martedì 31 dicembre 2013

La rivoluzione nel ritratto di Antonello da Messina di Massimo Capuozzo

Al mio Preside, Professor Catello Maresca
che, grazie alla sua passione per l’Arte,
 mi ha donato per due anni un’esperienza
intellettuale bellissima: schiudere nelle giovani
menti il seme della Bellezza.
Con affetto e gratitudine.

Nel guardare un dipinto di Antonello da Messina (1430  1479), abbandoniamo l’illusione di essere noi a guardare il quadro: sono i suoi ritratti a scrutarci, siano essi soggetti profani, siano essi soggetti sacri come, solo a titolo di esempio, l’ineffabile Annunziata di Palazzo Abatellis a Palermo, straordinaria sintesi tra geometria e naturalismo, in cui, con un uso dolcissimo della luce, sospende il tempo nel gesto a mezz'aria della mano, presupponendo nell’osservatore il ruolo dell’angelo annunciante.
Lo stesso accade nel celeberrimo Ritratto d'uomo, un olio su tavola di 25,5 x 35,5 cm, databile fra il 1475 e il 1476 circa e conservato nella National Gallery di Londra.

Alcuni studiosi hanno ipotizzato che questo sia l’autoritratto del maestro, ma l’ipotesi si basava su una congettura troppo sbrigativa: d’altra parte l’immagine non appare come quella speculare di un artista nell’atto di ritrarsi e, dopo un attento esame ai raggi X, si è scoperto che gli occhi dell'effigiato – in una precedente stesura – non erano rivolti verso l'osservatore che è invece caratteristica principale di chi vuole eseguire un autoritratto, ma guardavano altrove. Tuttavia di Antonello non solo noi non conosciamo le fattezze fisiche, ma, per mancanza di dati e di documentazioni certe, perfino della sua vicenda biografica sappiamo molto poco a causa dell’estrema lacunosità delle testimonianze certe e gli stessi racconti di Vasari sono molto romanzeschi in termini aneddotici e paradossalmente pieni di lacune da diventare addirittura fuorvianti. Le cause di una così intricata vicenda critica sono molte: ad una complessiva scarsezza di materiale documentario si affianca, infatti, la singolare concentrazione cronologica dei dipinti rimasti.
Il percorso artistico di questo sommo maestro che, a metà del Quattrocento, si è fatto interprete di un fermento creativo mediterraneo ed europeo incentrato sull’incontro-scontro tra la civiltà fiamminga e quella italiana, «nato – secondo il celebre giudizio di Raffaello Causa – estraneo al Rinascimento, ma proprio del Rinascimento divenuto forza viva e portante», era iniziato nel vivace clima culturale della corte aragonese di Napoli, allora una delle capitali più feconde della civiltà del Mediterraneo. Antonello aveva soggiornato a Napoli almeno tra il 1450 e il 1455 e qui aveva sviluppato ed acquisito progressivamente la sintassi compositiva italiana, schiudendo successivamente con gli esiti veneziani e post-veneziani orizzonti fin allora sconosciuti che hanno dato la stura ad una nuova e rivoluzionaria civiltà figurativa mediterranea ed europea.
Nella bottega di Colantonio (1420 circa – 1460?), Antonello dovette forse apprendere i primi rudimenti dell’arte, ponendo grande attenzione ai molteplici impulsi offerti da un ambiente internazionale in cui si trovavano opere catalane e provenzali, oltre che capolavori nordici come, ad esempio, lo straordinario e purtroppo solo in parte conservato Trittico dell’Annunciazione di Jan Van Eyck, detto Trittico Lomellino, dalla famiglia dei mercanti genovesi che l’aveva acquistato nelle Fiandre, proprio a Bruges. Questo trittico fu, a quanto mi risulta, il primo dipinto fiammingo a giungere in Italia ed ebbe una storia incredibile, quanto affascinante: lo storico Bartolomeo Facio  (1400  1457) riferisce che Alfonso V lo esigette dalla Repubblica di Genova in cambio di particolari privilegi commerciali e che il proprietario Battista Lomellino fu costretto a portarlo personalmente da Genova a Napoli nel 1444 insieme al dotto umanista Facio. I migliorati rapporti con Firenze si tradussero successivamente in un dono da parte di Giovanni di Cosimo il Vecchio dei Medici graditissimo a re Alfonso: la realizzazione di un trittico da parte di Filippo Lippi. Il trittico era costituito da una tavola centrale da considerare purtroppo perduta che doveva rappresentare una Madonna che adora il Bambino con angeli e un santo e due tavole che si trovano oggi al Museum of art di Cleveland, raffiguranti rispettivamente Sant’Antonio Abate e S. Michele Arcangelo, i santi patroni di Alfonso V, che costituivano le ante laterali del trittico.
Gli indissolubili ed incontrovertibili legami della bottega di Colantonio con l’arte francoprovenzale, catalana e fiamminga, furono vivi ed intensi negli anni dell’apprendistato del giovane pittore: Antonello entrava così in contatto con la pittura fiamminga, spagnola e provenzale, presente a Napoli non solo nelle collezioni reali, ma soprattutto per la presenza in città di alcuni artisti stranieri attivi nella corte angioina prima e aragonese poi.
Purtroppo della generale produzione artistica napoletana di quegli anni che dovette essere cospicua, poco o nulla è giunto fino a noi in seguito anche alle pesanti spoliazioni effettuate durante l’invasione di Carlo VIII pertanto, per ricostruirne il milieu, si può procedere solo con una ricomposizione storico documentaria.
All’epoca di Renato d’Angiò, re di Napoli dal 1435 al 1442, la città vantava numerose presenze artistiche d’oltralpe: Napoli era un crocevia di esperienze francoprovenzali e borgognone alle quali si aggiunsero successivamente quelle degli artisti valenzani e degli altri fiamminghi portati da Alfonso già nel 1442. Colantonio fu forse allievo di Barthélemy d'Eyck, pittore fiammingo di scuola provenzale della corte di Renato d'Angiò presente a Napoli tra il 1438 ed il 1442, anche se di questo soggiorno sappiamo molto poco. L’arrivo di Alfonso V nel 1442, significò per Napoli non solo un riordinamento politico, ma anche una ventata di novità culturali gravitanti però sempre intorno alle novità ponentine e valenzane. In questo modo Colantonio diventò il protagonista dell'arte napoletana del primo Quattrocento e la figura chiave della cosiddetta congiuntura Nord-Sud, vale a dire di quella particolare corrente di incontro e di fusione tra modi fiamminghi e mediterranei che interessò parte del Mediterraneo occidentale e delle regioni del nord Italia, il cui epicentro fu proprio Napoli.
Sebbene l’impresa napoletana di Alfonso coinvolgesse la Francia angioina, il Papa, Genova e Milano – il che significava non solo rapporti politici, ma anche importanti scambi culturali tra città italiane – Napoli rimase sostanzialmente estranea fino agli anni sessanta alla rinascenza di tipo centro-italiana, probabilmente anche a causa dei difficili rapporti iniziali tra Alfonso d’Aragona e Cosimo de’ Medici.
