martedì 7 maggio 2013

I ritratti di Alfonso d’Aragona: da Mino da Fiesole a Francesco Laurana di Massimo Capuozzo


Il bellissimo bassorilievo raffigurante il re di Napoli Alfonso d’Aragona fu eseguito da Mino da Fiesole fra il 1454 e il 1456. Quando Mino fu chiamato a lavorare per la corte aragonese di Napoli, la fama dello scultore poggiava già sull'amabilità e sulla dolcezza delle sue figure.
Il gusto del busto-ritratto in marmo o in materiali plastici come la terracotta si era sviluppato a Firenze nella metà del XV secolo. Sono ritratti caratterizzati e riconoscibili, spesso di defunti con funzione commemorativa, ma anche dei signori della casa, per legittimare la nobiltà del tempo, consegnando le effigi degli antenati ai discendenti o di giovani donne che hanno lasciato la casa paterna per sposarsi con la funzione di manifestare le virtù di castità, grazie e signorilità della donna. Queste esperienze erano nate dalle indagini plastiche di Donatello, che aveva sperimentato nuove soluzioni sia di resa realistica della figura umana e della sua collocazione nello spazio, sia di restituzione in scultura dei sentimenti e di approfondimento dell’espressività dei volti.
Gli scultori fiorentini cui è maggiormente legato lo sviluppo di questo genere artistico sono Mino da Fiesole, Desiderio da Settignano, Benedetto da Maiano, Antonio Rossellino: i loro committenti sono le principali famiglie fiorentine del periodo e anche alcuni principi e signori italiani, da Federico da Montefeltro al re di Napoli Alfonso d’Aragona.
La prima attività di ritrattista di Mino da Fiesole è attestata dalla sua familiarità con i Medici, per i quali eseguì il busto di Piero, del 1453, figlio ed erede di Cosimo il Vecchio, e il busto di Giovanni, eseguito fra il 1453 e il 1459, custoditi entrambi al Museo Nazionale del Bargello a Firenze. Le fonti riferiscono che Mino aveva scolpito anche il busto di Lucrezia Tornabuoni, moglie di Piero: i tre busti stavano sotto un vano architravato in palazzo Medici.
Il culto per i busti ritratto non si limitò a Firenze e i servigi di Mino furono richiesti a Roma, dove nel 1454 realizzò il busto di Niccolò Strozzi un banchiere esule fiorentino, oggi allo Staatliche Museen di Berlino. Mino era un artista minuzioso, che descriveva senza compiacimenti il personaggio. I ritratti di Piero de Medici e Niccolò Strozzi mostrano la personalità di scultore di Mino da Fiesole e il suo approccio al ritratto in cui il personaggio è raffigurato senza indulgenza ai difetti fisici e di carattere, come lo sguardo cupo di Piero o l’obesità quasi deforme di Strozzi.
Alla corte di Alfonso d'Aragona a Napoli, dove probabilmente lavorò anche all'arco trionfale di Castelnuovo, eseguì il ritratto di profilo del sovrano ed un busto del generale Astorgio Manfredi alla National Gallery di Washington. Due documenti riferiscono esecuzione di una scultura raffigurante S. Giovanni Battista, oggi perduto, e di un Ritratto di Alfonso d’Aragona oggi al Louvre, opere entrambe destinate a Castel Nuovo.
Gli scambi di artisti tra Medici ed Aragonesi, avviati dopo la Pace di Lodi del 1454 furono cruciali per il recupero dei profili all’antica, ma anche del ritratto moderno in scultura. A Napoli giunsero, infatti, dal 1455, oltre a Desiderio da Settignano, anche Donatello – la cui opera era visibile nel sepolcro del cardinale Rainaldo Brancaccio nella chiesa di Sant’Angelo a Nido – e Mino da Fiesole.
Nel Ritratto di Alfonso d’Aragona, 52 cm. x 44 cm, Mino utilizzò lo schema di profilo e il bassorilievo di derivazione antica già apparso nei Dodici Cesari di Desiderio da Settignano, eseguiti per Alfonso d’Aragona, ma anche nelle medaglie che Pisanello, nel suo soggiorno napoletano, aveva eseguito per lo stesso sovrano. Nelle opere di Mino da Fiesole e di Desiderio da Settignano è notevole uno strettissimo legame fra la ripresa di modelli antichi, studiati per riproporre nuove opere classicheggianti, e lo studio realistico della figura, destinato invece a confluire nel ritratto. Modello antico e studio dal vero sono i due poli essenziali nell’arte rinascimentale che in Mino vanno in parallelo.
