mercoledì 30 aprile 2014

La villa stabiana di San Marco di Federica Fontanella

Tra i siti archeologici di Castellammare di Stabia, particolare attenzione merita villa San Marco.
Situata sul pianoro di Varano, Villa San Marco fu completamente sepolta dalla celeberrima eruzione vesuviana del 24 agosto del 79 d.C., che riservò stessa sorte alle vicine città di Ercolano, Oplonti e Pompei. Villa San Marco, dopo l’eruzione del Vesuvio quasi del tutto dimenticata, fu individuata ed esplorata diversi secoli dopo dai Borbone (ricercatori che operarono sul nostro territorio dal 1749 al 1782); la villa fu la prima ad essere esplorata in età borbonica successivamente rinterrata dopo essere stata privata delle suppellettili e degli affreschi meglio conservati e più rispondenti al gusto del tempo; dopo un periodo spento dal punto di vista archeologico finalmente nel secolo scorso, e precisamente dal 1950 al 1962, Stabiae rivede definitivamente la luce, grazie agli scavi intrapresi dal Prof. Libero D'Orsi: fin dai primi dissotterramenti, gli archeologi si resero conto che con i cinque metri di cenere e lapilli l'avevano protetta dall'incuria del tempo, paradossalmente, poteva essere considerata una cosa vantaggiosa, per l'ottimo stato di conservazione in cui aveva mantenuto la struttura del complesso archeologico e i numerosi reperti ritrovati.
La villa il cui nome convenzionale deriva da un’antica cappella dedicata a San Marco, costruita nella zona della proprio nella zona della villa nella seconda metà del Settecento ormai del tutto scomparsa, fu costruita su un piccolo centro abitato che forse franò in parte già al momento dell’eruzione, trascinando con sé l’estremità settentrionale degli ambienti deposti sul fronte nord.
È una delle più grandi Ville romane a carattere residenziale ha un’estensione di 11.000 m2, di cui 6.000 riportati alla luce, con i lavori di scavo che procedono ancora oggi.
Villa San Marco fu costruita durante l'età augustea e fu notevolmente ampliata con l'aggiunta di ambienti panoramici, il giardino e la piscina nell'età claudia; l’organizzazione planimetrica si sviluppa secondo un duplice orientamento: la maggior parte del complesso favorisce l’andamento della collina, con gli ambienti più rappresentativi in posizione panoramica sul mare. Il settore termale segue invece rilevamenti di Carlo Weber del 1759.
Le strutture visibili sono state gravemente compromesse dal sisma nel 1980, che ne ha reso necessario massicci interventi di restauro. La Villa conserva pitture, colonne e la propria elegante forma. Si compone essenzialmente di due grandi peristili situati a diverso livello, intorno ai quali si sviluppano i quartieri abitativi. Il nucleo più antico risale alla prima età augustea.

Questa Villa può vantare il primato di essere la più grande villa d'otium dell'antica Campania ed appare allo spettatore nella sua spettacolare costruzione, con l’ampio giardino ombreggiato da quattro file di platani che contiene una natatio centrale lunga 30 metri.
L'ingresso della villa è posto a circa cinque metri di profondità: questo è caratterizzato da un piccolo portico con delle panche in pietra utilizzate dalle persone in attesa di essere ricevute dal proprietario, attualmente si entra da un vestibolo che porta nell’atrio, in cui è inserito il larario con decorazione in finto marmo questa tecnica era utilizzata soprattutto durante l'età dei Flavi per evitare di acquistare a prezzi più elevati dei marmi veri.
Superato l'ingresso si entra nell'atrium dove ci sono i basamenti per una cassaforte andata perduta che, oltre alla tradizionale funzione, aveva anche il compito di mostrare a tutti la ricchezza della famiglia, l’atrium affrescato con zoccolatura in nero e zona mediana in rosso con raffigurazioni di centauri e pelli di pantere; al centro è collocato un impluvium, mentre lungo le pareti laterali si aprono tre cubicula, con una piccola scala che conduceva al piano superiore, crollato a seguito dell'eruzione. Sulla destra dell'atrio c’è l'accesso al tablinio, da cui parte un breve corridoio, in cocciopesto, che conduce a un cortile porticato dove è situato l'ingresso dalla strada alla villa: la porta d'accesso al cortile era in legno e al momento dello scavo è stato possibile eseguirne un calco. Nei pressi di questi ambienti sono stati recuperati una statua in bronzo di Mercurio, un corvo a grandezza naturale per fontana e un candelabro bronzeo. Il tablinio ha una decorazione in IV stile, con zoccolo rosso e scomparti con ghirlande e animali, mentre la pavimentazione è in tassellato bianco delimitato da due fasce in nero. Nel 2008, a seguito di nuovi scavi sono stati rinvenuti alcuni ambienti non segnalati sulle mappe borboniche, come una scala, un sentiero pedonale, e un giardino con al centro un grosso olmo, oltre a due latrine e diversi ambienti, uno con letto, lavabo e piano di cottura e un altro in cui è stata ritrovata una piccola cassetta contenente una moneta, una spatola e un bottone d'osso.

La cucina, posta alle spalle dell'atrio, ha pianta rettangolare e delle notevoli dimensioni: presenta un grosso bancone in muratura su quattro archi, un piano cottura in frammenti laterizi e una grande vasca. Nonostante la poca importanza dell'ambiente e quindi l'assenza di affreschi e di mosaici, le pareti sono infatti rivestite di intonaco grezzo e la pavimentazione in semplice cocciopesto, sono stati ritrovati diversi elementi di interesse come, ad esempio, dei graffiti lasciati dagli schiavi: si nota una nave a remi, dei conti forse della spesa o per i turni, due gladiatori e un poema di dodici righe.
Sono collegati alla cucina diversi ambienti di servizio: è presente una stanza che probabilmente fungeva da magazzino e altri ambienti che originariamente dovevano essere delle diaetae, ma che durante l'età flavia, a seguito della costruzione del peristilio, furono rimpicciolite e utilizzate come depositi o come cubicula; a sostegno della tesi che questi ambienti fossero stati delle diaetae sono le loro particolari decorazioni, troppo sontuose per ambienti di servizio: sono infatti pavimentate in tassellato bianco e nero e una decorazione parietale in terzo stile con zoccolo nero e la parte superiore in giallo ocra.
L’area destinata ai bagni si unisce al resto della costruzione con un asse differente, dovuta alla presenza di una strada che ne ha influenzato l’orientamento, i bagni sono di notevoli dimensioni, hanno una pianta triangolare e si trovano tra l'ingresso e il ciglio della collina: tra questi e l'atrio è stato ricavato, in uno spazio residuo, un piccolo viridario protetto da un muro dove si aprono sei ampie finestre: dai resti degli affreschi si deduce che questo era finemente decorato con raffigurazioni di grossi rami pendenti.
L'accesso alla zona termale è consentito da un atrio, arricchito con rappresentazioni di amorini, lottatori e pugili, al quale segue l'apodyterium, il tepidarium, il frigidarium, la palestra e il calidarium.
Dal quartiere termale inoltre partono una serie di rampe che collegano la villa con la zona più pianeggiante a ridosso della costa, che nella parte terminale, ha un ninfeo, posto sopra un corridoio anulare e decorato con raffinatissimi mosaici a parete in parte ancora da esplorare, raffiguranti Nettuno, Venere e diversi atleti, asportati dai Borbone e conservati al Museo archeologico nazionale di Napoli e al Museo Condè di Chantilly, in Francia. Seguono ambienti di soggiorno superbamente affrescati.

Sul giardino si aprono diverse diaetae (solo per il riposo) affrescate ognuna in maniera differente: la prima è decorata in quarto stile e sulle pareti si ritrovano raffigurati Perseo che mostra la testa di Medusa, un offerente, una musa di spalle con la lira, Ifigenia, una figura nuda e una donna che scopre una pisside, mentre sul soffitto è raffigurata una Nike con in mano la palma della vittoria.

