giovedì 20 novembre 2014

Il Petrarchismo fra costanti e variabili di Massimo Capuozzo

Il Petrarchismo fu un fenomeno letterario che consistette nella riproposizione di forme stilistiche e di temi ispirati alla produzione lirica in volgare di Francesco Petrarca.
Questo fenomeno nacque già all’indomani della morte di Petrarca e si diffuse per tutto il Quattrocento, quando il poeta aretino divenne fonte di ispirazione ed oggetto di imitazione. Mentre però nel Quattrocento il modello petrarchesco era piuttosto libero e vario, come attestano le poesie di Boiardo, Poliziano, Lorenzo il Magnifico, nel Cinquecento si verificò una cristallizzazione ed una codificazione del modello petrarchesco, presentato come esempio perfetto nell’ambito della complessiva teorizzazione dei generi letterari.
Sebbene l’influsso petrarchesco si sia esteso come fil rouge fino alla poesia dei nostri giorni, la forma storica di Petrarchismo, ben definita nel tempo e nelle sue caratteristiche, è stato proprio il Petrarchismo del Cinquecento, cioè quell’estesa produzione di rime scritte sul modello del Canzoniere con massima aderenza al modello, sulla base delle indicazioni teoriche codificate attraverso un vero e proprio manuale del letterato, ossia le Prose della volgar lingua, di Pietro Bembo (1470 – 1547), una delle opere fondanti del Rinascimento italiano.
Tiziano - Ritratto di Pietro Bembo - National gallery of art - Washington
Bembo lavorò per circa un trentennio sul Canzoniere e sulla lingua di Petrarca e i momenti principali di questo lavoro sono sintetizzabili in tre fasi. Dapprima studiò un autografo del Canzoniere, per curarne la pubblicazione presso l’editore Aldo Manuzio: un’edizione pubblicata nel 1501, in un formato tascabile che permise la diffusione e la conoscenza dell’opera anche al di fuori delle istituzioni culturali tradizionali – le accademie e le corti – che erano i normali centri di raccolta dei libri, oggetti in quell’epoca ancora abbastanza rari. Dopo un ventennio di circolazione e di progressiva diffusione del Canzoniere, nel 1525, Bembo pubblicò le Prose della volgar lingua, una sorta di grammatica della lingua volgare secondo i canoni del Cinquecento, il cui assunto principale è che la lingua italiana debba corrispondere al fiorentino della tradizione scritta fino a Petrarca e Boccaccio; il dialogo conteneva inoltre precisi dettami riguardo al ruolo di modello attribuito a Petrarca per la lingua poetica e a Boccaccio per la prosa. Le Prose della volgar lingua rappresentarono, dunque, una pietra miliare dopo la quale, divenne impossibile, per chi volesse scrivere poesia d’amore in volgare italiano, sottrarsi al modello petrarchesco. Nel 1530, infine, Bembo pubblicò la sua raccolta di Rime, diversa come impostazione dal Canzoniere, ma, di fatto, il primo vero esempio di Petrarchismo regolamentato.
Se la raccolta spazia come temi, argomenti e situazioni in ambiti diversi, senza mai raggiungere il livello di drammaticità toccato dall’anima dolente di Petrarca, dal punto di vista stilistico si tratta di un insieme compatto, in cui l’autore si cimenta in prima persona con le caratteristiche peculiari dello stile petrarchesco, da lui considerato come oggetto d’imitazione al pari di un classico.
Bembo sosteneva un’imitazione totale del modello e non parziale come era stato per il Petrarchismo quattrocentesco e riteneva che si dovesse imitare la personalità poetica stessa di Petrarca, il suo mondo morale innanzi tutto, e quindi la storia di un'anima così come era narrata nel Canzoniere, cioè nel suo itinerario dal giovenile errore fino alla scelta del bene celeste.
Secondo la teoria di Bembo, Petrarca è un modello connesso al concetto di imitatio, idea fondante del Classicismo, come era stato nei confronti dei poeti latini. Bembo ha il merito di aver considerato il linguaggio di Petrarca non legato al toscano, ma all’Italiano nazionale oltre che al Provenzale e, più indietro ancora, al Latino e di aver risolto in questo modo la rivalità tra Italiano e Latino che nasceva spontaneamente con il concetto di imitatio.
Nella sua elaborazione del Petrarchismo Bembo delineò il concetto d’amore platonico che si risolveva nel desiderio e nella contemplazione di una bellezza tutta ideale. Il vero amore deve tendere alla perfezione; in questo senso «bisogna evitare gli inutili amori mondani per cercare una felicità e una serenità immutabili, che soltanto l’amore più alto può dare, cioè quello divino». Questo concetto influenzò significativamente la lirica amorosa e perfino il modo di pensare del Cinquecento che fu rivisitato e ripreso nei secoli a seguire.
Il canzoniere d’amore di Bembo è una vera e propria storia sul modello petrarchesco, per la donna amata, la Morosina, da cui ebbe anche un figlio.
Il sonetto La fera che scolpita nel cor tengo, scritto tra il 1530 e il 1535, verte sul tema tradizionale, presente anche nel Dante delle rime petrose oltre che in Petrarca, della donna fera, cioè crudele; vi compare inoltre il motivo dell'età matura che non si addice più alle passioni, tipico delle rime definite dello stil canuto, presenti nella parte finale del Canzoniere petrarchesco.
Nel sonetto Bembo canta la sua passione per la donna amata, attraverso una serie di immagini convenzionali. L'espressione scolpita nel cor tengo contiene almeno due riferimenti: alla donna dipinta nel cuore, di ascendenza siciliana, e quello alla donna-pietra, emblema della crudeltà, tipico della lirica stilnovista e petrarchesca.
Un altro tema tradizionale è quello della fuga e della caccia, al quale rimanda fin dal primo verso l'espressione fera: la donna è come una fiera, costantemente in fuga, imprendibile, e l'uomo la insegue, ne cerca le tracce, vuoi cacciarla, anche se si rende conto d'essere lui la preda. L'inseguimento è pertanto inutile, ma pure è impossibile evitarlo, poiché è imposto da un inesorabile destino. A Petrarca rimanda poi in modo specifico la dolorosa percezione della fuga del tempo e della brevità della vita, che il poeta sente di perdere in vani pensieri, mentre la morte si fa ogni giorno più vicina.