La lastra che raffigura Alfonso è in discreto stato di conservazione, sebbene una frattura interessi la zona in alto a sinistra, ma non intacca il ritratto. Per realizzarlo, Mino utilizzò la tecnica dello stiacciato, un rilievo bassissimo con variazioni minime, talvolta di pochi millimetri rispetto al fondo, usato da Donatello e dagli scultori di ambiente fiorentino, per dare una riduzione in prospettiva del volume reale dei corpi, conseguendo così un valore pittorico.
All’epoca del ritratto, Alfonso aveva all’incirca sessantadue anni ed era reduce da una guerra durata quasi quattro anni che lo aveva visto opporsi a Renato D'Angiò e trionfare. Dopo lutti, stenti e battaglie combattute porta a porta, Renato era stato costretto ad imbarcarsi per fuggire ed Alfonso aveva celebrato il proprio ingresso nel 1442 in una Napoli sottratta agli Angiò con un trionfo di sapore antico, raffigurato più tardi nell’arco di Castelnuovo da un’équipe di artisti fiorentini o di cultura rinascimentale. In questo ritratto, l’espressione di Alfonso è assorta e serena nello stesso tempo, nonostante avesse ereditato un regno ormai ridotto allo stremo e con le finanze a zero. Lo sguardo è proiettato lontano, per nulla spaventato dall’arduo impegno che lo attendeva. I tratti fisionomici sono eseguiti con molto realismo: le linee della fronte e del naso sono sinuose, il viso sporge in corrispondenza del naso e delle labbra carnose e ben delineate, mentre il mento è sfuggente e a punta, il naso è lungo e la punta volge verso il basso, la forma dell’orecchio è ovale. Le spalle possenti rivelano il guerriero e sono inguainate da una tunica secondo la moda dell’epoca e da un mantello realisticamente panneggiato di vago sapore romano che conferisce a quest’opera l’aspetto di un antico cammeo. La grazia aspra nelle pieghe acute del panneggio contrasta con il passaggio dolce dei piani nel volto: questo ritratto, caratterizzato da una sottile penetrazione psicologica, attesta una conoscenza profonda della ritrattistica romana. Per artisti come Desiderio, Mino, Pisanello era facile passare dalla raffigurazione di sovrani dell’antichità a quella di re contemporanei, appassionati di antichità e collezionisti di medaglie e di pezzi archeologici.
Alfonso fu un grande sovrano: con lui il Regno di Napoli entrò a far parte, come centro principale, della Confederazione di Stati della Corona d'Aragona e in breve tempo la situazione economica cambiò radicalmente. Con la nuova dinastia i traffici e le relazioni politiche si incrementarono, i servizi si accentrarono presso la corte e gli scambi culturali e commerciali tra l'Italia meridionale e le regioni iberiche si accentuarono: la città venne dunque a trovarsi al centro di un vasto e vitale circuito mediterraneo mentre furono realizzate imponenti opere come il restauro o la costruzione ex novo di fogne e di strade, o grandi opere di ristrutturazione.
Da vero principe rinascimentale, egli protesse le arti e favorì i letterati, che credeva avrebbero tramandato la sua fama ai posteri. Il suo amore per i classici fu eccezionale, anche per i suoi tempi: alla sua Corte convennero umanisti celebri come il Panormita (1394  1471), Francesco Filelfo (1398  1481), Bartolomeo Facio (1400 – 1457) e Lorenzo Valla (1405 o 1407  1457). La Biblioteca degli Aragonesi di Napoli, una delle luci più splendide del Rinascimento, fu avviata da Alfonso il Magnanimo subito dopo la sua scenografica entrata in Napoli fu quasi il simbolo di un'epoca di eccezionale splendore culturale per la città. La biblioteca – fino alla fatale inva­sione di Carlo VIII nel 1494 che trasferì in Francia 1140 fra incunaboli e manoscritti – era disposta in una grande sala in vista del mare ed era ricca di migliaia di incunaboli e di manoscritti, spesso capolavori dei calligrafi e dei miniatori più illustri del tempo, che lavoravano espressamente per gli Ara­gonesi. I volumi erano collocati negli scaffali, alcuni più grandi erano su tavolini coperti di tappeti, con rilegature scintillanti. La biblioteca degli Aragonesi divenne ben presto un cen­tro vivo ed originale di cultura, cui facevano capo gli ingegni più elevati del tempo, da Bracciolini a Biondo, da Filelfo a Pontano, da Sannazaro a Poliziano.
