lunedì 23 novembre 2015

Per una didattica della parafrasi di Massimo Capuozzo

La parafrasi indica la trasformazione di un testo scritto nella propria lingua, ma in un registro linguistico distante (sia esso arcaico, elevato o poetico, o infine settoriale), in prosa nel registro medio e attuale e infine comprensibile ai più: parafrasare un brano vuol dire, infatti, mantenere tutto ciò che c'è nel brano, ma renderlo più facile, più semplice più leggibile al lettore comune.
Quest’operazione è necessaria per i testi più antichi, sia in prosa sia in poesia, mentre, per i testi moderni, prevalentemente per i testi in poesia, come da definizione anche per la prosa scientifica e tecnica che si servono di linguaggi settoriali. Vi sono, infatti, testi di natura politico-sindacale, tecnico scientifico e quant’altro, che sono scritti solo per i conoscitori di quel determinato linguaggio speciale e, per renderli comprensibili al comune lettore, occorre non solo un'operazione di semplificazione, ma anche un processo di rielaborazione, di chiarificazione di concetti e di riscrittura.
La parafrasi dunque è la realizzazione di un testo che ha lo stesso significato e una struttura parallela a quelli del testo di partenza, da cui però si differenzia sul piano lessicale e sul piano morfosintattico e talvolta sul piano esplicativo.
Come inevitabile effetto collaterale della parafrasi è il fatto che il profondo rapporto tra significante e significato, tipico della comunicazione letteraria e soprattutto fulcro dei testi poetici, finisce ovviamente sacrificato.
Il processo di parafrasi prevede dunque alcune operazioni:
·         indicare sempre i soggetti di ogni frase,
·         modificare se necessario la punteggiatura,
·         usare la costruzione diretta, ossia il soggetto deve di norma precedere il verbo. 
·         esplicitare, rendendo comprensibili, i riferimenti pronominali,
·         escludere il discorso diretto, anche se il testo di partenza è un dialogo,
·         ricostruire la sintassi e le figure sintattiche,
·         sostituire gli scarti linguistici (forma linguistica antica, scomparsa o desueta o troppo specialistici) usando sinonimi più convenzionali,
·         esplicitare le figure retoriche di significato come metafore, metonimie, ecc.
·         esplicare gli scarti culturali ovviamente in parentesi
·         riscrivere in prosa moderna del testo.
Possono anche essere operati dei chiarimenti di alcuni punti del testo: una buona parafrasi include, infatti, tutti i dettagli e rende il testo originale più semplice da comprendere. Poiché il testo risultante è normalmente più ampio del testo di partenza, quest’operazione si oppone a quella del riassunto.
Sebbene la velocità e l’immediatezza della comunicazione globale contrasti con la lentezza, con la fatica e con la disponibilità a rivedere richieste da una buona riscrittura, il valore strumentale della parafrasi è abbastanza evidente. Chi traduce le lingue straniere o le lingue antiche conosce bene la fatica del processo cognitivo che sta sotto al suo lavoro: parafrasare bene, con gusto, con chiarezza, nel rispetto del testo di partenza, ma anche della lingua di arrivo, è un lavoro che educa alla profondità e alla pazienza, elementi fondanti dell’aspetto educativo che una scuola di valore non può ignorare.
Nella prassi didattica più comune, la parafrasi cerca di favorire la possibilità di un ampliamento del campo semantico, certi che il parafrasare è un atto complesso della mente, che presuppone e genera altre azioni rilevanti non soltanto in ambito scolastico ma, più in generale, in ambito culturale ed in ambito civico.
Il lavoro in classe, nel corso dei quinquenni di cui qui io parlo, ha prodotto, nella fase della sua rivisitazione critica a posteriori, una sorta di mappa dei pregi del parafrasare capace di mettere in evidenza la più ampia dimensione formativa, e di conseguenza disciplinare, trasversale ed educativa della parafrasi, di solito relegata ad una funzione limitata alla didattica della letteratura ed alla comprensione.
In primo luogo mi sono accorto che la pratica della parafrasi, se risultava più agevole con quegli studenti che potevano ancorarla ad un passato scolastico precedente nel loro approccio globale al sapere della scuola, costituisce l’antidoto del tanto deplorato apprendimento mnemonico, ed ha una ricaduta ancora maggiore su quegli studenti, le cui strutture linguistiche risultavano più lacerate. Per questi ultimi l’approccio globale con la lingua costringe ad ordinare la frase e a riconoscerne le funzioni morfosintattiche e ad usare il vocabolario che, come è noto, accresce il bagaglio lessicale insieme alla lettura.
Il lavoro con i ragazzi sviluppato in verticale negli ultimi quinquenni, ha favorito la persuasione didattica che una buona capacità parafrastica richieda due competenze fondamentali:
1.    una di ordine linguistico, che si esercita simultaneamente sul testo di partenza e sul testo di arrivo (competenza ricettiva e produttiva) e che si articola in competenza lessicale/semantica e competenza morfosintattica (soprattutto nel primo biennio).
2.    una di ordine culturale/contestuale, che ha a che fare con l’epoca del testo e con l’ambiente culturale del suo autore e dei suoi lettori (soprattutto negli anni successivi);