La fera[1] che scolpita nel cor tengo,
così l'avess'io viva entro le braccia:
fuggì sì leve[2], ch'io perdei la traccia,
né freno il corso, né la sete spengo[3].

Anzi così tra due[4] vivo e sostengo
l'anima forsennata, che procaccia[5]
far d'una tigre sciolta[6] preda in caccia,
traendo me, che seguir lei convengo[7].

E so ch'io movo indarno[8], o penser casso[9],
e perdo inutilmente il dolce tempo
de la mia vita, che giamai non torna.

Ben devrei ricovrarmi[10], or chi' m'attempo[11]
et ho forse vicin l'ultimo passo:
ma piè mosso dal ciel nulla distorna[12].

Il testo Io, che già vago e sciolto avea pensato è una dimostrazione della rielaborazione petrarchesca di elementi tipicamente stilnovisti come il Signoraggio di Amore, la donna-Angelo e l’Amore come forza devastante, poi tipici di Petrarca, che li rivestirà, nel suo dissidio interiore, di una patina di maggiore drammaticità.

Io, che già vago e sciolto avea pensato
viver quest'anni, e sì di ghiaccio armarme
che fiamma non potesse omai[13] scaldarme,
avampo tutto e son preso e legato.

Giva solo per via, quando da lato
donna scesa dal ciel vidi passarme,
e per mirarla, a pie mi cadder l'arme,
che tenendo, sarei forse campato.

Nacque ne l'alma insieme un fiero ardore,
che la consuma, e bella mano avinse
catene al collo adamantine e salde.

Tal per te sono, e non men pento,
Amore, purché tu lei, che sì m'accese e strinse,
Qualche poco, Signor, leghi e riscalde.

Il sonetto in morte della donna amata, la Morosina, Quando, forse per dar loco a le stelle, fu scritto prima del 1530 per un'altra donna, e solo successivamente fu inserito tra le rime dedicate a lei: ciò evidenzia la sostanza non realistica, ma astratta, priva di concretezza biografica di questi canzonieri e della poesia lirica in generale, dai provenzali in poi. In effetti il sonetto non presenta alcun dato reale e concreto, ma è piuttosto un accorato lamento sulla condizione umana in generale, sulla caducità della vita e la crudeltà del destino, nonché sull'importanza del ricordo, delle nostre immagini mentali che sole ci appartengono e ci soccorrono.
In questo sonetto il riferimento al Canzoniere petrarchesco è ancora più esplicito: Bembo afferma, con la consueta iperbole, che non ci fu mai alcuna donna al mondo in grado di reggere il paragone con la sua, neppure Laura, nonostante la fama di cui gode. L'atmosfera notturna evocata nella prima quartina fornisce al colloquio del poeta con se stesso una particolare intimità e prepara l'effusione lirica delle terzine, dove il tono si fa più cupo e dolente; in questi versi, infatti, l'anima del poeta è interamente dominata dal ricordo della donna morta, che ora forse risplende in una stella. Il tema della morte e del destino è associato, come spesso avviene nella poesia petrarchista, all'immagine delle Parche, inquietanti figure mitologiche che presiedono all'esistenza di ogni uomo.

Quando, forse per dar loco[14] a le stelle,
il sol si parte[15], e ‘l nostro cielo imbruna,
spargendosi di lor[16], ch'ad una ad una,
a diete, a cento escon fuor chiare e belle,

i’ penso e parlo meco[17]: in qual di quelle
ora splende colei, cui par alcuna
non fu mai sotto ‘l cerchio de la luna[18],
benché di Laura il mondo assai favelle[19]?

In questa[20] piango, e poi ch'al mio riposo[21]
torno, più largo fiume gli occhi miei,
e l'imagine sua l'alma riempie,

trista[22]; la qual[23] mirando fiso in lei[24]
le dice quel, ch'io poi ridir non osò:
o notti amare, o Parche[25] ingiuste et empie.

