venerdì 5 aprile 2013

Ludovico Ariosto: vita e opere di Massimo Capuozzo

Ludovico Ariosto – Ariosto è la tipica figura di intellettuale cortigiano del Rinascimento, come Castiglione, Bembo e molti altri letterati dell’epoca. La personalità di Ariosto è però complessa ed inoltre nutre nei confronti dell'ambiente in cui vive e lavora sentimenti di malcelato rifiuto e scaglia contro di esso una sottile polemica.

La vita e le opere – Primo di dieci figli, Ludovico Ariosto nacque nel 1474 a Reggio Emilia da Daria Malaguzzi (di nobiltà reggiana) e dal conte Niccolò Ariosto (discendente da nobile famiglia bolognese trapiantata a Ferrara) dove questi era capitano, della rocca della città, in nome degli Estensi.
Nel 1481, la famiglia si trasferì prima, a Rovigo, dove Niccolò era stato inviato dal duca Ercole I d'Este con l'incarico di comandante della guarnigione; poi, a seguito della guerra scoppiata tra Ferrara e Venezia, a Reggio, infine nel 1484, a Ferrara, sede della Corte Estense, uno dei centri culturali più evoluti e raffinati del Rinascimento.
Tra il 1489 e il 1494, contro voglia, per volere del padre, e con esiti piuttosto modesti, studiò diritto presso l'Università di Ferrara. Ma intanto partecipava alla vivace vita della corte di Ercole I, dove entrò in contatto con vari e prestigiosi letterati e umanisti (Ercole Strozzi, Pietro Bembo e molti altri). Lasciato finalmente libero dal padre di dedicarsi ai prediletti studi letterari, abbandonò il diritto e intraprese lo studio della letteratura latina, cominciando a frequentare i corsi dell'umanista Gregorio da Spoleto ed impegnandosi anche in una produzione poetica sia latina sul modello dei grandi poeti dell’antichità, Tibullo, Catullo, Orazio (liriche amorose, elegie, De diversis amoribusDe laudibus Sophiae ad Herculem Ferrariae ducem primum,Epithalamium, epitaffi ed epigrammi) sia volgare, le Rime di argomento prevalentemente amoroso e di timbro petrarche­sco (pubblicate postume 1546).
Nel 1500, in seguito alla morte del padre e, poiché era il primogenito, la necessità di provvedere a una numerosa famiglia, lo costrinse a cercare un impiego e ad abbandonare così la vita meditativa degli studi per quella pratica: la tutela delle cinque sorelle e dei quattro fratelli (tre dei quali minorenni e il maggiore Gabriele paralitico, che rimane con lui tutta la vita). In una delle Satire così egli rievoca argutamente questo momento della sua vita:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero.
dietro a Marta bisogna ch’io rivolga.
Nel 1502, Ariosto ottenne il capitanato della rocca di Canossa.
Nel 1503, ebbe un figlio, Giambattista, dalla domestica Maria. Sempre nello stesso anno entrò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, figlio di Ercole I e fratello del duca Alfonso e divenne funzionario di corte. Al servizio del cardinale, uomo gretto, avaro e insensibile alla cultura e alla poesia, svolse svariati, faticosi, mal retribuiti e ingrati compiti: dalle incombenze pratiche, quali aiutare il signore a spogliarsi, alle faccende amministrative, dalle funzioni di intrattenimento e di rappresentanza alle delicate e rischiose missioni politiche e diplomatiche. Il lavoro presso il cardinale lo costringeva ad attività troppo lontane dai suoi gusti, dal suo amore per la poesia. La vita stessa di corte, cui pure ambivano la maggior parte degli uomini di cultura del tempo, la sentiva come una necessità alquanto fastidiosa e l’accettava di malavoglia, anche se con bonaria rassegnazione. Vagheggiava per contra­sto una esistenza modesta e pacifica, libera da impegni gravosi e confacente ai suoi amati studi. È un ideale che argutamente esprime in una delle Satire:
In casa mia mi sa meglio una rapa,
ch’io cuoca, e cotta su ‘n stecco me inforco
e mondo e spargo poi di aceto e sapa
che all’altrui mensa tordo, starna o porco selvaggio.