Lo studente che parafrasa un testo non cerca solo di raggiungere lo scopo di produrre un altro testo più semplice, ma la parafrasi gli serve per comprendere più profondamente il significato letterale di quel testo.
Il famoso invito a dire con parole proprie, che comincia a circolare nelle aule fin dalla scuola dell’educazione primaria, rappresenta da una parte un’esigenza di interiorizzazione e dall’altra di una riformulazione dei contenuti culturali che supera il semplice passaggio tecnico del parafrasare un testo letterario per comprenderne la lettera.
Parafrasare un testo letterario è un’operazione dell’apprendimento convergente perché è estremamente vincolante al testo e alla sua decodificazione.
Inutile sottolineare il potenziale di sviluppo delle competenze linguistiche (lessicali, morfosintattiche, semantiche) insito nel laboratorio della parafrasi.
L’attitudine parafrastica può essere spiegata come attitudine alla riformulazione. L’incapacità di riformulare, o comunque di trasformare i contenuti in cultura personale, si presenta in genere come uno dei maggiori ostacoli all’apprendimento.
Gli studenti che non riformulano sono quelli che ripetono mnemonicamente ed è proprio il ripetere il grande antagonista del parafrasare, quindi di un apprendimento consapevole.
Un approccio alla lingua che preveda manipolazioni, riformulazioni, reazioni critiche, atteggiamenti creativi e che, risulti quindi, in accezione larga, di carattere parafrastico nella misura in cui per essere fatto proprio (imparato) un contenuto deve essere compreso e per essere compreso dev’essere ricostruito (parafrasato) e adattato alle strutture cognitive di chi impara.
Per questa ragione il contributo disciplinare dell’italiano attraverso lo strumento della parafrasi alle generali capacità di apprendimento degli studenti è notevole. Si sarà anche compreso come diventi più importante a questo livello tenere sotto controllo, ancor più che il prodotto (pur necessario alla comprensione), il processo della parafrasi, che è fatto di passaggi, snodi, problemi di fronte ai quali gli studenti non possono trovare scorciatoie. Nel processo parafrastico – in cui la classe assume un atteggiamento laboratoriale – è stimolato al massimo da un lato l’atteggiamento di attenzione nei confronti del dato, presupposto di natura scientifica, dall’altro la capacità di superare il dato stesso – che in questo caso è dato linguistico – per assumerlo ed integrarlo nei propri schemi, ma sempre nella consapevolezza interpretativa che l’operazione contiene una quota di soggettività.
Accanto a questa trasversalità di carattere cognitivo ce n’è un’altra, per così dire, di carattere motivazionale che comprendono gli insegnanti e gli studenti alle prese con la difficoltà di riformulare (parafrasare o tradurre) testi. Davanti a formulazioni strane, astruse o criptiche si è tentati di demordere o di cercare soluzioni sbrigative. Non c’è nulla di più fecondo didatticamente che una parafrasi difficile e pertanto demoralizzante. L’importante è evitare soluzioni preconfezionate per far presto.
L’impostazione laboratoriale data al processo della parafrasi diventa a questo punto un valore aggiunto e respinge radicalmente un’impostazione in senso quantitativo del lavoro. Si tratta di quella situazione in cui l’insegnante e la classe non ne vengono a capo, né le note del libro riescono a dare una mano. In quel momento bisogna pensare insieme, confrontarsi con altri testi, provare e riprovare. Ci si trova tutti insieme davanti alla stessa complessità di un testo, metafora della complessità dell’esistenza.
Come si è visto, la riflessione sulla parafrasi ha accolto elementi che prima hanno superato il pur ineludibile ambito disciplinare e poi anche lo stesso ambito cognitivo per approdare all’ambito educativo della cittadinanza.
Il processo parafrastico, infatti, educa ad una cultura del dato e dell’argomento perché sollecita gli studenti ad argomentare le proprie opinioni (“penso che il poeta Tale dei Tali si possa considerare in questo modo o in quest’altro, perché in questo brano ha detto questo”), e pertanto sembra dirigersi verso uno dei requisiti più importanti della cittadinanza, che è la capacità critica argomentata, qualità molto auspicabile in tempi di discussioni mediatiche autoreferenziali e di attacchi personali gratuiti in cui la relazione si sovrappone al merito della discussione.
Sapere basare i propri discorsi su argomentazioni e non su slogan, su pregiudizi ideologici o su prese di posizione è un obiettivo auspicabile per tutti gli studenti con la costruzione di un habitus mentale che spetta anche alla scuola attraverso il modo in cui rende possibile l’incontro intelligente degli studenti con il sapere. Per incontro intelligente intendo in questa sede qualcosa che ha molto a che fare con la capacità di tenere sotto controllo dati, di assumerli tutti, di riformularli, di valutarli criticamente, di reinterpretarli, tutte competenze trasversali auspicate oggi dai documenti europei – recepiti anche dall’Italia – sull’istruzione.
Da quanto detto si possono sintetizzare le finalità educative della parafrasi:
1.    rispettare la realtà senza subirla,
2.    ascoltare l’altro prima di riformularlo,

