lunedì 16 febbraio 2015

Ritratto di fanciulla di Sandro Botticelli. Massimo Capuozzo

Nella tavola Ritratto ideale di fanciulla dello Städel Museum di Francoforte, Sandro Botticelli (1445 - 1510) raffigura una giovane donna, comunemente identificata con Simonetta Cattaneo Vespucci, regina di bellezza del Rinascimento, amata – secondo il racconto di Vasari – da Giuliano dei Medici.
Lo sguardo è sognante e lontano, le chiome bionde, agghindate di nastri e ingioiellate di perle: l'esile figura, i biondi capelli e i profondi occhi grigi le valsero il titolo di la bella di Firenze. Questa giovane e splendida immagine femminile del 1480 è un prototipo delle Veneri, de La Primavera, ideale di bellezza, di armonia e di proporzione delle quali ella possiede straordinariamente la dolcezza dei tratti. Al collo della giovane, Botticelli ha dipinto una collana con un pendente famoso: il sigillo di Nerone, un cammeo in corniola rossa di età augustea con l'immagine intagliata di Apollo e Marsia, attribuita erroneamente da Lorenzo Ghiberti a Policleto, uno dei pezzi più preziosi della collezione di Lorenzo il Magnifico (1449-1492).
In questo ritratto, Botticelli filtra molte suggestioni stilistiche. Da un lato il gusto fiammingo nel ritratto, di cui tuttavia stempera la precisione lenticolare in una corporeità ammorbidita, retta su un nitore lineare che gli proviene dalla grande oreficeria fiorentina in cui si era formato. Dall’altro lo straniamento quasi metafisico delle forme in un’iconografia di sensualità tutta intellettuale, che non riesce a sottrarsi a una sorta di grazia naturale. È impossibile non rimanere affascinati di fronte a questo capolavoro del Rinascimento italiano, che si era sviluppato proprio da Firenze tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’Età moderna.
Nella storia della cultura rinascimentale e, in particolare, in quella della signoria di Firenze sotto Lorenzo de' Medici, si nasconde la figura di questa donna bellissima e misteriosa, poco ricordata oggi, ma che, per suoi contemporanei, fu simbolo di grazia e di bellezza, ispirando, in vita e in morte, il Magnifico e i poeti e i pittori della sua cerchia. Per questo motivo, questo ritratto è fondamentale perché in esso si condensano un’epoca, un luogo e un’idea: nella seconda metà del XV secolo, a Firenze, un gruppo di studiosi, filosofi e artisti, attori della straordinaria scena culturale laurenziana tentò, con parole e con immagini, di definire un modello di bellezza femminile. E Simonetta era una donna vera che sembrò incarnare quest’idea di bellezza agli occhi della città.
Simonetta Cattaneo (1453-1476) proveniva da un’importante famiglia genovese: era nata nel 1453, forse a Porto Venere da una famiglia nobile che vantava conoscenze influenti. Suo padre, Gaspare Cattaneo della Volta era un ricchissimo e potente mercante genovese e sua madre, Cattochia Spinola era imparentata con gli Appani, signori di Piombino, che detenevano la proprietà dell’isola d’Elba e soprattutto il controllo delle miniere di ferro di cui l’isola è ricca. La vita di questa giovane non era molto diversa da quella di tante altre nobildonne: nel 1469 appena sedicenne, giunse a Firenze, allora politicamente già nelle mani di Lorenzo, per sposare Marco Vespucci, discendente di una famiglia di banchieri fiorentini, molto legata ai Medici e quindi molto attiva nella vita politica della città.
Questo matrimonio fu fortemente auspicato dal Magnifico perché favoriva, attraverso il legame di parentela dei Vespucci con gli Appiani, l’uso delle miniere di ferro: Simonetta, infatti, portò in dote l’usufrutto di una parte di queste miniere e nello stesso tempo rendeva quindi possibile un legame che era anche istituzionale, vista l’amicizia dei Medici e dei Vespucci. Una manovra politica simile fu ripetuta dal Magnifico anche per suo cugino minore Lorenzo di Pierfrancesco, noto come Lorenzo il Popolano, di cui favorì nel 1485 il matrimonio con Semiramide Appiani, figlia di Iacopo III Appiani, Signore di Piombino.
A soli sedici anni Simonetta entrava dunque nell’alta società fiorentina, forte di una dote personale e politica, ma ignara che la sua fortuna si sarebbe basata su altri fattori indipendenti dalla famiglia che l’aveva accolta. Simonetta fu subito notata per la sua straordinaria bellezza, tanto da essere considerata la donna più bella di Firenze e la sua fama crebbe così rapidamente da essere chiamata La Senza Paragoni, lodata e ammirata non solo dai concittadini, ma presa come musa ispiratrice da artisti come il Ghirlandaio, Piero di Cosimo e soprattutto Sandro Botticelli.