In una seconda stanza è raffigurata la storia di Europa rapita dal toro, mentre nella stanza successiva sono presenti frammenti di un dipinto raffigurante un giovane disteso su un triclinio con accanto un'etera.
Altre stanze invece, quelle di rappresentanza, in parte crollate, si aprono sul ciglio della collina, in posizione panoramica: esse avevano un rivestimento di marmo nella parte inferiore ed erano affrescate in quella superiore. Le pareti del peristilio sono affrescate con zoccolatura nera e riquadri in rosso e ocra, mentre la pavimentazione è a mosaico bianco, che nelle bordature nei pressi delle colonne riproduce disegni geometrici in bianco e nero.
Villa San Marco è dotata anche di un secondo peristilio, posto nel lato meridionale, forse lungo circa centoquarantacinque metri, così come indicato da studi geofisici realizzati nel 2002 e recuperato in gran parte nel 2008, e caratterizzato da portici sorretti da colonne tortili, crollate in seguito al terremoto dell'Irpinia del 1980: il soffitto del portico è affrescato con diversi dipinti raffiguranti Melpomene, l'Apoteosi di Atena, Ermes psicopompo, la Quadriga del sole con Fetonte e il Planisfero delle stagioni, rinvenuto nel 1952 e raffigurante un globo con all'interno due sfere intersecanti e due figure femminili che rappresentano la Primavera e l'Autunno con intorno degli amorini; molto probabilmente poi l'opera era completata dalle figure dell'Inverno e dell'Estate, ma la mancanza dei frammenti rende l'interpretazione difficoltosa.
In questo peristilio è collocata anche una meridiana: in realtà durante lo scavo questa è stata ritrovata in un deposito in quanto la villa, al momento dell'eruzione, era in ristrutturazione ed è stata successivamente riposta nella sua posizione originaria. Di altissimo livello è anche l’affresco che decora la diaeta al termine del portico laterale orientale, con la rappresentazione di Perseo e Cassandra.

La villa di San Marco è caratterizzata dal grande peristilio al centro della villa, circondato da un lungo porticato con al centro la piscina lunga 36 metri e larga 7 si trova nel calidario, il cui accesso è consentito da scalini in pietra. A seguito di ulteriori scavi nella piscina, parte del fondo è stato asportato mettendo in luce una grande fornace in mattoni alimentata da uno schiavo, che la raggiungeva tramite un corridoio sotterraneo, e che riscaldava una grande caldaia in bronzo: questa è stata asportata nel 1798 da Lord Hamilton per essere trasportata a Londra, ma durante il viaggio la nave su cui fu caricata, la Colossus, rimase vittima di un naufragio. I vapori caldi prodotti dalla caldaia passavano nelle intercapedini delle pareti tramite dei tubi in terracotta, riscaldando tutta la stanza: si suppone che il calidario fosse ricoperto da lastre di marmo ed il giardino con le parti decorate da un alto zoccolo nero, sovrastato da riquadri con chiome di alberi e festoni di foglie, nel giardino del peristilio erano presenti al momento dell'eruzione dei platani: la certezza è data da studi di archeologi che durante gli scavi hanno analizzato i vari strati vulcanici e hanno trovato le impronte delle radici di questi alberi: proprio come avvenuto per i calchi degli umani, all'interno di queste forme è stato versato del cemento liquido in modo da ottenere il loro calco: inoltre gli archeologi hanno calcolato che, al momento dell'eruzione, l'età di questi alberi andava dai settantacinque ai centocinque anni.
Nonostante non si conosca esattamente il nome del proprietario, sono state fatte diverse supposizioni che hanno portato a pensare che potesse appartenere o a un certo Narcissus, un liberto, sulla base di alcuni bolli ritrovati su delle tegole, oppure alla famiglia dei Virtii, i quali avevo dei sepolcri poco distanti dalla costruzione.
Federica Fontanella.

La villa stabiana di Arianna di Anna Cavallaro

Esplorata in parte e saccheggiata in epoca borbonica, la cosiddetta Villa di Arianna si estende sul ciglio della collina di Varano in posizione panoramica.
La villa deve il suo nome per la grande pittura a soggetto mitologico rinvenuta sulla parete di fondo del triclinio estivo raffigurante Arianna.
Dall’VIII e fino al V secolo a.C. l’oppidum stabiano fece parte dell’ambito politico-culturale etrusco. Di sicuro l’abitato stabiese condivise le sorti storiche dell’intera vallata del Sarno. Le scarse testimonianze sull’abitato stabiano ne hanno reso molto difficile l’ubicazione e la ricostruzione.
L’area urbana sembrerebbe localizzata nella zona orientale a monte della città moderna. Confermerebbero tale ipotesi la strada con botteghe scavata a nord-est della villa di San Marco e l’individuazione della mura sannitiche a circa 200 metri dalla stessa villa. Successivamente, con l’arrivo dei Sanniti, entrò a far parte della confederazione nucerina adottando la struttura politica ed amministrativa di Nuceria della quale divenne anche il porto militare. Con l’arrivo dei Romani, nella guerra sociale degli alleati italici contro Roma per ottenere il diritto alla cittadinanza romana, la confederazione nucerina alla fine si schierò con gli italici ed a causa della sua posizione strategica, Stabiae fu distrutta da Silla il 30 aprile dell’89 a.C. Da tale completa distruzione Stabiae non si risollevò più, riducendosi a centro termale e di villeggiatura. L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. seppellì anche le ville stabiane, ma la zona non fu completamente abbandonata ed ancora nel secolo successivo alcune testimonianze esaltano le virtù delle acque termali stabiane. I primi ritrovamenti nel territorio stabiano si ebbero nel Settecento.
I Borbone portarono alla luce diciotto ville nella zona comprese quelle di San Marco e di Arianna. Esse finirono per essere depredate e ricoperte. La villa Arianna fu inizialmente scavata in età borbonica fra il 1757 ed il 1762, sotto la direzione dell’ingegnere svizzero Carlo Weber. Lo scavo a quei tempi era condotto attraverso esplorazioni sotterranee che prevedevano solo il recupero degli oggetti e non anche l'indagine dell'intero contesto architettonico: pertanto, le suppellettili e gli affreschi meglio conservati erano prelevati e inviati al Museo Borbonico presso il Palazzo Reale di Portici. Le pitture di scarso pregio o rovinate, invece, erano lasciate sul posto e spesso ulteriormente danneggiate dagli stessi scavatori. Dell'edificio, di cui una gran parte risulta ancora interrata, conosciamo la pianta redatta in epoca borbonica attraverso i rilievi fatti nei cunicoli scavati e successivamente ricolmati.
Solo nel 1950, per iniziativa del Prof. Libero D’Orsi si iniziarono scavi regolari che hanno riportato alla luce le ville oggi visitabili.
La Villa di Arianna fu edificata sulle pendici della collina di Varano e copre un’area di circa 11.000 metri quadrati ha una pianta complessa, sia perché frutto di successivi ampliamenti, sia perché si adatta alla conformazione della collina di cui segue l'andamento. L’ambiente misura 104 metri in lunghezza ed 81 metri in larghezza, ma attualmente non è stato interamente scavato. L’aspetto totale è oggi ricostruibile integrando le planimetrie borboniche dei settori scavati e poi rinterrati con quella delle parti riemerse in luce.
La villa, collegata con la pianura sottostante attraverso una serie di rampe su sei livelli, è articolata in quattro nuclei essenziali: atrio e ambienti circostanti risalenti ad età tardo-repubblicana; ambienti di servizio e termali; ambienti ai lati del triclinio estivo, risalenti ad età neroniana; la grande palestra annessa alla villa in età flavia.
Una lunga galleria, inoltre, partendo dalle rampe sottopassava gli ambienti residenziali per giungere nella parte rustica dove vi era l'accesso alla villa dal pianoro di Varano. Si accede alla villa attraverso una scala che immette in un ampio peristilio con colonne in opera listata (due filari di laterizi e uno di blocchetti di tufo) rivestite in stucco bianco. Sul lato dal quale si accede oggi, sono situate sulla sinistra dell’ingresso alcune stanze decorate con mosaici di buona fattura. Sembra probabile che il peristilio, orientato diversamente rispetto al resto della villa, sia stato aggregato successivamente al complesso.
Da un passaggio sulla destra si accede ad un passaggio panoramico lungo il quale si apre una serie di ambienti. Il nucleo più antico risale alla metà del I secolo a.C. e comprende la sequenza dell’ingresso dove anticamente l’impianto è testimoniato dalle due stanzette poste all’esterno, ai lati dell’ingresso all’atrio, che conservano decorazioni nel cosiddetto II stile pompeiano imitanti architetture, del peristilio quadrato e dell’atrio secondo la successione vitruviana tipica delle residenze periferiche. Gli apparati decorativi testimoniano non solo l'alto tenore di vita che qui doveva svolgersi, ma anche il gusto estremamente raffinato di una committenza altolocata ed esigente.
La struttura residenziale risalente nel suo nucleo originario ad epoca tardo repubblicana, ma fu poi ampliata nel secolo successivo con sale da banchetto con vista sul mare ed un enorme palestra con oltre cento colonne, oggi interrata. Il circuito della palestra misurava esattamente due stadi, la misura prescritta da Vitruvio per i portici di tali tipi di edifici. Nel corso del I secolo d.C nell’area archeologica è possibile individuare il quartiere termale con praefurnium e calidarium (per i bagni di acqua calda) absidato, originariamente decorato in opus sectile.