3.    leggere attentamente le culture altrui prima di giudicarle.

martedì 3 novembre 2015

O bella età dell'oro di Torquato Tasso

·        Il coro dell’Età dell’oro conclude il primo atto dell’Aminta, un dramma pastorale diviso in cinque atti disuguali, preceduti da un prologo e intervallati da cori, che risale alla primavera del 1573, quanto Tasso, uomo di nobili e dotte origini, stava componendo la Gerusalemme Liberata.
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         Il dramma pastorale, o favola boschereccia, è un genere teatrale, che si era affermato negli ultimi decenni del Quattrocento e che si rifaceva all'idillio e alla bucolica  e trasformava il dialogo in una vera e propria azione drammatica. Esso fu tuttavia condizionato dalle corti, che esigevano dal poeta un teatro raffinato, pieno di fasto e di garbo. Il dramma pastorale fuse così il sentimento tragico e quello comico, con il lieto fine di rigore, per non turbare la serenità del giorno festivo, in cui abitualmente si rappresentava questo genere, originariamente era rappresentato solamente nei giardini cortesi ed era quindi destinato ad un pubblico ristretto: il dramma pastorale fungeva infatti da intrattenimento festivo di tono garbato ed estremamente raffinato, le sue prime rappresentazioni si svolsero a Mantova e a Ferrara, trovando nella cultura di un grande poeta prima, e di un grande letterato poi, la sua espressione. Dalla favola pastorale il teatro riprende gli stessi personaggi: ninfe, satiri, pastori, cacciatori. Il primo esempio di questo genere si ha nella Favola di Orfeo di Poliziano, rappresentata a Mantova nel 1480 e da allora, fino alla metà del Seicento, il genere continuò ad avere fortuna e fra le opere più significative sono da ricordare il Tirsi di Baldassarre Castiglione del 1506, l'Egle di G. B. Giraldi Cinzio del 1545, l'Aminta di Tasso del 1573, mentre l'Endimione di A. Guidi del 1692 segna la fine di una formula ormai priva di interesse. A quel punto la pastorale, in parte cantata e in parte recitata e fu sostituita dal melodramma interamente cantato.
·         I personaggi di questo tipo di azione scenica interpretano dei pastori, ma in realtà, dietro a questi attori si celano i personaggi della corte ove l’opera è stata messa in scena.
·         L’Aminta fu rappresentato nei giardini di Belvedere sul Po, durante una festa di corte. Da un lato l’opera si propone di idealizzare e celebrare la vita di corte, dall’altro rivela una profonda sofferenza per i suoi rituali che si traduce in un bisogno di vita semplice di sentimenti e comportamenti spontanei, a contatto e in armonia con la natura, e in un bisogno di evasione in un mondo di favola fuori dalla realtà e dalla storia.
·         Quest’opera narra dell’amore non corrisposto che il povero pastore Aminta prova per Silvia. La fanciulla catturata da un satiro e legata nuda ad un albero, è liberata da Aminta, ma per la vergogna fugge via; il povero pastore si dispera e tenta il suicidio, quando viene a sapere che Silvia durante la fuga, è stata assalita e sbranata da un branco di lupi. Il dramma ha però un lieto fine, in quanto Silvia è riuscita a salvarsi dai lupi, e, il tentativo di suicidio di Aminta non è riuscito, perché una siepe ha attutito la sua caduta, dopo essersi buttato in un precipizio. Silvia, commossa per il gesto d’amore, si concede ad Aminta.
·         Giambattista Guarini scrisse il Pastor fido circa vent’anni dopo l’Aminta di Tasso: tutt’e due le due vicende sono ambientate nella bella età dell’oro, già presente nelle ecloghe di Teocrito e Virgilio, quel locus amoenus in cui gli uomini sono in pace fra loro e non esistono stragi, vendette o guerre.
