò a Ponza, che cadde senza molte resistenze. Furono liberati 323 uomini, dei quali solo undici erano realmente prigionieri politici. Domenica 28, vi fu lo sbarco a Sapri sulla terraferma. Pisacane rimase subito sorpreso dall’assenza dei rivoluzionari napoletani, che avevano promesso il loro appoggio. Pisacane decise di proseguire verso l’interno, nell’attesa che Napoli, Genova e Livorno si sollevassero come stabilito. Il 1° luglio a Padula gli uomini di Pisacane si scontrarono con i soldati e le guardie urbane dei Borbone. Pisacane, sopraffatto, si convinse a ripiegare verso il mare. Senza munizioni e privi di vettovaglie, il 2 luglio a Sanza furono attaccati da una cinquantina di persone, in gran parte contadini. Si aprirono dei vuoti nelle file dei ribelli: Pisacane, Falcone e altri sette dei venticinque imbarcatisi a Genova furono trucidati. Ferito ad una mano, Nicotera si arrese con altri 29 compagni, mentre altri sette alla ricerca della fuga furono ammazzati da una folla di paesani, incalzati da un prete.
[81] Spiaggia
[82] Con gli occhi… loro : si tratta di Carlo Pisacane.
Carlo Pisacane nacque a Napoli il 22 agosto 1818, dal Duca Gennaro e da Nicoletta Basile de Luna. La morte del padre, spinge la madre a risposarsi nel 1830, per risolvere le precarie condizioni economiche.
Nel 1830, Carlo entrò allora alla Nunziatella, Collegio Militare della Nobiltà Borbonica.
Il 16 gennaio 1838, Enrichetta Di Lorenzo, antico amore di Carlo, sposò con un fastoso matrimonio, Dioniso Lazzari, cugino di Carlo da parte di madre, mentre quest’ultimo si preparava a sostenere gli esami finali: eccellente in matematica Carlo fu mandato a Gaeta come aiuto tecnico incaricato della costruzione della nuova ferrovia Napoli-Caserta.
Nel 1843 fu promosso tenente e richiamato a Napoli.
Nel 1845 il suo antico amore per Enrichetta Di Lorenzo si è ripresentò e fra i due iniziò una relazione amorosa con Carlo Piscane
Nel 1846, a Napoli ed in tutta Italia si esaltavano le azioni di Garibaldi in Sud America per l’indipendenza di quei popoli e Carlo firmò con altri ufficiali, la sottoscrizione per una sciabola d’onore da regalare all’eroe; il 12 ottobre Carlo subì un’aggressione, il cui movente non fu mai chiarito, e si disse che fosse stata un’azione intimidatoria per il legame con Enrichetta.
L’8 febbraio del 1847 i due fuggirono insieme da Napoli, sotto i falsi nomi di Francesco Guglielmi e Sara Sanges, imbarcandosi sul postale francese Leonidas.
Lazzari, con l’aiuto del fratello e dello zio di Enrichetta, denunciò immediatamente la scomparsa della moglie e cercò di farli arrestare. A Livorno riuscirono a depistare la polizia del Granducato, ma da quella napoletana furono a lungo perseguitati. Il 4 marzo 1847 giunsero a Londra, sotto falso nome: sono Enrico e Carlotta Lumont. Quando ad aprile si trasferirono a Parigi, furono arrestati dalla polizia con l’accusa di adulterio e di documenti falsi. Verranno liberati dopo pochi giorni ed autorizzati a rimanere chiedendo asilo politico.
Il 28 marzo 1848, dopo una deludente esperienza nella Legione Straniera per necessità economiche, Carlo ritornò a Marsiglia con l’intenzione di partecipare alla mobilitazione antiaustriaca del Milanese. Il 14 aprile giunse a Milano, esultante per le promesse di libertà aperte dalle 5 Giornate, ed si arruolò a Desenzano sul Garda nella Legione Lombarda. Dopo l’armistizio di Salasco del 9 agosto, Carlo si rifugiò temporaneamente a Lugano in Svizzera per riprendere il suo posto alle avvisaglie della ripresa del conflitto.
Il 26 febbraio 1849, Carlo si congedò dalle file piemontesi e corse a Roma, dove il 9 dello stesso mese era stata proclamata la repubblica. Si mise immediatamente in contatto con Giuseppe Mazzini ed entrò a far parte della Commissione incaricata della difesa militare della città. Il 27 aprile successe a Luciano Manara come capo sezione dello Stato Maggiore e quando i francesi iniziarono le ostilità, Carlo fu in prima fila tra i difensori, mentre Enrichetta si prodigava nel curare i feriti con Cristina di Belgioioso. Quando ai primi di luglio le truppe Francesi entrarono in città, Pisacane fu arrestato poi liberato grazie all’intervento della moglie.
Nel 1850, Carlo, riparato all’estero, fu costretto a rientrare a Genova per una malattia di Enrichetta: la coppia attraversò un periodo di crisi sia personale sia economica. Carlo partì per Lugano e tornò dalla sua compagna solo ai primi di novembre: intanto a Genova, uscì il saggio Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 , unica sua opera pubblicata in vita.
Il 28 novembre 1852 nasce la seconda figlia, Silvia.
Verso il 1855 si riavvicinò a Mazzini con cui però aveva ormai in comune solo l’idea della strategia rivoluzionaria in senso repubblicano, e con lui preparò quella spedizione di Sapri. Gli sembrano indicativi di una volontà di riscossa alcuni episodi antiborbonici in Sicilia e Calabria, e la costituzione di un comitato segreto insurrezionale a Napoli.
Pisacane partì di nuovo il 25 giugno 1857 per la spedizione di Sapri e morì il 1° luglio.
[83] Raccogliere le spighe rimaste sul campo dopo la mietitura
[84] militari

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