La parte della villa prospiciente il ciglio della collina era sostenuta da una terrazza decorata con archi ciechi e pinnacoli. In uno degli archi si è rinvenuto un disegno di una nave eseguito a carboncino. Tra gli affreschi visibili vanno ricordati i dipinti del grande triclinio che mostrano storie care a Venere, dea dell’amore: Arianna (che ha dato il nome alla villa), che dopo essere stata abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso fra le braccia del sonno Hypnos è scorta da Dioniso, accompagnato da un amorino che reca una fiaccola; Licurgo e Ambrosia; Ippolito al quale la nutrice svela l’amore nutrito per lui dalla matrigna Fedra e, nell’anticamera, Ganimede, rapito dall’aquila e portato dinanzi al trono di Giove. Si entra così nel reparto balneare della villa attraverso un cortile con vasca sul quale si apre a destra la cucina.
Dal fondo dell’atrio si accedeva ad un peristilio quadrato scavato in epoca borbonica e poi ricoperto. Ai lati sono due cubicoli con decorazione di secondo stile a finta incrostazione con soffitto a cassettoni. Usciti dall’atrio si raggiunge un piccolo cortile con scala di accesso al primo piano. Aldilà del cortile si nota un vicolo che separa la villa di Arianna dal cosiddetto secondo complesso di Varano.

Ritornati sul lungo camminamento panoramico si entra nell’atrio tuscanico della villa decorato con affreschi del terzo stile. Si incontrano subito una diaeta con anticamera decorate con uno zoccolo figurato giallo (paesaggi), predella bianca (con mostri marini e paesaggi con pigmei) e zona mediana bianca (con tralci e coppie di amorini in volo al centro dei pannelli). Segue un bel triclinio estivo che evidenzia il perfetto gioco di luci ed ombre creato grazie a larghe finestre e pozzi di luce laterali.
A seguire è un’altra diaeta posta simmetricamente a quella precedente rispetto al triclinio estivo. L’anticamera ha il pavimento a mosaico bianco con rettangoli neri e zoccolo figurato nero, alle pareti è una raffinata decorazione con candelabri, coppie di figurine aggrappate a tralci, uccelli, farfalle e cavallette. Alcuni particolari furono distaccati dai Borbone e in parte sono al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Proseguendo nel percorso si entra in un piccolo corridoio: a destra è una stanza che presenta una decorazione molto particolare. Si tratta di una folta rete di diagonali e di orizzontali e verticali impresse con un cordoncino nell’intonaco fresco così da creare l’illusione di piastrelle, in seguito dipinte. Le raffigurazioni presentano amorini, uccelli, figure femminili, medaglioni e rosette. Lo zoccolo rosso presenta mostri marini cavalcati da amorini e figure umane. Continuando a percorrere il corridoio si giunge a due cubicoli: quello a destra dipinto in giallo conteneva quadretti con satiri e guerrieri sdraiati, quello di sinistra dipinto in rosso cupo, lo zoccolo nero era ornato di figure femminili sedute. Al centro delle pareti sono Menadi ed amorini.

Usciti dal corridoio, si incontra una stanza d’angolo con pitture rovinate perché picchettate dagli scavatori borbonici al fine di impedire che altri potessero impossessarsene. Si entra poi in un ampio triclinio con affreschi di quarto stile. Nello zoccolo delle pareti dell’impluvio si conserva ancora qualche traccia del rivestimento marmoreo originario. Nel cubicolo a destra il pavimento a mosaico presenta un singolare motivo di scendiletto tra anticamera ed alcova. Lungo il porticato, su cui si apre il triclinio estivo, si succedono le stanze residenziali alcune delle quali arricchite da decorazioni su parete dal soffitto di un piccolo ambiente panoramico disposto presso l’atrio proviene un ritratto di coppia in un rombo, dove i personaggi sono caratterizzati da capigliature alla moda tipiche dell’età Giulio-Claudia. Degli ambienti che seguono sono da ammirare i pavimenti a mosaico a fondo nero e gli affreschi del terzo stile molto frammentati. In fondo è il peristilio in parte franato per lo smottamento del terreno a valle. Fra i rinvenimenti si segnalano un bollitore di bronzo a forma di torre ed un anello d’oro con un granato sul quale è inciso un Apollo, entrambi oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Poco oltre si trova l’ampio peristilio, che si sviluppa per una lunghezza complessiva di 370 metri e ripete il canone indicato da Vitruvio. Nella stalla, nel 1981, si sono trovati i resti di due carretti agricoli. Fra i dipinti si segnala invece la famosa Flora che si accompagnava ad altri tre quadri: Leda ed il cigno, Medea e Diana cacciatrice; inoltre figure di sacerdoti isiaci ed il famoso quadro con Venere venditrice di amorini. Quest’ultimo quadro fu tanto famoso nel XVIII secolo che l’abate Galiani nel 1767 scriveva da Parigi al ministro Tanucci: “Quella pittura d’una donna che vende amoretti come polli, io l’ho vista ricopiata qui (a Parigi) in più di dieci case”.

Dalla parte opposta si trova, invece, il nucleo repubblicano della villa: in esso cubicoli con notevoli decorazioni a mosaico che si articolano intorno all’asse canonico atrio-peristilio, tipico delle residenze vesuviane del I secolo a.C. e che testimoniano la continuità di un abitato che, peraltro, non è stato ancora completamente individuato.
Anna Cavallaro.