E questo era il contesto culturale all’arrivo del giovane Antonello a Napoli: esso coincise con gli anni del regno dell’arrogantissimo e prepotente Alfonso d’Aragona – chi sa poi per quale motivo passato alla storia come il Magnanimo – ma grande mecenate che invitò artisti valenzani e catalani, il dalmata Francesco Laurana, il pugliese Niccolò dell´Arca, il veneto oriundo Pisanello, il ticinese Domenico Gagini, il toscano Mino da Fiesole. Chiedeva fino a pretendere che gli artisti di tutte le scuole e paesi venissero a Napoli, perché la sua capitale doveva diventare la più bella città della terra. Alfonso amava la pittura fiamminga al pari dello sconfitto re Renato e già nel 1431 aveva inviato a Bruges il pittore di corte Luis Dalmau (? – 1460), perché apprendesse i segreti dell’arte, voleva che Donatello, il quale aveva appena finito a Padova la statua equestre del Gattamelata, discendesse nel suo regno per realizzare una statua equestre che lo raffigurasse, ma Donatello aveva rifiutato e l’Arco di trionfo di Castelnuovo è rimasto senza la statua equestre. Alfonso comprava quadri dappertutto e in qualunque modo: tre Van Eyck, tra cui il famosissimo Trittico Lomellino, nel 1445 giunge a Napoli un’altra tavola di Van Eyck raffigurante un San Giorgio, fatta acquistare da Alfonso direttamente a Bruges. Il momento più bello della sua vita – secondo Pietro Citati – fu un giorno del luglio 1457, quando Federico da Montefeltro giunse a Napoli e Alfonso parlò con lui del nuovo astro della pittura italiana: Piero della Francesca.
Erano due principi rinascimentali che parlavano di arte ed erano questi gli anni in cui si lavorava alla prima fase (1452-1458) della realizzazione dell’arco di Castelnuovo, ma soprattutto erano gli anni in cui a Napoli operava Colantonio, l’artista napoletano più apprezzato e aggiornato della Napoli a cavallo tra il breve regno di Renato d’Angiò fra il 1438 ed il 1442 e l’entrata nella città di Alfonso d’Aragona nel 1442.
Colantonio era l’esempio più macroscopico di questo contesto culturale internazionale che, fino agli anni cinquanta del XV secolo, rimase quasi immutato e stilisticamente dominato da Van Eyck. L’esperienza estetica di Colantonio sembra tuttavia diramarsi verso due poli: il polo francese in cui alla stilizzazione geometrica si unisce l'uso di una luce tersa e zenitale che blocca le figure imponenti in posizioni statuarie – rappresentato dallo stile di Barthèlemy d’Eyck, – ed il polo fiammingo in cui la rappresentazione dettagliata del visibile si unisce al ricco simbolismo medievale della loro cultura – prima rappresentato da Jan van Eyck e successivamente da Petrus Christus (1410 circa – 1475 circa).
La fama e l’influenza di Van Eyck era molto nota alla corte di Valencia e lo stesso sovrano aragonese già possedeva una sua Adorazione dei Magi: inoltre tra il 1431 e il 1436 quindi molto prima del 1442 – anno dell’entrata a Napoli – Alfonso aveva inviato nelle Fiandre il valenzano Luis Dalmau, per studiare la tecnica della pittura a olio e quella della tessitura degli arazzi. La visita di Dalmau nelle Fiandre fu il primo contatto documentato del pittore spagnolo con la scuola fiamminga e successivamente le sue opere risentirono intensamente dell'influenza della pittura fiamminga e soprattutto di Van Eyck ed è stato fondamentale per l'arrivo dello stile fiammingo in Catalogna e per l'introduzione della tecnica della pittura ad olio. Con Luis Dalmau, nasceva il cosiddetto stile ispano-fiammingo che ebbe rilievo notevole sulla pittura del valenzano Jacomàrt Baço che sostò a Napoli come pittore di corte di Alfonso d’Aragona dal 1443 fino al 1451: a Napoli «el nostro leal maestro Jacomàrt», come Alfonso era solito chiamare Baço, lasciò un altare, purtroppo oggi perduto, nella chiesa di Santa Maria della Pace, un’opera che all’epoca dovette esercitare molta influenza sulla pittura napoletana. Oltre alla sollecitante presenza di opere dei più noti maestri fiamminghi, oltre al già citato Van Eyck, nella collezione reale doveva esserci anche qualcosa di Rogier van der Weyden, verso il quale Alfonso d'Aragona aveva sempre mostrato grande interesse.
Un contesto dunque di preminente accento oltremontano, ancorato al modello fiammingo e alle rotte mediterranee dell'arte della prima metà del XV secolo, legato ai fiorenti rapporti commerciali, appena venato da qualche eco della spazialità e della sintesi formale portate da Firenze a Roma soprattutto dall'opera dell'Angelico poco prima della metà del secolo.
In questo clima così stimolantemente internazionale – siamo intorno al 1455 – Colantonio eseguì la Deposizione per la chiesa di San Domenico e successivamente la Pala con San Vincenzo Ferreri per la chiesa di San Pietro martire: l'opera mostra chiari ritorni a temi degli anni ‘40 e complesse trasposizioni di Van Eyck, van der Weyden e Petrus Christus, ma il polittico tende a riordinare il tutto in una spaziosità molto più calcolata che in precedenza. Inoltre, con la figura del santo, inclusa attentamente nella nicchia-abside del pannello centrale, si accorda con i riferimenti ormai puntualmente pierfrancescani, introdotti a Napoli verso la fine degli anni 1450 da personalità quali il Maestro di S. Giovanni da Capestrano e che saranno sviluppati subito dopo specialmente da Antonello.
Nel periodo in cui Antonello lavorava nella bottega di Colantonio, Alfonso V  aprì ad Antonello le stanze segrete dove erano esposti i Van Eyck. Fu questo il primo incontro diretto del giovane pittore siciliano con il maggiore pittore del XV secolo. Egli ammirò subito quel mondo infinitamente piccolo di erbe grasse, di sassi porosi, di foglie di alberi e di arbusti dipinte una per una che sembravano stormire di una vita anche più intensa della vegetazione terrena. Antonello rimase a lungo nella stanza di Alfonso. In quella magia scopriva le stesse cose della vita quotidiana: cappelli, specchi, spinette, lampadari, pietre preziose, gioielli. Antonello guardava, osservava ancora, scrutava accuratamente e si estasiava davanti a un turbante rosso o a un castello che si perdeva in una lontananza infinita. Non riuscì mai a capire del tutto, ma nessuno forse comprese mai del tutto Van Eyck, prima di Jan Vermeer. Jan Van Eyck aveva scoperto una realtà apparentemente identica alla nostra, quasi un doppio, anche se tutto era completamente diverso: l’aria, il peso, il colore, la fluidità, la quiete, il silenzio. Era un fascino che niente di terreno poteva suscitare, era il fascino per un mondo favoloso e giocoso, gravido di vitalità e di amore per l’esistente: tutti gli oggetti toccati dal pennello di Van Eyck sembrano però brillare di vita propria, ignari del decadimento che, inevitabilmente, avvizzisce le cose. Era questo ciò che Van Eyck aveva deciso di rappresentare nel suo studio: un mondo tanto più sottile, lieve e fluido del nostro, ma cercando di cristallizzarlo e di rivelarcelo.
Un’altra lacuna nella vita di Antonello poi nel 1456 lo troviamo almeno momentaneamente stabilito a Messina e, forte della sua caleidoscopica esperienza napoletana, nella sua città natale appare già come magister, con una bottega propria e almeno un apprendista alle sue dipendenze: quasi nulla, però è pervenuto dei primi due decenni di attività del pittore, che possiamo ipotizzare al lavoro fin dal 1450, ma una grande abbondanza di opere si concentra invece negli anni Settanta, e in particolare negli ultimi cinque anni della sua vita.
