mercoledì 28 novembre 2012

La Cattedrale di Ravello e Barisano di Trani di Massimo Capuozzo


Richiami alla tradizione araba sono presenti nel Duomo di Ravello, il cui ambone, sempre del XII secolo, presenta ornati geometrici di tipo orientale, molto simili a quelli dell’ambone della Cattedrale di San Matteo a Salerno, dove, tuttavia, il gusto per la decorazione islamica si incontra con elementi della tradizione classica.
Il duomo di Ravello fu edificato alla fine dell'XI secolo: anche in questo caso si tratta di una basilica di derivazione benedettino-cassinese a tre navate, scandite da un doppio colonnato, con transetto sopraelevato per la presenza di una sottostante cripta e di absidi estradossate cioè non ricoperte dalle murature di rinfianco.
Dell'antico arredo, il duomo conserva il bell'ambone dell'epistola fatto eseguire dal vescovo Costantino Rogadeo (1094–1150). Si tratta dell'unico esempio in Campania della tipologia di ambone a doppia scala, di derivazione romana: dal XII secolo, infatti, gli amboni erano tutti costruiti su colonne. Due transenne triangolari seguono l'andamento delle scale laterali e sono affiancate ad un lettorino centrale, recante in alto un'aquila dalla testa mozza. Sulle transenne trovano posto le due raffigurazioni della pistrice che prima ingoia e poi rigetta Giona. Nel registro inferiore due plutei sono decorati con dischi di porfido e di serpentino, inquadrati da meandri curvilinei. In alto un mosaico raffigura l'episodio biblico del profeta Giona, ingoiato e vomitato dalla pistrice, prefigurazione della morte e della resurrezione di Gesù. Sotto il lettorino, a sottolinearne il carattere di monumento alla resurrezione, si apre una cavità che rimanda al sepolcro vuoto ai cui lati sono posti due pavoni ad intarsio, simbolo della vita eterna, e sormontano la nicchia centrale.

Uno dei capolavori del duomo è però la porta bronzea, commissionata da un patrizio della città, Sergio Muscettola, a Barisano da Trani, la personalità più intrigante in materia dell'ultimo quarto del XII secolo nel 1179 e donata al duomo.
Il nome di Barisano, scultore e fonditore tranese attivo nella seconda metà del XII secolo, compare sui battenti bronzei della porta della Cattedrale di Trani e del portale nord del Duomo di Monreale. Sulla base di evidenti concordanze stilistiche ed iconografiche a Barisano è stata attribuita con certezza anche la porta bronzea del Duomo di Ravello, nella quale, come nelle altre due, ornati e figure, raffinatamente stilizzati in larghe riquadrature circondate da ricche cornici, sono mutuati da bronzi e da avori bizantini. L'uso di applicare su due ante di legno di quercia o di larice vari riquadri bronzei legati fra loro da comici e listelli fissati con bulloni ricorre anche per questa porta. La successione cronologica delle tre porte, di cui solo quella di Ravello è datata al 1179, è piuttosto controversa: gli studi più recenti danno comunque come prima la porta di Ravello, seguita da quelle di Trani del 1185 circa e di Monreale del 1190 circa.
Nulla si sa di Barisano: il nome lascia supporre che egli, o la sua famiglia, fosse originario di Bari e che probabilmente la sua attività si svolse prevalentemente nelle officine della città di Trani, alle quali non dovevano mancare commissioni dall'esterno, ricca com'era Trani di un attivissimo porto che favoriva l'afflusso di un pubblico cosmopolita nonché la presenza di varie colonie commerciali. Così è presumibile che da Trani, via mare, le porte di Barisano destinate a Ravello e a Monreale, abbiano raggiunto le rispettive sedi.
Con queste opere, Barisano si inserì in una tradizione ormai consolidata da un secolo, in quanto l'uso di chiudere e di ornare con ante bronzee i vani di accesso alle chiese si sviluppò ampiamente nell’Italia dell’XI e del XII secolo: molti oggetti, soprattutto nel Mezzogiorno d'Italia, giungevano direttamente da Bisanzio, mentre parallelamente si moltiplicavano fiorenti officine locali che risentivano in diversa misura di influssi non solo bizantini, ma anche classici, musulmani e d'oltralpe. Una di queste officine era quella tranese di Barisano. Rispetto all'intarsio ageminato ed al niello, sempre ricorrenti nella produzione bronzea dell'Italia meridionale, Barisano introdusse una nota originale ed innovatrice, sostituendo a quelle tecniche l'uso del rilievo: in questa porta ravellese, infatti, per la prima volta, la tecnica dell'intarsio ageminato di scuola bizantina nella realizzazione delle formelle è sostituito dal bassorilievo.
La porta (3,78 x 2,66) è costituita da due battenti in legno su cui sono affisse in maniera quasi speculare 80 formelle, di cui 54 figurate e 26 decorative che costituiscono le cornici adorne di fogliame: la porta è, infatti, incorniciata, in alto e ai lati, da una ricca e larga fascia a cerchi intrecciati. Le giunture sono ricoperte da fasce ornamentali raccordate da borchie piramidali o circolari e assicurate alla struttura con grossi chiodi.
Le 54 formelle figurate, sono ripartite in nove file. Nel ciclo iconografico, che interpreta la porta della chiesa come porta del paradiso, è presentata la storia della salvezza in un ciclo cristologico (incarnazione, morte e opera di redenzione di Cristo) concentrato in quattro scene che raffigurano la Madre di Dio in trono, la Deposizione dalla croce, la Discesa agli inferi e la Maiestas Domini.
Attorno ai battaglii si distribuiscono invece raffigurazioni di profeti e santi guerrieri della tradizione orientale, mentre nella parte inferiore ci sono infine interessanti raffigurazioni di arcieri orientali e di guerrieri intenti in quelli che sembrano combattimenti di addestramento con mazze e scudi di legno. In questa parte trovano posto soggetti decorativi di chiara influenza sasanide, la stessa che si ritrova nella decorazione a soggetto vegetale. Questo ciclo è completato da figure isolate (apostoli, santi, precursori di Cristo, angeli adoranti) e da raffigurazioni simboliche (l'Albero della vita, simbolo della risurrezione di Cristo, affiancato da leoni e grifoni o disposto ad inquadrare la protome leonina che funge da battaglio della porta; guerrieri, arcieri, e santi-cavalieri, che alludono alla protezione e alla vigilanza). Il programma figurativo, leggibile dal basso verso l'alto, inizia con le raffigurazioni simboliche, prosegue con le schiere degli apostoli e dei santi fino alle formelle cristologiche che si concludono in alto con la Maiestas Domini, ripetuta su ognuno dei due battenti.
Le formelle non solo corrispondono simmetricamente sulle due ante, ma talora sono ripetute identiche dall'una all'altra: questo in modo non arbitrario, ma coerentemente con un preciso programma figurativo che dava la possibilità di concepire ogni battente come un'unità a sé stante.
Su una placca argentea c’è l'iscrizione dedicatoria con i nomi del donatore e dei suoi familiari nonché la data: Sergio Muscettola appare inoltre per due volte inginocchiato ai piedi di San Nicola.
La disposizione delle formelle non rispetta un preciso ordine teologico: comunque la presenza di personaggi sacri collegati fra loro, di due santi cavalieri, San Giorgio e Sant’Eustachio, e di combattenti vorrebbe forse alludere alla Redenzione e alla lotta fra il bene e il male.
Nell’opera di Barisano, espressione tipica del romanico nell'Italia meridionale, legata a suggestioni orientali, ma già in diversa misura libera nell'interpretarle, sebbene sia ancora l'influsso bizantino a prevalere, determinando il programma figurativo, i tipi iconografici e i caratteri formali. Le fonti iconografiche sono state infatti individuate proprio in ambito bizantino, nell'oreficeria, negli intagli in avorio e nelle miniature. Le formelle e le cornici, poco rilevate, mostrano uno stile di straordinaria dolcezza e snellezza. L'ornamentazione estremamente articolata e di grande ricchezza formale è eseguita con cura; le figure variano nel modellato ed hanno, nonostante lo scarso aggetto del rilievo, una forte corporeità; l'impressione complessiva di queste pareti figurate ricorda la preziosa superficie delle opere di oreficeria. È possibile che Barisano abbia lavorato anche come orafo ed è comunque presumibile che egli sia stato tanto il fonditore quanto il modellatore delle porte di bronzo, come sembra confermare d'altronde il tratto, in larga parte unitaria, dei rilievi. Di grande finezza esecutiva è soprattutto la porta di Ravello, la prima realizzata: in essa si riscontra una cura particolare nella realizzazione delle controforme.

I monasteri benedettini: la clericalizzazione della cultura di Massimo Capuozzo

All’origine della fondazione dei grandi istituti religiosi in Occidente vi furono due correnti missionarie: da una parte l'Italia, con la fondazione di Vivarium, il primo grande monastero che cercava di coniugare il mondo antico con la nuova cultura cristiana, e in seguito Montecassino, dotato della più grande biblioteca d'Europa; dall'altra, con la politica unificatrice di papa Gregorio Magno, la Chiesa irlandese fondata nel V secolo dal bretone san Patrizio.
I monasteri benedettini che si diffusero in tutta Europa dalla fondazione del primo a Montecassino nel 528 per opera di San Benedetto da Norcia (480-547) furono importanti centri di resistenza alla degradazione della vita civile La regola che egli dettò per i suoi monaci che costituivano una comunità razionalmente organizzata, imponeva, accanto alla preghiera e alla meditazione, il lavo­ro manuale e intellettuale.
Per tutto il medioevo, l'abbazia di Montecassino fu un centro vivissimo di cultura attraverso i suoi abati, le sue biblioteche, i suoi archivi, le scuole scrittorie e miniaturistiche, che trascrissero e conservarono molte opere dell'antichità. Testimonianze storiche del più alto interesse e di sicura validità sono state raccolte e tramandate a Montecassino: dai primi preziosi documenti in lingua volgare ai famosi codici miniati cassinesi, ai preziosi e rarissimi incunaboli.
Dall’inizio del VI secolo la so­cietà intera fu modificata dall’impo­nente diffusione degli ordini monastici che fondarono in tutta Europa centinaia di conventi, dove si radunarono grandi mas­se di monaci. Il monachesimo benedettino si diffuse in Inghilterra, in Irlanda, in Svizzera (abbazia di San Gallo), in Germania (abbazia di Fulda), in Francia. Grande sostenitore del movimento benedettino fu Gregorio Magno, assertore del valore liturgico e propagandistico della musica e del canto.
Queste comunità si collocarono in genere nelle campagne, inizialmente su terreni loro concessi da feudatari, vescovi, re e papi: ben presto di­vennero i centri più attivi non solo dal punto di vista religioso, ma anche economico. I monasteri benedettini, istituiti secondo la regola della preghiera e del lavoro, crearono, infatti, organizzate e potenti aziende agricole, alle quali si dovette il dissodamento e la bonifica di terre strappate al­le selve e alle paludi. Molti monasteri crebbero enormemente, sia per il disso­damento di terreni resi coltivabili, sia per le continue donazioni e concessioni fatte dai signori locali; perciò fu necessaria una rigida organizzazione gerarchica, in cima alla quale si pose l’abate, il religioso che aveva il governo della comunità e dei suoi beni che, nel complesso, presero il nome di abbazia.  Alcune di queste giunsero a controllare territori vasti come grandi feu­di e i loro abati esercitarono un potere pa­ri a quello di baroni o marchesi. Accanto alla chiesa abbaziale e al convento, sorse­ro molti altri edifici: biblioteche, magazzi­ni, botteghe artigianali e anche veri opifici per la fabbricazione di merci. Questi centri monastici acquisirono una tale centralità economica e politica che molti di essi ebbero importanza strate­gica e furono fortificate.
Per essere monaci non occorreva soltanto la fede, ma era necessario alimentare questa virtù con la lettura e lo studio ed i monasteri non avevano solo la funzione di proteggere il Cristianesimo in un periodo di invasioni barbariche e di saccheggi, ma furono anche i principali luoghi della riorganizzazione, del­la conservazione e della trasmissione del sapere e lo conservarono nelle loro ricche biblioteche: i monasteri più importanti avevano una bi­blioteca e provvedevano, nello scriptorium, laboratorio di riproduzione di testi religiosi, scientifici, filosofici, letterari, alla trascrizione e allo studio dei ma­noscritti di testi sacri, ma anche di opere profane.
Lo scriptorium era il laboratorio di copiatura dei testi e di produzione dei manoscritti: a volte era addossato alla chiesa e comunicava con essa a livello del coro, a volte era prospiciente il chiostro, come si vede in molte abbazie cistercensi, e i monaci stavano seduti vicino alle finestre, su sedie davanti a tavoli consoni al loro lavoro. L'intero ciclo di produzione avveniva sul posto; i monaci che vi operavano avevano mansioni distinte ed erano spesso affiancati da amanuensi salariati; le competenze e le re­sponsabilità culturali erano differenti poiché la scelta dei testi da ricopiare era, di fatto, una selezione delle opere che si ritenevano degne di es­sere tramandate. Il lavoro era fatto da soli o in gruppo sotto la dettatura di un lettore. Ogni copista si occupava di un fascicolo oppure dava il cambio nella copiatura nel verso o nel mezzo di una carta, cercando di armonizzare la sua scrittura con quella dei confratelli. Con la rinascita carolingia e in seguito con la rinascita ottoniana, gli scriptoria europei ebbero un nuovo notevole impulso.
Per secoli i monasteri svolsero un ruolo decisivo per le sorti della cultura occidentale, rappresentando per molta parte della cultura classica un luogo di sicuro riparo e di riproduzione dei codici antichi.
I monasteri furono oasi in cui si salvò l’ideale di ordine, di vita regolata dalla legge, che costituiva la più cospicua eredità della cultura romana in un mondo in preda al disordine e alla violenza.
I monaci, più che i vescovi cittadini, ebbero il merito della conversione del­le popolazioni rurali ancora pagane, favoriti dalla vicinanza ai contadini e dalla maggior comprensione per la loro cultura ed il monastero, con il declino del primato della città, prese il posto del vescovado come centro della vita religiosa e dell’organizzazione ecclesiastica.