Sulle orme di Bembo si sviluppò nel corso del Cinquecento una lirica petrarchista regolamentata i cui valori formali, squisitamente letterari, si declinano secondo i temi della retorica classica, filtrati attraverso le arditezze della poesia provenzale di cui Petrarca è spesso considerato interprete caratteristico se non unico.
Così come era stato teorizzato da Pietro Bembo, il lessico del Petrarchismo non è quello quotidiano e neanche quello quotidiano della vita di corte, ma quello molto elitario del Canzoniere. Al carattere elitario dell’esperienza amorosa, esistenziale e religiosa, doveva corrispondere il carattere elitario della lingua. Lo stile doveva tendere ad un massimo di misura, di grazia, di decoro: qualità a un tempo di stile e di distinzione sociale. I versi dovevano succedersi in modo fluido e armonico. Le figure retoriche dovevano indulgere ad antitesi, o a studiati parallelismi, o a giochi di corrispondenza e di simmetria. Assai meno imitata fu, invece, la struttura complessiva del Canzoniere, nella sua organizzazione interna e nel numero dei componimenti. Ci si limitò in genere a indicare le tappe essenziali di un itinerario di vita caratterizzato dall’amore per una donna e dal pentimento finale, con la scelta di un amore tutto spirituale rivolto a Dio.
Il Petrarchismo divenne una convenzione letteraria che incoraggiò per secoli un modo formale di comporre, di leggere e di vivere la poesia. Esso è un fenomeno ricco di aspetti negativi e positivi. Se da un lato, infatti, la lingua della poesia si specializzò e si istituzionalizzò, cristallizzandosi in formule fisse e stereotipate e se inoltre favorì il distacco della letteratura dalla vita, una pericolosa tendenza all’astrattezza e all’evasione, d’altro lato ad un tempo esso contribuì in modo decisivo a creare una lingua letteraria unica sul piano nazionale e a tenere in vita quei valori di decoro e di misura che, sorti con l’Umanesimo, si prolungarono fino al Novecento.
Come sempre, i diversi sostrati culturali che caratterizzavano la nostra penisola furono incisivi sulla resa dei vari canzonieri.
Il Petrarchismo veneto è il più ossequiente a Bembo: al suo ambito appartengono Bernardo Cappello, Trifone Gabriele e Antonio Brocardo (1500-1531).
Quest’ultimo, verso la fine della propria vita, si distaccò dalla lezione di Bembo e per questo fu duramente criticato dalla cerchia degli altri letterati veneti, fino a morirne di dolore. Le sue poesie uscirono postume nel 1538 in una raccolta intitolata Rime del Brocardo et d’altri authori. Fra le poetesse di area veneta si distingue particolarmente Gaspara Stampa (1523 – 1554).
La padovana Gaspara Stampa, proveniente da una famiglia di modeste condizioni, divenne una figura di spicco nel panorama culturale veneziano grazie ad un particolare talento letterario e musicale. Il suo Canzoniere, pubblicato postumo nel 1554, comprende 311 componimenti, dedicati per lo più al suo infelice amore per un conte, Collaltino di Collalto,  uomo di guerra e di lettere, che durò circa tre anni (1548-1551): a causa di lunghi periodi di lontananza Collaltino non ricambiò l’amore intenso che Gaspara provava per lui, e la relazione si concluse con l'abbandono della poetessa, che attraversò anche una profonda crisi spirituale e religiosa. I suoi versi si caratterizzano per l'estrema semplicità con cui è trattata la materia sentimentale e per l'assenza di complicazioni intellettualistiche.
Palese è il Petrarchismo di Gaspara nel sonetto Voi, ch’ascoltate in queste meste rime, a cominciare dal calco del primo verso e dell’intera struttura sintattica delle quartine. Questo è il primo componimento dell'opera ed è chiaro il riferimento all'incipit del Canzoniere di Petrarca, rispetto al quale però presenta delle differenze chiarissime: il riferimento al motivo dell'amore per la poetessa è assolutamente sublime  mentre è molto più articolata la posizione di Petrarca, che lo definisce errore.
I sonetti di apertura e di chiusura del canzoniere di Gaspara Stampa rivelano l’intento programmatico di tracciare una storia in versi del suo amore sul modello di Petrarca, seguendo un itinerario morale che dall’abbandono alla passione amorosa porta al pentimento, alla consapevolezza della vanità di ogni bene terreno e all’invocazione della grazia divina. Al di là delle analogie strutturali e lessicali, tuttavia, lo spirito di fondo che ispira la sua raccolta è profondamente diverso.
Se si confronta il sonetto Voi, ch'ascoltate in queste meste rime con quello proemiale del canzoniere petrarchesco Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono si noteranno infatti, al di là delle riprese testuali, anche significative differenze. Nei versi di Gaspara le rime sparse di Petrarca diventano meste rime, mesti, oscuri accenti, e i sospiri d’amore si trasformano in un sofferto lamento. La poetessa, inoltre, individua l’interlocutore ideale dei suoi versi in chi valor apprezzi e stime, laddove Petrarca richiamava l’attenzione sull’esperienza diretta delle pene d’amore ove sia chi per prova intenda amore. La distanza dal modello si fa ancora più netta nelle terzine, dal momento che Gaspara Stampa non rinnega affatto il suo amore per Collatino, ma al contrario lo definisce sublime cagione della poesia, tale da procurarle gloria presso le ben nate genti.

Voi, ch’ascoltate in queste meste[26] rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l’altre prime[27],

ove fia chi valor apprezzi e stime[28],
gloria, non che perdon, de’ miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti[29],
poi che la lor cagione[30] è sì sublime.

E spero ancor che debba dir qualcuna:
- Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro[31]!

Deh, perché tant’amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro[32]?

Anche nel sonetto Mesta e pentita de' miei gravi errori il lessico rimanda in modo diretto a Petrarca, soprattutto dove compare il tema del pentimento e della fuga del tempo. Al poeta trecentesco può essere ricondotta, inoltre, l’ispirazione religiosa del sonetto, sebbene nei versi di Gaspara Stampa il dissidio fra beni terreni e beni spirituali rimanga in superficie. Sul piano stilistico la presenza del modello risulta evidente soprattutto nelle frequenti dittologie e nelle antitesi. Una contrapposizione è presente anche nelle rime finali: i gravi errori e i vani amori della prima quartina si ricollegano, infatti, per contrasto ai santi ardori della seconda quartina.

Mesta e pentita de' miei gravi errori
e del mio vaneggiar tanto e sì lieve[33],
e d'aver speso questo tempo breve
de la vita fugace in vani amori,

a te, Signor, ch'intenerisci i cori,
e rendi calda la gelata neve,
e fai soave ogn'aspro peso e greve[34]
a chiunque accendi di tuoi santi ardori,

ricorro; e prego che mi porghi mano
a trarmi fuor del pelago[35], onde uscire,
s'io tentassi da me, sarebbe vano.

Tu volesti per noi, Signor, morire,
tu ricomprasti tutto il seme umano[36];
dolce Signor, non mi lasciar perire!