·         Negli anni Settanta Tasso visse a Ferrara il periodo di massimo splendore, durante il quale fu apprezzato da dame e da gentiluomini. In tutta l’opera Tasso attuò la fusione tra due generi letterari: il teatro e la lirica amorosa come si evidenzia anche da questo passo in cui il teatro è presente in quanto è un canto del coro.
·         Tutta l'azione si sviluppa in una giornata e in uno stesso luogo, una selva e il tema principale è l'amore tra la ninfa Silvia e il pastore Aminta, del quale si innamora solamente dopo essere stata salvata dall'attacco dei satiri.
·         Nell’Aminta, Tasso, rende omaggio ai cori classici greci e latini, infatti, la funzione che gli attribuisce nella sua opera è quella di commentare l’azione scenica come un pubblico ideale che guida le reazioni del pubblico reale. Il coro ha il ruolo di tramite tra i personaggi e il pubblico ed è quindi una voce intermedia che  trasferisce la ricezione del destinatario, la corte. Il coro indirizza il pubblico a determinate reazioni.
·         Questa canzone è il primo intervento del coro che esalta l'amore istintivo e la legge della natura e si ispira all'età dell'oro tanto decantata dai poeti Virgilio e Ovidio nella quale l'uomo segue gli istinti e vive nella felicità primitiva poiché non è vincolato da alcun tipo di legge morale e d'onore. Qui il coro esalta l’amore e la condizione d’innocenza originaria dell’uomo, accusando l’onore di aver inquinato e amareggiato la felicità primitiva. E tale felicità è rintracciabile nell’età dell’oro descritta da poeti quali Virgilio, Ovidio, Tibullo, in cui l’amore era istintivo e si seguiva la legge della natura: Si ei piace, ei lice.
·         Alla legge della natura si contrappone la legge civile, incarnata dalla città e dalla corte. Le leggi della morale e dell’onore, hanno imposto un controllo e una regola a tutti quei gesti naturali che nell’età dell’oro si svolgevano liberamente e ora invece hanno perduto la loro primitiva felicità. A questo punto quello che era piacere è diventata colpa. Così nella parte conclusiva del coro l’autore, facendo una evidente critica alla civiltà, invita l’onore ad associarsi alle classi di potere e agli intellettuali e di lasciar vivere i pastori nei modi antichi. In questo modo si rovesciano i valori e si mette sotto accusa l’intero sistema dei valori affermati dagli altri personaggi, stabilendo la corrispondenza fra amore e oro, onore e corte, piacere ed età dell’oro.
·         Il brano è una canzone di cinque stanze di tredici versi di settenari e di endecasillabi, alternati con lo schema abCabCcdeeDfF, e da un congedo, che ricorda quello di Petrarca in Chiare, fresche et dolci acque.
·         Le parole chiave sono età dell’oro e Amore, la Natura e l’Onore che sono tra l’altro personificazioni, in quanto scritte con la lettera maiuscola. A Cupido nell’età dell’oro non servivano frecce e arco perché l’amore era istintivo. In questo periodo invece l’amore diventa quasi proibito e anzi che essere un dono da apprezzare, diventa un furto e tutto regolato dall’onore. Per Tasso l’idea di divieto religioso o morale è rimossa, ma non a causa della fine dell’età dell’oro, quanto piuttosto per la cultura dominante di Controriforma che è repressiva e bigotta. L’onore indicare un significato che ruota intorno alla dignità, al rispetto delle norme sociali, alla morale tipiche di una società costruita: la corte. Per questo motivo l’affermazione delle gioie è malinconica e appare caratterizzata più dal rimpianto che, come dovrebbe essere, dall’abbandono.
·         Per Tasso fare poesia significa utilizzare l’immensa quantità di materiale depositato nella tradizione e rinnovarlo attraverso un gioco di ricombinazione.

