martedì 12 marzo 2013

Il dittico di Piero di Francesca degli Uffizi di Massimo Capuozzo


Il mirabile Dittico dei duchi di Urbino è una serie di quattro dipinti autografi di Piero della Francesca – due sul recto e due sul verso – realizzati con tecnica a olio su tavola forse fra il 1465 e il 1474. Le parti misurano 47 x 33 cm. ed il dittico è custodito agli Uffizi di Firenze. Nel recto sono raffigurati Federico II da Montefeltro e Battista Sforza, sul verso sono rappresentati allegoricamente i trionfi dei due coniugi. I due dipinti sono oggi uniti da un'unica cornice ottocentesca, probabilmente, si chiudeva come un libro lungo una cornice centrale: la pittura su entrambe le parti farebbe infatti pensare ad un oggetto privato, piuttosto che ad un ritratto pubblico da appendere – come è stato invece erroneamente ipotizzato in una parete della sala udienze nel Palazzo di Urbino – e magari fu richiesto dallo stesso Federico come ricordo dell'amatissima moglie, come sembra suggerire anche un certo tono malinconico dell'opera.
Il dittico giunse alla Galleria degli Uffizi nel 1631 insieme alla cospicua eredità della famiglia Della Rovere, quando la casata ducale urbinate si estinse. Nel 1508, Francesco Maria I Della Rovere era succeduto allo zio materno Guidubaldo I di Montefeltro che, rimasto senza eredi, lo aveva adottato. Trascorso poco più di un secolo, anche il terzo duca Della Rovere, Francesco Maria II, rimase privo di successori maschi, così, nel 1631, la dinastia si estinse: il Ducato passò alla curia romana, mentre i beni mobili, comprendenti la ricca collezione di famiglia, seguirono a Firenze Vittoria Della Rovere, nipote del duca Francesco Maria II e moglie del granduca di Toscana Ferdinando II de’ Medici. La ricchissima collezione che i tre duchi Della Rovere (Francesco Maria I, Guidubaldo II e Francesco Maria II) avevano messo insieme in poco più di un secolo fu ben presto dispersa: la libraria finì alla Biblioteca Vaticana, poi con l’estinzione dei Medici e l’avvento dei Lorena molte opere d’arte presero da Firenze la via dei musei europei, mentre la devoluzione, le spoliazioni napoleoniche e le aste fecero il resto.
Fortunatamente il dittico è rimasto a Firenze.
Nei due pannelli del recto, i due personaggi sono ritratti «all’italiana», cioè di profilo, secondo quella moda tipicamente quattrocentesca, inaugurata dal Pisanello, che si opponeva a quella dei fiamminghi che invece eseguivano i ritratti mettendo il volto a tre quarti.
Questi ritratti, al di là del loro intrinseco valore nella storia di questo genere artistico sono un tipico esempio di arte rinascimentale al punto da essere considerati un’icona di Piero e, perché no, un’icona del Rinascimento.
Il maestro di Borgo Sansepolcro fu molto legato a Federico da Montefeltro, anche se non sono del tutto chiari i suoi spostamenti alla corte urbinate, soprattutto riguardo alla frequenza ed alla durata dei suoi soggiorni, nel quadro di una vita ricca di spostamenti scarsamente documentati. Piero sicuramente soggiornò ad Urbino tra il 1469 e il 1472, portando il suo stile già delineato nei tratti fondamentali e riassumibile nell'organizzazione prospettica dei dipinti, nella semplificazione geometrica che investe le composizioni ed anche le singole figure, nell'equilibrio tra immobilità cerimoniale e indagine sulla verità umana ed infine nell'uso di una luce chiarissima che schiarisce le ombre e permea i colori. Nonostante questa discontinuità, Piero è tuttavia considerato uno dei protagonisti e dei maggiori promotori della cultura urbinate, sebbene non fosse marchigiano né di nascita né di formazione, bensì toscano, e proprio ad Urbino il suo stile raggiunse un insuperato equilibrio tra l'uso di rigorose regole geometriche ed il respiro serenamente monumentale. Una delle prime opere forse legate alla committenza urbinate è la Flagellazione, un'opera significativa ed enigmatica dai molteplici livelli di lettura che continua ad appassionare ricerche e studi. Il Dittico degli Uffizi è datato al 1465-1472 circa: il ritratto di Federico era completato nel 1465, mentre si sa che quello di Battista Sforza è postumo, quindi successivo al 1472. Nel 1469 Piero è ad Urbino, dove la Confraternita del Corpus Domini lo incaricò di dipingere uno stendardo processionale, in quell'occasione al maestro fu proposta anche la pittura della travagliata Pala del Corpus Domini. Nel 1470 Piero a Sansepolcro con Federico da Montefeltro. A Urbino Piero lasciò soprattutto la Madonna di Senigallia e la Pala di Brera, precedente al 1475, oggi ritenuta concordemente una sorta di summa dell’arte del della Francesca e delle sue teorie scientifiche sulla prospettiva.