Alfonso rifece Castelnuovo, vero e proprio modello di reggia fortificata, sede della sua Corte: danneggiato dalle continue guerre Alfonso ne promosse la ristrutturazione affidando l’opera all'architetto maiorcano Guillermo Sagrera (1380 -1456), operante in Italia dal 1446, dove realizzò il suo maggiore capolavoro. Egli ridisegnò quasi totalmente la planimetria della grande fabbrica angioina, dotandola di una pianta trapezoidale irregolare e trasformò le torri, che avevano pianta quadrata, in pianta circolare e rivestite di piperno, inoltre progettò nella fortezza napoletana alcuni loggiati lungo la facciata principale e lungo quella di destra. Ma l'opera più spettacolare che spetta a Sagrera è la superba sala del trono (chiamata in seguito sala dei baroni) la cui maestosa volta fu concepita secondo un disegno stellare che culmina al centro con un luminoso oculo aperto.
Nel 1453, quando il potere reale poteva definirsi ormai solido, Alfonso decise di dotare il castello di un ingresso monumentale, ispirato agli antichi archi di trionfo romani. Il superbo Arco di trionfo di Castel Nuovo, ritenuto una delle più rilevanti opere del Rinascimento italiano, in marmo bianco, di recente restaurato e restituito al suo originario splendore, si pone a simbolo della sovranità di Alfonso sulla città.
Quest’arco è un'opera straordinaria, nata forse dalla collaborazione tra Francesco Laurana (1430-1502) e Guillermo Sagrera ed è il frutto del lavoro di numerose maestranze di diversa cultura e provenienza che crearono un documento eccezionale per aree di influenza: la componente fiammingo-borgognona accanto a quella iberica e dalmata e a quella toscana diventa in quest’opera una testimonianza storico-artistica di carattere prettamente mediterraneo di altissimo livello e che contribuirono alla contaminazione stilistica dell’opera, spaziando dal rinascimento toscano alle tendenze d’oltralpe e veneziane, tutte volte alla riscoperta della classicità.
L'Arco è composto da due volte sovrapposte, rette da colonne binate e coronate da un originalissimo timpano curvilineo. Il principale maestro dell'arco fu senza dubbio il dalmata Francesco Laurana, la cui opera si ricollega alla corte di Urbino: in questo scorcio tardo del Medioevo, la Dalmazia fu centro di diffusione di forme artistiche, in particolare nella scultura determinata dall’esportazione della pietra locale, attività al seguito della quale si erano formati vari artisti operanti a Venezia ed in altri centri italiani, come ad esempio Urbino, dove l'omonimo Luciano Laurana operò con Francesco.
I rilievi dell'arco di trionfo rappresentano un evento storico, enfatizzato dal riferimento al trionfo imperiale romano: l'ingresso a Napoli del re Alfonso, celebrato il 26 febbraio del 1443 come vincitore di Renato d'Angiò, accuratamente preparato con un preciso cerimoniale elaborato dalla corte reale. Il corteo reale si era svolto tra la porta del Mercato e Castel Nuovo. Il re procedeva su un carro dorato condotto da quattro cavalli bianchi, preceduto dai musici a cavallo, da sette Virtù rappresentate da altrettanti cavalieri e da carri allegorici. Seguivano a piedi il principe ereditario e i nobili aragonesi e napoletani.

Le sculture raffiguravano l'avvenimento storico, ma arricchito di significati universali. Il rilievo del fregio centrale dell'arco inferiore raffigura il corteo trionfale di Alfonso, raffigurato come un imperatore, seduto sul carro condotto dalla Fortuna e circondato dai dignitari della sua corte. La gerarchia è affermata dalla collocazione delle figure del seguito su un registro inferiore a quello del sovrano. L'arco superiore avrebbe dovuto inquadrare la statua equestre del re aragonese, che Alfonso avrebbe voluto far eseguire da stesso Donatello, ma che non fu mai realizzata.
La realizzazione del complesso apparato scultoreo dell'Arco trionfale costituì il laboratorio di formazione di vari artisti rinascimentali, che, dopo quest’opera, lavorando in tutto il Regno di Napoli, riproposero nell'Italia meridionale le innovazioni rinascimentali. Da qui è nata l’espressione clima dell'arco per questa prima diffusione dei nuovi modi artistici.
Sebbene non abbia saputo ingraziarsi l'animo di tutti i Napoletani – Alfonso morì, non amato dai partenopei, visto sempre come straniero e conquistatore a differenza degli amati e coccolati Angioini – Alfonso riconobbe a Napoli un'importanza primaria rispetto alle altre città del suo regno facendo di essa una vera e propria capitale mediterranea, profondendo somme immense per abbellirla ulteriormente, proteggendo le arti e le industrie. Il nuovo sapere restò però essenzialmente confinato alla corte, mancando ad esempio un'attenzione del sovrano all'Università, che avrebbe potuto diffondere la nuova cultura nel regno.
Massimo Capuozzo

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