Il 15 gennaio 1460, il padre di Antonello noleggiò il brigantino Santa Maria delle Scale con sei uomini a bordo, per raggiungere Amantea in Calabria. Lì la nave attese per otto giorni Antonello, con la moglie, il figlio Jacobello e il fratello minore Giordano, entrambi pittori, la sorella, il suocero, altri figli, la gente di servizio, le masserizie e gli arnesi per dipingere. Forse Antonello e i suoi volevano sia dipingere sia conoscere le opere dei nuovi pittori italiani. Probabilmente, arrivarono a Roma, dove pochi anni prima avevano lavorato Masaccio – nel 1425 insieme a Masolino, chiamato dal cardinale Branda, per gli affreschi della Cappella di Santa Caterina nella Chiesa di San Clemente, mentre allo stesso periodo risale anche il Polittico della neve, realizzato per il papa Martino V Colonna e destinato alla Cappella Colonna nella Basilica di Santa Maria Maggiore, un polittico oggi smembrata e per lo più disperso – e il Beato Angelico – che affrescò tra il 1447 e il 1448 la cappella Niccolina, cappella privata degli appartamenti di Niccolò V Parentucelli nel Palazzo Apostolico in Vaticano con i suoi aiuti tra cui Benozzo Gozzoli. Ma nel 1458-1459 era attivo a Roma Piero della Francesca, chiamato  per affrescare «la camera» di papa Pio II Piccolomini, distrutta per far posto alle stanze di Raffaello. Non è possibile sapere se Piero ed Antonello si siano incontrati e se il pittore più anziano e famoso abbia insegnato qualcosa al giovane pittore siciliano, ma quello che è certo è che Antonello si innamorò di Piero della Francesca, il secondo «faro» della sua vita, come dimostrò soprattutto negli anni veneziani.
Il grande esordio di Antonello tornato a Messina è segnato da prove quali la Madonna Salting, databile fra il 1460 e il 1469 della National Gallery di Londra o l’enigmatico Ritratto d’uomo, datato tra il 1465 e il 1476 circa e conservato al Museo Mandralisca di Cefalù cui seguono, negli anni 1473-1474 e, con esiti già compiutamente maturi, l’Annunciazione di Siracusa e il Polittico di San Gregorio, rivoluzionario nella resa psicologica dei personaggi che lo popolano.
Il Ritratto d'uomo o Ritratto d'ignoto marinaio è un olio su tavola di 31 x 24,5 cm, è databile intorno al 1470 dunque risalente all'attività giovanile dell'artista. È uno dei ritratti di maggior fascino di Antonello conservato al Museo Mandralisca di Cefalù, la cui fondazione è dovuta al barone Enrico Piraino di Mandralisca (1809-1864), che raccolse, nella sua vita, molti oggetti d'arte, mettendoli nella sua abitazione dove attualmente si trovano: il museo comprende elementi di varia natura dall’archeologia ad un’interessante pinacoteca comprendente dipinti dal XV al XVIII secolo prevalentemente provenienti dal territorio siciliano, una ricca serie di molluschi, una collezione numismatica ed infine mobili ed oggetti di grande pregio.
Il dipinto di maggiore importanza è questo di Antonello, del quale non si conoscono le circostanze della commissione né la sua sistemazione originaria. Il barone Mandralisca lo comprò a Lipari, dove pare che fosse utilizzato come sportello di un mobile nel retrobottega di una farmacia. La tavoletta, sfregiata anticamente, è stata più volte restaurata: la tradizione vuole che sia stato danneggiato agli occhi da un'inserviente, che si era sentita sbeffeggiata dal sorriso sogghignante del ritratto. L'opera ritrae uno sconosciuto, vestito secondo alcuni da marinaio dell'epoca e con una berretta nera, ma Roberto Longhi smentì recisamente questa designazione popolare, indicando invece il ritratto di un nobile, forse un barone, che si incontrava allora ma che si può incontrare anche oggi o di una personalità del commercio o della finanza, un uomo comunque facoltoso. La fama del dipinto tuttavia, alimentata anche da saggi e da romanzi, era tale per cui ancora oggi è indicato come Il sorriso dell'ignoto marinaio.
La posa è di tre quarti, lo sfondo scuro e la rappresentazione essenziale derivano dai modelli fiamminghi, in particolare da Petrus Christus, esponente alla cosiddetta seconda generazione della pittura fiamminga, che probabilmente Antonello conobbe direttamente a Napoli o forse proprio in Sicilia. Dalle analogie artistiche tra Christus e Antonello è stata ipotizzata una conoscenza diretta tra i due: alcuni hanno trovato tracce di una possibile collaborazione, rilevando i loro presumibili nomi tra gli stipendiati di una medesima opera raffigurante una battaglia. Indipendentemente dalla veridicità storica di quest’argomentazione, quello che è certo è che Antonello fosse già molto padrone delle tecniche e dei segreti della pittura fiamminga e che fu uno dei primi artisti italiani a usare la tecnica a olio, che permetteva di stendere il colore in successive velature trasparenti, ottenendo effetti di precisione, di morbidezza e di luminosità impossibili con la tempera. La gradazione cromatica utilizzata in questo dipinto è limitata a poche sfumature di bianco e di nero su cui risalta invece il volto dell'effigiato, dall'incarnato rossiccio.
Il sorriso enigmatico e lo sguardo rivolto allo spettatore sono tra i migliori esempi dell'acutezza ritrattistica di Antonello, capace di dare ai suoi personaggi una potente carica psicologica. La luce radente illumina il volto come se l’uomo si affacciasse da un varco, facendo emergere quasi progressivamente i lineamenti. L'uso dei colori a olio permette poi una viva definizione della luce, con morbidissimi passaggi tonali, che riescono a restituire la diversa consistenza materica. Diversamente dalle opere fiamminghe però Antonello utilizzò anche una salda impostazione volumetrica della figura, con una semplificazione dello stile lenticolare dei fiamminghi, a vantaggio della concentrazione su altri aspetti, come il dato fisionomico individuale e la componente psicologica.
L'ambigua suggestione esercitata dal dipinto, per l'impenetrabile sorriso ha fatto pensare ad un’affinità con il sorriso arcaico dei kouroi greci e ha fatto sorgere numerose teorie sulla sicilianità del ritrattato: la misteriosa e tagliente espressione dell'effigiato, oscillante fra il beffardo ed il sottilmente crudele, ha alimentato una sorta di mitologia fiorita sul personaggio, che, come si è detto, alcuni hanno identificato con un ignoto marinaio liparese o addirittura con un pirata, sebbene la condizione sociale di un committente dell'epoca dovesse essere generalmente assai più elevata. «È ben difficile –  scrive Federico Zeri – menzionare qualcosa di più intimamente siciliano del Ritratto di Cefalù, nel cui sorriso, tra eginetico e minatorio, è condensata l'ambigua essenza dell'isola fascinosa e terribile».
Con i suoi piccoli quadri, che raramente superano i trenta centimetri, Antonello è, forse, il più grande ritrattista del Quattrocento italiano: non possedeva, infatti, soltanto un sottile intuito psicologico, ma una vera e propria scienza dell’anima e del corpo. «Quando vedo il Ritratto d´uomo di Cefalù - scrive Pietro Citati – ho l´impressione di scorgere Antonello mentre dipinge: con quegli sguardi duri, intensi, penetrantissimi, precisissimi, implacabili (attribuiti a quasi tutte le sue figure, persino ai santi), che fissano in volto il modello. Antonello guarda a lungo, a lungo: gli occhi, l´inclinazione degli occhi, il sorriso, la barba, il mento, le orecchie, tutti i minimi segni del viso: li collega tra loro; e di colpo penetra nel profondo, scoprendo i pensieri e i sentimenti nascosti». Principe o ricchissimo commerciante che sia, mentre osserva lo spettatore, l’uomo ritratto mostra una grandissima esperienza della vita e dell’umanità, per quanto intricate e labirintiche: non sembra sfuggirgli nulla nell’altrui sentire, ma ad un tempo non rivela mai la fonte della sua perspicacia, che doveva rimanere ignota perché solo circondandosi di cauti riserbi e di segreti sentimenti, poteva aver la meglio sugli altri. Neppure il mondo divino suscita nel signore di Cefalù attenzione o interesse e non rivela neppure la presunzione di una fiducia assoluta nella sua esperienza che anzi egli sembra considerare un’arte limitata: al di sopra della saggezza, c’è solo l´ironia, quella assoluta, quella capace di prendersi gioco della vita, della storia, della religione, di se stesso e forse perfino di Dio. Il sorriso dell’ignoto può essere visto come un primo passo verso il famoso, incipiente sorriso della Gioconda.