Nel doppio Ritratto dei duchi di Urbino si nota già un influsso della pittura fiamminga: si tratta, infatti, dell'uso della tecnica a olio, innovativo per il pittore, sebbene in opere precedenti sia usata una tecnica mista, olio e tempera. Ciò può essere derivato dal contatto con i pittori fiamminghi della corte urbinate, quali Giusto di Gand. Ma la memoria nordica, in particolare di Jan van Eyck, si nota soprattutto in quei paesaggi sfumati in una profondità estremamente lontana, e nella cura dei dettagli nelle immediatamente vicine immagini dei duchi. Notevole è lo studio della luce – fredda e lunare per Battista Sforza, calda per Federico – unificata da un forte rigore formale, da un senso pieno del volume e da alcuni accorgimenti – come il rosso degli abiti di Federico – che isolano i ritratti facendoli incombere sullo spettatore.
In quest’opera Piero si impegnò in una costruzione compositiva piuttosto difficile e mai affrontata prima. Da un lato, il maestro contrappose i due ritratti in un’astratta geometria di volumi – iconograficamente riconducibile alla tradizione araldica dei ritratti su medaglia – resa possibile dall’incidersi netto dei volti contro lo sfondo rarefatto e lontano, da un altro, dietro il ritratto di profilo dei due soggetti – entrambi i profili sono taglienti e decisi – l'artista aggiunse uno straordinario paesaggio che si estende in profondità fino a perdersi in una nebulosa distanza. Un paesaggio reale dove la Valle del Metauro e le colline rappresentano i reali domini di Federico e corrisponde approssimativamente alla vista panoramica dalla torre occidentale del Palazzo Ducale di Urbino, con le colline punteggiate di torri e castelli tra fertili vallate, dove si vedono i campi arati, e un bacino, corrispondente allo sbocco sul mare, dove transitano imbarcazioni industriose, dando un'idea delle vivaci attività economiche del Ducato. Anche nel paesaggio c’è la ricerca di spazialità, intesa non tanto come costruzione di prospettive geometriche, quanto come capacità di guardare in lontananza. In questo caso la lontananza è creata prestando attenzione ai giusti valori atmosferici del cielo e dell’orizzonte, che prendono colorazioni che nel loro schiarirsi ci rendono il senso della lontananza. La relazione tra il paesaggio e i ritratti è molto stretta anche nel significato: i ritratti, con i loro profili solenni, dominano sul dipinto così come i due soggetti dominavano sulla vastità dei possedimenti. L'audacia della composizione è ulteriormente evidenziata nel passaggio repentino tra i due diversi piani prospettici: i paesaggi erano una novità nella ritrattistica italiana diversamente dalla produzione fiamminga. In Piero della Francesca non sono così meticolosamente elaborati come nei maestri del nord e la lontananza nella quale il pittore li ha posti non crea continuità con lo spazio ravvicinato occupato dalle persone. Allargano però in modo sensibile il raggio d’azione del ritratto, danno alla coppia principesca un valore di fronte al mondo che di rado si sarebbe potuto descrivere in modo così sottile.
I profili dei due personaggi sono posti in posizione affrontata, gli occhi dell’uno fissi in quelli dell’altro, in una comunicazione muta ed austera, dalla quale lo spettatore è implacabilmente escluso; nello stesso tempo tuttavia Piero offre all'occhio impietoso dell'osservatore la cruda fisicità dei personaggi. L'abilità del maestro nella resa dei volumi accompagna la sua attenzione al dettaglio: attraverso un uso sapiente della luce ci dà una descrizione miniaturistica dei gioielli di Battista Sforza, delle grinze e delle verruche sulla pelle olivastra di Federico. La loro immagine è realistica per la verosimiglianza dei dati fisionomici, ma molto idealizzata nella fissità della posa e nello sguardo non rivolto a nulla in particolare. Sono la rappresentazione aulica e cerimoniale di due personaggi che vogliono rappresentare se stessi secondo canoni classici, senza tempo. Le due figure a mezzobusto si stagliano, infatti, su uno sfondo paesaggistico visto dall’alto, che dà ai ritratti una sensazione di incredibile profondità.
Il ritratto di Federico è molto naturalistico.