Il Petrarchismo lombardo rimase su una linea di maggiore continuità rispetto alla poesia cortigiana e tardo-gotica. Ne fanno parte, fra gli altri, Matteo Bandello (1485 – 1561) e Bernardo Tasso (1493-1569).
L’area toscano-romana tese a una certa autonomia dal Petrarchismo di Bembo, magari in continuità con la tradizione di Lorenzo e di Poliziano o con un riferimento più forte ai classici latini. Ne fanno parte tra gli altri, oltre a Michelangelo e a Della Casa, Pietro Aretino, il senese Claudio Tolomei, il modenese Francesco Maria Molza e il lucchese Giovanni Guidiccioni. Fra le poetesse si distingue Vittoria Colonna.
Forse il miglior poeta del Petrarchismo cinquecentesco fu Giovanni Della Casa (1503-1556), autore di un canzoniere (poco più di settanta sonetti e quattro canzoni), pubblicato postumo nel 1558, che per Croce è il migliore del Cinquecento: la sua poesia è grave ed austera, sinceramente autobiografica e meditativa, poco incline ad artifici e giochi formali o all’abusato ripercorrere gli schemi narrativi petrarcheschi; non canta alcuna storia d'amore particolare, ma lo stato d'animo del poeta, la sua inquietudine, quasi un moderno dramma del vivere.
Iacopo Pontormo - Ritratto di Monsignor Della Casa - National Gallery of Art - Washington
Della Casa sostituì Petrarca come modello per i successivi poeti lirici. Tasso, nel suo dialogo La Cavalletta, propone esplicitamente Della Casa come exemplum lirico da imitare, e motiva questa scelta col fatto che la poesia di Della Casa evita quelle «arguzie de' sofisti» e quel «soverchio» di musica che piace al mondo. Insomma, la poesia di Della Casa appare agli autori tardo-cinquecenteschi come più autentica, meno artificiosa e formale. Le Rime di Tasso seguiranno il suo esempio.
Il Petrarchismo di Della Casa giunge a un livello di profondità anche maggiore del modello.
Il sonetto O dolce selva solitaria, amica appartiene al periodo del suo ritiro nel 1552 nell’abbazia di Nervesa sul Montello, avvenuto in seguito alla cocente delusione per la mancata nomina a cardinale. Il sonetto è intriso del senso di solitudine e di amarezza che coglie il poeta nel passaggio verso la vecchiaia. Il tema non è più l'amore, ma una pensosità drammatica su se stesso e sul proprio destino, che si riflette anche nel ritmo, così lento e grave, grazie alluso degli enjambements.

O dolce selva[37] solitaria, amica
de' miei pensieri sbigottiti[38] e stanchi,
mentre Borea[39] ne' dì torbidi e manchi[40]
d'orrido giel l'acre e la terra implica[41];

e la tua verde chioma ombrosa, antica
come la mia, par d'ognintorno imbianchi,
or, che 'n vece di fior vermigli e bianchi,
ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica[42];

a questa breve nubilosa luce
vo ripensando, che m'avanza[43], e ghiaccio
gli spirti anch'io sento e le membra farsi:

ma più di te dentro e d'intorno agghiaccio[44],
ché più crudo Euro[45] a me mio verno[46] adduce,
più lunga notte e dì più freddi e scarsi[47].

Nel sonetto l'influenza di Petrarca risulta evidente nell'immagine della «selva solitaria, amica» alla quale il poeta affida i suoi pensieri, ma anche nella dolente riflessione sulla brevità della vita e sul rapido sopraggiungere della vecchiaia; a livello stilistico si può notare, oltre al lessico di ascendenza petrarchesca, la presenza del consueto ritmo binario.
All'inverno fisico, evocato attraverso una serie di notazioni che rimandano all'oscurità e al freddo, corrisponde in questo sonetto un inverno del cuore, crudo e desolato, emblema della condizione esistenziale del poeta. La neve che imbianca le chiome degli alberi, richiama l'immagine della canizie, segno tangibile del tempo trascorso, mentre la flebile luce delle giornate invernali si identifica con la vecchiaia. Il ghiaccio che ricopre i prati, un tempo colmi di fiori, è lo stesso che invade ora l'animo e il corpo del poeta, con la differenza che il suo è un gelo ancora più intenso e crudele, perché irreversibile: mentre nella selva la neve presto si scioglierà e la natura tornerà ad essere rigogliosa, seguendo il suo ritmo ciclico di morte e rinascita, nel cuore del poeta l'inverno si farà ogni giorno più cupo e desolato, finché non sopraggiungerà la morte.
La tristezza del poeta trova un corrispettivo, sul piano stilistico, nelle frequenti allitterazioni e nei fitti enjambement che conferiscono al componimento un tono di dolente stanchezza. Dove domina la descrizione del paesaggio invernale, i suoni si fanno aspri: prevale infatti la r e compaiono numerose consonanti doppie.
Il sonetto O sonno, o de la queta, umida, ombrosa è interamente centrato sul motivo del sonno, vero e proprio topos letterario, che dalla Grecia antica giunge fino ai nostri giorni.

O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
notte placido figlio[48]; o de' mortali
egri[49] conforto, oblio dolce de' mali
sì gravi ond'è[50] la vita aspra e noiosa[51];

soccorri al core ornai, che langue e posa
non have[52], e queste membra stanche e frali[53]
solleva: a me ten vola[54], o sonno, e l'ali
tue brune sovra me distendi e posa.

Ov'è ‘l silenzio che ‘l dì fugge e ‘l lume[55]?
e i lievi sogni, che con non secure
vestigia[56] di seguirti han per costume?

Lasso[57], che 'nvan te chiamo, e queste oscure
e gelide ombre invan lusingo[58]. O piume[59]
d'asprezza colme! o notti acerbe[60] e dure!