giovedì 10 aprile 2014

La Cappella di San Gennaro di Massimo Capuozzo

La Napoli del Seicento fu una delle mete più ambite dagli artisti del tempo: abbastanza spagnola da garantire ai più valenti un successo internazionale, permise a molti di loro la consacrazione nell’Olimpo dei grandi maestri di tutti i tempi. Il Cavalier d’Arpino, Guido Reni, Ribera, Domenichino, Lanfranco, per non parlare di Caravaggio, che pure lavorò a Napoli nei primi anni del secolo, sono solo alcuni dei nomi di maggior rilievo. In città giunsero tantissimi artisti che, sebbene molti di essi siano oggi sconosciuti al grande pubblico, furono all’epoca tra i migliori del loro tempo. Lo stesso Pietro Bernini operò lungamente in città ed il suo geniale figlio, Gian Lorenzo, nacque proprio a Napoli nel 1598.
In questo rigoglioso clima culturale, alcuni cantieri di quegli anni, come nel caso della straordinaria Certosa di San Martino, acquisirono uno speciale rilievo e su tutti la superba Cappella del Tesoro di San Gennaro giustamente ritenuta summa del Barocco napoletano e fra i più spettacolari capolavori del Barocco europeo.
Per quasi un secolo, infatti, la Cappella richiamò artisti da ogni parte d’Europa e la decorazione plastica e pittorica della sua architettura, si presenta oggi come un capolavoro irripetibile di uno dei secoli più fecondi dell’arte e della cultura napoletana.
La Reale cappella del Tesoro di San Gennaro, voluta dal popolo napoletano per un voto al santo, è un monumento artistico di particolare valore per la concentrazione e per il prestigio delle opere che vi sono custodite, oltre che per il numero di artisti di fama mondiale che parteciparono alla sua realizzazione, molti dei quali, soprattutto i pittori, per lo più della scuola emiliana.
La cappella non appartiene alla curia arcivescovile, ma alla città di Napoli ed è rappresentata da un’antica istituzione, la Deputazione, ancor oggi esistente, e dai sedili di Napoli, soppressi invece da Ferdinando IV di Borbone il 25 aprile 1800 insieme al Tribunale di San Lorenzo. Questa cappella fu utilizzata nel corso del Seicento e del Settecento, anche per attività musicali ad essa legate, infatti in questi due secoli Napoli visse una stagione assolutamente magica nel campo della musica. Quando nel 1770 Mozart vi giunse con suo padre, Napoli era la Capitale della Musica oltre che essere ritornata di nuovo la capitale di un Regno, e i Mozart ebbero modo di sondare il terreno della produzione musicale napoletana. Il giovanissimo Amadeus era attratto dagli innovatori della musica a Napoli principalmente da Paisiello dal quale doveva apprendere diversi aspetti sia per i nuovi mezzi espressivi sia per l'uso drammatico-psicologico degli strumenti. E Mozart – secondo il suo più illustre biografo Aber – a Napoli venne ad imparare.
La nascita della cappella ha un’origine lontana ed è legata agli anni difficili vissuti da Napoli nella prima metà del Cinquecento, caratterizzata da guerre esterne ed interne, tragiche pestilenze e devastanti eruzioni vulcaniche. I conflitti interni avvennero intorno al 1527, quando il pretendente angioino Francesco I, approfittando anche dell’assenza del viceré di Napoli impegnato con le truppe di Carlo V e della morte del suo luogotenente Andrea Carafa conte di Sanseverino, tentò di riconquistare il Regno di Napoli sbarcando coi suoi soldati a Gaeta e a Salerno. In seguito a quest’evento, il generale Lautrec, al comando dei francesi, raggiunse le mura di Napoli e la cinse d’assedio, impedendo il rifornimento delle derrate alimentari e – secondo alcuni storici tra cui Pietro Giannone – avvelenando anche le acque che abbeveravano la città. In realtà Lautrec aveva assediato a Napoli mentre Filippino Doria, nipote del celebre Andrea, aveva organizzato il blocco navale, senza raggiungerne la capitolazione. Nell'estate del 1528, per vincere la forte resistenza spagnola, distrusse le condutture dell'Acquedotto della Bolla le cui acque si sparsero nei terreni vicini significativamente chiamati le paludi. In seguito alla calura si sviluppò quindi una violenta pestilenza che decimò i napoletani, giungendo fino a circa 250.000 morti, tra i quali perì lo stesso comandante francese. Nello stesso periodo anche il Vesuvio contribuì a devastare la città con un’eruzione accompagnata da una serie di terremoti che quasi quotidianamente la lacerarono nel corpo e nello spirito. In seguito  a questi eventi il popolo napoletano decise di rivolgersi al proprio santo protettore e il 13 gennaio del 1527, anniversario della traslazione delle ossa di San Gennaro da Montevergine a Napoli, fecero voto di erigergli una nuova e più bella cappella nel duomo, poiché quella vecchia era fuori mano in una torre angusta collocata a sinistra dell’entrata della cattedrale. L’impegno fu assunto solennemente e, per dare ancora più valore al voto, i napoletani redassero il rogito, sottoscritto dagli eletti di città, davanti a un notaio, sull’altare maggiore della cattedrale. In questo modo, per ottenere la liberazione dai tre flagelli, i rappresentanti dei cinque sedili nobili di Napoli – Capuano, Nido, Montagna, Portanova e Porto – più il rappresentante del sedile del Popolo fecero voto di offrire mille ducati per il tabernacolo eucaristico e diecimila per la costruzione di una nuova cappella in onore del santo: ma occorsero più di cinquecentomila ducati e circa ottant’anni  prima che l’opera fosse avviata.
Il 5 febbraio 1601, gli eletti della città nominarono una commissione laica di dodici membri, due rappresentanti per ognuno dei seggi cittadini, denominata da quel momento la Deputazione, cui fu affidato il duplice compito di promuovere e curare la costruzione e la decorazione della nuova cappella.
Il finanziamento dell’opera inizialmente prevedeva lo stanziamento di 10.000 scudi, ma poi ha raggiunto la cifra di oltre 480.000, senza ottenere alcun contributo dalla Chiesa. Nel 1605, Paolo V Borghese approvò la fondazione della Cappella, nel 1606 fu determinato il sito e nel 1607 fu bandito un concorso per la scelta del progettista, al quale parteciparono ingegneri, architetti e scultori di chiara fama, tra cui i romani Giovan Battista Cavagna  (1545 – 1613) e Giulio Cesare Fontana (1580  1627), i fiorentini Michelangelo Naccherino (1550 –1622) e Dionisio Nencioni (1559 – 1638), Giovan Giacomo Conforto (1569 – 1630), l’evanescente figura di Giovanni Cola di Franco, il cui floruit si colloca fra il 1596 e il 1621, e il teatino lucano Francesco Grimaldi (1543  1613), già molto noto a Napoli per aver progettato importanti edifici sacri come la Chiesa di Santa Maria della Sapienza, la Basilica di San Paolo Maggiore, la Chiesa di Sant’Andrea delle Dame, la Basilica di Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone e i Santi Apostoli. Fu preferito il progetto di Grimaldi, mentre a Cola di Franco, che si era classificato al secondo posto, fu affidato l’incarico della direzione del cantiere, dal 1609 al 1615. Furono inoltre impegnati vari architetti, tra cui Conforto, già direttore dei lavori nella Certosa di San Martino, dal 1618 al 1625, ed infine il vicentino Cristoforo Monterosso, documentato a Napoli tra la fine degli anni Ottanta del Cinquecento e i primi anni Trenta del Seicento.
Per realizzare un’opera architettonica così maestosa, in asse con la paleocristiana Basilica di Santa Restituta, fu scelta un’area corrispondente alle tre campate occupate dalle cappelle gentilizie delle famiglie Filomarino, Zurlo e Cavaselice; siccome l’imponente opera si estendeva ben oltre il perimetro del duomo, fu espropriata un’abitazione con giardino annesso e dovettero essere demoliti alcuni complessi preesistenti, come l’antico oratorio di Santa Maria della Stella e la quattrocentesca piccola chiesa di Sant’Andrea.
L’8 giugno 1608 fu deposta la prima pietra.
L’impianto centralizzato della cappella, a croce greca – l’altare maggiore, traduce l’invaso della crociera di San Pietro in una più marcata geometria ottagonale, allungata di circa un quarto sull’asse di ingresso – infatti, a causa della ridotta dimensione delle cappelle trasversali, l’ottagono predomina sull’involucro a croce greca, esaltando quell’idea del sacello, cui aspiravano gli eletti della città fin dal 1527, in tempi molto vicini al modello bramantesco. Francesco Grimaldi, che nei suoi anni romani aveva collaborato alla realizzazione della Basilica di Sant’Andrea della Valle, dovette evidentemente effettuare lo studio della michelangiolesca cupola di San Pietro, mostrò inoltre grande sensibilità alle istanze della committenza concedendo maggiore ampiezza al presbiterio per venire incontro alle grandiose cerimonie liturgiche e ai cerimoniali sempre più sfarzosi e spagnoleschi: il padre teatino, assecondando una cultura tipicamente barocca, ideò una sorta di grande teatro il cui palcoscenico era il presbiterio, mentre le balconate laterali, come dei palchetti – straordinaria analogia architettonica delle sculture laterali della Cappella Cornaro (1644 e il 1651) di Gian Lorenzo Bernini in Santa Maria della vittoria a Roma – che accoglievano famosi musicisti, grandi maestri come Cimarosa, Paisiello, Provenzale, Durante, Scarlatti e Carlo Broschi, detto Farinelli la voce regina. Fin dalla sua consacrazione avvenuta il 16 dicembre del 1646, la cappella divenne, infatti, teatro di fastose cerimonie, si ringraziava il santo per uno scampato flagello, si festeggiava la nascita dei nuovi sovrani, si commemorava la morte dei vecchi, si raccoglievano doni e tributi di potenti e di conquistatori che onoravano il patrono dei napoletani per accattivarsi le simpatie del popolo. Ed il popolo si toglieva il pane di bocca per far grande la dimora del suo santo.
Gli enormi piloni corrispondono ai lati brevi dell’ottagono e sono incorporati da edicole nel primo registro e, nel secondo, dai pennacchi trapezoidali che consentono di avere più spazio per gli affreschi. I lati più lunghi sono invece pari alla larghezza delle cappelle trasversali, della cappella maggiore e dell’ingresso, incorporate dalle composizioni parietali che fungono da ancona per gli altari in basso e dai lunettoni in alto. Questa ripartizione permetteva un ampio svolgimento del ciclo pittorico di San Gennaro, le cui storie si riuniscono attraverso l’allineamento tra lunettoni e pennacchi trapezoidali.
Analogamente la cappella maggiore con il reliquiario rende possibile il completamento del racconto attraverso le sculture. Le due cappelle trasversali, la cappella di San Gennaro a destra, e la cappella del SS. Sacramento a sinistra, presentano composizioni parietali classicheggianti.
Al progetto di Grimaldi si deve attribuire anche l’allungamento della cappella maggiore, per l’alloggiamento delle colonne nel reliquiario dove, nelle tre pareti, considerando anche la composizione parietale dell’altare, sono sistemate le statue in bronzo di santi che fanno corona all’altare del santo patrono.
L’articolazione sintattica di questo spazio, anomala in ambito napoletano, ritrova, per significati e per forma, il suo modello di riferimento nella frons scenae del palladiano teatro Olimpico di Vicenza (1579-80), con la sola variante delle colonne giganti; ne conserva, invece, la suddivisione in due registri principali, l’alto basamento utilizzato per i busti, l’alternarsi delle nicchie tra colonne e il conclusivo piano attico. In sostanza Francesco Grimaldi adottò la rielaborazione palladiana del teatro archeologico, dove le figure dei santi rimpiazzavano le sculture dei commissari dell’Accademia olimpica di Vicenza, ritratti come antichi eroi. Basterebbe questo solo colpo d’ala, dovuto al consapevole senso della teatralità che anticipava di gran lunga quella destinata a conformare l’altare definitivo, per comprendere il valore  creativo dell’architetto teatino.
Poco prima del 1613, Grimaldi dovette programmare almeno in parte per la cappella, ormai completa nel rustico, il repertorio delle sculture di bronzo come si può dedurre dal fatto che intendeva impiegarvi anche capitelli di bronzo.
Anche il progetto della cupola, una conica non semisferica ma semiellissoide – memoria della cupola di Carlo Maderno nella chiesa di Sant’Andrea della Valle – prima terminante in un lanternino, oggi in due ampolline simboleggianti il martirio del Santo, è di Francesco Grimaldi, così come i sei altari della cappella su cui si trovano alcune opere in rame, raffiguranti sempre i miracoli del Santo.
Al di là degli aspetti architettonici, che sono tuttavia di grandissimo rilievo, la Cappella è una delle massime espressioni del Barocco, non soltanto per la stretta intersezione fra architettura scultura e pittura che risultano pressoché imprescindibili l’una dalle altre, ma soprattutto per l’uso sapiente delle arti applicate che rappresentano il più felice raccordo fra le cosiddette arti maggiori.
Nell’ornamentazione della cappella, la parte riservata alla scultura ha, infatti, enorme risalto: statue in argento e in bronzo, lavorate da artisti del Seicento contribuiscono a fare di questa Cappella, insieme alla Certosa di San Martino, l’esempio più rappresentativo del Barocco napoletano della prima metà del Seicento, ma continuamente integrato ed arricchito per tutta la durata del secolo e nel corso di quello successivo. Come grandissimo rilievo ha nell’ornamentazione l’elemento pittorico:  cicli di affreschi dettano il programma iconografico della cappella.
Il cancello d’ingresso e l’area del cancello hanno una particolare importanza, infatti, rappresentano un diaframma fra il grandioso ambiente barocco e le severe navate gotiche della cattedrale. L’architettura vede ai lati due statue di marmo del 1640 circa, San Pietro e San Paolo, eseguite dallo scultore toscano Giuliano Finelli (1602  1653), allievo di Gian Lorenzo Bernini e collaboratore, nella stessa Cappella, del più anziano Michelangelo Naccherino.