I monasteri ebbero una funzione di primaria importanza per la circola­zione non solo delle idee, ma anche delle tecniche e dei linguaggi figu­rativi in tutto l’Occidente.
Nelle scuole monastiche studiava non soltanto il clericus, l’uomo di chiesa, ma anche chi apparteneva al popolo secolare e si radunava attorno alla chiesa in cerca di protezione. Le scuole municipali, che erano state distrutte dal passaggio delle invasioni barbariche, furono sostituite dalle scuole monastiche, che presero il loro posto ed impartirono i primi rudimenti della lettura, della scrittura e del calcolo: il loro obiettivo era la diffusione del catechismo e della dottrina religiosa.
Nelle isole britanniche – dove dalla metà del V secolo si erano insedia­ti gli Angli e i Sassoni – ebbe un ruolo decisivo, per il tramandarsi delle tradizioni letterarie antiche e per la produzione di opere miniate, l’apostolato dei monaci irlandesi; fra questi spicca la figura di San Colombano (540-615), infaticabile missionario e viaggiatore che fondò, fra l’altro, l’abbazia di Bobbio, centro propagatore di spiritualità, ma anche di copiatura e decorazione di straordinari codici miniati.
I frequenti spostamenti dei monaci irlande­si e anglosassoni da un monastero all’altro della Britannia e del continente favorirono gli scambi e gli influssi reciproci fra i più attivi centri scrittori del continente e quelli delle isole britanniche. I monasteri divennero un luogo d’incontro e di scambio culturale tra monaci che passava­no da un’abbazia ad un’altra e nei luoghi di so­sta dei grandi pellegrinaggi.
Fino all’ XI secolo, l'educazione era impartita presso i monasteri e, in misura minore, presso le sedi vescovili. Le scuole erano istituite prevalentemente per la formazione del clero, mentre sporadico era l'interesse dei laici per l'apprendimento; comunque coinvolgeva una stretta minoranza e l'uso della scrittura e del latino rimanevano una prerogativa del clero, dal momento che ogni produzione letteraria e dottrinale era di matrice ecclesiastica.
Nel Medioevo fu la Chiesa ad assumere integralmente il compito della trasmissione del sapere e dell'istruzione. Gli elementi del sapere, del resto, erano molto ridotti e l'educazione, anche quella dei signori, si fondava soprattutto su contenuti e precetti morali. Poiché la Chiesa rimase l'unica istituzione educativa dell'Occidente la conseguenza fu la clericalizzazione del sapere: tutta la cultura divenne espressione prodotto degli uomini di Chiesa, praticamente gli unici a conoscere la lettura e la scrittura.
Durante l’Alto Medioevo si definiva intellettuale chi aveva il compito di produrre e di diffondere la cultura e questa figura si identificava con il clericus, il chierico, l’uomo di Chiesa per eccellenza – adibito alle funzioni liturgiche, alla predicazione e ai compiti pastorali – il quale abitava in un monastero, era molto istruito, ma era semplicemente un propagatore del sapere, sebbene talvolta il chierico si trovasse in una dimensione di confine e di sovrapposizione con quella dello scrittore laico. Per questo motivo il termine chierico indicò indifferentemente sia l’uomo di Chiesa sia l’intellettuale, la cui formazione avvenne sempre all’interno delle strutture della Chiesa – scuole episcopali, monasteri, abbazie.
Il chierico leggeva e scriveva in latino, conosceva le Sacre Scritture e le interpretava, occupava un posto di rilievo nelle gerarchie sociali del Medioevo: egli era, in sostanza, un uomo di potere e, per questa ragione, il suo servizio diviene fondamentale anche nelle curiae, le cancellerie, dove si amministravano e si gestivano la politica e l’economia e qui l’intreccio tra potere ecclesiastico e potere laico costituisce una delle prerogative fondamentali del clericus: da questo stretto legame si origina anche una visione della politica fortemente influenzata dalle concezioni religiose.
Diversa era invece la funzione di questo intellettuale nel monastero, dove poteva ricoprire incarichi di varia natura: era adibito alla ricopiatura dei testi, al loro commento e traduzione e, in occasioni particolari, – ma siamo allora in presenza di personalità di livello più complesso – egli si comporta come un vero auctor, sviluppando le proprie idee, ma attenendosi sempre al pensiero di altre auctoritates.
I veri maestri della cultura altomedioevale le vere auctoritates furono i padri della Chiesa, la cui opera (patristica) costituiva la base d'ogni conoscenza e, insieme, la mediazione più sicura con la cultura classica.
La tradizione classica era riconosciuta superiore dal punto di vista formale, anzi offriva un modello di perfezione che si considerava insuperabile. Ma il problema stava nel fatto che questi testi non erano stati toccati dalla rivelazione, non contenevano la verità cristiana. Perciò l'atteggiamento della Chiesa nei confronti della tradizione classica fu di rifiuto i termini dottrinali, ma di costante assimilazione pratica: da un lato si studiavano i classici per potersene servire, dall'altro si rifiutavano i loro valori filosofici e morali. Per queste ragioni gli intellettuali del medioevo non rispettavano l'integrità dei testi pagani, ma estrapolavano materiali da utilizzare nelle più svariate occasioni, isolando le opere dal loro contesto storico e culturale.

martedì 20 novembre 2012

Il dovere del medico: dalla novella al dramma di Massimo Capuozzo


Il dovere del medico è un atto unico un atto unico, scritto nel 1911 e tratto dalla novella Il gancio del 1902 alla quale fu successivamente cambiato il titolo ne Il dovere del medico.
La novella, pubblicata per la prima volta col titolo provvisorio Il gancio su La settimana, il 22 giugno 1902, nella redazione definitiva fu pubblicata con titolo cambiato de Il dovere del medico nella raccolta di novelle La vita nuda, edita da Treves nel 1910, infine in Novelle per un anno, edizione Bemporad, 1922 e Mondadori, 1935.
La trama è comune a novella e atto. Adriana, ignara di quanto è successo, lavora a maglia nella tranquillità domestica, quando giunge il dottore ad informarla dell’arrivo del marito ferito, trasportato poco dopo assieme ad una folla di curiosi ed alla madre di lei che le rivela l’accaduto per convincerla ad abbandonare il marito. Un giornalista annota la situazione, mentre Adriana prende coscienza dell’accaduto, rivivendo con un excursus narrativo la propria situazione matrimoniale, per collocarvi l’adulterio nella giusta posizione di semplice capriccio passeggero.
Il ferito ricorda l’episodio che lo ha portato in una tale condizione, per poi ricadere nel letargo febbrile, vegliato dal dottore. Solo gradualmente esce dallo stato di incoscienza causato dalle gravi complicazioni conseguenti al ferimento, ed in concomitanza con il miglioramento aumenta la sorveglianza, motivo per cui egli comincia a rendersi conto di quanto lo attende: processo e carcere. Per questo motivo, dopo il colloquio chiarificatore con la moglie accusa il medico di averlo strappato alla morte che egli stesso aveva tentato di darsi come espiazione della propria colpa e di avergli restituito una vita destinata al carcere. Decide, quindi, di lasciarsi morire dissanguato in seguito ad un eccesso d’ira che gli ha riaperto la ferita. Il dovere del medico, a questo punto, sarà quello di non costringerlo ad una vita che non apparirà più tale ma di rispettare la volontà del malato. Cosicché il dottore si astiene dall’intervenire, bloccato dallo sguardo dell’ormai moribondo Tommaso: ha ragione… io non posso, non debbo
La soluzione pirandelliana riguardo questo delicato tema si basa sull’idea della libertà umana che nessuno può coartare, nemmeno in una situazione così drammatica. Trama delicata, inoltre, per le implicazioni etiche e morali: la deontologia medica, l’adulterio, l’omicidio, il diritto di scegliere quando e come  morire.
La novella fu scritta in occasione di una gara di composizione tra amici letterati in casa Ugo Fleres, il cui regolamento era di svolgere narrativamente un tema di cronaca nel tempo di una settimana.
Il testo è contrassegnato da numeri romani in sette segmenti narrativi. I personaggi sono Adriana, non ancora trentenne, ma già sposata da dieci anni; il marito Tommaso, uomo vitale e generoso; il dottor Vocalopulo, votato interamente alla scienza medica, «non vedeva uomini ma casi da studiare… quasi le infermità umane dovessero servire per gli esperimenti della scienza, e non la scienza per le infermità» la madre di Adriana, signora Montesani, particolarmente petulante nell’esporre l’accaduto nella peggiore luce possibile; il giornalista che prende informazioni circa la situazione familiare e assiste alle prime cure; il dottor Sià, collaboratore dell’altro medico; l’avvocato Camillo Cimetta, «dotto più di filosofia che di legge».
Fuori di scena, nell’antefatto, i coniugi Lori: lui, sostituto procuratore del Re e padrino del loro ultimo figlio, vissuto appena venti mesi; lei, donna vanesia che tradiva continuamente il marito, da ultimo proprio con Tommaso; gesto che questa volta aveva però indotto il marito a vendicarsi, con il conseguente suicidio della moglie e la sua uccisione da parte di Tommaso che poi  tenta il suicidio, non riuscendovi.

Il dovere del medico
I.
E sono miei, - pensava Adriana, udendo il cinguettio de' due bambini nell'altra stanza; e sorrideva tra sé, pur seguitando a intrecciare speditamente una maglietta di lana rossa. Sorrideva, non sapendo quasi credere a se stessa, che quei bambini fossero suoi, che li avesse fatti lei, e che fossero passati tanti anni, già circa dieci, dal giorno in cui era andata sposa. Possibile! Si sentiva ancor quasi fanciulla, e il maggiore dei figli intanto aveva otto anni, e lei trenta, fra poco: trenta! possibile? vecchia a momenti! Ma che! ma che! - E sorrideva.
- Il dottore? - domandò a un tratto, quasi a se stessa, sembrandole di udir nella saletta d'ingresso la voce del medico di casa; e si alzò, col dolce sorriso ancora su le labbra.
Le morì subito dopo quel sorriso, assiderato dall'aspetto sconvolto e imbarazzato del dottor Vocalòpulo, che entrava ansante, come se fosse venuto di corsa, e batteva nervosamente le palpebre dietro le lenti molto forti da miope, che gli rimpiccolivano gli occhi.
- Oh Dio, dottore?
- Nulla... non si agiti...
- La mamma?
- No no! - negò subito, forte, il dottore. - La mamma, no!
- Tommaso, allora? - gridò Adriana. E, poiché il dottore, non rispondendo, lasciava intendere che si trattava proprio del marito: - Che gli è accaduto? Mi dica la verità... Oh Dio, dov'è, dov'è?
Il dottor Vocalòpulo tese le mani, quasi per opporre un argine alle domande.
- Nulla, vedrà... Una feritina...
- Ferito? E lei... Me l'hanno ucciso?
E Adriana afferrò un braccio al dottore, sgranando gli occhi, come impazzita.
- Ma no, ma no, signora... si calmi... una ferita... speriamo leggera...
- Un duello?
- Sì, - lasciò cadersi dalle labbra, esitando, il dottore vieppiù turbato.
- Oh, Dio, Dio, no... mi dica la verità! - insistette Adriana. - Un duello? Con chi? Senza dirmi nulla?
- Lo saprà. Intanto... intanto, calma: pensiamo a lui... Il letto?...
- Di là... - rispose ella, stordita, non comprendendo in prima. Poi riprese con ansia più smaniosa: - Dove l'hanno ferito? Lei mi spaventa... Non era con lei, Tommaso? Dov'è? Perché s'è battuto? Con chi? Quand'è stato?... Mi dica...
- Piano, piano... - la interruppe il dottor Vocalòpulo, non potendone più. - Saprà tutto... Adesso, è in casa la serva? Per piacere, la chiami. Un po' di calma, e ordine: dia ascolto a me.
E mentre ella, quasi istupidita, si faceva a chiamare la serva, il dottore, toltosi il cappello, si passò una mano tremolante su la fronte, come si sforzasse di rammentare qualcosa; poi, sovvenendosi, si sbottonò in fretta la giacca, trasse dalla tasca in petto il portabiglietti e scosse più volte la penna stilografica, pensando alle ordinazioni da scrivere.
Adriana ritornò con la serva.
- Ecco, - disse il Vocalòpulo, seguitando a scrivere. E, appena ebbe finito: - Subito, alla farmacia più vicina... Fiaschi... no, no... andate pure, ve li darà il farmacista stesso. Lesta, mi raccomando.
- È molto grave, dottore? - domandò Adriana, con espressione timida e appassionata, come per farsi perdonare la insistenza.
- No, le ripeto. Speriamo bene, - le rispose il Vocalòpulo e, per impedire altre domande, aggiunse: - Mi vuol far vedere la camera?
- Sì, ecco, venga...
Ma, appena nella camera, ella domandò ancora, tutta tremante:
- Ma come, dottore; lei non era con Tommaso? Assistono pure due medici ai duelli...
- Bisognerebbe trasportare il letto un po' più qua... - osservò il dottore, come se non avesse inteso.
Entrò, in quel punto, di corsa un bellissimo ragazzo, dalla faccia ardita, coi capelli neri ricci e lunghi, svolazzanti.
- Mamma, una barella! Quanta gen...
Vide il medico e s'arrestò di botto, confuso, mortificato, in mezzo alla stanza.
La madre diè un grido e scostò il ragazzo per accorrere dietro al dottore. Su la soglia questi si voltò e la trattenne:
- Stia qua, signora: sia buona! Vado io, non dubiti... Col suo pianto gli potrà far male...
Adriana allora si chinò per stringersi forte al seno il figlioletto che le si era aggrappato alla veste, e ruppe in singhiozzi.
- Perché, mamma, perché? - domandava il ragazzo sbigottito, non comprendendo e mettendosi a piangere anche lui.
II.
A piè della scala il dottore accolse la barella condotta da quattro militi della carità, mentre due questurini, ajutati dal portinajo, impedivano a una folla di curiosi d'entrare.