La bellezza della giovane Simonetta ipnotizzò fin da subito i fiorentini, catturando l’attenzione di più di un uomo, e divenne in breve la stella di Firenze, quando il clima chiaramente intellettuale della città ne favoriva gli elogi: famosissima anche dopo morta grazie ai dipinti che ella ispirò, Simonetta ebbe anche da viva una breve stagione fortunata. Marco Vespucci era innamoratissimo di lei e tra i suoi ammiratori più accaniti c’era Giuliano de’ Medici (1453-1476), fratello di Lorenzo, che, nonostante la donna fosse sposata, non si fece problemi a dichiarare il suo affetto pubblicamente, invaghito della più bella.
La loro relazione, riconosciuta e mitizzata nella corte fiorentina, era fatta passare alla maniera cortese e platonica: non è infatti ancora ben chiara la dinamica amorosa fra i due, alcuni parlano di amor cortese, altri di una vera e propria storia d'amore. Di certo c'è che lo stesso fratello di Marco, Pietro Vespucci, scrisse a Lucrezia Tornabuoni parlandole delle frequenti visite che Giuliano era solito fare a Simonetta. Tuttavia se pure fosse stata una storia vera, essa fu breve, perché purtroppo, la stella di questa musa in breve sarebbe tramontata.
L’apice della sua bella parabola fu toccata il 29 Gennaio del 1475 in piazza Santa Croce, in occasione di una giostra celebrata in suo onore.
La giostra, nelle società medievali e premoderne, era una sorta di allenamento ludico alla guerra, praticata soprattutto dai membri dell’aristocrazia delle città. Anche Firenze, nonostante la struttura politica repubblicana, utilizzava la giostra per questo duplice scopo: addestrare i giovani dell’aristocrazia e delle classi dirigenti al maneggio delle armi e dei cavalli, ma anche come un vistoso strumento di esibizione di ricchezza e di ostentazione del lusso, un’occasione per indossare abiti e per mostrare tessuti e gioielli che normalmente erano proibiti nella vita di tutti i giorni.
La giostra di Giuliano dei Medici era per Firenze un evento molto importante, perché essa giungeva in un momento di consolidamento politico del Magnifico: la giostra, infatti, doveva festeggiare una serie di paci raggiunte in Italia grazie alla mediazione di Lorenzo in un momento diplomatico di grande importanza e perché si caricava, anche volutamente dall’intellighenzia laurenziana, di significati ulteriori e distintivi per la famiglia e per il suo potere politico.
Intorno alla giostra di Giuliano gli intellettuali della corte di Lorenzo costruirono una vera e propria campagna di immagine, dove nulla fu lasciato al caso, a cominciare dal premio in palio. Anche se lo svolgimento dell'evento fu quello tradizionale, questa giostra si distinse dalle precedenti per la ricchezza profusa negli apparati, nei gioielli, nelle stoffe, nelle armature. Parteciparono all'evento numerosi ospiti provenienti da varie parti d'Italia e vincitore del gioco equestre fu Giuliano che portava un'armatura d'argento, con elmo disegnato da Andrea Verrocchio (1435 – 1488).
Come già nella giostra del 1469 vinta da Lorenzo, l'innamoramento per una fanciulla fece da cornice all'impresa del vincitore: Giuliano, infatti, dedicò la propria vittoria alla bella Simonetta. La fanciulla era ricordata dallo stendardo (oggi, per una beffa della Storia, nello studiolo di Federico da Montefeltro ad Urbino), dipinto su fondo azzurro da Botticelli, raffigurata in veste di casta Atena coperta da una corazza e con armi all'antica. In piedi su un prato colmo di fiori Atena, con in mano una lancia da giostra e uno scudo con Medusa, volgeva lo sguardo in alto verso il sole. Accanto alla dea c'era Eros sconfitto, avvinto alle mani e alle gambe da legacci dorati al ramo di un ulivo accanto a frecce e faretra a terra spezzati. A quel ramo era appeso un cartiglio con inscritto a caratteri d'oro un motto in francese antico: la sans par. Atena/Simonetta appariva così come l'allegoria di un’incomparabile virtù, unica degna di aspirare alla gloria e al suo eterno rinnovarsi.
L'impresa dello stendardo di Giuliano era carica di significati allusivi, così complessi e sfuggenti ai più, da essere stata interpretata in molti modi, mai coincidenti fra loro.
Tali significati, che attingono le loro ragioni dal pensiero neoplatonico e ficiniano, possono essere interpretati alla luce delle Stanze che Agnolo Poliziano scrisse in questa occasione.