Nel sonetto il sonno è associato a una temporanea sospensione della coscienza ed è invocato dal poeta come un sollievo al male di vivere. La negatività del reale trova espressione in una serie di dittologie, che richiamano l'attenzione sulla fatica, sul freddo e sul dolore connaturato alla condizione umana.
Al peso della realtà si contrappone l'eterea leggerezza del sonno, al quale il poeta chiede di volare fino a lui e di ricoprirlo con le sue ali scure. Lo stesso carattere tenue ed evanescente appartiene anche ai lievi sogni, che accompagnano il sonno con passi incerti; attraverso la litote e l'enjambement il poeta richiama l'attenzione sull'ambigua realtà delle visioni notturne, definite nei versi successivi gelide ombre. Il ritmo lento e solenne conferisce alla lirica un tono dolente e meditativo.
Mentre nelle quartine la fluidità della sintassi, che supera sistematicamente i confini del verso, sottolinea il desiderio di fuga e di evasione nell'incoscienza del sonno, nelle terzine la presenza di numerose proposizioni interrogative ed esclamative richiama l'attenzione sull'inesorabile durezza del presente. Se si considera infine che nelle immagini contrapposte del sonno e della veglia sono implicite, a livello allusivo, quelle della morte e della vita, l'aspirazione all'oblio, che domina il componimento, viene a identificarsi con un accorato desiderio di annullamento.
Del tutto atipico è il petrarchismo di Michelangelo, singolare, intanto perché la sua produzione poetica non si consolida in un vero e proprio libro, unito da una trama narrativa com’era per il Canzoniere petrarchesco e per tutti i canzonieri posteriori che ad esso s’ispiravano; poi perché la poesia di Michelangelo non si presenta monotonale come quella petrarchesca, ma estremamente varia, sia nei temi sia nello stile.
Anche quando il motivo centrale è quello amoroso, lo svolgimento è poi originale, soprattutto dove si mescola con il discorso estetico. Il suo è un corpus fondato sulla varietà degli stili e dei temi: stile alto-petrarchesco, ma anche citazioni dantesche e stile comico-burlesco; il tema d’amore, ma anche lo sdegno contro i papi o il racconto autobiografico del proprio lavoro di artista, delle proprie fatiche, della propria caparbia e tragica solitudine.
Michelangelo scrisse più di trecento componimenti poetici, la maggior parte dei quali sono poesie d’amore, ma non li raccolse mai in un canzoniere: li scriveva ai margini di fogli, su disegni e schizzi. Sono poesie dedicate ad almeno tre persone importanti nella sua vita: il giovane nobile romano Tommaso Cavalieri, che conobbe nel 1532; Vittoria Colonna, conosciuta nel 1536, alla quale fu legato da profonda amicizia; infine una donna anonima, detta «la bella e crudele», che però potrebbe o non esistere o rappresentare comunque la Colonna. Le rime sono variamente e per lo più quasi indistintamente riferibili a questi tre personaggi, tre volti di uno stesso sentimento d’amore che, secondo i canoni del petrarchismo-neoplatonismo del tempo, è soprattutto un fatto mentale, un’idea, una tensione morale.
La maggior parte delle Rime presenta immagini metaforiche molto vive che intessono di un forte realismo simbolico la scrittura e una sintassi aspra, concisa al limite della comprensibilità: una poesia difficile, di ardua lettura, intellettualistica, metafisica, cioè astratta e concettuale come sarà la poesia dei metafisici inglesi XVII secolo, insieme a un uso originale e irregolare della tradizione: forse la poesia più alta, più geniale del nostro Cinquecento.
Nel sonetto Non ha l’ottimo artista alcun concetto, fra i più famosi di Michelangelo, è espressa la sua idea dell’arte, della scultura in particolare: il marmo grezzo contiene già il concetto, l’idea, la forma mentale, ma nascosta e chiusa in un superfluo di materia; tocca all’ottimo artista togliere quel superfluo e far emergere l’idea sbozzando il pezzo di marmo secondo quel che gli suggerisce l’intelletto, in cui l’idea, ovvero il concetto, è presente e chiara.

Non ha l’ottimo artista alcun concetto[61]
ch’un marmo solo in sé non circoscriva
col suo superchio[62], e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all’intelletto[63].

Il mal ch’io fuggo, e ‘l ben ch’io mi prometto,
in te, donna leggiadra, altera e diva,
tal si nasconde[64]; e perch’io più non viva,
contraria ho l’arte al disiato effetto[65].

Amor dunque non ha, né tua beltate
o durezza o fortuna o gran disdegno
del mio mal colpa, o mio destino o sorte[66];

se dentro del tuo cor morte e pietate
porti in un tempo, e che ‘l mio basso ingegno
non sappia, ardendo, trarne altro che morte[67].

Nel sonetto la scultura è presentata come «arte del levare», cioè come quell’arte in cui l’opera nasce, levando la materia in eccesso fino a liberare la forma insita in essa.
Si pensi alle sculture dei Prigioni, massimo esempio del non-finito michelangiolesco, dove è particolarmente evidente l’idea del blocco di marmo sbozzato, da cui si libera, come un prigioniero, la figura scolpita. Il termine concetto, si riferisce alla forma racchiusa in un blocco di marmo dal quale l’ottimo artista saprà ricavare l’opera d’arte, togliendo la materia superflua. Come lo scultore, anche l’amante dovrà liberare l’idea imprigionata nell’animo dell’amata, seguendo l’intelletto, affidandosi cioè a un’immagine puramente mentale. Nella donna convivono tutti gli opposti, la morte e la vita, il male e il bene, il dolore e la felicità e spetta all’amante riuscire a far emergere l’uno o l’altro. Inutile dunque incolpare la crudeltà dell’amata o il destino, ma solo la propria incapacità di trarre da quell’amore altro che dolore e morte.
Il sonetto Giunto è già ‘l corso della vita mia è fra i più noti dell’ultima fase della poesia michelangiolesca. Michelangelo lo inviò a Giorgio Vasari il 19 settembre 1554. È un periodo piuttosto duro della sua vita: ormai solo, amareggiato per le pesanti critiche mosse al suo Giudizio Universale, accusato di spirito eretico-riformistico, si dedica quasi esclusivamente a progetti di architettura.
In questo sonetto si esprime l’amarezza dei suoi ultimi anni, quando tutto ormai sembra vano e senza senso, anche l’amore che fu, e l’arte a cui Michelangelo si dedicò per tutta la vita: più niente vale davanti alla prospettiva della morte che è l’unica vera.

Giunto è già ‘l corso della vita mia,
con tempestoso mar, per fragil barca,
al comun porto, ov’a render si varca
conto e ragion d’ogni opra trista e pia[68].

Onde l’affettuosa fantasia
che l’arte mi fece idol e monarca
conosco or ben com’era d’error carca
e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia[69].

Gli amorosi pensier, già vani e lieti,
lo che fien or, s’a duo morte m’avvicino[70]?
D’una so ‘l certo, e l’altra mi minaccia.

Né pinger né scolpir fie più che quieti
l’anima, volta a quell’amor divino
c’aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia[71].