Il soggiorno veneziano – forse il secondo, perché del primo non abbiamo tracce – datato 1475-1476, segnò un definitivo punto di svolta per la carriera artistica di Antonello da Messina e per la storia dell’arte italiana del Quattrocento. A Venezia, la presenza di Antonello, ormai quarantacinquenne, favorì l’incontro definitivo tra l’arte nordica e quella italiana: furono solo pochi mesi, ma fecondi per la veicolazione delle idee artistiche. Antonello portava con sé a Venezia le esperienze internazionali della sua formazione napoletana.
L’incontro tra l’arte di Antonello e l’ambiente figurativo veneziano, rappresentato in quel momento soprattutto dalla bottega di Giovanni Bellini (1433 – 1516), di tre anni più giovane di lui, creò le premesse di capolavori assoluti: dal dialogo fra i due maestri si approfondirono da una parte le ricerche nel campo della prospettiva e della luce, grazie all'adozione ed al perfezionamento della tecnica a olio di cui Antonello era già padrone nelle sue opere, e dall’altro la morbidezza cromatica del maestro veneto, come appare nella Pala di San Cassiano e nel più tardo San Sebastiano. In generale a Venezia Antonello rivoluzionò la pittura locale, facendo ammirare i suoi traguardi che furono ripresi da tutti grandi maestri lagunari ed aprendo la strada per quella pittura tonale, estremamente dolce ed umana che caratterizzò il Rinascimento veneto e che fu ammirata e celebrata per il suo mistico senso dello spazio, per l’uso sensuale del colore e per la poetica della luce. Nacque così dalla sua opera e da quella di Giovanni Bellini, oltre che un tipo di ritratto, prima di tre quarti e in seguito frontale – almeno per Giovanni Bellini – di straordinaria vitalità, nella ricerca di un rapporto diretto con lo spettatore che dominò incontrastata fino alla rivoluzione leonardesca: ma, nel volgere di due anni, Antonello vi lasciò opere fondamentali, come il San Gerolamo nello studio, oggi alla National Gallery di Londra, l'Ecce Homo del Collegio Alberoni di Piacenza, la Crocifissione di Anversa e il San Sebastiano di Dresda: dipinti assolutamente decisivi per consentire anche a Venezia la diffusione della sintesi prospettica di forma e colore che caratterizza l'Umanesimo italiano.
Tornando al Ritratto d’uomo della National Gallery, quel troppo fantasiosamente presunto autoritratto di Antonello, esso è probabilmente un lavoro relativamente tardo: il suo schema compositivo conferma il personaggio inserito in uno sfondo scuro con il busto tagliato sotto le spalle, il capo girato verso destra mentre gli occhi cercando un contatto mentale con lo spettatore lo guardano direttamente, e la luce illumina il lato destro del volto mentre quello sinistro è in ombra. Probabilmente in origine c’era un parapetto dipinto alla base che recava la firma del maestro e dal quale il personaggio si affacciava, ma questo è stato rimosso in epoca imprecisata. L'attenzione al dettaglio e l'intensità di espressione nel 'Ritratto d'uomo' sono paragonabili a ritratti fiamminghi: la posa di tre quarti, lo sfondo scuro e la rappresentazione essenziale derivano dai modelli fiamminghi, in particolare da Petrus Christus e la padronanza della pittura ad olio gli permette di raggiungere effetti come l'acuta definizione della luce con morbidissimi passaggi tonali, che riescono a restituire la diversa consistenza dei materiali.
L'opera ritrae, come sempre nei ritratti di Antonello, un uomo sconosciuto, di rango sociale medio-alto a giudicare dall'abbigliamento. La giubba in pelle lascia intravedere la camicia bianca, mentre in testa l'uomo porta un copricapo rosso di panno. La luce radente illumina l'effigie, come se il personaggio si affacciasse da una finestra, facendo apparire progressivamente i lineamenti e le sensazioni del personaggio. Lo sguardo acuto e penetrante è rivolto verso l'osservatore e mostra una personalità viva.
Diversamente dalle opere fiamminghe però Antonello si concentra sugli aspetti fisiognomico individuale e sulla componente psicologica. La luce si volge negli occhi dell'uomo, che sono grandi con chiare iridi lucenti. Il giovane rappresentato non è un mercante di Bruges o delle Fiandre, ma un italiano realisticamente ritratto da un pittore italiano. Il suo volto non rasato è duro e pensieroso: l'uomo del Rinascimento ha cose più importanti a cui pensare della rasatura e la sua barba è dipinta con estremo realismo, i suoi pori sono appena oscurati. I peli che spuntano dal berretto rosso sono altrettanto duramente reali, in contrasto con i ricchi toni della pelle liscia, lo zigomo finemente scolpito e ombreggiato.
La diffusione della luce – che affonda nella carne in alcuni punti, rendendo la guancia rossa e bruna, riflette i suoi occhi e il naso come se si riflettesse sull'acqua appena increspata nella laguna di Venezia o nella memoria delle acque dello stretto – è dipinta in questo Ritratto d’uomo in una maniera tale da lasciare attoniti i primi spettatori del dipinto. Per loro, la nuova arte della pittura ad olio era quasi una pratica magica, tanto convincente da essere capace di simulare la vita. Questo dipinto potrebbe sentirsi ingannevole nel suo naturalismo, una dimostrazione di artificio, ma esso possiede una tale forza emotiva, una tale gravitas da conferire al suo soggetto lo sguardo di un intellettuale o di un uomo coinvolto con l'arte e la scienza: questo forse spiega perché il dipinto sia stato a lungo identificato come un autoritratto, perché quest'uomo non ha l'aspetto di un nobile. Quest'uomo è un personaggio misterioso, dal carattere alquanto complesso, forse pronto alla insoddisfazione, magari con un temperamento malinconico, riservato, come se non avesse abbastanza fiducia in noi, che siamo comunque tutti coloro che da Antonello in poi lo abbiamo osservato.
Con ritratti come il cosiddetto Condottiero del 1475 del Museo del Louvre, come il Ritratto Trivulzio o Ritratto d'uomo del 1476 del Museo civico d'arte antica di Torino – altissimo risultato nella caratterizzazione dei ritratti, che catturano lo spettatore con uno sguardo ipnotico di maliziosa sfida – come ancora il bellissimo Ritratto d’uomo del 1476 della Galleria Borghese di Roma nel quale alla obiettiva ed acuta analisi delle forme tipiche di Antonello, concorrono le conquiste stereometriche di Piero della Francesca, le impostazioni prospettiche dei busti di Mantegna e il colore veneziano – le caratteristiche tipicamente fiamminghe della posa di tre quarti, la barriera del parapetto a segnare la separazione tra effigiato e spettatore, il trompe-l’oeil del cartiglio, il fondo scuro, si coniugano a una resa del dato psicologico inedita e rivoluzionaria per acutezza di penetrazione, Antonello mostra di avere intimamente assimilato e fatte proprie le più nuove tendenze dell’arte fiamminga, esprimendo nel ritratto le prime innovazioni e aprendo per primo in Italia una nuova prospettiva nel genere aggiungendo la profondità. E questa non solo tecnicamente spaziale, ma anche concentrata su una profonda analisi dell’intelligenza poetica di un artista che ha saputo cogliere le sfumature psicologiche e le caratteristiche più intime dell’esistere.