O bella età de l'oro,
non già perché di latte
se 'n corse il fiume e stillò mele il bosco[1]
non perché i frutti loro
dier da l'aratro intatte
le terre e gli angui errâr senz'ira o tosco:
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch'ora s'accende e verna[2],
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a gli altrui lidi il pino.

Ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell'idolo d'errori, idol d'inganno,
quel che da 'l volgo insano
Onor poscia fu detto,
che di nostra natura il feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l'amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quel'alme in libertate avezze,
ma legge aurea e felice
che Natura scolpì: S'ei piace, ei lice.

Allor tra fiori e linfe[3]
traean dolci carole[4]
gli Amoretti senz'archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e sussurri ed a i susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose[5]
ch'or tien ne 'l velo ascose,
e le poma de 'l seno acerbe e crude[6];
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l'amata il vago[7].

Tu prima, Onor, velasti
la fonte de i diletti,
negando l'onde a l'amorosa sete:
tu a' begli occhi insegnati
di starne in sé ristretti[8],
e tener lor bellezze altrui secrete:
tu raccogliesti in rete[9]
le chiome a l'aura sparte:
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi,
a i detti il fren ponesti, a i passi l'arte;
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia quel che fu don d'Amore.

E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d'Amore e di Natura donno[10],
tu domator de' regi,
che fai tra questi chiostri[11]
che la grandezza tua capir non ponno[12]?
Vattene e turba il sonno
a gl'illustri e potenti:
noi qui negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l'uso de l'antiche genti.

Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita e si dilegua.
Amiam, ché 'l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce[13].


[1] Stillò: trasudava
[2] S'accende: caldo estivo Verna: freddo dell'inverno
[3] Linfe: acque
[4] Traean...faci: gli Amorini facevano danze senza gli strumenti per l'innamoramento, poiché l'amore nasceva spontaneo.
[5] Rose: bellezze delle fanciulle
[6] Le poma...crude: seni ancora acerbi ( metafora)
[7] Il vago: l'amante
[8] In ristretti: abbassati
[9] tu raccogliesti... sparte: tu raccogliesti in acconciature i capelli sparsi al vento (cfr. Canz., XC, Erano i capei d'oro a l'aura sparsi).
[10] Donno: signore
[11] Chiostri: selve
[12] Capir non ponno: non possono contenere
[13] Adduce: porta