- Dottor Vocalòpulo! - gridava un giovanotto tra la folla.
Il dottore si voltò e gridò a sua volta alle guardie:
- Lo lascino passare: è il mio assistente. Entri, dottor Sià.
I quattro militi si riposavano un po', preparando le cinghie per la salita. Il portone fu chiuso. La gente di fuori vi picchiava con le mani e coi piedi, fischiando, vociando.
- Ebbene? - domandò il dottor Vocalòpulo al Sià che sbuffava ancora, tutto sudato. - La donna?
- Che corsa, caro professore! - rispose il dottor Cosimo Sià. - La donna? All'ospedale... Sono tutto sudato! Frattura alla gamba e al braccio...
- Congestione?
- Credo. Non so... Son venuto a tempesta. Che caldo, per bacconaccio! Se potessi avere un bicchier d'acqua
Il dottor Vocalòpulo scostò un poco la tendina di cerata della barella per vedere il ferito; la riabbassò subito e si volse ai militi:
- Andiamo, su! Piano e attenzione, figliuoli, mi raccomando.
Mentre si eseguiva con la massima cautela la penosa salita, allo scalpiccio, al rumor delle voci brevi affannose, si schiudevano sui pianerottoli le porte degli altri casigliani.
- Piano, piano... - ammoniva, quasi a ogni scalino, il dottor Vocalòpulo.
Il Sià veniva dietro, asciugandosi ancora il sudore dalla nuca e dalla fronte, e rispondeva ai casigliani:
- Il signor... come si chiama? Corsi... Quarto piano, è vero?
Una signora e una signorina, madre e figlia, scapparono su di corsa per la scala con un grido d'orrore, e, poco dopo, s'intesero le grida disperate di Adriana.
Il Vocalòpulo scosse la testa, contrariato, e voltosi al Sià:
- Ci badi lei, mi raccomando, - disse, e salì a balzi le altre due branche di scala fino alla porta del Corsi.
- Via, si faccia forza, signora: non gridi così! Non capisce che gli farà male? Prego, signore, la conducano di là!
- Voglio vederlo! Mi lascino! Voglio vederlo! - gridava, piangendo e smaniando, Adriana.
E il medico:
- Lo vedrà, non dubiti, non ora però... La conducano di là!
La barella era già arrivata.
- La porta! - gridò uno dei militi, ansimando.
Il dottor Vocalòpulo accorse ad aprire l'altro battente della porta, mentre Adriana, divincolandosi, trascinava seco le due vicine, imbalordite, verso la barella.
- In quale camera? Prego... Dov'è il letto? - domandò il dottor Sià.
- Di qua... ecco! - disse il Vocalòpulo, e gridò alle due pigionali accorse: - Ma la trattengano, perdio! Non son buone neanche da trattenerla?
- Oh Dio benedetto! - esclamò la signora del secondo piano, tozza, popputa, parandosi davanti ad Adriana furibonda.
Le due guardie erano dietro la barella e se ne stavano innanzi alla porta d'ingresso. A un tratto, per la scala, un vociare e un salire frettoloso di gente. Certo il portinajo aveva riaperto il portone, e la folla curiosa aveva invaso la scala.
Le due guardie tennero testa all'irruzione.
- Lasciatemi passare! - gridava tra la ressa su gli ultimi scalini, facendosi largo con le braccia, una signora alta, ossuta, vestita di nero, con la faccia pallida, disfatta, e i capelli aridi, ancor neri, non ostante l'età e le sofferenze evidenti. Si voltava ora di qua ora di là, come se non vedesse: aveva infatti quasi spento lo sguardo tra le palpebre gonfie semichiuse. Pervenuta alla fine innanzi alla porta, con l'aiuto di un giovinotto ben vestito, che le veniva dietro, fu su la soglia fermata dalle guardie:
- Non si entra!
- Sono la madre! - rispose imperiosamente e, con un gesto che non ammetteva replica, scostò le guardie e s'introdusse in casa.
Il giovinotto ben vestito sguisciò dentro, dietro a lei, dandosi a vedere come uno della famiglia anche lui.
La nuova arrivata si diresse a una stanza quasi buja, con un sol finestrino ferrato presso il tetto. Non discernendo nulla, chiamò forte:
- Adriana!
Questa, che se ne stava tra le due pigionali che cercavano Scioccamente di confortarla, balzò in piedi, gridando:
- Mamma!
- Vieni! vieni con me, figlia mia! povera figlia mia! Andiamocene subito! - disse in fretta, con voce vibrante di sdegno e di dolore, la vecchia signora. - Non m'abbracciare! Tu non devi rimanere più qua un solo minuto!
- Oh! mamma! mamma mia! - piangeva intanto Adriana, con le braccia al collo della madre. Questa si sciolse dall'abbraccio, gemendo:
- Figlia disgraziata, più di tua madre!
Poi dominando la commozione, riprese con l'accento di prima:
- Un cappello, subito! uno scialle! Prendi questo mio... Andiamocene subito, coi bambini... Dove sono? Già mi scottano i piedi, qua... Maledici questa casa, com'io la maledico!
- Mamma... che dici, mamma? - domandò Adriana, smarrita nell'atroce cordoglio.
- Ah, non sai? Non sai nulla ancora? non t'hanno detto nulla? non hai nulla sospettato? Tuo marito è un assassino! - gridò la vecchia signora.
- Ma è ferito, mamma!
- Da sé s'è ferito, con le sue mani! Ha ucciso il Nori, capisci? Ti tradiva con la moglie del Nori... E lei s'è buttata dalla finestra...
Adriana cacciò un urlo e s'abbandonò su la madre, priva di sensi. Ma la madre, non badandole, sorreggendola, seguitava a dirle tutta tremante:
- Per quella lì... per quella lì... te, te, figlia, angelo mio, ch'egli non era degno di guardare... Assassino!... Per quella lì... capisci? capisci?
E con una mano le batteva dolcemente la spalla, carezzandola, quasi ninnandola con quelle parole.
- Che disgrazia! che tragedia! Ma com'è avvenuto? - domandò sottovoce la signora tozza del secondo piano al giovinotto ben vestito che si teneva in un angolo, con un taccuino in mano.
- Quella è la moglie? - domandò il giovinotto a sua volta, in luogo di rispondere. - Scusi, saprebbe dirmi il casato?
- Di lei?... Sì, fa Montesani, lei.
- E il nome, scusi?
- Adriana. Lei è giornalista?
- Zitta, per carità! A servirla. E mi dica, quella è la madre, è vero?
- La madre di lei, la signora Amalia, sissignore.
- Amalia, grazie, grazie. Una tragedia, sì signora, una vera tragedia...
- È morta lei, la Noti?
- Ma che morta! La mal'erba, lei m'insegna... È morto lui, invece, il marito.
- Il giudice?
- Giudice? No, sostituto procuratore del re.
- Sì, quel giovane... brutto, insomma, mingherlino, calabrese, venuto da poco... Erano tanto amici col signor Tommaso!
- Eh, si sa! - sghignò il giovinotto. - Avviene sempre così, lei m'insegna... Ma, scusi, il Corsi dov'è? Vorrei vederlo... Se lei m'indicasse...
- Ecco, vada di là... Dopo quella stanza, l'uscio a destra.
- Grazie, signora. Scusi un'altra domanda: Quanti figliuoli?
- Due. Due angioletti! Un maschietto di otto anni, una bambina di cinque...
- Grazie di nuovo; scusi...
Il giovinotto s'avviò, seguendo l'indicazione, alla camera del ferito. Passando per la saletta d'ingresso, sorprese il bel ragazzo del Corsi che, con gli occhi sfavillanti, un sorriso nervoso su le labbra e le mani dietro la schiena, domandava a una delle guardie:
- E dimmi una cosa: come gli ha sparato, col fucile?
III.
Tommaso Corsi, col torso nudo, poderoso, sorretto da guanciali, teneva i grandi occhi neri e lucidissimi intenti sul dottor Vocalòpulo, il quale, scamiciato, con le maniche rimboccate su le magre braccia pelose, premeva e studiava da presso la ferita. Di tanto in tanto gli occhi del Corsi si levavano anche su l'altro medico, come se, nell'attesa che qualcosa a un tratto dovesse mancargli dentro, volesse coglierne il segno o il momento negli occhi altrui. L'estremo pallore cresceva bellezza al suo maschio volto di solito acceso.
Ora egli fissò sul giornalista, che entrava timido, perplesso, uno sguardo fiero, come se gli domandasse chi fosse e che volesse. Il giovinotto impallidì, appressandosi al letto, pur senza poter chinare gli occhi, quasi ammaliato da quello sguardo.
- Oh, Vivoli! - disse il dottor Vocalòpulo, voltandosi appena.
Il Corsi chiuse gli occhi, traendo per le nari un lungo respiro.
Lello Vivoli aspettò che il Vocalòpulo gli volgesse di nuovo lo sguardo; ma poi, impaziente:
- Ss, - lo chiamò piano e, accennando il giacente, domandò come stesse, con un gesto della mano.
Il dottore alzò le spalle e chiuse gli occhi, poi con un dito accennò la ferita alla mammella sinistra.
- Allora... - disse il Vivoli, alzando una mano in atto di benedire.
Una goccia di sangue si partì dalla ferita e rigò lungamente il petto. Il dottore la deterse con un bioccolo di bambagia, dicendo quasi tra sé:
- Dove diavolo si sarà cacciata la palla?
- Non si sa? - domandò timidamente il Vivoli, senza staccar gli occhi dalla ferita, non ostante il ribrezzo che ne provava. - E di', sai di che calibro era?
- Nove... calibro nove, - interloquì con evidente soddisfazione il giovine dottor Sià. - Dalla ferita si può arguire...
- Suppongo, - rispose il Vocalòpulo accigliato, assorto, - che si sia cacciata qua sotto la scapola... Eh sì, purtroppo... il polmone...
E torse la bocca.
Indovinare, determinare il corso capriccioso della palla: per il momento, non si trattava d'altro per lui. Gli stava davanti un paziente qualunque, sul quale egli doveva esercitare la sua bravura, valendosi di tutti gli espedienti della sua scienza: oltre a questo suo compito materiale e limitato non vedeva nulla, non pensava a nulla. Solo, la presenza del Vivoli gli fece considerare che, essendo il Corsi conosciutissimo nella città e avendo quella tragedia sconvolto tutta la cittadinanza, poteva giovargli che il pubblico sapesse che il dottor Vocalòpulo era il medico curante.
- Oh, Vivoli, dirai che è affidato alle mie cure.
Il dottor Cosimo Sià dall'altra sponda del letto tossì leggermente.
- E puoi aggiungere, - riprese il Vocalòpulo, - che sono assistito dal dottor Cosimo Sià: te lo presento.
Il Vivoli chinò appena il capo, con un lieve sorriso. Il Sià, che s'era precipitato con la mano tesa per stringer quella del Vivoli, all'inchino sostenuto di questo, restò goffo, arrossì, trinciò in aria con la mano già tesa un saluto, come per dire: «Ecco, fa lo stesso: Saluto così!».
Il moribondo schiuse gli occhi e aggrottò le ciglia. I due medici e il Vivoli lo guardarono quasi con paura,
- Adesso lo fasceremo, - disse con voce premurosa, chinandosi su lui, il Vocalòpulo.
Tommaso Corsi scosse la testa sul guanciale, poi riabbassò lentamente le palpebre su gli occhi foschi, come se non avesse compreso: così almeno parve al dottor Vocalòpulo, il quale, storcendo un'altra volta la bocca, mormorò:
- La febbre...
- Io scappo, - disse piano il Vivoli, salutando con la mano il Vocalòpulo e di nuovo inchinando appena il capo al Sià, che rispose, questa volta, con un inchino frettoloso.
- Sià, venga da questa parte. Bisogna sollevarlo. Ci vorrebbero due dei nostri infermieri... - esclamò il Vocalòpulo. - Basta, ci proveremo. Ma tengo a fare una sola fasciatura, ben solida, e lì.
- Lo laviamo, ora? - domandò il Sià.
- Sì! L'alcool dov'è? e il catino, prego. Così, aspetti... Intanto, lei prepari le fasce. Preparate? Poi la vescica di ghiaccio.
Tommaso Corsi, allorché il dottor Vocalòpulo si fece a fasciarlo, aprì gli occhi, s'infoscò in volto, tentò con una mano di scostar dal petto quelle del dottore, dicendo con voce cavernosa:
- No... no...
- Come no? - domandò, sorpreso, il dottor Vocalòpulo.
Ma un empito di sangue impedì al Corsi di rispondere, e le parole gli gorgogliarono nella strozza soffocate dalla tosse. Poi giacque, prostrato, privo di sensi.
E allora fu ripulito e fasciato a dovere dai due medici curanti.
IV.
- No, mamma, no... E come potrei? - rispose Adriana, appena rinvenuta, all'ingiunzione della madre d'abbandonar la casa del marito insieme coi figliuoli.
Si sentiva quasi inchiodata lì, su la seggiola, stordita e tremante, come se un fulmine le fosse caduto da presso. E invano la madre le smaniava innanzi e la spingeva:
- Via, via, Adriana! Non mi senti?
Si era lasciata mettere uno scialletto addosso e il cappello, e guardava innanzi a sé, come una mendicante. Non riusciva ancora a farsi un'idea dell'accaduto. Che le diceva la madre? d'abbandonar quella casa? e come mai, in quel momento? O prima o poi avrebbe dovuto abbandonarla pur sempre? Perché? Il marito non le apparteneva più? Si era spenta in lei l'ansia di vederlo. Che volevano intanto quelle due guardie che la madre le accennava lì nella saletta d'ingresso?
- Meglio che muoja! Se vive, in galera!
- Mamma! - supplicò, guardandola. Ma riabbassò subito gli occhi per trattenere le lagrime. Sul volto della madre rilesse la condanna del marito: «Ha ucciso il Nori; ti tradiva con la moglie del Nori». Non sapeva però, né poteva ancor quasi pensarlo, né immaginario: si vedeva ancora la barella sotto gli occhi e non poteva immaginare altri che lui - Tommaso - ferito, forse moribondo, lì... E Tommaso dunque aveva ucciso il Nori? aveva una tresca con Angelica Nori, e tutt'e due erano stati scoperti dal marito? Pensò che Tommaso portava sempre con sé la rivoltella. Per il Nori? No: l'aveva sempre portata, e il Nori e la moglie erano in città da un anno soltanto.