Tutti i suoi ritratti sono anagraficamente ignoti, quanto a generalità, ma nella loro raffigurazione tutto è ben noto e rivelato. Ritorna il giudizio di Federico Zeri in base al quale Antonello è uno degli assi portanti del Rinascimento, pur essendo nato estraneo al Rinascimento italiano quella rivoluzione che aveva posto l’uomo e la sua essenza al centro della speculazione e quello che troviamo in Antonello è proprio questo: l’uomo, non il personaggio. Ad Antonello, che aveva avuto l’intimità di un re, non interessa il ritratto ufficiale, ma il ritratto interiore, e come scrive acutamente Vittorio Sgarbi «ciò che si rivela non grazie agli esterni simboli del potere, ma alla capacità di far parlare attraverso uno sguardo, sussurri, sospiri, ansie, esitazioni, male di vivere». Nessuno aveva fatto tutto ciò prima e meglio di Antonello dipingendo una vasta gamma di signor Nessuno dei quali non pur non sapendo nulla, capiamo tutto. Chiari ed imperscrutabili essi parlano anche se per sempre cristallizzati nel silenzio della luce. E, se tacciono, non tacciono perché sono dipinti, ma perché il loro silenzio è quello di una persona viva, non di un’immagine.
Antonello è stato l’erede italiano e il tramite della grande ritrattistica fiamminga: con lui nasceva il ritratto di tre quarti. Diversamente dagli italiani – eccezion fatta del singolo esperimento di Andrea del Castagno – Pisanello, Piero della Francesca, i fratelli Pollaiolo che utilizzavano la posa medaglistica di profilo, adottò la posizione di tre quarti, tipicamente fiamminga, che permetteva una più minuta analisi fisica e psicologica e soprattutto permetteva il coinvolgimento dello spettatore in un’atmosfera di partecipazione totale. In tal modo i muri artistici sono abbattuti: ritrattato e spettatore possono comunicare insieme le proprie emozioni, il quadro non è più soltanto guardato, quanto piuttosto vissuto per il coinvolgimento sentimentale e totale che le nuove opere d’arte infondevano. Ma detto così sembrerebbe assolutizzante la dipendenza di Antonello dai maestri fiamminghi: ma Antonello fu maestro originale rispetto ai fiamminghi, mostrando di badare di meno al dettaglio e sempre più alla caratterizzazione psicologica e umana dei ritrattati.
Tutti i suoi ritratti uniscono alla preziosa lucentezza materica dovuta all’uso dei colori sciolti nell’olio, una tridimensionalità spaziale e volumetrica tipica dell’arte italiana come la salda monumentalità e la capacità di organizzare lo spazio secondo le regole geometriche della prospettiva lineare.
Da Antonello in poi gli artisti migliori saranno anche considerati quelli che sapranno meglio interpretare gli spazi nella tela come in un piccolo teatro. L’adozione del fondale neutro scuro su cui campeggia l’effigie del Ritratto d’uomo e di un parapetto in primo piano dietro cui si posiziona la figura, conferiscono all’immagine una forza plastica tale da ricordare l’emergenza visiva di un mezzo-busto scolpito.
L’arte del ritratto dopo Antonello non fu più perciò solo ricerca somatica ed encomiastica eseguita con raffinata tecnica stilistico-pittorica, ma anche una nuova finestra socchiusa sulla realtà delle emozioni. I ritratti eseguiti dai Bellini, ne sono un vivido esempio: fra quelli di Giovanni, di cui sono rimasti pochi, va ricordato il celebre Ritratto del doge Loredan della National Gallery di Londra.