La realizzazione di questo straordinario cancello in ottone e bronzo, preziosa sintesi di virtuosismo artigianale e di creazione artistica richiese circa quarant’anni da quando fu progettato a quando fu completato. Il progetto dell’architettura, sostituendo quello originario di Giovan Giacomo Conforto del 1628, fu affidato nel 1630 all’architetto bergamasco Cosimo Fanzago (1591 –1678), altro grande ed indiscusso protagonista della stagione barocca napoletana. Nel 1665, dopo trentacinque anni dalla sua progettazione, l’opera fu completata ed il cancello è considerato uno dei capolavori di Fanzago: ricco di ricami, di racemi intrecciati e di colonnine, il cancello è sormontato, all’inizio della mezza luna, da un busto bifronte di San Gennaro benedicente, sempre in ottone. Le colonnine verticali della parte bassa del cancello, sempre su progetto di Fanzago, sono in grado di emettere, se percosse, note musicali, come se fossero le canne di uno xilofono, con lo scopo di ricordare che la cappella era stata costruita anche per la musica. Occorre tuttavia ricordare che la realizzazione del cancello fu opera di due celebri mastri argentieri napoletani: Orazio Scoppa (1607 – 1647) e la flebile figura di  Gennaro di Biagio Monte.
Appena si varca il cancello la policromia dei marmi del pavimento e le decorazioni delle pareti tutte di marmi preziosi – connessi con quella abilità che rece la scuola di pietre dure barocca napoletana pari se non superiore a quella fiorentina – sono eseguite ancora su disegno di Cosimo Fanzago inoltre la vastissima decorazione pittorica ci introduce nel pieno clima della festa barocca, colossale spettacolo sonoro e visivo destinato a tutte le classi sociali.
La cappella ha sette altari e quarantadue colonne di broccatello: ai sei altari laterali - tra cornici intarsiate di lapislazzuli – ci sono quadri in tavole di rame con meravigliosi dipinti tutti dal bolognese Domenico Zampieri detto il Domenichino (1581 – 1641) , eccetto quello del cappellone sinistro che appartiene allo spagnolo Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto (1591  1652) e diciannove nicchie, con altrettante statue in bronzo dei santi compatroni della città per lo più opere di Finelli.
Già nel 1612, quindi un anno prima che il rustico di Grimaldi fosse approntato, la Deputazione decise di rivolgersi a Roma e di chiedere al conte di Castro, ambasciatore presso lo Stato Pontificio del Viceré di Napoli, Conte di Lemos, di contattare uno dei prestigiosi artisti che vi lavoravano. Il primo artista al quale, tramite il conte di Castro, la Deputazione decise di affidare i lavori di decorazione a Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino (1568-1640). Il pittore laziale, affermatosi a Roma sotto il pontificato di Clemente VIII Aldobrandini e tra i più richiesti ancora al tempo di Paolo V Borghese, era già ben noto a Napoli dove nel 1589 aveva già affrescato il coro della Certosa di San Martino e dove era poi tornato nel 1593 per eseguire gli affreschi della volta della Sacrestia; il Cavalier d’Arpino fu contattato nel settembre 1616 e, dopo che i deputati furono costretti a sollecitarlo più volte, si presentò solo nel 1618. Il contratto fu stipulato il 7 marzo del 1618, e solo dopo una lunga trattativa poiché non gradiva la proposta di condividere la commissione con l’artista napoletano Fabrizio Santafede (1560 – 1634): nonostante il Cavalier d’Arpino si fosse impegnato a cominciare quanto prima il lavoro assegnatogli, la sua caratteristica lentezza e gli eccessivi impegni assunti lo tennero lontano da Napoli senza che desse alcun segnale di vita alla Deputazione che, a quel punto, si rivolse nel 1620 a Guido Reni (1575 – 1642): il Cavalier d’Arpino tentò invano di recuperare con la Deputazione inviando degli emissari a Napoli, ma ormai era troppo tardi.
Guido Reni, dopo aver superato gli iniziali contrasti – un’estenuante trattativa economica per il compenso e per le modalità dei pagamenti – nel 1621 concordò il programma iconografico e teologico da realizzare: l’opera tuttavia non fu più realizzata forse perché non fu raggiunto un accordo economico o forse perché il pittore dovette lasciare Napoli a causa di pressioni e minacce ricevute da parte degli artisti napoletani o napoletanizzati che non volevano lasciarsi sfuggire l’occasione di lavorare ad un’opera di tale importanza. Dopo che un suo aiuto fu ferito in un agguato, organizzato da Belisario Corenzio (1558 –1646), invidioso per essere stato escluso dalla commissione, Reni purtroppo abbandonò l’impresa e, su suo consiglio la Deputazione decise allora di chiamare il vecchio pittore Fabrizio Santafede che a sua volta chiamò al suo fianco Battistello Caracciolo  (1578 – 1635) ed il bolognese Francesco Gessi (1588 – 1649), collaboratore di Guido Reni. Tuttavia i bozzetti e gli studi proposti da Gessi e Battistello non piacquero alla Deputazione: Santafede morì, Caracciolo e Gessi furono licenziati e la Deputazione, il 2 dicembre 1628, decise di indire una specie di gara d’appalto che comprendesse anche i pittori di scuola napoletana, fino a quella volta esclusi: alla richiesta avanzata non vi fu nessuno che rispose felicemente alle aspettative dell’istituzione.
Nel 1630 la Deputazione prese contatti con un altro pittore bolognese, Domenico Zampieri, detto il Domenichino, considerato il Raffaello dell’epoca, al quale chiese una prova che il pittore bolognese realizzò in pietra sanguigna raffigurante il Martirio di San Gennaro, nei pressi del Vesuvio e la solfatara di Pozzuoli. Il quadro, seppur semplice ed oggi conservato ed esposto nel Museo del tesoro di San Gennaro, entusiasmò la Deputazione tant’è che l’11 novembre 1631 gli fece sottoscrivere il contratto che stabiliva il programma iconografico, il prezzo per ogni figura e l’impegno a non eseguire altri lavori, da parte dell’artista, fino al momento in cui non avesse portato a termine il ciclo di affreschi.
Dopo diversi anni di studi e circa un centinaio disegni, Domenichino iniziò il lavoro di affresco e i primi pagamenti furono assolti intorno al 1638. Il Domenichino eseguì la maggior parte degli affreschi commissionatigli: per dieci lunghi e travagliati anni l’artista bolognese fu ospite del palazzo della Deputazione che voleva proteggerlo dalle ripetute intimidazioni che lo avevano raggiunto ancor prima che giungesse a Napoli, con gendarmi inviati dal Viceré. Questo spiega il clima di tensione nel quale il maestro fu costretto ad operare e le ragioni per cui fuggì prima a Frascati, poi fu costretto ad allontanarsi a Roma nel 1634 per sfuggire alle minacce di Belisario Corenzio e di Jusepe de Ribera.
Il ciclo decorativo concordato dal Domenichino era nettamente diverso da quello concordato con Guido Reni: anche l’opera del Domenichino è un inno pittorico a San Gennaro. Il maestro venne in contatto con la fonte agiografica di San Gennaro grazie alla sua frequentazione con il padre oratoriano dei Girolamini Muzio Capece che aveva già avuto una importante funzione nella mediazione fra la Deputazione ed il pittore. Il Domenichino, dovette immergersi nella lettura della Vita di San Gianuario vescovo di Benevento e principal protettore di Napoli del 1579, infatti, tutti gli episodi rappresentati dal maestro sono tratti dalla Vita di Regio.
Ai pennacchi, cioè le parti che preludono al luogo culminante della volta, sono affidate quelle immagini che vedono il santo più vicino alla sfera del divino.