Nello scompiglio della coscienza, una moltitudine d'immagini si ridestavano in lei tumultuosamente: l'una chiamava l'altra e insieme si raggruppavano in balenanti scene precise e subito si disgregavano per ricomporsi in altre scene con vertiginosa rapidità. Quei due eran venuti da un paese di Calabria accompagnati da una lettera di presentazione a Tommaso, il quale li aveva accolti con la festosa espansione della sua indole sempre gioconda, con aria confidenziale, col sorriso schietto di quel suo maschio volto, in cui gli occhi lampeggiavano, esprimendo la vitalità piena, l'energia operosa, costante, che lo rendevano caro a tutti.
Da quest'indole vivacissima, da questa natura esuberante, in continuo bisogno d'espandersi quasi con violenza, ella era stata investita fin dai primi giorni del matrimonio: s'era sentita trascinare dalla fretta ch'egli aveva di vivere: anzi furia, più che fretta: vivere senza tregua, senza tanti scrupoli, senza tanto riflettere; vivere e lasciar vivere, passando sopra a ogni impedimento, a ogni ostacolo. Più volte ella si era arrestata un po' in questa corsa, per giudicare fra sé qualche azione di lui non stimata perfettamente corretta. Ma egli non dava tempo al giudizio, come non dava peso ai suoi atti. Ed ella sapeva ch'era inutile richiamarlo indietro a considerare il mal fatto: scrollava le spalle, sorrideva, e avanti! aveva bisogno d'andare avanti a ogni modo, per ogni via, senza indugiarsi a riflettere tra il bene e il male; e rimaneva sempre alacre e schietto, purificato dall'attività incessante, e sempre lieto e largo di favori a tutti, con tutti alla mano: a trent'otto anni, un fanciullone, capacissimo di mettersi a giocar sul serio coi due figliuoli, e ancora, dopo dieci anni di matrimonio, così innamorato di lei, che ella tante volte, anche di recente, aveva dovuto arrossire per qualche atto imprudente di lui innanzi ai bambini o alla serva.
E ora, così d'un colpo, quest'arresto fulmineo, questo scoppio! Ma come? come? La cruda prova del fatto non riusciva ancora a dissociare in lei i sentimenti, più che di solida stima, d'amore fortissimo e devoto per il marito, da cui si sentiva in cuor suo ricambiata.
Forse qualche lieve inganno, sì, sotto quella tumultuosa vitalità; ma la menzogna, no, la menzogna non poteva annidarsi sotto l'allegria costante di lui. Che egli avesse una tresca con Angelica Nori, non significava, no, aver tradito lei, la moglie; e questo la madre non poteva comprenderlo, perché non sapeva, non sapeva tante cose... Egli non poteva aver mentito con quelle labbra, con quegli occhi, con quel riso che allegrava tutti i giorni la casa. - Angelica Nori? Oh ella sapeva bene che cosa fosse costei, anche per il marito: neppure un capriccio: nulla, nulla! la prova soltanto d'una debolezza, nella quale nessun uomo forse sa o può guardarsi dal cadere... Ma in quale abisso era egli adesso caduto? e la sua casa e lei coi figliuoli giù, giù con lui?
- Figli miei! figli miei! - proruppe alla fine, singhiozzando, con le mani sul volto, quasi per non veder l'abisso che le si spalancava orribile davanti. - Portali via con te, - aggiunse, rivolgendosi alla madre. - Loro sì, portali via, ché non vedano... Io no, mamma: io resto. Te ne prego...
Si alzò e, cercando alla meglio di trattener le lagrime, andò, seguita dalla madre, in cerca dei bambini che giocavano tra loro in un camerino, ove la serva li aveva chiusi. Si mise a vestirli, soffocando i singhiozzi che le irrompevano dal petto a ogni loro lieta domanda infantile.
- Con la nonna, sì... a spasso con la nonna... E il cavalluccio, sì... la sciabola pure... Te li compra la nonna...
Questa contemplava, straziata, la sua cara figliuola, la creatura sua adorata, tanto buona, tanto bella, per cui tutto ormai era finito; e, nell'odio feroce contro colui che gliela faceva soffrir così, avrebbe voluto strapparle dalle mani quel bambino che somigliava tutto al padre, fin nella voce e nei gesti.
- Non vuoi proprio venire? - domandò alla figlia, quando i bambini furono pronti. - Io, bada, qua non metto più piede. Resti sola... La casa di tua madre è aperta. Ci verrai, se non oggi, domani. Ma già, anche se non morisse...
- Mamma! - supplicò Adriana, additandole i bambini.
La vecchia signora tacque e andò via coi nipotini, vedendo uscire dalla camera del ferito il dottor Vocalòpulo.
Questi si appressò ad Adriana per raccomandarle di non farsi vedere per il momento dal marito.
- Un'emozione improvvisa, anche lieve, potrebbe riuscirgli fatale. Non si faccia nulla, per carità, che possa contrariarlo o impressionarlo in qualche modo. Questa notte resterà a vegliarlo il mio collega. Se ci fosse bisogno di me...
Non terminò il discorso, notando che ella non gli dava ascolto né gli domandava notizie intorno alla gravità della ferita, e che aveva in capo il cappellino, come se stesse per abbandonare la casa. Socchiuse gli occhi, scosse un po' il capo, sospirando, e andò via.
V.
Nella notte, Tommaso Corsi si riscosse incosciente dal letargo. Stordito dalla febbre, teneva gli occhi aperti nella penombra della camera. Un lampadino ardeva sul cassettone, riparato da uno specchio a tre luci: il lume si projettava su la parete vivamente, precisando il disegno e i colori della carta da parato.
Aveva solo la sensazione che il letto fosse più alto, e che soltanto per ciò notasse in quella camera qualcosa che prima non vi aveva mai notato. Vedeva meglio l'insieme dell'arredo, il quale, nella quiete altissima, gli pareva spirasse, dall'immobilità sua quasi rassegnata; un conforto familiare, a cui le ricche tende, che dall'alto scendevano fin sul tappeto, davano un'aria insolita di solennità. «Noi siamo qui, come tu ci hai voluti, per i tuoi comodi» pareva gli dicessero, nella coscienza che man mano si risentiva, i varii oggetti della camera: «siamo la tua casa: tutto è come prima».
A un tratto richiuse gli occhi, quasi abbagliato bruscamente nella penombra da un lampo di luce cruda: la luce che s'era fatta in quell'altra camera, quando colei, urlando, aveva aperto la finestra, d'onde s'era buttata.
Riebbe allora, d'un subito, la memoria orrenda: rivide tutto, come se accadesse proprio allora.
Egli, trattenuto dall'istintivo pudore, non riusciva a balzar dal letto, svestito com'era, e il Noti, ecco, gli esplodeva contro il primo colpo che infrangeva il vetro di un'immagine sacra al capezzale; egli tendeva la mano alla rivoltella sul comodino, ed ecco il sibilo della seconda palla innanzi al volto... Ma non ricordava d'aver tirato sul Noti: solo quando questi era caduto a sedere sul pavimento, e poi s'era ripiegato bocconi, egli s'era accorto d'aver l'arma ancor calda e fumante in pugno. Era allora saltato dal letto e, in un attimo, entro di sé, la tremenda lotta di tutte le energie vitali contro l'idea della morte; prima, l'orrore di essa; poi la necessità e il sorgere d'un sentimento atroce, oscuro, a vincere ogni ripugnanza e ogni altro sentimento. Aveva guardato il cadavere, la finestra donde quella era saltata; aveva udito i clamori della via sottostante, e s'era sentito aprire come un abisso nella coscienza: allora la determinazione violenta gli s'era imposta lucidamente, come un atto a lungo meditato e discusso. Sì. Così era stato.
«No», diceva a se stesso, un istante dopo, riaprendo gli occhi brillanti di febbre. «No; se questa è la mia casa, se io sto qui sul mio letto...»
Gli pareva di udir voci liete e confuse di là, nelle altre stanze.
Aveva fatto mettere quelle tende nuove e i tappeti alle stanze per il battesimo dell'ultimo bambino, morto di venti giorni. Ecco, gli invitati tornavano or ora dalla chiesa. Angelica Noti, a cui egli offriva il braccio, glielo stringeva a un tratto furtivamente con la mano; egli si voltava a guardarla, stupito, ed ella accoglieva quello sguardo con un sorriso impudente, da scema, e chiudeva voluttuosamente le palpebre su i grandi occhi neri, globulenti, in presenza di tutti.
«Quel bambino è morto», pensava ora egli, «perché l'ha tenuto a battesimo colui, ch'era fra l'altro un jettatore.»
Immagini imprevedute, visioni strane, confuse, sensazioni fantastiche, improvvise, pensieri lucidi e precisi, si avvicendavano in lui, nel delirio intermittente.
Sì, sì, lo aveva ucciso. Ma due volte quel forsennato s'era messo per uccider lui, ed egli nel volgersi per prendere l'arma dal comodino gli aveva gridato sorridendo: - Che fai? - tanto gli pareva impossibile che colui, prima ch'egli si vedesse costretto a minacciarlo e a reagire, non comprendesse ch'era un'infamia, una pazzia ucciderlo a quel modo, in quel momento, uccider lui che si trovava lì per caso, che aveva tant'altra vita fuori di lì: i suoi affari, gli affetti suoi vivi e veri, la sua famiglia, i figli da difendere. Eh via, disgraziato!
Come mai tutt'a un tratto, quell'omiciattolo sbricio, brutto, scialbo, dall'anima apatica, attediata, che si trascinava nella vita senza alcuna voglia, senz'alcun affetto, e che da tant'anni si sapeva spudoratamente ingannato dalla moglie e non se ne curava, a cui pareva costasse pena e fatica guardare o trar fuori quella sua voce molle miagolante; come mai, tutt'a un tratto, s'era sentito muovere il sangue e per lui soltanto? Non sapeva che donna fosse sua moglie? e non sentiva ch'era una cosa ridicola e pazza e infame nello stesso tempo difender a quel modo ancora l'onor suo affidato a colei, che ne aveva fatto strazio tant'anni, senza che egli avesse mai mostrato d'accorgersene? Ma aveva pure assistito - sì, sì - a tante scene familiari, in cui ella, proprio sotto gli occhi di lui, sotto gli occhi stessi d'Adriana, aveva cercato di sedurlo con quei suoi lezii da scimmietta patita. Adriana sì se n'era accorta, e lui no? Ne avevano riso tanto insieme, lui e Adriana. Per una donna come quella lì, dunque, sul serio, una tragedia? Lo scandalo, la morte di lui, la sua morte? Oh, per quel disgraziato, forse, era stata un bene la morte; un regalo! Ma egli... doveva egli morire per così poco? Sul momento, col cadavere sotto gli occhi, assalito dai clamori della via, aveva creduto di non poter farne a meno. Ebbene, e intanto come mai non era tutto finito? Egli viveva ancora, lì, nella sua stessa camera tranquilla, coricato sul suo letto, come se nulla fosse accaduto. Ah, se veramente fosse un sogno orribile!... No: e quel dolore cocente al petto, che gli toglieva il respiro? E poi il letto...
Stese pian piano un braccio nel posto accanto; vuoto... ecco! Adriana... Sentì di nuovo l'abisso aprirglisi dentro. Dov'era ella? e i figliuoli? Lo avevano abbandonato? Solo, dunque, nella casa? e come mai?
Riaprì gli occhi per accertarsi, se quella fosse veramente la sua camera da letto. Sì: tutto come prima. Allora un dubbio crudele, in quell'alternativa di delirio e di lucidità mentale, lo vinse: non sapeva più se, aprendo gli occhi, vedesse per allucinazione la sua camera che spirava la pace consueta, o se sognasse chiudendo gli occhi e rivedendo, con lucidezza di percezione ch'era quasi realtà, l'orribile tragedia della mattina. Emise un gemito, e subito davanti a gli occhi si vide un volto sconosciuto; sentì posarsi una mano su la fronte, la cui pressione lo confortava, e richiuse gli occhi sospirando, sentendo di dover rassegnarsi a non comprendere più nulla, a non saper che cosa fosse veramente accaduto. Era fors'anche sogno quel volto or ora intraveduto, la mano che gli premeva la fronte... E ricadde nel letargo.
Il dottor Sià si accostò in punta di piedi a un angolo della camera quasi al bujo, dove Adriana vegliava nascosta.
- Forse è meglio, - le disse sottovoce, - che si mandi per il dottor Vocalòpulo. La febbre cresce e l'aspetto non mi...
S'interruppe; le domandò:
- Vuol vederlo?
Adriana fece segno di no col capo, angosciata. Poi, sentendo di non poter trattenere un empito improvviso di pianto, balzò in piedi e scappò via dalla camera.
Il dottor Sià richiuse, cauto, l'uscio per impedire che giungesse all'orecchio del morente il pianto convulso della moglie; poi tolse dal petto di lui la vescica, ne vuotò l'acqua e, riempitala novamente di pezzetti di ghiaccio, la ripose su la fasciatura al posto della ferita.
- Ecco fatto.
Osservò quindi di nuovo, a lungo, il volto del giacente, ne ascoltò la respirazione affannosa; poi, non avendo altro da fare, e come se per lui bastasse l'aver provveduto al ghiaccio e l'aver fatto quelle osservazioni, ritornò al proprio posto, alla poltrona, dall'altra parte del letto.
Lì, con gli occhi chiusi, godeva di lasciarsi prendere a mano a mano dal sonno, spegnendo gradatamente in sé la volontà di resistervi, fino al punto estremo in cui il capo gli dava un crollo: schiudeva allora gli occhi e tornava da capo ad abbandonarsi a quella voluttà proibita, che quasi lo inebriava.
VI.