Massimo Capuozzo

sabato 28 dicembre 2013

La Chiesa di San Pietro Apostolo a Cetara di Massimo Capuozzo

Il borgo marinaro di Cetara custodisce la Chiesa di San Pietro Apostolo –ben inserita nel nucleo edilizio più antico del borgo marinaro di Cetara, di cui è la chiesa principale – è un luogo dove si intrecciano tutte le popolazioni che sono passate per questi luoghi. 

Con il suo carattere ascensionale – nel centro urbano a breve distanza dal mare – sottolineato dal lanternino della cupola maiolicata e dal campanile, rappresenta sia per il suo innegabile simbolismo ideologico sia per le sue valenze figurativo–spaziali un forte polo visivo di riferimento.
La chiesa fu edificata alla fine del X secolo quando i Longobardi (?) di Salerno debellarono la comunità saracena che si erano insediati a Cetara e costruirono l’edificio sacro per testimoniare la superiorità della cristianità sui musulmani sconfitti.
Molto probabilmente la chiesa originariamente dovette essere dedicata a San Giacomo, ma in seguito fu dedicata a San Pietro Apostolo, Santo Patrono della città, protettore di tutti i pescatori, celebrato il 29 giugno con una grande processione.
La chiesa è ad unica navata, ma distrutta e ricostruita più volte nel corso dei secoli ha subìto numerosi cambiamenti: il corpo originario doveva essere molto più piccolo rispetto all’attuale fabbrica e coincideva probabilmente con l’attuale cripta, mentre l'ingresso era rivolto verso il contrario di oggi. L’unico elemento risalente alle origini è il campanile che presenta una base romanica è a base rettangolare nei primi tre ordini ed ottagonale nei due successivi e presenta bifore su ogni lato con una caratteristica cuspide ottagonale.
L'ingresso principale si apre su un sagrato lungo quanto la facciata della chiesa e largo circa tredici metri, posto alla sommità di una lunga scalinata. Un iscrizione marmorea posta sulla parete in fondo al sagrato A DIVOZIONE / DEI PADRONI E MARINAI PESCATORI / REDUCI DA ALGERI / 1898 rende immediatamente il genius loci dell'invaso spaziale.
La facciata in stile neoclassico risale alla sistemazione settecentesca, con una coppia di paraste con capitello ionico ai lati del portale.
Le linee del prospetto sono accompagnate sulla destra a lato del transetto dalla possente mole del campanile alto oltre 8 metri, a cinque ordini, a base rettangolare nei primi tre ed ottagonale nei due successivi, con monofore su ogni lato. Il primo ordine del campanile, di stile romanico, attesta una verosimile prima edificazione o riedificazione della chiesa intorno al X secolo, nel periodo in cui la Repubblica Marinara di Amalfi raggiungeva il massimo splendore.
La chiesa è stata ingrandita nel corso dei secoli con l’aggiunta di una costruzione sopra quella originaria e l’elevazione di una cupola maiolicata che è stata rivestita all’estradosso a metà degli anni ‘70 da ambrogette in ceramica di tipo industriale, che ripetono lo stile classico a losanghe gialle e verdi, separate da fasce realizzate con tondi bianchi e ocra, presente anche in altre cupole realizzate alla fine del XIX secolo nelle chiese di Positano, Vietri sul Mare, Praiano, Atrani e Maiori.
Ristrutturato nel XVIII secolo, oggi l’edificio si presenta in stile barocco ma l’intervento barocco è frutto di una sintesi storico-artistica che interpreta magistralmente l’arte del passato, rispondendo ai contenuti pittorici locali ed all’ambiente circostante.
La porta in bronzo statuario di Battista Marello[1] – sacerdote artista, autore di altre notevoli opere e portali – è stata realizzata saldando 18 lastre modellate con la tecnica a cera persa e fissandole al sottostante supporto ligneo. Raffigura l’apostolo Pietro, con le chiavi del Regno dei Cieli ed il fratello Andrea nell’atto di tirare le reti, dalle quali guizzano una miriade di pesci. Quasi nell’ombra, il Cristo domina nel registro superiore della porta: è colui che sovrintende alla pesca, che simbolicamente si riferisce ad una chiesa che cerca in ogni modo di salvare quanti più uomini possibile. L’opera, commissionata dal Comitato portale San Pietro apostolo, è stata inaugurata il 22 febbraio 2005.
L’interno, originariamente molto più piccolo e con entrata dalla parte opposta a quella attuale, è ad unica navata con transetto ad una serie di altari laterali. Lungo il lato destro è stata ricavata un camminamento che attraversa la serie di cappelle.
L'ambiente è interamente rivestito di intonaci e stucchi tratti dal repertorio tardo-barocco: paraste composite, con falsi capitelli corinzi dorati e fusto liscio affrescato ad imitazione del marmo, sono addossate alle pareti e reggono in alto una trabeazione con cornice molto sporgente, su cui si imposta la volta a botte che sovrasta la navata, coperta da una festosa e luminosa composizione a stucchi con motivi floreali sempre in stucco.
Passando agli altari laterali, a sinistra si trovano un altare di fabbrica, con stucchi decorati a effetto marmorino, dedicato all'Immacolata sul quale è collocata una tela di bottega campana raffigurante la Madonna Immacolata, risalente al XVIII secolo; al centro è posto il fonte battesimale in marmo bianco di bottega italiana del XVIII-XIX secolo, sul quale poggia un moderno elemento di chiusura in rame a sbalzo.
Il secondo altare a sinistra, di fabbrica rivestito con marmi, conserva inserita in una cornice una tela ad olio raffigurante la Madonna con Gesù Bambino in gloria.
Il terzo altare, anch'esso di fabbrico con rivestimento marmoreo, recante in basso la iscrizione FRANCESCO D'ACUNTO 1910, accoglie una statua lignea di bottega italiana della Madonna Addolorata, con vestimenti in seta; al di sotto della mensa è custodita una statua del Cristo morto, racchiusa in una teca.
Il quarto ed ultimo altare a sinistra è dedicato a san Pietro e custodisce, chiusa in una teca protetta dal vetro, il busto ligneo scolpito e dipinto del santo patrono. Le reliquie del Santo patrono furono acquisite dalla comunità di Cetara all’inizio del XVIII secolo, come documentato nella visita pastorale effettuata nel 1721 dall’Arcivescovo Bologna che segnalò la presenza della reliquia aprobata e del busto ligneo: Il busto, realizzato probabilmente tra il 1712 e il 1721, raffigura l’apostolo a mani giunte con uno sguardo estatico  rivolto verso l’alto, in un’intensa resa espressionistica e naturalistica del volto, eloquente manifestazione di religiosità popolare. Alla sua destra il gallo in argento di scuola napoletana, in stile naturalistico – alto circa 31,5 cm – rievoca il triplice rinnegamento che egli fece successivamente all’Ultima Cena.  La scultura in legno dipinto è completata da un’aureola in argento sbalzato e da un collare che regge il castone contenente la reliquia.)
Lungo il lato destro si sviluppano quattro cappelle, rese comunicanti tra loro.
La prima cappella a destra ha un altare con tela  raffigurante la Madonna con bambino fra i SS. Ignazio e Francesco di Paola.
La seconda cappella a destra, conserva una tela raffigurante Il transito di san Giuseppe”.
La terza cappella a destra ha un altare sulla cui mensa è collocato un quadro della Madonna del Rosario di Pompei. 
Sul quarto altare è allocato il busto in legno dipinto di s. Vincenzo Ferrer.
Il presbiterio, rialzato di due scalini e chiuso da una balaustra marmorea, ospita al centro l'altare maggiore settecentesco, con decorazioni ed intarsi policromi, arricchito da due pregevoli  putti capoaltare in marmo bianco e una mensa eucaristica in marmi policromi, realizzata negli anni '70 per la nuova liturgia.
Molto bella è la vetrata istoriata disegnata da Padre Tarcisio Musto che orna il tamburo della cupola realizzata nel 1993. La vetrata combina l'immagine della cupola di S. Pietro a Roma con una veduta cetarese della torre, della chiesa e dell'arenile con le barche, ricorda l'episodio evangelico avvenuto sul lago di Tiberiade dopo la Resurrezione, quando il Cristo Risorto appare agli apostoli e per tre volte interroga Simon Pietro chiedendo "mi ami più di costoro?" ed invitandolo a "pascere gli agnelli".
Il busto di San Pietro, realizzato probabilmente tra il 1712 e il 1721, raffigura l’apostolo a mani giunte con lo sguardo rivolto verso l’alto con intensa espressione. Completano la statua il gallo in argento di scuola napoletana, un’aureola in argento sbalzato ed un collare che regge il castone contenente la reliquia. Un vero gioiello artistico, espressione di una cultura marinara, che riporta al rapporto fra uomo e mare. La statua, dieci giorni prima della festa patronale, viene portata sulla riva per ricevere il cosiddetto bagno, ovvero gli spruzzi d’acqua di mare da parte dei bambini, quale rito propiziatorio per una pesca abbondante. Durante la festa del 29 giugno la statua è collocata su un gozzo di legno ornato con fiori, trasportata a spalla per il paese al suono della banda. Giunta in località Marina, viene posta sotto il cappellone, costruito con bellissime luminarie, per la funzione sacra, poi, a passo di danza i portatori la conducono per tre volte verso la battigia per la benedizione del mare, fra gli applausi della folla radunata sulla spiaggia, alla quale si aggiungono centinaia di barche ancorate per l’occasione nella baia di Cetara. In seguito la processione ritorna verso la chiesa di San Pietro, dove avviene il rituale della corsa lungo la scalinata.
Una tradizione che gli abitanti di Cetara continuano nel nome di quella fede antica alla quale la gente di mare si affida con la semplice spontaneità del suo cuore.
Sul lato sinistro ci sono due lapidi.
Una lapide bilingue in latino e in araboemblematico esempio di come l'arte e la cultura riescano spesso a integrare culture e culti, elevando l'anima e la mente umana oltre le dispute terrene e gli antagonismi religiosi – che commemora Grandenetto d’Aulisio, che vi è sepolto, un eroe di Cetara protagonista della liberazione del principe Federico d’Aragona fatto prigioniero dai baroni di Salerno nel 1484, durante la Congiura dei Baroni.
Una lapide commemora Gennaro Parlati, curato di Cetara passato poi al servizio di Pio IX Mastai Ferretti.
All’interno della chiesa si deve segnalare l’antico organo da poco ristrutturato.