L’affresco Cristo accoglie San Gennaro in cielo, collocato nel pennacchio di sinistra dell’altare maggiore, racconta di Cristo che accoglie nella Gloria San Gennaro e le Virtù da quest’ultimo praticate in vita, ed ovvero: la Fede, la Speranza e la Carità, che però occupano la zona inferiore dell’affresco. Intorno al Santo un corteo di angioletti volano, ognuno con un simbolo a cui è storicamente legata la persona del vescovo Gennaro: la Spada, la Mitra, il Pastorale, il Giglio, il Libro, la penna e lo stendardo con su inciso il serpente, segno del demonio sconfitto dal martirio del Santo.
Si instaura in tal modo un rapporto di reciprocità che vede da una parte il patrono chiedere l’intercessione celeste come nel caso dell’affresco del primo pennacchio a destra entrando nella cappella che raffigura I SS Gennaro, Agrippino e Agnello intercedono per Napoli in cui San Gennaro sta davanti a Cristo, genuflesso e, mentre uno stuolo di angeli bambini gli conducono la mitra, segno episcopale e le ampolle, segno della Passio, egli mostra a Cristo il duro sacrificio del popolo napoletano nel dipinto simboleggiato dalla Pietà con il cuore e l’incenso, dalla Carità che fa l’elemosina ai fanciulli ed infine dalla Penitenza, che si flagella con le stesse corde che stringe nella destra.
Dall’altro Cristo stesso gli chiede di proteggere la città nel pennacchio di destra sull’altare maggiore dove Cristo ordina a San Gennaro di proteggere la città: nell’affresco San Gennaro veste gli abiti delle solennità pontificali, regge uno scudo sul quale è stata incisa la scritta Patronus; alle spalle di Cristo due angioletti ispirano i simboli della Pace e della Giustizia tenendo in mano uno l’Ulivo e l’altro una Bilancia. Oppure nel primo pennacchio a sinistra La vergine intercede per Napoli noto anche come la Vergine trionfa sul Protestantesimo o come la Vergine mediatrice e protettrice, in cui la pittura si fa teologia e sarebbe difficile rispondere alle critiche con maggiore chiarezza di come Domenichino ha fatto con linee e colori. Questo affresco, nettamente scandito in due parti, mostra in alto la Vergine e Cristo, in basso varie figure allegoriche che ne sottolineano la vittoria sul mondo della Riforma. La Vergine, mostrando con gesto eloquente il mondo terreno prega il figlio di essere pietoso mentre figure angeliche sono impegnate a togliere dalle sue mani la spada della collera divina. Nella fin troppo forte didascalismo del dipinto ciò che soprattutto appare interessante sono le immagini allegoriche cui è affidato il compito di esprimere i segni di questa devozione napoletana: un’immagine femminile a sinistra che raffigura la Penitenza che si flagella la schiena, la Vittoria sull’eresia riformata che calpesta il peccato raffigurato in forma di tigre, Calvino e Lutero i cui nomi sono chiaramente indicati da un cartiglio e, al centro le immagini di una donna e di un uomo, la Preghiera: la donna stringe tra le mani assieme a un libro aperto una corona del rosario presentando alla Vergine il sacro ufficio, il Rosario, lo scapolare domenicano e poggia i suoi piedi su una raffigurazione dell’Italia Meridionale ed infine l’uomo, un sacerdote simbolo dell’Ardore della Fede Cattolica, mostra fieramente lo stendardo della Verginità di Maria, e con questo, calpesta gli eretici; chiude il pennacchio un angioletto che ripone nel fodero la spada, simbolo della Giustizia di Cristo. In questo pennacchio san Gennaro non è raffigurato fisicamente, ma rappresentato dalle reliquie, le ampolle ed il busto. Infine il pennacchio di sinistra sull’altare maggiore che raffigura San Gennaro con San Gabriele e San Raffaele: San Gabriele ha in mano il Giglio, mentre San Raffaele si presenta armato di Spada e di Scudo. Ai loro piedi c’è Tobia col Pesce, simbolo del peccatore illuminato dalla Grazia. Su questa scena, tre figure allegoriche popolano la parte inferiore dell’affresco: esse sono, la Fede rappresentata dall’ancora e dal timone, entrambi segni che giustifica la persistenza di un popolo a seguire la propria fede; la Fortezza, rappresentata con l’Elmo, la spada e lo scudo con su scritto Humilitas; ed infine, la Munificenza, la quale, mostra al visitatore, la pianta della cappella del Tesoro personificandosi con la città di Napoli.
Nelle lunette e nei sottarchi le scene dipinte trattano della vita e dei miracoli del Santo. Nella lunetta San Gennaro ferma il Vesuvio sopra la porta d’ingresso della cappella è narrato un primo episodio sul tema della penitenza e della disperazione del popolo napoletano terrorizzato per l’eruzione del Vesuvio: il busto di San Gennaro quindi è poi portato in processione, ma nell’affresco lo si vede emergere in volo ed attestarsi contro la furia del vulcano ancora in attività sullo sfondo della lunetta.
San Gennaro condotto al martirio, nella lunetta dell’altare di sinistra, l’affresco si riferisce alla tradizione dei Santi Gennaro, Festo e Desiderio, costretti a tirare il carro di Timoteo dalle carceri di Nola a quelle di Pozzuoli prescelte per il martirio.
Molto bello è l’affresco San Gennaro con i compagni Festo, Sossio, Procolo, Desiderio ed Eutichete nell’anfiteatro di Pozzuoli e quello Gennaro ridona la vista a Timoteo
Si distinguono sue affreschi. La liberazione di Napoli dai saraceni nella lunetta in alto a destra dell’altare laterale di destra – che narra il semplice accorgimento agiografico di affidare alla miracolistica di San Gennaro la cacciata dei Saraceni dalla città di Napoli individuata poi nella memorabile sconfitta subita a Napoli da Roberto il Guiscardo – e Il  supplizio del santo.
L’intervento del Domenichino interessò anche gli oli su rame, i cosiddetti rami, degli altari ed il maestro riuscì ad eseguirne cinque su sei previsti.

Sul lato sinistro nella Decollazione del santo, san Gennaro in ginocchio è in atto di piegare il collo davanti al carnefice per ricevere il martirio, già subito da alcuni suoi compagni di fede i cui corpi gli stanno accanto ancora grondanti di sangue e Timoteo assiste all’orrendo spettacolo per meglio saziare la sua sete vendetta, ma in aria appaiono gli angeli coi premi preparati per quegli eroici difensori della propria fede.