Tra il 1507 e il 1515, periodo assai ricco di incidenti diplomatici, Ariosto fu spesso costretto a fare viaggi a cavallo per recarsi ad Urbino, a Venezia, a Firenze, a Bologna, a Modena, a Mantova e a Roma. E così, mentre attendeva alla stesura dell'Orlando furioso, e si impegnava nell'ambito del teatro di corte, scrivendo e mettendo in scena i primi importanti esperimenti del nuovo teatro volgare, le commedie Cassaria e I Suppositi, Ariosto fu protagonista di una delle fasi più aspre delle guerre d'Italia.
Fra gli anni 1507 e 1531 compose per il teatro di corte cinque commedie modellate per la struttura sui classici greci e latini, ma nelle quali spesso si riflettono la vita e la so­cietà contemporanee.
La situazione del Ducato, restio alla soggezione allo Stato della Chiesa, divenne, in seguito alle vicende provocate dalla Lega di Cambrai del 1508, delicata sul piano militare e diplomatico.  
Nel 1509, Ariosto seguì il cardinale nella guerra contro Venezia.
Nel 1510, Ariosto si recò a Roma per ottenere la revoca della scomunica inflitta da papa Giulio II Della Rovere al cardinale e su quest'ultimo fu richiesta l'opera di Ariosto, inviato spesso come messaggero presso Giulio II: la risolutezza del poeta è indicata dal fatto che il papa giunse a minacciarlo di morte e di essere gettato ai pesci.
Nel 1512, Ariosto insieme al duca Alfonso, che dopo la vittoria dei Francesi e dei Ferraresi sulle truppe papali a Ravenna cercava di rappacificarsi col pontefice, visse una romanzesca fuga attraverso gli Appennini, per sottrarsi alle ire del pontefice, deciso a non riconciliarsi con gli Estensi, alleatisi con i francesi nella guerra della Lega Santa.
Nel 1513, alla morte di Giulio II, si recò nuovamente a Roma per felicitarsi con il nuovo papa Leone X de’ Medici, che aveva con lui rapporti amichevoli, sperando, tuttavia invano, di ottenere un beneficio generoso che gli permettesse una sistemazione più tranquilla, ma rimase deluso. Nel viaggio di ritorno Ariosto conobbe a Firenze Alessandra Benucci, una fiorentina sposata con il ferrarese Tito Strozzi: fu l'unico amore della sua vita.
Nel 1515, morto il marito, la Benucci andò ad abitare a Ferrara, ma non visse mai con lui, neppure dopo il matrimonio, celebrato in gran segreto nel 1527 — affinché lei non perdesse i diritti all'eredità del marito e lui i suoi benefici ecclesiastici.
Nel 1516, uscì la prima edizione dell'Orlando furioso, in quaranta canti, dedicata al cardinale Ippolito d'Este, che tuttavia non dimostrò alcuna gratitudine.
Nel 1517, Ariosto lasciò il servizio del cardinale Ippolito, quando questi fu nominato vescovo di Budapest. Ariosto si rifiutò di seguirlo in un paese che giudicava inospitale per co­stumi e per clima; e soprattutto perché sarebbe stato costretto ad abbandonare, oltre che la sua città («a me piace abitar la mia contrada»), anche la donna amata, Alessandra Benucci.