sabato 31 ottobre 2015

La Primavera di Sandro Botticelli di Alfonso Iovino

La Primavera è un dipinto a tempera su tavola (203x314 cm) di Sandro Botticelli, databile all’incirca nel 1482.
Realizzata per la villa medicea di Castello, il dipinto è attualmente conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
La Primavera è considerata il capolavoro dell'artista e faceva forse anticamente pendant con l'altrettanto celebre Nascita di Venere, con cui condivide provenienza, formato e alcuni riferimenti filosofici.
La Primavera fu dipinta per Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici, appartenente al ramo cadetto della potente famiglia fiorentina e cugino di Lorenzo il Magnifico. La sua collocazione originaria era nel Palazzo Medici di Via Larga, dove rimase prima di essere trasferita nella Villa di Castello accanto alla Nascita di Venere; con il riordino delle collezioni fiorentine l’opera fu trasferita agli Uffizi nel 1919.
I critici sono discordi sulla datazione. In ogni modo l’opera è stata sicuramente dipinta tra il 1477 e il 1482. Lightbrown ipotizzò una datazione immediatamente successiva al rientro del maestro da Roma, nel 1482, coincidente con le nozze del committente Lorenzo il Popolano con Semiramide Appiani.
In un ombroso boschetto, sullo sfondo di un cielo azzurrino, sono disposti nove personaggi. Il primo personaggio a sinistra dello spettatore è una figura maschile vestita con una sola mantella rossa ed un pugnale, nell'atto di cogliere un frutto. Il primo gruppo è rappresentato da tre figure femminili che danzano. Nella parte centrale del dipinto è presente una donna con una veste rossa e blu, sopra di essa un angelo ondeggia mentre è nell'atto di scagliare una freccia dal suo arco.
A destra sono presenti altre due figure femminili: la prima è una donna con una veste decorata di fiori, la seconda indossa semplicemente una veste con un velo e sembra nell'atto di fuggire dalla figura maschile posta alle sue spalle.
Il suolo è composto da un verde prato, disseminato di un'infinita varietà di specie vegetali e di un ricchissimo campionario di fiori.
Nell'iconografia della Primavera, Botticelli esprime una chiara rappresentazione dello stile del Rinascimento italiano, dove il recupero della cultura classica si pone come elemento caratterizzante in tutte le arti.
Nell'opera, per certi aspetti ancora di oscura interpretazione, è combinata la mitologia e l'iconografia classica con la ricerca di nuove forme:  realtà e fantasia si scontrano per dare vita ad nuovo modo di concepire l'arte.
Anche se possiamo distinguere i tre diversi gruppi raffigurati nel dipinto, essi tuttavia si dispongono su diversi piani prospettici, dando profondità ed una lieve prospettiva alla raffigurazione.
La linea di disposizione delle figure procede quindi come una  “S” disposta orizzontalmente: la prima figura è disposta lievemente più indietro rispetto alle tre damigelle danzanti, mentre la figura centrale acquisisce il ruolo di riferimento simmetrico rispetto a tutte le altre. L'artista sceglie di porre in primo piano la figura centrale, facendo uso di un'accennata prospettiva. Le ultime due figure sulla destra sono disposte in modo obliquo ed orientate verso lo spettatore.
Il dipinto va letto da destra verso sinistra.
Il primo personaggio presente è Zefiro, il vento primaverile, mentre rincorre la sua amata, la ninfa Clori, divinità dei fiori e della Primavera.
Al centro è presente Venere, la dea della bellezza, posta dinanzi ad un cespo di mirto, mentre allunga il braccio verso le tre Grazie poste alla sua sinistra. 
Cupido, la divinità dell'amore, aleggia sopra di lei, nell'atto di scoccare la potente freccia, capace di far innamorare gli uomini e gli dei.
Le tre Grazie, Aglaia (lo splendore), Eufrosine (la gioia), Talia (la prosperità), nate da Zeus ed Eurinome, danzano una carola. 