La sua figura è solida, contornata dall’intenso rosso della veste e del copricapo, semplice e lineare, che conferisce equilibrio e regolarità alla figura ed isola il profilo, mentre l'ispida calotta dei capelli accentua gli effetti di massa volumetrica. I capelli sono irsuti, lo sguardo fiero e lontano.
La posizione di profilo permette di nascondere la parte destra del viso, rovinata durante un torneo: Federico aveva, infatti, perduto l’occhio destro ed il naso adunco era rotto, motivo per il quale si faceva sempre ritrarre di profilo sinistro. Il fatto che Federico sia ritratto di profilo è inoltre da intendere come un riferimento alla numismatica, o in generale alla ritrattistica classica, così come questo riferimento è riscontrabile nell'austerità del viso e nell'assenza di espressione emotiva che nobilita ed idealizza il personaggio, qui rappresentato come i sovrani ritratti nelle medaglie antiche. Riprendendo le maniere dell'arte fiamminga, Piero ha cercato tuttavia di ritrarre l’uomo in modo molto preciso, tanto da descrivere anche particolari che potevano essere considerati meno gradevoli, come il naso adunco, la pelle dipinta nei minimi particolari con distaccata oggettività – dalle rughe evidenti alle quattro piccole verruche, tracce di una malattia della pelle che aveva colpito Federico da giovane – e come il collo grosso e tozzo.
Piero ha voluto essere preciso. È voluto entrare nei particolari, per così dire ha voluto penetrare nei pori della pelle con la stessa maestria dei pittori fiamminghi a lui contemporanei. Dopotutto la corte di Federico proprio negli anni sessanta del Quattrocento viveva l'apice del suo splendore, con artisti italiani e fiamminghi che lavoravano fianco a fianco, influenzandosi reciprocamente. E Piero arriva a sfidare il loro realismo. L’attenzione ai dettagli dei fiamminghi, la loro arte nel mostrare uomini e cose come se fossero reali suscitavano molta ammirazione anche in Italia. L’arte dei fratelli Van Eyck o di Hans Memling dovette impressionare gli uomini dell’epoca, che non sapevano nulla né di fotografia né di cinema. Tuttavia Piero non era una specie di fiammingo toscano. Se la sua rappresentazione del duca di Urbino è ben informata dell’arte nordica, possiede anche tratti peculiari e molto italiani: il colore luminoso ad esempio, lo scarlatto appena sfumato del mantello e del cappello. Di fronte all’azzurro del cielo è il profilo rigoroso, tutto angoli e curve, a dare pregnanza alla testa e persino a mettere in risalto la rientranza del naso. Le linee sono più importanti delle superfici e intrattengono rapporti geometrici fra loro, come se fossero collegate in un reticolo invisibile. È possibile che questo profilo abbia ricordato agli osservatori attenti le rappresentazioni dei sovrani antichi, così come apparivano su monete e medaglie.

Rispetto al marito, Battista è rappresentata come specchiata. Il ritratto di Battista ha una colorazione chiara, con la pelle di un candore ceruleo come imponeva l'etichetta del tempo: una pelle chiara era, infatti, segno di nobiltà, in contrapposizione all'abbronzatura dei contadini che dovevano stare all'aperto. Il volto, dalla forma particolarmente tondeggiante e con un’ampia fronte, con i capelli che erano rasati col fuoco di una candela secondo la moda del tempo che imponeva un'attaccatura molto alta, è incorniciato da una ricca ed elaborata acconciatura, intessuta di panni e gioielli. Piero, al pari dei fiamminghi, riproduce con attenzione i veli trasparenti, i riccioli, la brillantezza delle perle e delle gemme e il loro gioco di luci, gli splendidi gioielli dell’epoca, restituendo, grazie all'uso delle velature a olio, il "lustro" (riflesso) peculiare di ciascuna superficie, a seconda del materiale.
Gli studiosi ritengono che il ritratto di Battista sia stato eseguito dopo la morte della donna, per un dittico insieme al ritratto del marito. Il volto senza espressione della duchessa sembra confermare quest’ipotesi: più che un ritratto dal vivo, sembra, infatti, una maschera funebre. Il pittore, con la stessa cura, nel paesaggio che fa da sfondo al ritratto, disegna poi i castelli, le strade e i campi arati delimitati da siepi, simbolo del dominio dell’uomo sulla natura.
Il volto della duchessa Battista è imperturbabile e sereno, raffigurato con un incarnato pallido e levigato, cui fa contrasto un’elaborata acconciatura alla moda. Nel paesaggio vediamo una morfologia analoga, più o meno, a quella del paesaggio del primo ritratto, a simboleggiare l'eterna vicinanza dei due sposi.

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