Gli infermi guariti con l’olio della lampada del santo in cui si vedono molti infermi che vanno al sepolcro del santo a Benevento per essere risanati con l’olio della lampada che vi arde davanti: in essa una donna intinge le dita per ungerne una giovane rachitica e storpia mentre un vecchio pieno di fede nella virtù di quell’olio ne unge gli occhi alla sua figlia cieca; in alto appaiono la Vergine e San Gennaro.
Nella Resurrezione di un morto il primo a sinistra Domenichino raffigura un giovane trasportato sul cataletto verso la sepoltura, che torna in vita appena è toccato da una coperta su cui è raffigurata l’immagine del santo; il maestro raffigura gli astanti presi da stupore quasi panico mentre il ragazzo resuscitato è abbracciato da sua madre.
Sul lato destro il Domenichino il Concorso degli infermi alla tomba di San Gennaro al quale si avvicinano per ottenere la guarigione.
La Liberazione dell’ossessa è incompiuto per cui, la Deputazione il 6 giugno del 1646 volle affidare al noto pittore napoletano, Massimo Stanzione (1585 – 1656), la realizzazione dell’olio su rame raffigurante il Miracolo dell’Ossessa, che il Domenichino non aveva ultimato. Il quadro realizzato da Stanzione con lo stesso soggetto dapprima sostituì quello incompiuto del Domenichino che fu sistemato nella sagrestia dell'Immacolata – oggi parte del complesso museale del tesoro di san Gennaro – poi la Deputazione nel 1763 decise di invertire le due opere in quanto il quadro di Stanzione non si uniformava al tema pittorico del Domenichino presente e prevalente nella cappella.

Forse anche il sesto rame, San Gennaro esce illeso dalla fornace, dipinto da Ribera, che dal 1616 era uno straordinario esponente del naturalismo post caravaggesco a Napoli, si basa in parte su un disegno del Domenichino, ma non esistono prove. La Deputazione affidò a Jusepe de Ribera l’olio su rame dell’altare di destra San Gennaro esce illeso dalla fornace, considerata una delle più belle opere del pittore spagnolo per la plasticità dei personaggi, per la cura dei particolari e per la straordinaria capacità espressiva che si accosta al classicismo che contraddistingue sia le opere del Domenichino sia quelle di Lanfranco. L’impatto visivo è eccezionale.
È suggestiva la collocazione nel sottarco dell’ingresso alla cappella della scena affrescata della vecchia nutrice Eusebia, la quale, dopo il martirio amorevolmente, raccoglie il Sangue del Martire Gennaro.
Al tondo centrale verrà affidato il racconto che a San Gennaro, prima che fosse decollato, fu anche tagliato un dito. Il martire apparirà in sogno ad un suo devoto discepolo, pregandolo di ritrovare quel dito affinché fosse sepolto assieme al corpo.
Sempre nei sottarchi all’ingresso, sul lato destro, la scena della Traslazione delle reliquie del Santo, da cui deriva la cerimonia annuale detta dell’Inghirlandata; il tondo centrale racconta una Visione del santo da parte della madre che lo vede sul patibolo subire il martirio, a destra Il Santo è visitato in carcere a Nola da Festo e Desiderio, rispettivamente il diacono ed il lettore della chiesa di Benevento. Ancora più suggestivo è il microciclo nei sottarchi a sinistra dell’ingresso alla cappella. Nel tondo e nel riquadro di sinistra si racconta la scena di San Gennaro condotto al patibolo e sulla strada un vecchio chiede al condannato l’elemosina. San Gennaro prometterà al vecchio di ritornare dopo morto per fargli dono della benda che il boia userà per coprirgli gli occhi prima dell’esecuzione, cosa che verrà descritta proprio al centro dei sottarchi all’ingresso, assieme ad altro episodio dove, si osserva il medico che mostra agli scettici la benda del Martire.
Nei riquadri all’altare maggiore, sono descritte le scene di San Gennaro dato in pasto agli orsi all’anfiteatro di Pozzuoli dove per meraviglia di Timoteo, le belve si ammansiscono. Nell’altro riquadro si vede il Santo che restituisce la vista a Timoteo, che l’ha persa dopo il tentativo fallito di uccidere il Santo nell’orrenda tortura degli orsi.
Purtroppo però ancora una nuova interruzione rallentò i lavori: mentre il Domenichino stava lavorando a Napoli, sorsero dispute ed accuse di plagio da parte di quella che fu chiamata la cabala di Napoli, formata dai pittori Corenzio, Ribera e Caracciolo uniti per escludere dal loro ambiente l’artista bolognese. Si dice addirittura che il Domenichino trovasse spesso rovinato il lavoro della giornata precedente. Non si sa se per paura o per un cattivo presentimento, il 3 aprile 1641 Domenichino stese il suo testamento e morì tre giorni dopo, forse avvelenato.
Il Domenichino è stato una delle più eccellenti manifestazioni dell’eclettismo pittorico del Seicento, ma fin dalle prime prove affermò una personalità originale: egli mirò a rendere la immagine con intimità di sentimento, in composizioni di regola semplici e chiare, generalmente col centro spostato a una estremità. Si preparava ad esse per mezzo di numerosi disegni. Nelle scene sacre egli si afferma superbamente, animandole di fervore e di spiritualità ma anche come paesista, è notevole tanto nei fondi, e più, nei piccoli quadri in cui il paese è l’elemento essenziale della rappresentazione: e in tal senso egli mosse da Annibale Carracci. Come tutti i classicisti della scuola emiliana ebbe gran cura nel disegno. La personalità del Domenichino, tranquilla sullo sfondo tumultuoso della pittura seicentesca, ha un’armonia e una delicatezza di spirito e di forma che sembrano ricongiungerla all’arte classica del Cinquecento, non per nulla era chiamato il Raffaello della sua epoca.
L’incarico di completamento degli affreschi giunse al pittore parmense Giovanni Lanfranco, un altro pittore di scuola emiliana amico rivale del Domenichino a Roma nella chiesa di Sant’Andrea della Valle e che già da qualche anno si trovava a Napoli.