Tra il 1517 e il 1521, attende alla composizione delle sette Satire componimenti in terzine e in forma epistolare (pubblicate solo nel 1534): realistica e amara meditazione sugli ambienti cortigiani e sulla sorte degli uomini di lettere. Non sono satire nel senso che è oggi dato al termine, ma conversazioni argute e riflessive come le Satire oraziane che Ariosto ebbe a modello. In esse l’autore delinea il proprio ritratto che, se non corrisponde sempre a ciò che egli vera­mente fu nella realtà, coglie però i tratti essenziali della sua natura e del suo carattere: la predilezione per la vita studiosa e appartata, l’insofferenza per la mondanità vacua della corte, l’amore per la sua donna e per la sua città e la sofferenza a staccarsi da en­trambe, l’ammirazione per la cultura classica; e poi le speranze e le delusioni che a lui, come a tutti gli uomini, elargiva la vita: il tutto guardato con maturo e bonario equili­brio.
Questi sono probabilmente anche gli anni a cui risale la stesura dei Cinque Canti, composti in vista di un inserimento nel Furioso, ma poi lasciati da parte a causa dei toni cupi e perciò dissonanti rispetto al resto del poema.
Nel 1518, lasciato il cardinale Ippolito, entrò al servizio del duca Alfonso I: anche questa «servitù» non fu leggera, pur senza migliorare la situazione economica.
Tra il 1519 e il 1520 prosegue la composizione delle rime in volgare e compone, inoltre, due commedie Il Negromante e I studenti (incompiuta).
Nel 1521, seguì una seconda edizione dell’Orlando furioso.
Dal 1522 al 1525, per volere del duca dovette, assume­re, seppur malvolentieri, l’incarico di governatore della regione montuosa e selvatica della Garfagnana, un paese violento, infestato dai briganti. E, benché amasse rappresentarsi come inetto alle cose pratiche, tenne questo difficile ufficio con fermezza ed equilibrio. Le Lettere, scritte per dovere d'ufficio al duca, rivelano la grande fermezza, serietà e sagacia amministrativa e politica con cui Ariosto cercò di ricondurre la legge e l'ordine in quel territorio di confine, infestato dai banditi e dalle violenza delle fazioni rivali.
Nel 1525, lasciata la Garfagnana, si apre un periodo più sereno e per il poeta e per il suo ducato. Tornato a Ferrara, il duca gli affida varie cariche amministrative ma anche incarichi a lui più congeniali. Fu chiamato, infatti, a far parte del Maestrato dei savi e fu nominato sovrintendente agli spettacoli di corte. Riscrive in versi la Cassaria e I Suppositi, rielabora Il Negromante.
Nel 1528 è a Modena con il duca per scortare l'imperatore Carlo V di passaggio nello Stato estense e nel 1528 scrive una nuova commedia, la Lena, in versi rappresentata a Ferrara nel carnevale del 1528 e ripresa l'anno successivo con l'aggiunta di nuove scene. Imperniata sui maneggi della ruffiana Lena per favorire gli amori contrastati della giovane figlia di un suo amante, è il miglior testo teatrale ariostesco, in quanto riscatta la convenzionalità del tema ancorandolo alla realtà ferrarese del Rinascimento.
Tornato a Ferrara si ritirò finalmente a vita privata; si comprò una modesta casetta con un piccolo orto, e lì trascorse gli ultimi suoi anni, fra le occupazioni agresti e i diletti studi, curando soprattutto l’ultima revisione della sua opera maggiore, L’Orlando furioso.
Nel 1531, dopo essere stato a Firenze, ad Abano e a Venezia, il marchese del Vasto, Alfonso d'Avalos, condottiero dell'esercito imperiale, gli assegna, a Correggio, una pensione di cento ducati d'oro.
Nel 1532 seguì una terza edizione dell’Orlando furioso aumentata di sei canti: notevolissima l’elabora­zione linguistica e formale che intercorre fra la prima edizione e l’ultima. Nello stesso anno diresse le recite di una compagnia padovana inviata a Ferrara dal Ruzzante.
Ammalatosi di enterite, morì nel 1533 nella parva domus acquistata sei anni prima in contrada Mirasole.

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