Massimo Capuozzo

[1] BATTISTA MARELLO – Battista Marello, sacerdote artista, di origini casertane, nato nel 1948, ha il suo studio nel centro storico di Caserta e il suo "pensatoio" al Belvedere di San Leucio, dove, alla cura del suo piccolo gregge, affianca un lavoro di ricerca sulle tematiche dell’arte sacra contemporanea, soprattutto come scultore.
All’iniziale contatto con gli ambienti artistici dell’area napoletana, si aggiunge la prolungata frequentazione dello studio romano di Pericle Fazzini, fino agli anni ’80.
Le tappe più significative sono le mostre allo Studio Oggetto di Caserta, la partecipazione con Gallerie campane alle "Expo arte" di Bari, la trasmissione di Emanuela Falcetti "Un parroco artista", Rai1 1990, la personale presso la Galleria San Fedele di Milano, dello stesso anno, la mostra "Don Battista Marello: Bilder Zeichnungen", alla Galerie Jesse, Bielefeld (Germania), nel 1991. Inoltre la mostra "Apparizione", dedicata e inaugurata da Giovanni Paolo II a Caserta, 1992, e il portale in bronzo per la chiesa di Valeggio di Verona, consacrata da Papa Benedetto XVI nel 2006, sono due degli accadimenti più rimarchevoli che hanno segnato sino ad ora il suo percorso artistico.
Tra le ultime significative opere vanno annoverate le porte bronzee per Cetara presso Amalfi, per la cattedrale ottocentesca di Caserta e quelle per il Duomo duecentesco di Caserta Vecchia, la Madonna della Salute ai piedi delle Dolomiti, la Colonna di Fuoco antistante la Cattedrale di Sessa Aurunca. Inoltre tra le realizzazioni di numerosi spazi liturgici, è da ricordare quella relativa al progetto nazionale prescelto della Conferenza Episcopale Italiana per la realizzazione di una nuova chiesa in Italia, anno 2007.

lunedì 9 dicembre 2013

La basilica e il monastero di Sant’Anna di Nocera Inferiore di Massimo Capuozzo e Serena Di Ruocco

Il complesso architettonico costituito dalla Basilica e dal Monastero di Sant'Anna delle suore Domenicane di clausura si trova a Nocera Inferiore lungo il fianco occidentale della collina del Parco.