A Lanfranco spetta il formidabile Paradiso, realizzato in brevissimo tempo. Gli affreschi della cupola della Cappella erano già stati iniziati dal Domenichino, che, secondo i canoni classicisti, aveva suddiviso la superficie semisferica in scomparti con cornici in stucco bianco e dorato. Lanfranco s’impegnò a realizzare gli affreschi per 6000 ducati, più altri 1000 per le ulteriori spese, ma volle eseguire gli affreschi della cupola ex-novo: chiese ed ottenne l’abolizione delle costolonature in stucco, la rimozione di quanto era stato già compiuto dal Domenichino e la chiusura del lanternino, per conferire un maggiore effetto d’insieme degli affreschi e così, dopo appena due giorni dalla morte del Domenichino, si mise all’opera nei lavori interni alla cupola.
Nella cupola della Cappella – realizzata in appena due anni – e decisamente barocca per quel senso dello spazio infinito e del movimento delle masse a larghe falde, un artista non napoletano, seppe esprimere pienamente la figura del Santo più caro al cuore dei napoletani. L’idea di fondo del programma iconografico è semplice quanto intensa: il cielo si apre immerso in un canto di gloria e al centro, proprio nella zona del lanternino, appare dall’alto la figura dell’Eterno che si mostra in tutta la sua sfolgorante gloria; nel piano immediatamente inferiore il disegno si articola intorno a due polarità opposte, costituite da Cristo – assiso in trono che benedice la città – e dalla Vergine – a mani giunte guarda verso il Padre – circondati entrambi da cori di angeli musicanti, Santi e personaggi biblici intorno a loro, in un vortice ascensionale verso l’empireo.
Tutto il Cielo è presente nella cupola secondo l’antichissima tradizione iconografica che l’accompagna, che vuole che ci sia una quadruplice distinzione fra i santi del Nuovo Testamento – gli apostoli, i martiri, i confessori e le vergini – e che fu istituzionalizzata nella festa di Ognissanti da Bonifacio VI nel 605, affinché siano onorati tutti per supplire ad ogni dimenticanza. Sono rappresentati tutti provenienti dalle quattro parti del mondo perché in opposizione al Protestantesimo nel festeggiare i santi si onora Dio come, secondo l’ortodossia cattolica, correttamente dipinge Lanfranco. Per l’iconografia cattolica non si può rappresentare il cielo dei santi come un cielo silenzioso, ma esso è festante, risplendente di riflessi di luce e sgargiante di colori in una festa che riempie il cuore e le orecchie delle lodi di coloro che vivono nell’eterno cospetto del Padre. Per questo l’artista rappresenta, al centro del turbine festoso dei santi in nuvola luminosa di luce splendente, l’Eterno Padre in un volo d’angeli, nel momento in cui mostra il suo volto: la visione del volto di Dio è la ricompensa promessa per gli uomini retti e l’uomo che ama Dio ambisce vederlo.
Nella sottostante fascia del tamburo, il pittore superò il problema delle finestre che interrompevano lo spazio, dipingendo tra esse coppie di Virtù monumentali fra nuvole e putti, accentuando la prospettiva di scorcio. Nell’insieme l’effetto di sfondato architettonico della composizione è esaltato dalla vivacità cromatica e dall’intensa luminosità, oggi pienamente fruibili grazie ai recenti restauri sapientemente condotti (1984- 1996).
Giovanni Lanfranco, allievo di Annibale Carracci, fu, insieme al Guercino e a Rubens, tra i maggiori protagonisti della prima fase del barocco nella pittura italiana. Geniale  nell'invenzione, amante degli scorci audaci e degli spettacolari effetti di luce, assertore di una libertà pittorica in netto contrasto con la corrente classicistica, divenne una delle le personalità artistiche più rappresentative del Barocco romano dopo la morte del suo maestro. Lanfranco fu infatti il pittore preferito di Papa Paolo V Borghese; negli anni dal 1610 al 1630, fu conteso dalle famiglie nobili di Roma oltre che dai potenti ordini religiosi. Sull'onda della fama che lo circonda, nel 1630 si trasferisce a Napoli con la famiglia. Qui, pur vivendo da straniero, riesce a stabilire dei rapporti di convivenza. È stato definito un «uomo malvagio di pochi scrupoli, intrigante, ma di successo».
Operò a Napoli mentre erano attivi Falcone, De Ribera. Il suo percorso artistico rappresenta un punto di svolta rispetto alla tradizione classicista e segna un deciso rinnovamento della pittura in senso barocco. Lanfranco fu in realtà il primo creatore di un linguaggio barocco, con linee aeree e diagonali, visioni leggere ed ariose, armoniose composizioni, dando avvio a una nuova concezione illusionistica dello spazio nel suo rapporto con  le figure rappresentate.
Tutta la cappella è contornata da una serie di diciannove sculture bronzee che vede nella mediana, posta al centro dell’altare maggiore, san Gennaro seduto che dirige gli altri diciotto compatroni nella difesa di Napoli dalla fame, dalla crisi, dalla peste e dall’ira del Vesuvio. La maggior parte delle sculture, compresa quella di san Gennaro del 1645, fu eseguita da Giuliano Finelli (San Giacomo della Marca, San Francesco di Paola, Sant’Andrea da Avellino, San Domenico, Sant’Eusebio, Sant’Agrippino, Sant’Agnello, San Tommaso d’Aquino, Santa Patrizia), due da Cosimo Fanzago (Santa Teresa d’Avila e Sant’Antonio da Padova) una da Tommaso Montani il cui floruit si colloca il 1594 e l’inizio del terzo decennio del Seicento (Sant’Aspreno), una di Cristoforo Monterosso (Sant’Atanasio), una di Domenico Marinelli (San Filippo Neri) e una di Giovan Domenico Vinaccia (1625 – 1695) (San Francesco Saverio).
Sono inoltre presenti cinquantaquattro busti reliquari tutti completamente in argento.
L’insieme delle decorazioni marmoree peraltro aveva avuto inizio già nel 1610 sul disegno di Francesco Grimaldi ed erano state realizzate nell’arco di oltre un ventennio sotto la direzione di Cristoforo Monterosso.

Se l’acme della decorazione pittorica è il grandioso affresco di Giovanni Lanfranco, lo splendore delle statue di bronzo e di argento raggiunge l'apice con il nuovo altare maggiore disegnato da Francesco Solimena nel 1714 in porfido con cornici di argento e rame dorato, che costò quasi ventimila ducati. I putti d'argento laterali furono realizzati dal de Turris, mentre la balaustra del 1618 è di Giuliano Vannelli su disegno di Grimaldi.
Il paliotto d’argento dell’altare maggiore della Cappella è un capolavoro assoluto del barocco napoletano sia nella composizione architettonica che per il mirabile lavoro di cesello. Vi si raffigura l’episodio della Traslazione delle Reliquie di San Gennaro da Montevergine a Napoli ad opera del cardinale Oliviero Carafa del 1497sebbene nella realtà l’atto fu compiuto dall’arcivescovo Alessandro Carafa, fratello del cardinale Oliviero. Il cardinale è rappresentato a cavallo che porta la cassetta con le ossa del Santo il quale vola in alto benedicendo la città rappresentata dalla sirena Partenope e dal fiume Sebeto. In basso, invece, le figure allegoriche della Peste, la Fame e la Guerra fuggono spaventate mentre l'Eresia viene schiacciata dagli zoccoli del cavallo del cardinale. Il maestro argentiere Gian Domenico Vinaccia, che fu anche scultore e architetto, realizzò il disegno ed il modello in creta della grande scena centrale, mentre per le scene laterali è probabile che abbia utilizzato modelli realizzati su disegno di Dionisio Lazzari (1683-84). È certo, comunque, che Vinaccia sperimentò nuove soluzioni di tipo berniniano, realizzando una splendida opera della cui esecuzione si occupò tra il 1692 ed il 1695, anno della sua morte.
L’altare fu ideato proprio per accogliere questa straordinaria opera di argenteria e di scultura nella quale l’episodio della Traslazione delle Reliquie è rappresentato in uno spazio illusorio carico di simbolismo ed enfasi tardo-barocca. Fra i gentiluomini al seguito del cardinale, Vinaccia volle rappresentarsi in un personaggio occhialuto e vestito secondo l’ultima moda francese: un autoritratto per firmare l’opera. Ai due lati dell'altare sono angeli d'argento, enormi candelabri d'argento del 1744.
Ai lati ci sono due enormi candelabri d'argento detti comunemente Gli splendori alti 3 metri e 30 cm su disegno, modello in creta e successivamente in cera di Bartolomeo Granucci (Napoli, XVII secolo – Napoli, XVIII secolo), scultore e architetto decoratore ed eseguiti dall’argentiere Filippo del Giudice nel 1744. Forgiati in argento sbalzato con figure allegoriche di Virtù e putti. Per la realizzazione dei candelieri, la quantità di argento fu stimata in quattro quintali e la somma occorrente fu raccolta fra i devoti e lo stesso Carlo III di Borbone contribuì con l'offerta di 2.000 ducati.
A tutto tondo i puttini sul globo terrestre e le tre virtù: Fede (il calice), Speranza (l’ancora) e Carità (donna che allatta bambino).
Alle tre virtù teologali corrispondono, sull’altro candeliere, tre allegorie che forse esaltano i meriti di Carlo di Borbone, il quale contribuì con l’offerta di duemila ducati. Queste le tre allegorie: Fortezza  (donna con elmo in testa, scudo sul braccio e lancia in mano), Mansuetudine (donna con agnello), Buon Governo (donna che regge il globo). Nei documenti appare chiaro che gli Splendori furono donati da Carlo III di Borbone e della regina Maria Amalia di Sassonia e commissionati dalla Deputazione stessa, senza specificare mai nomi precisi di alcun deputato.

Dietro quest’altare, due nicchie con sportelli d’argento donati da Carlo II di Spagna nel 1667 custodiscono le ampolle del sangue di San Gennaro. L’imbusto, ossia il busto reliquiario di san Gennaro in oro e argento fu invece realizzato da tre orafi provenzali e donato da Carlo II d’Angiò nel 1305.
Sebbene la Cappella del Tesoro di San Gennaro fosse stata consacrata nel 1646, i lavori, come si è visto, proseguirono anche durante la seconda metà del Seicento e molti altri artisti, alcuni dai nomi ormai sconosciuti, contribuirono al suo completamento. Essa si presenta oggi come uno scrigno prezioso in cui sono custodite le reliquie di un santo che si lega indissolubilmente alla sua città. vulcanica, dai vicoli stretti e bui, dalle spiagge e dalle piazze e dalle mille chiese, dolcemente adagiata sul mare come una mitica sirena.
La lunga e travagliata storia degli incarichi per la realizzazione degli affreschi, per ornare con autentici cicli scultorei, la scelta dei materiali – lapislazzuli, giade e marmi fra più rari e pregiati – non deve destare meraviglia, quanto piuttosto deve far riflettere su alcuni punti fondamentali della storia dell’arte. Si comprende immediatamente che, per avere un capolavoro artistico, presupposto fondamentale perché si possa parlare di arte al servizio della liturgia, sacra o profana che sia, ci vogliono anni ed energie. Gli artisti furono ricercati non tra quelli a basso costo o più a buon mercato, ma tra i migliori, per avere il miglior risultato. Per ultimo, poi, ma non meno importante, per realizzare un capolavoro ci vuole non solo un artista valido, ma una committenza veramente determinata a voler realizzare una vera opera d’arte.

Massimo Capuozzo

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