Le complicazioni temute dal dottor Vocalòpulo si verificarono pur troppo: prima e più grave fra tutte, l'infiammazione polmonare, che cagionava quell'altissima febbre.
Senza alcuna preoccupazione estranea alla scienza, di cui era fervidamente appassionato, il dottor Vocalòpulo raddoppiò lo zelo, come se si fosse fatta una fissazione di salvare a ogni costo quel moribondo.
Negli infermi sotto la sua cura egli non vedeva uomini ma casi da studiare: un bel caso, un caso strano, un caso mediocre o comune; quasi che le infermità umane dovessero servire per gli esperimenti della scienza, e non la scienza per le infermità. Un caso grave e complicato lo interessava sempre a quel modo; ed egli allora non sapeva staccare più il pensiero dal malato: metteva in pratica le più recenti esperienze delle primarie cliniche del mondo, di cui consultava scrupolosamente i bollettini, le rassegne e le minute esposizioni dei tentativi, degli espedienti dei più grandi luminari della scienza medica, e spesso adottava le cure più arrischiate con fermo coraggio, con fiducia incrollabile. Si era costituita così una grande reputazione. Ogni anno faceva un viaggio e ritornava entusiasta degli esperimenti a cui aveva assistito, soddisfatto di qualche nuova cognizione appresa, provvisto di nuovi e più perfezionati strumenti chirurgici, che disponeva - dopo averne studiato minutamente il congegno e averli ripuliti con la massima cura - entro l'armamentario di cristallo, che aveva la forma di un'urna, lì, in mezzo al camerone da studio, e, chiusi, li contemplava ancora, stropicciandosi le mani solide, sempre fredde, o stirandosi con due dita il naso armato di quel pajo di lenti fortissime, che accrescevano la rigidezza austera del suo volto pallido, lungo, equino.
Attorno al letto del Corsi condusse alcuni suoi colleghi, a studiare, a discutere; spiegò tutti i suoi tentativi, l'uno più nuovo e più ingegnoso dell'altro, finora però riusciti vani. Il ferito, sotto quell'altissima febbre, restava in uno stato quasi letargico, interrotto tuttavia da certe crisi di smania delirante, nelle quali, più d'una volta, eludendo la vigilanza, aveva finanche tentato di disfare la fasciatura.
Di questo «fenomeno» il Vocalòpulo non si era curato più di tanto; gli era bastato di raccomandare al dottor Sià maggiore attenzione. Aveva potuto, per mezzo della radiografia, estrarre il projettile di sotto l'ascella, aveva rischiosamente applicato i lenzuoli freddi per abbassare la temperatura. E finalmente c'era riuscito! La febbre era abbassata, l'infiammazione polmonare era vinta, il pericolo quasi superato. Nessun compenso materiale avrebbe potuto uguagliare la soddisfazione morale del dottor Vocalòpulo. Era raggiante; e il dottor Sià con lui, per riflesso.
- Collega, collega, qua la mano! Questo si chiama vincere.
Il Sià gli rispondeva con una sola parola:
- Miracoloso!
Ora la primavera imminente avrebbe senza dubbio affrettato la convalescenza.
Già l'infermo cominciava a risentirsi un po', a uscir dallo stato d'incoscienza in cui s'era mantenuto per tanti giorni. Ma non sapeva ancora, non sospettava neppure, come si fosse ridotto.
Una mattina, si provò a sollevare le mani dal letto, per guardarsele e, nel veder le dita esangui tremolare, sorrise. Si sentiva ancora come nel vuoto, in un vuoto però tranquillo, soave, di sogno. Solo qualche minuzia, lì, nella camera, gli s'avvistava di tratto in tratto: un fregio dipinto nel soffitto, la peluria verde della coperta di lana sul letto, che gli richiamava alla memoria i fili d'erba d'un prato o d'una ajuola; e vi concentrava tutta l'attenzione, beato; poi, prima di stancarsene, richiudeva gli occhi e provava un dolce smarrimento d'ebbrezza, vaneggiava in una delizia ineffabile.
Tutto, tutto era finito; la vita ricominciava adesso... Ma non era forse rimasta sospesa anche per gli altri? No, no: ecco: un rumor di vettura... Fuori, per le vie, la vita in tutto quel tempo aveva seguito il suo corso...
Provò come una vellicazione irritante al ventre, a questo pensiero che oscuramente lo contrariava; e si rimise a guardar la calugine verde della coperta, dove gli pareva di veder la campagna: qua la vita, sì, ricominciava veramente, con tutti quei fili d'erba... E anche così per lui ricominciava... Nuovo, tutto nuovo, egli si sarebbe riaffacciato alla vita... Un po' d'aria fresca! Ah, se il medico avesse voluto aprirgli un tantino la finestra...
- Dottore, - chiamò; e la sua stessa voce gli fece una strana impressione.
Ma nessuno rispose. Si provò a guardar nella camera. Nessuno... Come mai? Dov'era? - Adriana! Adriana! - Un'angosciosa tenerezza per la moglie lo vinse; e si mise a piangere come un bambino, nel desiderio cocente di buttarle le braccia al collo e stringersela forte, forte al petto... Chiamò di nuovo, nel dolce pianto:
- Adriana! Adriana!... Dottore!
Nessuno sentiva? Sgomento, allora, soffocato, stese un braccio al campanello sul comodino; ma avvertì subito un'acuta trafittura interna, che lo tenne un tratto quasi senza respiro, col volto pallido, contratto dallo spasimo; poi sonò, sonò furiosamente. Accorse, con la sua aria spiritata, il dottor Sià:
- Eccomi! Che abbiamo, signor Tommaso?
- Solo! Mi hanno lasciato solo...
- Ebbene? E perché codesta agitazione? Eccomi qua.
- No. Adriana! Mi chiami Adriana... Dov'è? Voglio vederla.
Comandava ora, eh? Il dottor Sià fece un viso lungo lungo e piegò il capo da un lato:
- Così, no! Se non si calma, no.
- Voglio veder mia moglie! - replicò egli stizzito, imperioso. - Può proibirmelo lei?
Il Sià sorrise, perplesso:
- Ecco... vorrei che... No no, si stia zitto: vado a chiamargliela.
Non ce ne fu bisogno. Adriana era dietro l'uscio: si asciugò in fretta le lagrime, accorse, si buttò singhiozzando tra le braccia del marito, come in un abisso d'amore e di disperazione. Egli non provò dapprima che la gioja di tenersi così stretta quella sua adorata, il cui calore, l'odor dei capelli, lo inebriavano. Quanto, quanto, quanto la amava... Ma, a un tratto, la sentì singhiozzare. Si provò a sollevarle con tutt'e due le mani il capo che si affondava su lui; non ne ebbe la forza, e si volse, stordito, al dottor Sià. Questi accorse e costrinse la signora a strapparsi dal letto; la condusse, sorreggendola in quella crisi violenta di pianto, fuori della camera; poi ritornò presso il convalescente.
- Perché? - domandò il Corsi, sconvolto.
Un pensiero gli attraversò la mente, in un baleno. Senza badare alla risposta del medico, il Corsi richiuse gli occhi, trafitto. «Non mi perdona» pensò.
VII.
Alle notizie di miglioramento, di prossima guarigione era cresciuta la sorveglianza alla casa del ferito. Il dottor Vocalòpulo, temendo che l'autorità giudiziaria desse intempestivamente l'ordine che fosse tradotto in carcere, pensò di recarsi da un avvocato amico suo e del Corsi, e a cui il Corsi certamente avrebbe affidato la sua difesa, per pregarlo di andare insieme dal questore a impegnar la loro parola, che l'infermo non avrebbe in alcun modo tentato di sottrarsi alla giustizia.
L'avvocato Camillo Cimetta accettò l'invito. Era un uomo sui sessant'anni, smilzo, altissimo di statura, tutto gambe. Gli spiccavano stranamente nel volto squallido, giallognolo, malaticcio, gli occhietti neri, acuti, d'una vivacità straordinaria. Dotto più di filosofia che di legge, scettico, oppresso dalla noja della vita, stanco delle amarezze che essa gli aveva procacciate, non aveva mai posto alcun impegno a guadagnarsi la grandissima fama di cui godeva e che gli aveva procurato una ricchezza di cui non sapeva più che farsi. La moglie, donna bellissima, insensibile, dispotica, che lo aveva torturato per tanti anni, gli s'era uccisa per neurastenia; l'unica figliuola gli era fuggita di casa con un misero scritturale del suo studio ed era morta soprapparto, dopo aver sofferto un anno di maltrattamenti dal marito indegno. Era rimasto solo, senza più scopo nella vita, e aveva rifiutato ogni carica onorifica, la soddisfazione di far valere le sue doti non comuni in una grande città. E mentre i suoi colleghi si presentavano al banco dell'accusa o della difesa armati di cavilli, abbottati di procedura, o si empivano la bocca di paroloni altisonanti, egli, che non poteva soffrire la toga che l'usciere gli poneva su le spalle, si alzava con le mani in tasca e si metteva a parlare ai giurati, ai giudici, con la massima naturalezza, alla buona, cercando di presentare con la maggiore evidenza possibile qualche pensiero che potesse logicamente far loro impressione; distruggeva con irresistibile arguzia le magnifiche architetture oratorie de' suoi avversarii, e riusciva così talvolta ad abbattere i confini formalistici del tristo ambiente giudiziario, perché un'aura di vita vi spirasse, vi passasse un soffio doloroso di umanità, di pietà fraterna, oltre e sopra la legge, per l'uomo nato a soffrire, a errare.
Ottenuta dal questore la promessa che la traduzione in carcere non sarebbe avvenuta se non dopo il consenso del medico, egli e il dottor Vocalòpulo si recarono insieme alla casa del Corsi.
In pochi giorni Adriana si era cangiata così, che non pareva più lei.
- Eccole, signora, il nostro caro avvocato, - le disse il Vocalòpulo. - Sarà meglio preparare a poco a poco il convalescente alla dura necessità...
- E come, dottore? - esclamò Adriana. - Pare che egli non ne abbia ancora il più lontano sospetto. È come un fanciullo... si commuove per ogni nonnulla... Giusto questa mattina mi diceva che, appena in grado di muoversi, vuole andare in campagna, in villeggiatura per un mese...
Il Vocalòpulo sospirò, stirandosi al solito il naso. Stette un po' a pensare, poi disse:
- Aspettiamo qualche altro giorno. Intanto facciamogli vedere l'avvocato. Non è possibile che il pensiero della punizione non gli si affacci.
- E lei crede, avvocato, - domandò Adriana, - crede che sarà grave?
Il Cimetta chiuse gli occhi, aprì le braccia. Gli occhi di Adriana si riempirono di lagrime.
Giunse, in quella, dall'altra stanza la voce dell'infermo. Subito Adriana accorse.
- Mi permettano!
Tommaso le tendeva le braccia dal letto. Ma appena le vide gli occhi rossi di pianto, le prese un braccio e, nascondendovi il volto, le disse:
- Ancora, dunque? non mi perdoni ancora?
Adriana strinse le labbra tremanti, mentre nuove lagrime le sgorgavano dagli occhi; e non trovò in prima la voce per rispondergli.
- No? - insistette egli, senza scoprire il volto.
- Io sì, - rispose Adriana, angosciata, timidamente.
- E allora? - ripigliò il Corsi, guardandola negli occhi lagrimosi.
Le prese il volto tra le mani, e aggiunse:
- Lo comprendi, lo senti, è vero? che tu mai, mai, nel mio cuore, nel mio pensiero, non sei venuta mai meno, tu santa mia, amore, amore mio...
Adriana gli carezzò lievemente i capelli.
- È stata un'infamia! - riprese egli. - Sì, è bene, è bene che te lo dica, per togliere ogni nube fra noi. Un'infamia sorprendermi in quel momento vergognoso, di stupido ozio... Tu lo comprendi, se mi hai perdonato! Stupido fallo, che quel disgraziato ha voluto rendere enorme, tentando d'uccidermi, capisci? due volte... Uccider me, proprio me, che dovevo per forza difendermi... perché... tu lo comprendi! non potevo lasciarmi uccidere per quella lì, è vero?
- Sì, sì, - diceva Adriana, piangendo, per calmarlo, più col cenno che con lavoce.
- È vero? - seguitò egli con forza. - Non potevo... per voi! Glielo dissi; ma egli era come impazzito, tutt'a un tratto; m'era venuto sopra, con l'arma in pugno... E allora io, per forza...
- Sì, sì, - ripeté Adriana, ringojando le lagrime. - Calmati, sì... Queste cose...
S'interruppe, vedendo il marito abbandonarsi sfinito sui guanciali, e chiamò forte:
- Dottore! Queste cose, - seguitò alzandosi e chinandosi sul letto, premurosa, - tu le dirai... le dirai ai giudici, e vedrai che...
Tommaso Corsi si rizzò improvvisamente su un gomito e guardò fiso il dottore e il Cimetta che gli si facevano incontro.
- Ma io, - disse, - eh già... il processo...
Allividì. Ricadde sul letto, annichilito.
- Formalità... - si lasciò cadere dalle labbra il Vocalòpulo, accostandosi di più al letto.
- E quale altra punizione, - fece il Corsi, quasi tra sé, guardando il soffitto con gli occhi sbarrati, - quale altra punizione maggiore di quella che mi son data io, con le mie mani?
Il Cimetta trasse una mano dalla tasca e agitò l'indice in segno negativo.
- Non conta? - domandò il Corsi. - E allora?... - si provò a replicare; ma si riprese: - Eh già! Sì, sì... Ci credi? Mi pareva che tutto fosse finito... Adriana! - chiamò, e le buttò di nuovo le braccia al collo. - Adriana! Sono perduto!