Nel sonetto la presenza di Petrarca risulta evidente fin dalla prima quartina, interamente occupata dalla metafora della navigazione. Attraverso l’immagine del porto, Michelangelo richiama l’attenzione, in particolare, sulla morte, della quale viene sottolineato l’aspetto più inquietante, legato all’idea del giudizio che attende ogni uomo, chiamato a rendere «conto e ragion d’ogni opra trista e pia». Lo stesso motivo compare anche nella seconda parte del componimento dove il poeta distingue fra la morte del corpo, certa e inesorabile, e quella dell’anima, proiettata verso una minacciosa eternità. Di fronte alla prospettiva del giudizio divino, tutto ciò per cui Michelangelo ha vissuto, in particolare l’arte e l’amore, gli pare a un tratto vano e inconsistente. La pittura e la scultura, infatti, si configurano in questi versi come il frutto di un’affettuosa fantasia, di una fervida e piacevole immaginazione, che a poco a poco si è impossessata di lui ed è giunta a dominarlo completamente; ora però Michelangelo si rende conto che quell’arte pagana, terrena, non poteva placare da sola la sua ansia di assoluto, che solo in Dio può trovare appagamento. Allo stesso modo mostrano ora tutta la loro inconsistenza gli amorosi pensier, per quanto importanti possano essere stati nel corso della sua vita.
In questo sonetto l’influenza petrarchesca risulta evidente, oltre che nella metafora della fragil barca, anche nell’impiego di alcune espressioni particolarmente care al poeta trecentesco, che rimandano a una dolorosa percezione della precarietà di ogni bene terreno. Rispetto ai versi di Petrarca, però, quelli di Michelangelo presentano una sonorità più dura, aspra, data dall’allitterazione del suono -r- e dallo scontro di consonanti, nella quale trova piena espressione l’urgenza del suo pensiero autobiografico.
Sebastiano del Piombo - Ritratto di Vittoria Colonna - Museo nazionale d'arte della Catalogna - Barcellona
Ad aprire la strada alla poesia petrarchista femminile fu Vittoria Colonna (1490-1547), figlia del connestabile di Napoli Fabrizio Colonna e moglie del marchese di Pescara Ferrante di Avalos. Il suo epistolario rivela una fitta rete di amicizie con i maggiori poeti e artisti del tempo, fra cui Michelangelo e Galeazzo di Tarsia, che in un sonetto la definì palma leggiadra e viva.
Il tema dominante delle sue Rime è legato all’amore per il marito e al dolore per la sua perdita, vissuto in termini di alta spiritualità. Nell’edizione del 1558 le sue rime sono suddivise in vita e in morte del marito, secondo il modello del canzoniere petrarchesco. Un ruolo centrale nella poetica di Vittoria Colonna è occupato, inoltre, dal profondo travaglio religioso, che la portò ad accostarsi temporaneamente alle idee riformistiche, per poi tornare all’ortodossia negli ultimi anni della sua vita.
Nel sonetto Oh che tranquillo mar, che placide onde Vittoria Colonna ricorda il cambiamento repentino e irreversibile che la morte del marito ha prodotto nella sua esistenza. Quando lui era vivo la poetessa era come una solida nave, riccamente ornata, intenta a seguire la sua rotta solcando un tranquillo mar e placide onde: il vento era favorevole e il cielo sgombro di nubi lasciava che le stelle guidassero i naviganti con la loro luce. Poi, improvvisamente, la calma si è rotta: la sorte è mutata e la nave è stata travolta da una cruda procella, il cielo si è ricoperto di «venti, piogge, saette, e intorno all’imbarcazione si sono materializzati mostri orrendi e famelici.

Oh che tranquillo mar, che placide onde
solcavo un tempo in ben spalmata[72] barca!
Di bei presidi e d'util merce carca[73]
l'aer sereno avea, l'aure seconde[74];

il ciel ch'or suoi benigni lumi asconde[75],
dava luce di nubi e d'ombre scarca[76];
non de' creder alcun che sicur varca [77]
mentre al principio il fin non corrisponde[78].

L'aversa[79] stella mia, l'empia fortuna
scorser[80] poi l'irate inique fronti
dal cui furor cruda procella[81] insorge;

venti, pioggie, saette il ciel aduna,
mostri d'intorno a divorarmi pronti,
ma l'alma ancor sua tramontana[82] scorge.