A sinistra di queste ultime è presente Mercurio, dio dell'eloquenza, del commercio e dei ladri, nell'atto di allontanare le nubi con il Caduceo, bastone di araldo, sormontato da ali, con due nastri bianchi attaccati.
Come per altri capolavori del Rinascimento, la Primavera nasconde vari livelli di lettura: uno strettamente mitologico, legato ai soggetti rappresentati, la cui spiegazione è ormai accertata; uno filosofico, legato alla filosofia dell'Accademia neoplatonica e ad altre dottrine; uno storico-dinastico, infine, legato alle vicende contemporanee ed alla gratificazione del committente e della sua famiglia.
Mirella Levi D'Ancona ha ipotizzato che il dipinto possa essere l'allegoria del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici e Semiramide Appiani; Botticelli lo avrebbe oltretutto eseguito in due momenti successivi, perché l'opera era stata inizialmente commissionata da Giuliano de' Medici in occasione della nascita del figlio Giulio, il futuro papa Clemente VII, avuto con Fioretta Gorini che egli avrebbe sposato in gran segreto nel 1478. Ma Giuliano morì nella congiura dei Pazzi in quello stesso anno, un mese prima della nascita del figlio, per cui il quadro incompiuto fu riciclato dal cugino qualche tempo dopo, per celebrare le sue nozze, inserendovi il suo ritratto e quello della moglie, che si diceva essere donna dall'estrema bellezza.
Il gruppo di destra rappresenterebbe l'istintività e la passionalità notoriamente condannate dal Neoplatonismo, perché portatrici di atteggiamenti irrazionali. I fiori presenti nella scena alluderebbero a vari significati matrimoniali: fiordalisi, margherite e nontiscordardime alludono alla donna amata, i fiori d'arancio sugli alberi sono ancora oggi un simbolo di felicità matrimoniale, così come la borrana che si vede sul prato.
In base ad altri ritratti, dipinti da Botticelli o da altri artisti della sua cerchia, nei vari personaggi della rappresentazione sono stai individuati vari esponenti di casa Medici,  ma trattandosi spesso di opere altamente idealizzate, si possono fare per lo più semplici ipotesi, più o meno suggestive.
La presenza di Flora sarebbe pertanto un'allusione a Florentia e dunque alle antiche origini della città. Le altre figure sarebbero città legate in vario modo a Firenze: Mercurio-Milano, Cupido (Amor)-Roma, le Tre Grazie Pisa, Napoli e Genova, la ninfa Maya Mantova, Venere Venezia e Borea Bolzano.
L’opera è densa di significati allegorici di difficile ed incerta interpretazione.
Tra le ipotesi più accreditate c’è quella dell’interpretazione del regno di Venere. Il dipinto sarebbe quindi la rappresentazione di Venere dopo la nascita, raffigurata nell'altro celebre dipinto di Botticelli, durante l'arrivo nel suo regno. Vi si narrerebbe come l'amore, nei suoi diversi gradi, arrivi a staccare l'uomo dal mondo terreno per volgerlo a quello spirituale. In tal caso la scena si svolgerebbe nel giardino sacro di Venere, che la mitologia collocava nell'isola di Cipro, come rivelano gli attributi tipici della dea sullo sfondo e la presenza di Cupido e Mercurio a sinistra in funzione di guardiano del bosco. Le Tre Grazie rappresentavano tradizionalmente le liberalità: la parte più interessante del dipinto è tuttavia quella costituita dal gruppo di personaggi sulla destra, con Zefiro, la ninfa Cloris e la dea Flora, divinità della fioritura e della giovinezza, protettrice della fertilità. Zefiro e Clori rappresenterebbero la forza dell'amore sensuale e irrazionale, che però è fonte di vita – dalla loro unione nasce Flora – e, tramite la mediazione di Venere ed Eros, si trasforma in qualcosa di più perfetto – le Grazie – per poi spiccare il volo verso le sfere celesti guidato da Mercurio.
Per Panofsky la Venere della Primavera sarebbe la Venere celeste, vestita, simbolo dell'amore spirituale che spinge l'uomo verso l'ascesi mistica, mentre la Nascita di Venere raffigurerebbe la Venere terrena, nuda, simbolo dell'istintività e della passione che ricacciano gli individui verso il basso.