Il Cimetta, commosso, tentennò a lungo il capo, poi sbuffò:
- E perché? per una minchioneria di passata. Sarà difficile, difficilissimo, caro dottore, farne capace quella rispettabile istituzione che si chiama giuria. Non tanto, vedete, per il fatto in sé, quanto perché si tratta d'un sostituto procuratore del re. Se fosse almeno possibile dimostrare che delle corna precedenti il poveretto s'era già accorto! Ma i mezzi? Un morto non si può chiamare a giurare su la sua parola d'onore... L'onore dei morti se lo mangiano i vermi. Che valore può avere l'induzione contro la prova di fatto? Del resto, siamo giusti: su la propria testa ciascuno è padrone di accoglier quelle corna che gli garbano. Le tue, caro Tommaso, è chiaro, non le volle. Tu dici: «Ma potevo lasciarmi uccidere da lui?». No. Ma se volevi rispettato questo diritto di non aver tolta la vita, non dovevi andare a prendergli la moglie, quella bertuccia vestita! Così facendo, - bada, io vedo adesso le ragioni dell'accusa, - tu stesso hai derogato al tuo diritto, ti sei esposto al rischio, e non dovevi perciò reagire. Capisci? Due falli. Del primo, dell'adulterio, dovevi lasciarti punire da lui, dal marito offeso; e tu invece l'hai ucciso...
- Per forza! - gridò il Corsi, levando il volto rabbiosamente contratto. - Istintivamente! Per non farmi uccidere!
- Ma subito dopo, invece, - rimbeccò il Cimetta - hai tentato di ucciderti con le tue mani.
- E non deve bastare?
Il Cimetta sorrise.
- Non può bastare. È anzi a tuo danno, caro mio! Perché, tentando d'ucciderti, hai implicitamente riconosciuto il tuo fallo.
- Sì! E mi sono punito!
- No, caro, - disse con calma il Cimetta. - Hai tentato di sottrarti alla pena.
- Ma togliendomi la vita! - esclamò, infiammato, il Corsi. - Che potevo fare di più?
Il Cimetta si strinse nelle spalle, e disse:
- Avresti dovuto morire. Non essendo morto...
- Ma sarei morto, - riprese il Corsi, allontanando la moglie e additando fieramente il dottor Vocalòpulo, - sarei morto, se lui non avesse fatto di tutto per salvarmi!
- Come... io? - balbettò il Vocalòpulo, tirato in ballo quando meno se l'aspettava.
- Voi! Sì. Per forza! Io non volevo le vostre cure. Per forza avete voluto prodigarmele, ridarmi la vita. E perché, dunque, se ora...
- Con calma, con calma... - disse il Vocalòpulo, sorridendo nervosamente a fior di labbra, costernato. - Vi fate male, agitandovi così...
- Grazie, dottore! Quanta premura... - sghignò il Corsi. - Vi sta tanto a cuore l'avermi salvato? Ma senti, Cimetta, senti! Io voglio ragionare. M'ero ucciso. Viene un dottore, codesto nostro dottore. Mi salva. Con qual diritto mi salva? con qual diritto mi ridà la vita ch'io m'ero tolta, se non poteva farmi rivivere per le mie creaturine, se sapeva ciò che m'aspettava?
Il Vocalòpulo tornò a sorridere nervosamente, intorbidandosi in volto.
- Dopo tutto, - disse, - è un bel modo di ringraziarmi, codesto. Che dovevo fare?
- Ma lasciarmi morire! - proruppe il Corsi, - se non avevate il diritto di sottrarmi alla pena ch'io m'ero data, molto maggiore del mio fallo! Non c'è più pena di morte; e io sarei morto, senza di voi. Ora come faccio io? Di che debbo ringraziarvi?
- Ma noi medici, scusate, - rispose, smarrito, il Vocalòpulo, - noi medici non abbiamo di questi diritti: noi medici abbiamo il dovere della nostra professione. E me n'appello all'avvocato qua presente.
- E in che differisce, allora, - domandò con amaro scherno il Corsi, - codesto vostro dovere da quello d'un aguzzino?
- Oh insomma! - esclamò, scrollandosi tutto, il Vocalòpulo, - vorreste che un medico passasse sopra la legge?
- Ah, bene! Voi dunque la legge avete servito, - riprese il Corsi, con foga rabbiosa. - La legge; non me, poveretto... Mi ero tolta la vita; voi me l'avete ridata a forza. Tre, quattro volte tentai di strapparmi le fasce. Voi avete fatto di tutto per salvarmi, per ridarmi la vita. E perché? Perché la legge, ora, di nuovo me la ritolga, e in un modo più crudele. Ecco: a questo, dottore, vi ha condotto il dovere della vostra professione. E non è un'ingiustizia?
- Ma, scusa, - si provò a interloquire il Cimetta, - del male che hai fatto...
- Mi sono lavato, col mio sangue! - compì subito la frase il Corsi, tutto acceso e vibrante. Io sono un altro, ora! Io sono rinato! Come posso restar sospeso a un solo momento di quell'altra mia vita che non esiste più per me? sospeso, agganciato a quel momento, come se esso rappresentasse tutta la mia esistenza, come se io non fossi mai vissuto per altro? E la mia famiglia? mia moglie? i miei figli, a cui devo dare il pane, la riuscita? Ma come! come! Che volete di più? Non avete voluto che morissi... E allora perché? Per vendetta? Contro uno che s'era ucciso...
- Ma che pure ha ucciso! - ribatté forte il Cimetta.
- Trascinato! - rispose; pronto, il Corsi. - E il rimorso di quel momento io me lo son tolto; in un'ora, io scontai il mio fallo; in un'ora che poteva esser lunga quanto l'eternità. Ora non ho più nulla da scontare, io! Questa è un'altra vita per me, che m'è stata ridata. Debbo rimettermi a vivere per la mia famiglia, debbo rimettermi a lavorare per i miei figliuoli. M'avete ridato la vita per mandarmi in galera? E non è un atroce delitto, questo? E che giustizia può esser quella che punisce a freddo un uomo ormai privo di rimorsi? come starò io in un reclusorio a scontare un delitto che non ho pensato di commettere, che non avrei mai commesso, se non vi fossi stato trascinato; mentre, meditatamente, ora, a freddo, coloro che approfitteranno della vostra scienza, dottore, la quale mi ha tenuto per forza in vita solo per farmi condannare, commetteranno il delitto più atroce, quello di farmi abbrutire in un ozio infame, e di fare abbrutire nei vizii della miseria e nell'ignominia i miei figliuoli innocenti? Con quale diritto?
Si rizzò sul busto, sospinto da una rabbia che il sentimento della propria impotenza rendeva feroce: cacciò un urlo e s'afferrò con le dita artigliate la fascia e se la stracciò; poi si riversò bocconi sul letto, convulso; tentò di scoppiare in singhiozzi, ma non poté. Nella vanità di quello sforzo tremendo, rimase un tratto stordito, come in un vuoto strano, in un attonimento spaventevole. Diventò cadaverico nel volto segnato dallo strappo recente delle dita.
Adriana spaventata, accorse; gli sollevò prima il capo, poi, ajutata dal Cimetta; si provò a rialzarlo, ma ritrasse subito le mani con un grido di ribrezzo e di terrore: la camicia, sul petto, era zuppa di sangue.
- Dottore! Dottore!
- Gli s'è riaperta la ferita! - esclamò il Cimetta.
Il dottor Vocalòpulo sbarrò gli occhi, impallidì, allibito.
- La ferita?
E, istintivamente, s'appressò al letto. Ma il Corsi lo arrestò d'un subito, con gli occhi invetrati.
- Ha ragione, - disse allora il dottore, lasciandosi cader le braccia. - Hanno sentito? Io non posso, non debbo...

La pièce teatrale fu edita col titolo definitivo Il dovere del medico sul mensile Noi e il mondo del gennaio 1912 e fu rappresentata il 20 giugno dell’anno successivo alla Sala Umberto di Roma dalla Compagnia del Teatro per Tutti. Il dramma entrò senza variazioni nella raccolta definitiva Maschere Nude.
La novella si presenta suddivisa in sette segmenti e solamente l’ultimo corrisponde in parte all’atto unico: nell’atto, per i primi sei, il drammaturgo utilizza dei flash-back che riescono a far comprendere l’antefatto senza appesantire la narrazione. La somiglianza tra il settimo paragrafo della novella e l’atto è convalidata non soltanto dal punto di vista contenutistico ma anche da quello formale. Le ultime cinque pagine della novella sono interamente dialogate, anche se il dialogo non segue alla lettera quello dell’atto, ma le battute sono quasi simili fatta eccezione per qualche spostamento nell’ordine.
La novella si svolge in più tempi mentre l’atto inizia dopo che l’omicidio-suicidio è avvenuto e la moglie del Corsi risulta già essere informata dei fatti. Nella novella, la moglie Adriana (nell’atto si chiamerà Anna), risultava essere ignara dell’accaduto e come i lettori apprendeva il fattaccio da sua madre, accorsa per prelevare figlia e nipoti dalla casa dello scandalo.
Nella pièce teatrale, pur restando identico l’antefatto, esso è soltanto espresso dalle battute dei personaggi, con la conseguente riduzione del tempo della messa in scena: pochi momenti – solo gli ultimi di cui parla il VII segmento – al posto dei giorni e delle notti descritti nella novella.
Tutti i personaggi, tranne il protagonista maschile, cambiano nome, mentre cadono addirittura quelli secondari e le semplici comparse. La visione della vita dell’avvocato e del dottore non è più rappresentata in una contrapposizione così netta come nella novella. Infine le idee sulla “colpa” di Angelica e le conseguenti riflessioni espresse da Tommaso solo nella novella, precorrono opere successive, dove compare la figura del ragionatore che usa la logica per convincere personaggi e lettori a guardare la realtà in modo non convenzionale.
Nell’atto, come si può ben comprendere, sono state tagliate quelle parti che sarebbero risultate difficoltose per una messa in scena  a causa dei frequenti cambi d’ambientazione e soprattutto perché presupponevano una scansione cronologica troppo lunga, impensabile per un atto unico che presenta l’unità spaziale e temporale.
La collocazione geografica, una città dell’Italia meridionale è poi esplicitamente rivelata, in una sala di passaggio della casa di Tommaso, dove il convalescente è trasportato, per evitare gli altrimenti necessari cambi di scena.
Dei primi tre segmenti della novella non si ha nessuna traccia nella trasposizione teatrale, mentre degli  altri tre permangono solo alcuni brani esplicativi dell’antefatto. Mentre l’attenzione che il testo narrativo presta alle varie implicazioni morali dell’accaduto l’atto unico si sofferma maggiormente su quello che è il principale dovere del medico, che non a caso dà il titolo alle due stesure.
E proprio per quanto riguarda il titolo, esso indica lo spostamento dell’attenzione dell’autore. Più filosofico l’originario Il gancio, infatti, indicava la sospensione esistenziale cui si rimane appunto agganciati per l’eternità a causa di quello che è invece un momento passeggero di debolezza che non implica affatto il comportamento di tutta una vita. Un qualcosa che ricorda un po’ i dannati dell’Inferno dantesco su cui Pirandello tornerà successivamente con le battute del Padre nei Sei Personaggi.
I temi più sviluppati specialmente nella versione teatrale, che condizionano anche il cambiamento del titolo, sono fondamentalmente tre: 1. la società ha il diritto di giudicare un uomo per un solo atto, soprattutto se l’individuo non si riconosce in esso? 2. Si può determinare il carattere di un uomo con una sola azione? 3. Chi decide, l’individuo o la società?

Il dovere del medico
Un atto 1911
PERSONAGGI
Tommaso Corsi
Anna, sua moglie
La signora Reis, madre di Anna
Il dottor Tito Lecci
L'avvocato Franco Cimetta
Rosa, cameriera
Un Questurino
Un Infermiere, che non parla
In una città dell'Italia meridionale, Tempo presente.
Una stanza di passaggio in casa Corsi, con armadii, un lavabo, un'ottomana, una grande antica poltrona, una gruccia con abiti appesi, seggiole, ecc. ecc. ‑ Una finestra guarnita con tende a sinistra dello spettatore). Due usci: uno, in fondo, che dà nella camera da letto; l'altro, a destra: entrambi con tende.
Al levarsi della tela sono in iscena la signora Reis e il Questurino: questi, seduto presso l'uscio a destra, di guardia, in atteggiamento di stanchezza e di noja; quella, in piedi, presso l'ottomana, cupa arcigna impaziente: è vestita di nero, con la cuffia vedovile sui capelli lanosi; gli occhi, sotto le folte ciglia aggrottate, le lampeggiano d'odio e di diffidenza nel volto pallido e aspro, contratto e macerato dall'angoscia e dai dolori. t lì, evidentemente, in attesa; e due o tre volte guata il Questurino di guardia, come se volesse domandargli qualche cosa, ma si trattiene.
Signora Reis (alla fine risolvendosi, con durezza): Farete qua la guardia ancora per molto tempo?
Questurino: No, signora. Forse finiremo oggi.
Signora Reis: Ah, oggi? Finalmente! Ve lo porterete via?
Questurino: Non lo so di certo. Mi pare d'aver sentito dire così.
Entra dall'uscio di fondo Rosa, che subito cautamente lo richiude, e dice alla signora Reis:
Rosa: Ecco, viene subito.
Indica l'uscio da cui è entrata e va via per l'uscio a destra.
Pausa d'attesa, piuttosto lunga. Alla fine, l'uscio in fondo si riapre, e appare Anna, che subito con la stessa cautela lo richiude. Ha circa trent'anni; disfatta nella disperazione d'un cordoglio atroce, spettinata, con gli occhi quasi bruciati dal pianto e dalle veglie. Accorre alla madre, con le braccia aperte; si abbandona su lei, soffocando i singhiozzi irrompenti.
Anna: Mamma, mamma mia! mamma mia!
Si domina, si stacca dalla madre e si volge al Questurino:
Non potrebbe, scusi, ritirarsi un momento? stare anche dietro l'uscio dall'altra parte?
Questurino: Veramente, l'ordine che ho io è di crescere, non di scemare la sorveglianza.
Anna: Ma se non può neanche muoversi da sé sul letto!
Questurino (perplesso): Capisco, ma...
Risolvendosi:
Per un momentino, sissignora.
Anna: Grazie. Prenda pure di là codesta seggiola.
Il Questurino s'inchina e si ritira dietro l'uscio a destra, con la sedia.
Anna (rivolgendosi alla madre e riabbracciandola): Ah, mamma! Ti sono tanto riconoscente che tu sia ritornata! No, non ti rimprovero d'avermi lasciata sola.