Il monastero, uno dei più antichi insediamenti monastici dell'intero Agro Nocerino, fu costruito in un luogo in origine isolato rispetto al centro cittadino. Nel 1282 il nocerino Pietro, personaggio di grande rilievo politico nel regno angioino, consigliere di Carlo II e vescovo di Capaccio, volle la fondazione del monastero e della chiesa su edifici di sua proprietà, ideando un edificio sacro adatto ai bisogni della popolazione circostante, che allora doveva essere più numerosa. Le suore inizialmente aderirono alla regola agostiniana, ma dopo appena qualche anno chiesero ed ottennero di passare all'osservanza domenicana.
L’antico monastero, già ricco per i lasciti del fondatore, ben presto si arricchì di tesori materiali ed artistici per la munificenza dei sovrani angioini e delle grandi famiglie nobili napoletane che vi monacavano le figlie, le cui doti si aggiungevano ai donativi regi. I nocerini, invece, vi portavano i figli indesiderati – la ruota degli esposti è, infatti, ancora visibile – al riparo delle alte mura che chiudevano i giardini e gli edifici della grande insula ecclesiastica si conservano ancora intatte.
Al complesso si accede da una breve stradina che conserva ancora intatto l’antico basolato.
Non si sa nulla del nome del costruttore, della sua forma originaria, del soffitto, se era a capriate o a volta, del nome del pittore o dei pittori che la affrescarono e la costruzione dovette essere continuata nel corso del XIV secolo per l’impianto della chiesa monoaula, caratterizzata da strutture ogivali di cultura gotica. Purtroppo i successivi rimaneggiamenti e i radicali restauri, hanno lasciato solo pallide tracce dell’edificio gotico originario. Nel 1304 il domenicano Papa Benedetto XI di Boccasio esentò il monastero dalla giurisdizione vescovile.
I primi restauri e quindi le prime alterazioni della vecchia chiesa avvennero nel 1431, come si rileva da una bolla di Papa Eugenio IV Condulmer, dove si accenna che il monastero e la chiesa avevano sofferto molto per le guerre, i terremoti ed altre calamità, che rendevano urgenti grandi restauri per i quali il Papa concesse indulgenze a tutti quelli che davano offerte per lo scopo prefisso.
Alla fine del XVII secolo fu operato un radicale restauro, dovuto ai guasti del tempo e dei sismi fra cui il devastante terremoto del 5 giugno 1688. Essendo cambiati i tempi ed i gusti, si cominciò a trasformare l'antica chiesa di Sant'Anna, che da gotica assunse una facies barocca: i restauri, incominciati nel 1685, furono completati nel 1691 e coprirono le originali strutture gotiche della piccola chiesa, trasformandole secondo il gusto barocco. Delle originarie forme gotiche restano solo poche tracce in strutture murarie esterne, nel cortile d'accesso, in alcuni settori del Monastero e nel portale a sesto acuto d'ingresso alla Chiesa. Del primo momento gotico del complesso si possono individuare la decorazione del corpo di fabbrica all'ingresso della chiesa, costituito da archi acuti intrecciati, la cui tipologia richiama coevi monumenti della costa d’Amalfi come il chiostro del Paradiso del duomo di Amalfi. Una situazione abbastanza articolata si registra proprio all’ingresso della chiesa dove il piccolo vano di accesso che contiene anche la ruota del convento è decorato con pitture gotiche di impronta giottesca.
Subito oltre la parete, invece, si apre un vano con decorazioni di cultura tardogotica, fra cui una serie di riquadri con storie del pellegrinaggio a San Giacomo di Compostela, dipinte nell’imposta di un arco tamponato. La parete di fronte a sua volta è dipinta con una teoria di santi di XVI secolo. Sull’altro lato della chiesa si apre una cappella al cui interno è ben visibile un’edicola decorata con un’Annunciazione del tardo Quattrocento.
Per la riconsacrazione della chiesa nel 1691, elevata in quella circostanza anche al rango di Basilica, fu chiamato un illustre domenicano, Domenico Maria Marchese, vescovo di Pozzuoli, autore del Sacro diario domenicano.
La chiesa di Sant'Anna misura 26 metri di lunghezza per 8 e mezzo di larghezza e 13 di altezza. Ha una sola navata e una volta decorata. Anticamente aveva anche delle cappelle laterali come provano alcuni affreschi. Il Coro delle monache all'epoca dei restauri fu collocato in fondo alla chiesa.
Il campanile fu sopraelevato nello stesso periodo.
All'esterno della chiesa è presente una lunetta di Andrea Sabatini del primo '500.
Al rifacimento barocco appartiene l’altare maggiore in commesso marmoreo con un bel medaglione di S. Anna con la Vergine al centro. Il Barocco napoletano, nonostante alcune esagerazioni, si mantenne per lo più nelle tradizionali forme classiche: in esso, infatti, domina un gusto equilibrato ed un’armonia che è un vero vanto degli artisti dell'epoca.
Agli architetti si aggiunsero pittori e scultori di grande fama. L’edificio sacro, pur non essendo un capolavoro, riuscì, sotto la sapiente direzione dell'anonimo architetto, una bella chiesa.
Tra le mura del monastero vissero anche alcune suore della famiglia Solimena e tre quadri sui cinque della chiesa appartengono ai Solimena, padre, figlio e nipote.
Il grande quadro sull'altare maggiore è di Angelo Solimena (1630-1716) e vi è raffigurata L’incoronazione di Sant’Anna: Sant'Anna con S. Gioacchino e la Vergine Maria ancora bambina nella parte superiore, mentre in basso, la forte e santa figura del domenicano Pio V Ghisleri è circondata da S. Domenico, S. Tommaso e Sant'Agnese di Montepulciano a destra, e da Santa Caterina da Siena, S. Rosa di Lima e S. Caterina de' Ricci a sinistra. In fondo vi è la sigla A. S. intrecciata e l'anno 1689. Il quadro è di effetto, condotto con maestria e sicurezza, forse un po’ freddo nel colore, ma vivace nei movimenti. Nelle sante il pittore ritrasse alcune monache e forse le sue figlie.
Nel primo altare a destra, scendendo dall'altare maggiore c’è una magnifica tela raffigurante la Madonna del Rosario con S. Caterina e S. Domenico di Francesco Solimena (1657 – 1747), datato 1728, anno che ricorda il periodo classico di Francesco, in cui, sicuro di sé e della sua arte, poteva farsi uno stile e una scuola. Solimena dipinse il quadro in omaggio alle sue nipoti monache, come si legge in fondo al quadro «F. Solimena in suarum gratiam nepotam monia­lium fecit et donavit a. d. 1728».
L'Adorazione dei Magi appartiene all'ultimo dei Solimena, Orazio (1690 – 1789), nipote di Francesco, che si firma con la sigla H. S. intrecciata e con la data del 1772: « H. Solimena vitae solatio p. benemerenti sorori D. 1772» Il pittore ne fece un dono alla sua sorella monaca. La tecnica di questo quadro è molto diversa dai precedenti, e sia nel colorito sia nel disegno si nota che è molto lontano dalla perfezione dello zio Francesco o del nonno Angelo.
Il primo dipinto a sinistra scendendo dall'altare maggiore, ricorda il Miracolo del Quadro di San Domenico a Soriano, con uno stile di cultura neoveneta: in un cartiglio si legge sora Chiara Villani 1660 forse una consorella pittrice del Monastero di Sant'Anna.
L'ultimo quadro è il più antico, e raffigura l’Adorazione di Cristo risorto fra Santi domenicani. Il dipinto, di squisita fattura tardonaturalista, è di un ignoto maestro di scuola napoletana cinquecentesca per il quale non si può fare nessuna attribuzione, ma certo è di grande valore. Gesù risorto è circondato da otto figure di santi e sante domenicane.
Nel vano della ruota è presente una Crocifissione trecentesca che fa pensare a Roberto d'Oderisio. L'attribuzione è supportata dalla circostanza che una familiare del pittore fu monacata nella struttura nocerina nel corso del quattordicesimo secolo (cfr Angelina Montefusco, Affreschi medievali nel territorio di Nocera, in AA. VV., Architetture e opere nella Valle del Sarno, 2005, pp. 261-266.)
Altrettanto interessante è una Annunciazione trecentesca. Fa parte di un ciclo di affreschi databili al '400 (trovati per caso da una monaca), presenti in una stanzetta attigua alla chiesa. Ne fanno parte una Crocifissione, un ciclo di San Giacomo, una Madonna con Bambino attorniata da santi e una Sant'Anna Metterza. Probabilmente questi affreschi furono realizzati dopo il 1435, quando la bolla di Papa Eugenio IV promise indulgenze a chi avesse contribuito al restauro del convento oramai danneggiato.
Massimo Capuozzo e Serena Di Ruocco

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