Numerose sono le proposte di lettura per le Grazie. Esse possono rappresentare tre aspetti dell'amore, descritti da Marsilio Ficino: da sinistra, la Voluttà, dalla capigliatura ribelle, la Castità, dallo sguardo malinconico e dall'atteggiamento introverso, e la Bellezza, al cui collo una collana che sostiene un elegante prezioso pendente e un velo sottile che le copre i capelli. Proprio verso di lei la quale Cupido sembra stare per scoccare la freccia.
A parte le varie interpretazioni possibili e proposte dai vari studiosi, rimane sicuramente il significato prettamente umanistico dell’opera: Venere si identifica con l’Humanitas che separa i sensi e gli amori materiali a destra dai valori spirituali a sinistra. Per Humanitas si deve intendere quella particolare concezione che promuove l’ideale di un’umanità positiva, fiduciosa nelle proprie capacità e sensibile ai bisogni degli altri.
Tale concezione di origine antica fu fatta propria dagli umanisti e dal circolo neoplatonico che gravitava intorno alla corte dei Medici. Il Neoplatonismo fu una corrente filosofica ed estetica che si rifaceva al filosofo greco Platone cercando una fusione con i concetti più nobili del Cristianesimo. La concezione del bello e dell’amore ideale ed assoluto tipica del Neoplatonismo influenzò molto la cultura del tempo e lo stesso Botticelli.
Nell'opera sono leggibili alcune caratteristiche stilistiche tipiche dell'arte di Botticelli: innanzitutto la ricerca di bellezza ideale e di armonia, emblematiche dell'umanesimo, grazie al disegno e alla linea di contorno. Ciò genera pose sinuose e sciolte, gesti calibrati, profili idealmente perfetti. L'ondeggiamento armonico delle figure, che garantisce l'unità della rappresentazione, è stato definito musicale.
In ogni caso l'attenzione al disegno non si risolve mai in effetti puramente decorativi, ma mantiene un riguardo verso la volumetria e la resa veritiera dei vari materiali, soprattutto nelle leggerissime vesti.
L'attenzione dell'artista è tutta focalizzata sulla descrizione dei personaggi e in secondo luogo delle specie vegetali accuratamente studiate, sull'esempio di Leonardo da Vinci che in quell'epoca era già artista affermato. Minore cura è riservata, come al solito in Botticelli, allo sfondo, con gli alberi e gli arbusti che creano una tinta scura e compatta. Il verde usato, come accade in altre opere dell'epoca, doveva originariamente essere più brillante, ma col tempo si è ossidato arrivando a tonalità più scure.
Le figure spiccano con nitidezza sullo sfondo scuro, con una spazialità semplificata, sostanzialmente piatta o comunque poco accennata, come negli arazzi. Non si tratta di un richiamo verso l'ormai lontana fantasia del mondo gotico, ma piuttosto dimostra l'allora nascente crisi degli ideali prospettici e razionali del primo Quattrocento, che ebbe il suo culmine nell’epoca di Savonarola (1492-1498) ed ebbe radicali sviluppi nell'arte del XVI secolo, con un più libero inserimento delle figure nello spazio.
La Primavera è dipinta con stesure ad olio su un fondo di tempera, la parte inferiore corrispondente al prato e agli alberi è stesa su di una campitura nera destinata a dare profondità al verde che vi è steso ad olio. Le figure del cielo sono invece dipinte al di sopra di un fondo di biacca che ne evidenzia la luminosità. L’opera è caratterizzata da diverse tonalità di colore chiaro che si pongono in contrasto con lo sfondo in un gioco di luci ed ombre che risalta i chiaroscuri. I dettagli naturalistici del prato, l’uso sapiente del colore, l’eleganza delle figure, la poesia dell’insieme, hanno reso giustamente celebre quest’importante ed affascinante opera.

Alfonso Iovino

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