Signora Reis: Non volesti seguirmi; volesti rimanere qua, ad assistere a queste belle scene; per ridurti in codesto stato!
Anna: Ma come avrei potuto lasciarlo, mamma; che dici? Ti ringrazio d'aver portato via con te i ragazzi. Come stanno? Didi? Federico?
Signora Reis: Stanno bene.
Anna: Anche Didi?
Signora Reis: Tutti e due. Ma verrai via presto anche tu, a quanto pare. M'hanno detto che se lo porteranno via oggi.
Anna (stupita, costernatissima): Oggi? Chi te l'ha detto?
Signora Reis: La guardia.
Anna: Oggi? Ma non è possibile! T'ha detto così?
Corre all'uscio a destra e chiama il Questurino:
Senta, venga qua.
E subito al Questurino che rientra impacciato:
Ma come, oggi? Ve lo porterete via oggi?
Questurino: Sicuro non lo so, signora. Mi pare d'avere inteso così.
Anna: Ma se è ancora a letto! La ferita non è ancora rimarginata. Il medico non lo permetterà. È ancora sotto la responsabilità del medico. Jersera appunto ha detto che oggi per la prima volta vedrà se potrà farlo alzare per qualche minuto.
Signora Reis: Se già può alzarsi!
Anna: Ma che! Non si regge in piedi! Neanche a sedere sul letto, se non è tenuto.
Ritorna presso l'uscio, a destra, e chiama:
Rosa! Rosa!
Alla madre e al Questurino:
Sarebbe un'infamia!
E subito a Rosa, che si presenta all'uscio a destra:
Manda subito Enrico a casa del dottore a dirgli che venga qua; subito, senza perder tempo.
Rosa: Ho capito. Sissignora.
Via.
Anna: Proprio in questo momento, che comincia a riaversi appena! Dopo aver fatto tanto per salvarlo!
Questurino: Io sto qua agli ordini, signora. Posso per un momento ritirarmi.
Anna: Ma sì, stia sicuro: non può muoversi.
Il Questurino torna a ritirarsi.
Anna (aprendo le braccia e levando il volto, disperatamente): Anche questo! Dopo tanto strazio, quest'altro strazio!
Signora Reis: Non ha voluto morire! Assassino.
Anna: Ah, mamma, tu l'odii: tu non gli perdoni.
Signora Reis (con aspra foga): L'odio, sì, l'odio per tutto quello che t'ha fatto patire, per l'ignominia che ha gettato su te, sui figli, su tutta la mia casa! E ancora non è finita! Poteva almeno morire!
Anna: Sarebbe stato meglio, certo, anche per lui, che fosse morto sul colpo. Ma credi, mamma, che egli volle morire.
Signora Reis: Io vedo questo: che il Neri, sì, lo seppe uccidere; e lui è ancora vivo là.
Anna: Si tirò al cuore.
Signora Reis: Alla testa doveva tirarsi, alla testa!
Anna: E tre, quattro volte s'è strappate le fasce dal petto. Hanno voluto salvarlo i medici, per forza. Quel che hanno fatto, notte e giorno qua, attorno a lui! Ma credi, credi che ha fatto anche lui di tutto per morire.
Signora Reis: Sfido! Sa quello che lo aspetta!
Anna: No, mamma. Per punirsi. Tu non sai vedere altro che il fatto.
Signora Reis: Non è più, forse, un assassino, perché ha voluto morire? Non ha ucciso il Neri? Non ti tradiva con la moglie del Neri?
Anna: Sì, Sì.
Signora Reis: Dici ch'io vedo soltanto i fatti!
Anna: Ma ci sono pure tante cose che tu non puoi sapere e che io so.
Signora Reis: Ecco che parli come lui! Dio, mi par di sentirlo! I fatti che non sono fatti: sacchi vuoti che non si reggono... Così, così t'ha sempre ingannata, accecata...
Anna: Ma no, mamma.
Signora Reis: Sì, sì, accecata, accecata.
Anna: Era una furia di vivere, la sua, senza riflettere.
Signora Reis: Senza scrupoli!
Anna: Sì, come vuoi. Mi sono fermata tante volte per giudicare tra me e me qualche sua azione; ma non dava tempo al giudizio, come non dava peso ai suoi atti. Inutile richiamarlo indietro a considerare il mal fatto. Una scrollata di spalle, un sorriso, e via. Bisognava che andasse avanti, comunque, senza indugiarsi a riflettere tra il bene e il male.
Signora Reis: Ah, lo sai dire!
Anna: Ma in questa sua furia continua, vedi, nessun vizio gli s'era mai attaccato: restava schietto; e sempre lieto; con tutti alla mano. A trent'otto anni, un fanciullo, capace di mettersi a giocare sul serio con Didi e Federico, fino ad arrabbiarsi; e dopo dieci anni, ancora con me... ancora... No, no... Forse qualche torto passeggero, qualche inganno... Ma che mentisse con me, no: la menzogna, no; non poteva mentire con quelle labbra, con quegli occhi, con quel sorriso che rallegrava tutti i giorni la casa. Angelica Neri? Ma vuoi sul serio che mi abbassi fino a credere che Tommaso, tra me e lei... Guarda, non era per lui nemmeno un capriccio; niente, la prova soltanto d'una debolezza nella quale forse nessun uomo sa o può guardarsi dal cadere. E non poteva farsi scrupolo neppure dell'amicizia col marito, che sapeva bene che razza di donna fosse sua moglie e lo strazio che faceva del suo onore, con tutti, apertamente. Ma se qua, ti dico qua, in casa nostra, sotto gli occhi di lui, sotto i miei stessi occhi, cercava di sedurre Tommaso, con quei lezii da scimmia malata: qua, qua. Me ne sono accorta io, e lui no? Ne abbiamo tanto riso insieme, io e Tommaso! Sì, sì: ne ridevamo! ne ridevamo!
Scoppia, irrefrenabilmente, in una convulsione di riso e pianto insieme.
Signora Reis: Figliuola mia, figliuola mia! Tu impazzisci!
Anna: Mi fai impazzire tu! I fatti... i fatti... i fatti sono questi, che lui sapeva, e non solo di Tommaso, ma di tutti; e non se n'era mai curato. All'ultimo ha voluto far questa tragedia, mentre doveva uccidere soltanto la moglie, come una cagna arrabbiata, e non l'avrebbe pagata niente! I fatti... Ma allora possono anche dire che Tommaso portava la rivoltella per il Neri? Mentre l'ha sempre portata per i suoi lavori d'appalto in campagna.
Entrano a questo punto il dottore Tito Lecci e l'avvocato Franco Cimetta: il primo, alto, rigido, conforti lenti da miope; il secondo, più vecchio, con un'arguta barbetta quasi bianca e capelli lunghi ancor neri, volti all'indietro.
Anna: Ah, ecco il dottore! C'è anche lei, avvocato?
Lecci: Questa chiamata improvvisa... Che c'è di nuovo?
Anna (indicando la madre a Cimetta): La mamma.
Poi, volgendosi al Lecci:
Ah, dottore, mi vogliono fare impazzire. Se lo vogliono portar via oggi!
Lecci: Ma no, chi l'ha detto?
Anna: La guardia, là. Glielo domandi. Ha detto così.
Lecci: Oh, l'impediremo, stia tranquilla: l'impediremo. Andrò io, ora stesso, dal Commissario. Verrai anche tu, Cimetta?
Anna: Sì, sì, vada, vada anche lei, avvocato!
Cimetta: Per me, pronto: ora stesso. È qua a due passi.
Lecci: Non se ne dia pensiero. Senza il mio consenso, non possono portarlo via. Eh, non ci mancherebbe altro, in questo momento.
A Cimetta:
Abbiamo operato un miracolo, amico mio, un vero miracolo.
Anna: Lo vedi, mamma, se è vero? Più che su lui, contro di lui.
Lecci (senza dare importanza alla cosa): Già, sa. Qualche resistenza. Forse nel delirio. La resistenza vera, caro mio, l'ho trovata in un cumulo di complicazioni, una più grave dell'altra e inopinate, che costringevano a ripari improvvisi e spesso opposti tra loro, e tutti d'un tale rischio che, credi pure, avrebbero scoraggiato e fatto indietreggiare chiunque altro al mio posto. Se per un momento mi fossi lasciato vincere dalla minima esitazione, da una perplessità, addio! Posso dire di non aver mai avuto dall'esercizio della mia professione una soddisfazione uguale a questa.
Cimetta (ad Anna): Io le chiedo scusa, signora, se non sono venuto prima a condolermi con lei. Ma creda che sono rimasto atterrato da questo scoppio inatteso che ha costernato tutta la città. Finora qua c'è stato bisogno del medico. Ora che, purtroppo, ci sarà bisogno anche di me, sono venuto, non chiamato, perché conosco la fiducia che Tommaso ha sempre avuto in quel poco che valgo.
Lecci: Ho pregato io il nostro caro amico di venire oggi con me, perché sarà bene cominciare intanto a preparare il convalescente alla dura necessità a cui deve andare incontro.
Anna: Sarà orribile, dottore: pare non ne abbia sospetto, almeno finora, come un bambino. Si commuove, piange, ride di nulla. E proprio questa mattina mi diceva che, appena rimesso, vuol andare in campagna, in villeggiatura, per un mese.
Signora Reis: Eh sì, proprio in villeggiatura!
Cimetta: Povero Tommaso!
Lecci: Aspettiamo ancora qualche giorno. Intanto, gli faremo vedere l'avvocato. Non è possibile che il pensiero della responsabilità non gli s'affacci.
Anna: E lei crede, avvocato, che sarà grave?
Cimetta (chiudendo gli occhi, aprendo le braccia): Signora mia...
Anna si copre il volto con le mani.
Lecci: Su, su, non è tempo adesso di costernarci di questo! Per ora è tranquillo. Non ha notato nulla di nuovo da jersera?
Anna: No, nulla.
Lecci: Bene. Vada allora di là e si faccia ajutare dall'infermiere a vestirlo e a levarlo dal letto; pian piano, eh? e veda un po' se, sorretto, potrà provarsi a muovere qualche passo. Noi intanto, io e l'avvocato, passeremo dal Commissario. Saremo di ritorno tra pochi minuti. Su, su, coraggio, signora Anna. Ne ha avuto tanto!
Anna (col volto tra le mani): Non ne ho più! non ne ho più!
Cimetta: E bisogna averne!
Lecci: La prego, signora.
Anna (dominandosi): Eccomi.
Si prova a sorridere.
Va bene così? Dunque, a rivederla, avvocato.
Gli stringe la mano; poi, al dottore:
A rivederla. Tu, mamma?
Signora Reis (fosca, veemente): Io vado via, vado via!
Anna: Eh, lo so...
Signora Reis: Addio.
Anna: I bambini. Salutameli.
Anna, via, per l'uscio in fondo.
Cimetta: Povera signora, non si riconosce più!
Signora Reis (investendolo): Ma lo facciano andar via subito! dentro, subito, quest'assassino! per pietà, per pietà della mia povera figliuola!
Lecci: Sarà questione d'un giorno, signora mia: se non oggi, domani.
A Cimetta:
È stata una concessione straordinaria, lasciarlo qua, alle nostre cure fino ad ora: guardato, va bene, ma anche con tutta la larghezza e la considerazione possibile; se pensiamo alla qualità dell'ucciso!
Cimetta: È incredibile! Pare un sogno, un incubo. Per quella donna là! Un uomo come quello, brutto, sbricio, apatico; che si trascinava svogliato nella vita; che si sapeva da tanti anni ingannato spudoratamente dalla moglie, e non se ne curava; che pareva penasse e faticasse a guardare e tirar fuori quella sua vocetta molle, miagolante ‑ sissignori ‑ tutt'a un tratto, si sente muovere il sangue, e per chi? per questo povero Tommaso.
Alla signora Reis:
Ma dica un po': Tommaso, come, perché gli era amico?
Signora Reis: Per via del giudice che fu trasferito, il giudice... come si chiamava? Làrcan, mi pare.
Cimetta: Ah, sì, il sostituto procuratore Làrcan.
Signora Reis: Abitava qui, nel quartierino accanto. Quando fu trasferito, scrisse al Neri che venne a prenderne il posto, una lettera di presentazione a mio genero: così si conobbero.
Cimetta: Mi pare che il Neri tenne anche a battesimo un figlio di Tommaso.
Signora Reis: Sì, l'ultimo: quello che morì.
Cimetta (a Lecci): Capisci? Anche jettatore. Si può esser certi che, seccato com'era sempre, sarà stata magari un regalo per lui, la morte. E intanto qua adesso tutta una famiglia nel baratro.
Anna rientra frettolosamente dall'uscio infondo.
Anna: Dica, dottore; si potrebbe farlo uscire un po' dalla stanza? Lo chiede.
Lecci: Se può; ma senza il minimo sforzo... veda lei... Con una sedia sotto mano, per il caso che gli mancassero le gambe, mi raccomando.
Alla signora Reis:
Viene via anche lei, signora?
Signora Reis: Sì, eccomi. Passo avanti. Addio, Anna.
Via per l'uscio a destra.
Lecci (dando il passo): Andiamo, avvocato. Passa, senza cerimonie.
Cimetta: A rivederla, signora.
Anna: A rivederla.
Al Lecci:
Per carità, dottore, dica alla guardia di non farsi vedere.
Lecci: Non dubiti. Quantunque, forse...
Anna: No! la guardia, no!
Lecci: E allora, si provi lei; nessuno potrebbe meglio di lei.
Cimetta: Eh già!
Lecci: Cogliendo la prima occasione.
Anna: E come? E come?
Lecci: Basta. Noi torneremo subito. A rivederla.