Mentre nella prima parte del sonetto, corrispondente alle due quartine, prevale il rimpianto per un passato felice, nella seconda parte domina l’idea della precarietà della sorte, che ha trasformato quella gioia serena in un doloroso tormento. La dialettica passato/presente si esprime attraverso l’alternanza dei tempi verbali: mentre l’imperfetto rievoca un tempo felice, avvolto in un’aura di perfezione, il passato remoto allude al momento preciso del cambiamento, e il presente richiama l’attenzione sulla inesorabile fine di ogni gioia.
Il Petrarchismo meridionale tende a colori paesaggistici più evidenti e a modi patetici più intensi rispetto al modello di Bembo. Questi tratti distintivi sono evidenti soprattutto in Luigi Tansillo (1510-1568). Bisogna inoltre ricordare Angelo Di Costanzo e Bernardino Rota. Ma il massimo rappresentante del Petrarchismo meridionale è il barone napoletano Galeazzo di Tarsia. Fra le poetesse si distingue Isabella di Morra.
Isabella di Morra (1520-1545), fu pugnalata dai fratelli a venticinque anni per una colpa non commessa. I suoi versi sono così schietti e strazianti fanno di lei un caso particolare che non ammette paragoni.
Terza degli otto figli di Giovan Michele Morra, barone di Favale, e di Luisa Brancaccio. Gli altri figli furono Marcantonio, Scipione, Decio, Cesare, Fabio, Porzia e Camillo. Il barone fu costretto ad emigrare per ragioni politiche in Francia e a rifugiarsi alla corte di Francesco I ed il possesso del feudo di Favale fu alienato per alcuni anni, passando alla Corona di Spagna. Dopo varie trattative legali, il feudo tornò ai di Morra, e fu affidato Marcantonio al primogenito del barone.
A Favale rimase la moglie con sette degli otto figli, compresa la giovane Isabella, che spesso invocò il padre nelle sue “Rime”, considerandolo l'unico in grado di aiutarla nella sua situazione: i rapporti con i suoi fratelli, infatti, erano aspri e continuarono ad incrinarsi fino alla tragedia.
Isabella manteneva una relazione segreta con Diego Sandoval de Castro, poeta a sua volta e barone di Bollita, inviandogli messaggi e versi tramite il suo maestro. Scoperta la relazione, nel 1546 i fratelli di Isabella uccisero la poetessa ed il suo precettore. Poco dopo ammazzarono in un agguato in bosco di Noepoli anche Diego Sandoval, per poi fuggire in Francia.
Di che natura fosse la relazione tra Diego Sandoval de Castro ed Isabella rimane ad oggi un mistero: le lettere che don Diego spedì ad Isabella furono, infatti, inviate a nome di sua moglie, Antonia Caracciolo.
Gli storici hanno così supposto che Isabella ed Antonia Caracciolo si conoscessero già prima dell'inizio dello scambio epistolare. Le risposte di Isabella sono andate perdute. Che si trattasse di una relazione sentimentale o di una semplice amicizia intellettuale in condizioni di duro isolamento, i fratelli ne furono informati già alla fine del 1545. Decio, Cesare e Fabio decisero rapidamente di porre fine alla relazione, uccidendo prima la sorella e poi il nobile spagnolo. Alcune fonti ipotizzano che fu picchiata a morte, mentre altre fonti italiane indicano che fu pugnalata.
Don Diego, temendo che la vendetta si abbattesse anche su di lui, si munì inutilmente di una scorta: i tre assassini, con l'aiuto di tre zii, gli tesero un agguato vicino al bosco di Noepoli e lo uccisero.
L'assassinio di don Diego de Sandoval provocò, all'epoca, reazioni di deplorazione molto ampie, ma  non l'uccisione di Isabella. Nel codice d'onore del XVI secolo, era infatti ammissibile lavare col sangue il disonore arrecato alla famiglia da uno dei suoi membri, specie se donna. Ciò che non era ammissibile era il coinvolgimento di persone terze nella risoluzione di un contenzioso mediante duello e l'uccisione, a tradimento, di un superiore in rango. Per questi motivi, i tre fratelli furono costretti a fuggire in Francia, dove raggiunsero Scipione ed il padre.
Isabella trascorse la maggior parte della sua breve esistenza nel Castello di Valsinni, in Basilicata, un castello in cui leggende locali vogliono che il fantasma della poetessa infesti silenziosamente il sito.
L'interesse attorno alla figura e all'opera di Isabella di Morra è cresciuto nel corso dei quattro secoli e mezzo che ci separano dalla sua morte, nonostante di ci siano giunte soltanto tredici poesie. La tragica biografia di Isabella ha oscurato la comprensione ed il pieno apprezzamento dei suoi testi tanto che oggi la sua opera è stata letta in chiave femminista senza però tener conto del retroterra dell'epoca.
I tredici testi giunti fino a noi furono scoperti dagli ufficiali del Viceré, durante l'indagine che seguì l'uccisione di Don Diego de Sandoval, quando il Castello di Valsinni fu perquisito. Non ci furono notizie ufficiali inerenti alla sua vita fino a che suo nipote Marcantonio non pubblicò una storia della famiglia.
Isabella mi è sempre apparsa come precorritrice delle tematiche esistenziali care a Leopardi, come la descrizione del natio borgo selvaggio e dell'invettiva alla crudel fortuna.

I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo, piangendo la mia verde etate,
me che 'n si vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.

Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
vo procacciando con le Muse amate,
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna;

e, col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l'alma sciolta,
esser in pregio a più felici rive.

Questa spoglia, dove or mi trovo involta,
forse tale alto re nel mondo vive,
che 'n saldi marmi la terrà sepolta.

Ed ancora:

D'un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s'alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella.

Ma la mia adversa e dispietata stella
non vuol ch'alcun conforto possa entrare
nel tristo cor, ma, di pietà rubella,
ha salda speme in piano fa mutare;

ch'io non veggo nel mar remo né vela
(così deserto è l'infelice lito)
che l'onde fenda o che la gonfi il vento.

Contra Fortuna allor spargo querela,
ed ho in odio il denigrato sito,
come sola cagion del mio tormento.

Il petrarchismo è ben assimilato dalla poetessa, che lo dimostra proprio nella devianza rispetto al modello; se manca la tematica amorosa, il ritratto di Cristo della canzone XII compensa e supera l’esigenza di amore terreno. Ma nel linguaggio e nella compenetrazione con il paesaggio, la poesia d’Isabella si eleva in accenti solenni e originali. La mancanza del padre, il rimpianto per una corte che è lontana, l’assenza di interlocutori capaci di intendere la lingua della poesia, l’avversa fortuna, sono tutti temi della tradizione letteraria, ma rivisitati e vivificati dalla fanciulla con una forza e una volontà capaci di spezzare anche il luogo comune letterario.
Massimo Capuozzo.