Anche questo componimento di 171 ottave, rimasto incompiuto per la morte di Giuliano il 26 Aprile del 1478, vittima della congiura dei Pazzi in Santa Maria del Fiore, si differenzia dai precedenti poemetti encomiastici scritti in occasioni simili, come per esempio La giostra del Pulci del 1469: non vi si trovano, infatti, le tradizionali descrizioni dei preparativi della sfilata e infine del combattimento. Piuttosto i versi narrano in forma allegorica la difficile iniziazione di Iulo/Giuliano all'amore contemplativo attraverso l'esperienza dell'amore ideale e intellettuale per Simonetta, da cui è bandito qualsiasi concupiscenza grazie alla vittoria su Eros.
Nel poema di Poliziano, come nello stendardo, si celebrava la virtù dell'intelletto capace di svolgere un completo controllo sui sensi e di elevare lo spirito, tema che sembra comune a certe raffigurazioni coeve di ambito mediceo, fra cui la più celebre è la Pallade e il centauro di Botticelli.
Simonetta non poteva rendersi conto di essere il punto focale della nuova stagione politica e culturale aperta dall’avvento di Lorenzo il Magnifico, che più di ogni altro uomo politico ha fatto della cultura e dell’arte uno straordinario strumento di potere.
Attraverso il Neoplatonismo, Lorenzo aveva scelto di creare un linguaggio, che distaccasse dal resto dell’aristocrazia fiorentina lui e le famiglie che appartenevano a lui e al suo governo. Questo linguaggio era il Neoplatonismo, cioè la creazione di miti, di immagini e di storie non a caso dipinte da Botticelli – il pittore che maggiormente incarna questo tipo di tendenza – incomprensibili ai più, criptici e, come tale, elitari.
Non a caso il processo che portò nell’arco di pochi anni Simonetta a diventare l’icona di un’epoca, capace di attraversare i secoli, ebbe per registi due intellettuali della corte medicea, Agnolo Poliziano e Sandro Botticelli, e dietro di loro i Medici e ancora più indietro Marsilio Ficino, il massimo esponente del Neoplatonismo.
Sandro Botticelli come Poliziano è l’altro grande artefice dalla nascita di questa mitologia, simbolo di bellezza e di grazia dell’epoca laurenziana: la sua carriera, iniziata come allievo di Filippo Lippi, divenne, insieme a Ghirlandaio, a Verrocchio e ai Pollaiuolo, il segno distintivo del linearismo disegnativo della pittura fiorentina della seconda metà del Quattrocento. Sotto il patrocinio della famiglia Medici, che gli assicurò dal 1470 gli appalti pubblici di maggior prestigio, fino all’incarico di papa Sisto IV che lo chiamò a decorare la Cappella Sistina, la pittura di Botticelli si consolidò come un’icona del Rinascimento e l’iconografia che ne derivò diventò un riferimento dell’arte occidentale. Pensare a Botticelli equivale a dunque pensare ad un episodio cruciale della vicenda del gusto che fa di lui un simbolo dell’ultimo ‘400 fiorentino, tra i fasti di Lorenzo de’ Medici e le inquietudini di Savonarola, tra grande Neoplatonismo e primi segni di crisi ideologica della cristianità, in un mondo in cui il buono, il bello e il vero si accordavano con naturalezza in una pittura priva di asperità e di dubbi, e la grazia astratta delle figure mitologiche si fonde con quella delle Madonne, abbattendo ogni confine tra sacro e profano. Botticelli esemplifica perfettamente la polarità culturale dell’epoca laurenziana, destinata a precipitare in una crisi profonda: grande e sofisticato interprete di mitologie egli è allo stesso tempo grande autore sacro, com’è nella Madonna del Magnificat. Del resto gli anni del ritratto di Francoforte sono quelli in cui egli stava lavorando alla Sistina.
La pittura di Botticelli è una pittura allegorica, una pittura di cui spesso non riusciamo a comprendere tutti i significati ed è una pittura che gioca a nascondere i dettagli di fonti che sono state scoperte dagli umanisti. Per entrare in questo gioco raffinato ed esclusivo, per superare la barriera del tempo, coperta di fiori o nuda, nei panni della Madonna o di Venere, Simonetta paga un prezzo molto alto: non basta essere belle ed ammirate per certe cose, ma bisogna morire giovani, per far rapprendere quella bellezza in un ideale eterno ed immutabile. Simonetta per ragioni biografiche, ma anche per il fatto che muore al momento giusto, diventa l’icona di un certo tipo di pittura, non di tutti, ma di Botticelli e di quella pittura didattica e allegorica che Botticelli professa per un certo numero di anni.
Il 26 Aprile del 1476, a soli ventitré anni, Simonetta morì a Piombino, ammalatasi probabilmente di tisi. L’agonia non fu breve e Lorenzo fece in tempo a mandare i suoi medici per cercare di salvarla, ma invano. Appena giunse a Firenze la notizia della morte di Simonetta l’emozione fu fortissima. Alla data 26 aprile gli Annali della città riportano: «É morta la Simonetta».
Poliziano un anno prima ne aveva cantato la bellezza in vita in occasione della Giostra a Santa Croce:

Candida è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e d'erba;
lo inanellato crin dall'aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
44
Folgoron gli occhi d'un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l'aier d'intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.
45
Con lei sen va Onestate umile e piana
che d'ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,
quanto ella o dolce parla o dolce ride.
46
Sembra Talia se in man prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l'asta;
se l'arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s'arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l'è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.
47
Ell'era assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta
di quanti fior creassi mai natura,
de' quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.
( Poliziano, Stanze per la giostra, ottave 43-47)

Compianta da tutta Firenze, il suo funerale fu seguito da tutti i fiorentini, i quali poterono ammirare la sua bellezza per un'ultima volta: la bara, infatti, fu portata in processione, scoperta, per tutta la città ed un altro poeta, Bernardo Pulci (1438 – 1488), la trova bellissima anche da morta, mentre il suo corpo attraversava le vie di Firenze

Ma forse che ancor viva al mondo è quella,
poi che vista da noi fu dopo il fine,
in sul feretro posta assai più bella?
(B. Pulci, In morte di Simonetta Cattaneo genovese)

Simonetta si presta benissimo a questa metamorfosi in icona, non solo perché era una donna bella, ma anche perché era una donna che, pur sposata nella giusta età, non aveva compiuto il suo ciclo vitale, cioè non aveva avuto figli ed era morta di tisi ante diem, alimentando uno dei miti ripresi dalla letteratura classica, soprattutto greca, e sintetizzati dal verso di MenandroMuore giovane chi è caro agli dei”. E Lorenzo per la sua scomparsa, scrisse un dolce e struggente sonetto, immaginandone l’apoteosi come stella nel firmamento.

O chiara stella, che co’ raggi tuoi
togli alle tue vicine stelle il lume,
perché splendi assai più del tuo costume?
Perché con Febo ancor contender vuoi?

Forse i belli occhi, quali ha tolti a noi
Morte crudel, ch’omai troppo presume,
accolti hai in te: adorna del lor lume,
il suo bel carro a Febo chieder puoi.

O questa o nuova stella che tu sia,
che di splendor novello adorni il cielo,
chiamata esaudi, o nume, e voti nostri:

leva dello splendor tuo tanto via,
che agli occhi, che han d’eterno pianto zelo,
sanza altra offension lieta ti mostri.