Via, col Cimetta. Anna prepara il seggiolone per il convalescente e rientra per l'uscio in fondo, lasciandolo aperto con la tenda tirata. Poco dopo, sorretto da Anna e dall'infermiere, viene in iscena Tommaso Corsi. È alto di statura e d'aspetto bellissimo. Ha il volto pallido come di cera, e un po' scavato, ma gli occhi gli ridono, quasi infantilmente. Stenta a respirare; lo stento del respiro è però sulle labbra bianche un sorriso dolce e mesto. Tiene la giacca sulle spalle, con le maniche penzoloni. Dall'apertura della camicia s'intravede il petto fasciato. Anna e l'infermiere lo conducono a sedere sul seggiolone ed egli vi s'abbandona con un sospiro di sollievo.
Tommaso: Ah, com'è bello qua. Ma guarda quante cose che mi pajono nuove. Il lavabo, già. E il mio armadio. E questo è il mio seggiolone dei giornali.
Riguarda attorno i mobili.
Stavano qua, zitti.
Indica l'armadio.
Ma quello, se lo apri, strilla.
Alla moglie:
Aprilo, aprilo: fammi sentire.
Ha come una trafittura:
Ahi!
Anna: Che è stato?
Tommaso: Niente. Mi sono mosso male. È passato. Aspetta. M'appoggio. M'appoggio alla spalliera.
Anna: Sarà meglio, dietro le spalle, un cuscino.
Tommaso: No. Cioè, forse sì.
L'infermiere corre a prendere di là un cuscino.
Anna (gridandogli dietro): E prendete anche una coperta!
Tommaso: Quella verde che è sul letto.
Anna (facendosi all'uscio di fondo): Codesta del letto, sì.
L'infermiere rientra col cuscino e la coperta verde. Anna aggiusta sulla spalliera del seggiolone il cuscino, mentre l'infermiere stende sulle gambe del convalescente la coperta.
Tommaso (carezzando con le mani la coperta): Questa, questa. Se sapessi quanto le voglio bene. I sogni che m'ha fatto fare. Quando su questo verde mi rividi la mano. Poi la levai. Era anche più bianca. Mi tremava tutta. Ah, mi sentivo come in un vuoto. In un vuoto però tranquillo, soave, come di sogno. E mi pareva tutto lontano. Lontano, lontano. E questa peluria verde qua mi pareva la campagna. I fili d'erba d'un prato infinito. E ci vivevo in mezzo, beato, vaneggiando in una delizia che non ti so dire. Tutto nuovo. La vita ricominciava adesso. Forse era rimasta sospesa anche per gli altri. Ma no: ecco: sentivo passare una vettura. No, ecco ‑ mi dicevo ‑ fuori, per le vie, la vita in tutto questo tempo ha seguitato ad andare. Questo mi contrariava. E allora mi rimettevo a guardare questa coperta: qua la vita, sì, ricominciava veramente, con tutti questi fili d'erba. E anche così per me ricominciava. Ah, se potessi respirare un po' d'aria fresca!
Si volta a guardare la moglie.
Tu piangi?
Anna (voltando il capo per non farsi scorgere): No, non ci badare.
Tommaso (all'infermiere, quasi in un sorriso): Piange.
Pausa.
Per piacere, andate un momento di là.
L'infermiere se ne va per l'uscio in fondo.
Tommaso: Anna.
E come Anna si rivolge sollecita e si china a guardarlo con gli occhi lacrimosi:
Perché?
Pausa. Poi, esitante:
Ancora... ancora dunque non mi perdoni?
Le prende una mano e se la posa sugli occhi. Anna stringe le labbra tremanti, mentre nuove lagrime le sgorgano dagli occhi, e non trova la voce per rispondergli. Egli allora si leva dagli occhi la mano di lei, e le domanda:
No?
Anna (angosciata, timidamente): Io, sì... io, sì.
Tommaso: E allora?
Prendendole il volto tra le mani e accostandolo al suo con tenerezza infinita:
Lo comprendi, lo senti che è vero, se ti dico che mai, mai nel mio cuore, nel mio pensiero, mai sei venuta meno, tu santa mia, amore, amore mio.
Anna (staccandosi lievemente, perché egli possa prendere una posizione più comoda, e carezzandogli con una mano i capelli): Sì, sì, zitto. Così ti affanni troppo.
Tommaso: È stata un'infamia.
Anna: Zitto, per carità: non ci pensare.
Tommaso: No, è bene che te lo dica.
Anna: Non voglio sentir nulla, no; non mi dir nulla. Io so. So tutto.
Tommaso: Per togliere ogni nube tra noi.
Anna: Ma non ce n'è.
Tommaso: Un'infamia, sorprendermi in quel momento vergognoso, di stupido ozio.
Anna: Basta, basta, per carità, Tommaso.
Tommaso: Tu lo comprendi, se è vero che m'hai perdonato.
Anna: Sì, sì, basta.
Tommaso: Stupido fallo, che quel disgraziato ha voluto rendere enorme, tentando d'uccidermi, due volte.
Anna: Lui? ah sì?
Tommaso: Due volte. Mi venne sopra, con l'arma in pugno, e mi tirò, per uccidermi. Mi vidi costretto, costretto a difendermi. Per forza. Non potevo ‑ tu lo comprendi ‑ lasciarmi uccidere per quella lì. Non potevo, per voi. E glielo dissi. Ma era come impazzito; addosso a me. E io non riuscivo a balzare in piedi, a levarmi da quel letto lì, per... per vergogna. Mi sparò un primo colpo, che infranse il vetro del quadro al capezzale. Mi volto e gli grido: «Che fai?» quasi ridendo; tanto mi pareva impossibile ch'egli non comprendesse ch'era un'infamia, una pazzia uccidermi a quel modo, in quel momento, uccidere me che non volevo esser lì: c'ero per caso, chiamato da quella, con una scusa.
Anna: Vedi come ti agiti? Basta, Tommaso, per carità. Ti fai male.
Tommaso: Avevo tutta la mia vita fuori di lì: te, i miei figli da difendere, i miei affari. Mi sibila in faccia un secondo colpo. Ah sì? Eh via, disgraziato! Ma non ricordo d'aver tirato su lui. Cadde con un tonfo a sedere sul pavimento. Poi si ripiegò bocconi. M'accorsi allora d'aver l'arma ancora calda e fumante in pugno. Sentii salirmi dal petto... non so, una cosa torbida, atroce: Guardai il cadavere per terra; la finestra donde quella s'era buttata; udii i clamori della via sottostante, e... e con quell'arma stessa...
S'abbandona, spossato, sulla spalliera.
Anna: Vedi, vedi che male ti fai, Tommaso? Oh Dio!
Tommaso: Non è niente. Un po' di stanchezza.
Anna: Vuoi tornare a letto?
Tommaso: No, sto bene qui. È passato. Sono forte abbastanza. Ora bisogna che mi rimetta subito. Volevo soltanto dirti come ... com'è stato... e che per forza io...
Anna: Zitto, zitto, non ricominciare. Queste cose tu ...
S'interrompe vedendo entrare il dottor Lecci e l'avvocato Cimetta.
Ah, ecco il dottore che ritorna. Queste cose tu le dirai... le dirai ai giudici, e vedrai che...
Tommaso, a queste ultime parole di Anna che sta china su lui, si rizza d'improvvìso su un gomito e guarda il Lecci e il Cimetta che si fanno avanti.
Tommaso: Ma io... Eh già... il processo...
Illividisce; ricade sulla spalliera, annichilito.
Lecci (accostandosi): Su, su, formalità, formalità!
Tommaso (quasi tra , guardando il soffitto): E quale altra punizione maggiore di quella che m'ero data io con le mie mani?
Cimetta (istintivamente, con un sospiro): Eh, caro, non basta.
Tommaso (scorgendolo e provandosi a replicare): Non basta? E allora...
Ma subito si riaccascia.
Eh già, sì... Ci credi? Mi pareva che tutto fosse finito.
Buttando le braccia al collo di Anna, disperatamente:
Anna, Anna, sono perduto! sono perduto!
Lecci: Ma no! ma no! ma perché? chi l'ha detto?
Tommaso: Perduto. Il processo. Ora m'arrestano. E come non ci ho pensato? Ma sì! E sarà tanto più grave ‑ di', di', Cimetta ‑ in quanto ho ucciso, non un povero disgraziato qualunque, ma un sostituto procuratore del re, è vero?
Cimetta: Fosse almeno possibile dimostrare che si era accorto dei precedenti torti della moglie!
Anna: Ma c'è la testimonianza di tanti, avvocato!
Cimetta: Eh, ma non la sua! È un morto, purtroppo, non si può chiamare a giurare sulla sua parola d'onore. Se lo mangiano i vermi, signora mia, l'onore dei morti. Che valore può avere l'induzione contro la prova di fatto? L'avrà saputo; ma il fatto dimostra il contrario: che egli non ha voluto l'oltraggio e s'è ribellato. Tu dici: ‑ Ma potevo io lasciarmi uccidere da lui? ‑ No. Ma se volevi rispettato codesto diritto, di non aver tolta la vita, non dovevi farti trovare con sua moglie. Così facendo, ‑ bada, io vedo adesso le ragioni dell'accusa ‑ tu stesso hai derogato al tuo diritto, ti sei esposto al rischio, e non dovevi perciò reagire. Capisci? Due colpe.
Tommaso (cercando d'interrompere): Ma io...
Cimetta: Lasciami dire. Della prima, dell'adulterio, dovevi lasciarti punire da lui, dal marito offeso; e tu invece l'hai ucciso.
Tommaso: Per forza! Istintivamente! Per non farmi uccidere!
Cimetta: Ma subito dopo hai tentato d'ucciderti con le tue mani!
Tommaso: E non deve bastare?
Cimetta: Non può bastare. È anzi a tuo danno!
Tommaso: Ah sì? Per giunta?
Cimetta: Tentando d'ucciderti, hai riconosciuto implicitamente la tua colpa.
Tommaso: Sì... E mi sono punito.
Cimetta: No, caro. Hai tentato di sottrarti alla punizione.
Tommaso: Togliendomi la vita. Che avrei potuto fare di più?
Cimetta: Già; ma avresti dovuto morire! Non essendo morto...
Tommaso: Ah, il mio torto allora è questo?
Scostando con un braccio la moglie per porsi di fronte il dottor Lecci:
Ma io sarei morto, se lui non avesse voluto salvarmi.
Lecci (stupito, nel vedersi così tirato in ballo): Come? io?
Tommaso: Voi, voi! Io non volevo le vostre cure! Voi avete voluto prestarmele per forza; ridarmi la vita: voi! E perché me l'avete ridata, se ora...
Lecci: Piano, con calma. Vi fate male agitandovi così.
Tommaso: Grazie, dottore. Vedo che vi preme sul serio la mia guarigione! Ascolta, Cimetta: voglio ragionare. Calmo, per non far dispiacere al dottore. Mi ero ucciso. Viene lui. Mi salva. Con qual diritto, gli domando io ora?
Lecci (torbido in volto, pur cercando di sorridere): Dopo tutto, scusate, è un bel modo codesto di ringraziarmi.
Tommaso: E di che, ringraziarvi? Non avete inteso ciò che ha detto l'avvocato?
Lecci: Avrei dovuto lasciarvi morire?
Tommaso: Appunto, morire, se non avevate il diritto di disporre della vita ch'io m'ero tolta e che voi mi ridavate.
Lecci: E come, disporne? Non si può mica passare sopra la legge!
Tommaso: Io n'ero uscito dalla legge, dandomi una punizione più grave di quella che la stessa legge può dare! Non c'è più pena di morte; ed io sarei morto, senza di voi.
Lecci: Ma io avevo il dovere della mia professione, caro Corsi: tentare in tutti i modi di salvarvi.
Tommaso: Per ridarmi in mano alla giustizia e farmi condannare? E con qual diritto ‑ io vi domando appunto questo ‑ con qual diritto voi esercitate su un uomo che ha voluto morire il vostro dovere di medico, se non avete in cambio dalla società il diritto che quest'uomo possa vivere la vita che voi gli ridate?
Cimetta: Ma scusa, e del male che hai fatto?
Tommaso: Mi sono lavato, col mio sangue! Non basta? Avevo ucciso; m'ero ucciso. Lui non m'ha lasciato morire. Mi sono ribellato alle sue cure. Tre volte mi sono strappate le fasce. Ora sono qua: rinato, per opera sua: un altro. Come volete che resti sospeso a un momento di quell'altra mia vita che per me non esiste più? Il rimorso di quel momento io me lo sono levato; in un'ora scontai la mia colpa, in un'ora che poteva essere lunga quanto l'eternità! Ora non ho più nulla da scontare, io! Debbo rimettermi a vivere per la mia famiglia, a lavorare per i miei figliuoli! Come volete che stia in un reclusorio a scontare un delitto che non pensai di commettere, che non avrei mai commesso se non vi fossi stato trascinato; mentre a freddo, ora, coloro che approfitteranno della vostra scienza, del vostro dovere di tenermi in vita solo per farmi condannare, commetteranno il delitto di farmi abbrutire in un ozio infame, e i miei figliuoli, i miei figliuoli innocenti, nella miseria, nell'ignominia? Con qual diritto?
Si rizza sul busto, sospinto da una rabbia che il sentimento della propria impotenza rende furibonda: caccia un urlo e s'afferra con le dita artigliate il viso e se lo straccia; poi si riversa bocconi sul braccio della poltrona, convulso; tenta di scoppiare in singhiozzi ma non può. Nella vanità di questo sforzo tremendo, rimane un pezzo stordito, come in un vuoto strano, in un attonimento spaventevole, tra lo stupore e il raccapriccio muto degli altri. Sul volto cadaverico s'allungano rosse le tracce dello strappo recente delle dita.
Anna (spaventata, accorre; gli solleva prima il capo; poi, ajutata dal Cimetta, si prova a rialzarlo; ma ritrae subito le mani con un grido di ribrezzo e di terrore: la camicia sul petto è rossa del sangue della ferita): Dottore! Dottore!
Cimetta: Gli s'è riaperta la ferita!
Lecci (sbarrando gli occhi e impallidendo, allibito): La ferita?
Istintivamente s'appressa alla poltrona; ma è arrestato subito dal Corsi con un suono rauco, di minaccia. Allora, come basito, lasciandosi cadere le braccia:
No, no. Ha ragione. Hanno sentito? Io non posso. Non debbo.
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