[1] La fera: la bestia feroce; è metafora dantesca e petrarchesca per dire la donna crudele (cfr. ad esempio Petrarca, RVF, CLII, «Questa humil fera un cor di tigre o d'orsa»).
[2] sì leve: così leggera, svelta.
[3] né... né: il doppio «né» va letto in senso concessivo, come un «ciò nonostante». – sete: metafora per «desiderio».
[4] tra due: tra due condizioni, cioè tra l'amore che mi distrugge e il desiderio di pace; è la solita espressione del dualismo e del dissidio interiore.
[5] che procaccia: cosa procura, a che giova.
[6] sciolta: in libertà.
[7] traendo... convengo: trascinando me, che m'adeguo a inseguirla. E la paradossale situazione dell'uomo che vuole cacciare una tigre, dalla quale è in realtà cacciato.
[8] movo indarno: mi muovo invano.
[9] penser casso: pensiero nullo, vano, senza effetto.
[10] ricovrarmi: rifugiarmi, trovarmi un ricovero, un riparo.
[11] or ch'i' m'attempo: adesso che invecchio.
[12] ma piè... distorna: ma nulla può distogliere («distorna») un piede che sia mosso dal destino («ciel»).
[13] Omai: più
[14] per dar loco: per lasciare il posto.
[15] si parte: se ne va.
[16] spargendosi di lor: cospargendosi di stelle.
[17] meco: con me stesso.
[18] cui... luna: alla quale nessun'altra donna fu mai pari sotto il cielo della luna, cioè al mondo.
[19] benché... favelle?: il riferimento è alla Laura di Petrarca, di cui tanto il mondo parla («favelle»).
[20] In questa: in quel momento.
[21] riposo: allude al riposo notturno
[22] più... trista: un fiume sempre più largo (di lacrime) riempie i miei occhi, e la sua immagine, triste, riempie la mia anima.
[23] la qual: cioè l'anima.
[24] mirando fiso in lei: fissandola con lo sguardo.
[25] Parche: sono le tre divinità infernali, che rappresentano il destino umano: tre orribili vecchie che tengono in mano il filo della nostra vita.
[26] meste. tristi.
[27] tra l'altre prime: fra tutte le più dolorose.
[28] ove... stime: dove ci sia qualcuno in grado di apprezzare un sentimento così alto e la poesia che ne è espressione.
[29] le ben nate genti: persone sensibili, di alto sentire.
[30] la lor cagione: la loro causa, origine.
[31] da che... chiaro!: dal momento che per un così nobile motivo («chiara cagion») soffrì un così nobile dolore («danno sì chiaro»).
[32] n'andrei... paro: che anch'io sarei così sullo stesso piano di quella felicissima donna.
[33] del mio... lieve: del mio così grande e inconsistente, del mio perdermi dietro a vani pensieri d'amore.
[34] e fai... greve: e rendi leggero ogni peso difficile da sostenere e gravoso.
[35] mi porghi... pelago: mi aiuti («porghi mano») a tirarmi fuori dal mare del peccato («pelago»).
[36] tu ricomprasti... umano: hai riscattato con la tua morte in croce tutto il genere umano.
[37] selva: è la selva del Montello.
[38] sbigottiti: sgomenti, pieni di amarezza.
[39] Borea: è il vento invernale.
[40] manchi: corti.
[41] implica: avvolge
[42] e la tua... aprica: il poeta instaura un paragone tra la «chioma» della selva, imbiancata dalla neve dell'inverno, e la sua chioma, bianca per l'età; è quindi, implicitamente, un paragone tra inverno e vecchiaia. piaggia aprica: pendio soleggiato.
[43] questa... m'avanza: la breve nuvolosa («nubilosa») luce che gli resta («m'avanza») è la vecchiaia.
[44] ma... agghiaccio: il poeta "agghiaccia dentro", colpito da un vento (l'Euro) ben più crudele, che gli porta giorni più freddi e una notte più lunga: ovviamente sta pensando alla morte che lo attende.
[45] Euro: L'Euro è un vento variabile prevalentemente locale e spira saltuariamente all'aurora. È un vento relativamente moderato che muovendosi dalle coste africane arriva a lambire le coste ioniche, portando con sé aria calda.
[46] Verno: inverno metafora della vecchiaia
[47] Scarsi: brevi
[48] figlio: il sonno è detto figlio della notte in quanto generato da lei.
[49] egri: deboli, sofferenti.
[50] ond'è: per cui è.
[51] noiosa: difficile, dura.
[52] posa non have: non ha tregua dai suoi mali.
[53] frali: fragili.
[54] a me ten vola: vola da me.
[55] che... lume: che fugge la luce del giorno.
[56] vestigia: orme, passi.
[57] Lasso: infelice, misero.
[58] lusingo: cerco di attirare.
[59] piume: letto.
[60] acerbe: dolorose
[61] Non ha... concetto: anche il più bravo scultore non ha alcuna intuizione artistica.
[62] ch’un marmo... superchio: che un unico blocco di marmo non racchiuda già in sé, nel suo eccesso di materia («superchio»), eccesso che l’artista eliminerà per realizzare la statua.
[63] e solo... all’intelletto: e solo a quello, cioè all’eliminazione del superfluo, arriva l’artista che segua l’idea che vede delinearsi nella sua mente. «Intelletto» è esattamente la facoltà di discernere i «concetti», ovvero la capacità di trovare sulla terra l’immagine, la traccia della bellezza divina.
[64] Il mal... si nasconde: allo stesso modo («tal») il male che fuggo, e il bene che mi ripropongo, sono celati in te, donna bella, nobile e divina.
[65] contraria... effetto: la mia arte è incapace di raggiungere quel che desidero, cioè far emergere in te il bene che vi si nasconde.
[66]  Amor dunque... sorte: nessuno dunque è colpevole del mio male: non Amore, né la tua bellezza e la tua crudeltà, né la sorte o lo sdegno o il mio destino.
[67]  se dentro... morte: se tu porti sia il bene sia il male, sia la morte sia la pietà, e se il mio ingegno è troppo «basso» per saperne trarre altro che non sia morte.
[68] Giunto... pia: è la metafora, già petrarchesca, della vita come viaggio per mare, un mare tempestoso che si attraversa con una barca fragile, fino ad arrivare a quel porto comune a tutti: al porto della morte, dove si passa («varca») per rendere conto e ragione di ogni opera buona o cattiva.
[69] Onde... desia: perciò capisco bene che quella fantasia (l’inclinazione artistica), a cui io fui legato da affetto e che mi portò a considerare l’arte idolo e sovrano della mia vita, fosse carica di errore e ugualmente capisco quel che a suo danno («a mal suo grado», ovvero «suo malgrado», «contro il proprio bene») ognuno desidera.
[70] Gli amorosi... m’avvicino?: i pensieri d’amore, che sono stati una volta gioiosi, pure se vani, che saranno mai ora («che fien or»), dal momento che mi avvicino a due morti (quella fisica e quella spirituale)?
[71] pinger... le braccia: né il dipingere né lo scolpire potranno più appagare l’anima che si rivolge a quell’amore divino che aprì, per salvarci, le braccia in croce.
[72] spalmata: incatramata.
[73] Di bei... carca: carica di buone difese e di utile merce.
[74] seconde: favorevoli.
[75] ch’or... asconde: le stelle («lumi»), che ora nascondono la loro luce benigna; le stelle sono dette benigne perché indicano la rotta ai naviganti.
[76] scarca: priva.
[77] non de’... varca: nessuno che naviga («varca») sicuro deve confidare nella sua buona sorte («creder»).
[78] mentre... corrisponde: finché la fine della navigazione («il fin») non corrisponde al suo inizio, non si conclude cioè felicemente.
[79] L’aversa stella mia: la mia sorte avversa.
[80] scoverser: scoprirono.
[81] cruda procella: crudele, violenta tempesta.
[82] tramontana: vento freddo, del nord, che porta tempesta.

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