Queste sono le sue parole, che ci riportano indietro fino a quegli anni. «Morì, come sopra dicemmo, nella città nostra una donna, la quale se mosse a compassione ugualmente tutto il popolo fiorentino, non è gran maraviglia perchè di bellezze e gentilezze umane era veramente ornata, quanto alcuna che innanzi a lei fusse suta. E in fra l’altre sue eccelenti doti avea e attrattiva maniera, che tutti quelli che con lei avevono qualche domestica notizia credevono da essa sommamente essere amati. […] E se bene la vita sua, per le sue degnissime condizioni, a tutti la facessi carissima, pure la compassione della morte, e per l’età molto verde e la bellezza, che così morta, forse più che mai alcuna viva mostrava, lasciò di lei un ardentissimo desiderio. E perché da casa al luogo della sepoltura fu portata scoperta, a tutti che concorsono per vederla mosse grande copia di lacrime: de’ quali, in quelli che prima n’avevono alcuna notizia, oltre alla compassione nacque ammirazione che lei nella morte avesse superato quella bellezza che, viva, pareva, insuperabile».
Simonetta fu seppellita nella Chiesa di Ognissanti, dove i Vespucci avevano la loro cappella. Pur essendo certi che sia stata sepolta in quella chiesa, nei secoli si è persa la memoria dell’ubicazione esatta della sua tomba anche se proprio Botticelli viene in aiuto alla bella Simonetta per strapparla all’oblio del tempo: secondo i critici, infatti, oltre ai due celebri ritratti, Simonetta è molto presente nelle opere di Botticelli specie in quelle più importanti: in Venere e Marte in Pallade e il Centauro nella Calunnia nella Madonna del Magnificat nella Nascita di Venere e nella Primavera: tutto quello che unisce tutti questi dipinti oltre l’autore e il suo modello è che tutti sono stati realizzati dopo la morte di Simonetta.
Icona perfetta dunque, ma per caso. Con la morte di Simonetta però non scomparve la fama della sua bellezza che, secondo la maggior parte dei critici, rivive nei dipinti di Sandro Botticelli. La ricorrente figura della giovane snella con il volto coronato da una massa di capelli biondi, ricorda, infatti, le descrizioni di Simonetta.
L’infatuazione artistica del maestro potrebbe essere iniziata con il ritratto della giovane che gli era stato commissionato da Giuliano de’ Medici per il torneo cavalleresco. Il volto di questa bellissima donna appare oggi in molti dipinti rinascimentali, che siano essi veri ritratti o trasfigurazioni non è dato sapere, il suo volto ormai è eterno. Simonetta presta i propri tratti idealizzati a molte opere di Botticelli dove i canoni neoplatonici sono declinati in modi diversi, ma restando sempre riconoscibili: ad esempio nella Pallade che doma il centauro la figura femminile simbolo di purezza e di semplicità vince con la forza della ragione e della calma sulla figura mitologica che incarna invece la brutalità e la lussuria.
È Simonetta la creatura celeste immortalata da Botticelli nel dipinto La nascita di Venere Anch’esso commissionato a Botticelli da Giuliano de' Medici: ha forme eteree e sinuose, è coperta solo dai lunghi capelli, il suo viso è un ovale perfetto, gli occhi sono grandi, chiari e luminosi. Botticelli ne fece la sua musa, regalando così alla sua immagine l’eternità.
E l’innamorato, forte della passione che gli brucia nel petto per la sua adorata, si batte per lei e vince trionfante contro il suo avversario.
Simonetta fu scelta da Botticelli come modella anche per La Primavera e per Venere e Marte.
Sarà proprio Botticelli a ritrarre insieme Giuliano e Simonetta nel suo capolavoro, La Primavera in questo quadro il giovane Medici indossa le vesti di uno scultoreo Mercurio e la Cattaneo, ondeggiante nei suoi veli, è una delle Tre Grazie, quella che si trova al centro e è ritratta di profilo.
E ancora, in Venere e Marte, il volto della dea dell’amore è sempre quello angelico e soave di Simonetta.
Osservando questi tre capolavori si nota subito che tre personaggi si assomigliano molto e non solo, infatti, non a caso, gli storici sono convinti che Botticelli avesse una vera e propria musa ispiratrice, per moltissimi altri suoi dipinti Simonetta.
Botticelli morì a Firenze il 17 maggio del 1510 a 65 anni: malato e povero era ormai un sopravvissuto, testimone ultimo del sogno quattrocentesco. I suoi anni ultimi sono quelli in cui la scena artistica era ormai dominata da giganti come Leonardo, Michelangelo, Raffaello che trasformano radicalmente i termini della questione artistica. Botticelli fu l’ultimo ad andarsene fra grandi dell’avventura neoplatonica fiorentina: Lorenzo era morto nel 1492, Poliziano e Pico della Mirandola nel 1494, Landino e il grande maestro Ficino, nel 1498, Lorenzo il popolano nel 1503. A Firenze non governavano più i Medici che sarebbero tornati al potere nel 1512. E lui, Botticelli, sopravvissuto a tutti i compagni di un tempo, negli ultimi anni aveva cambiato radicalmente soggetti. La mitologia aveva lasciato il campo a soggetti religiosi, la spensieratezza era stata sostituita da una forte propensione al misticismo.
Botticelli fu sepolto dove aveva chiesto di riposare in eterno nella Chiesa di Ognissanti a poche decine di metri da dove era nato ed aveva lavorato, nella stessa chiesa dove trentaquattro anni prima era stata sepolta Simonetta, resa immortale dal pittore che le riposava non lontano.
La rapida successione degli avvenimenti aveva proiettato l'immagine di Simonetta in un mondo ultraterreno, privandola della consistenza umana e della sua stessa personalità e facendo di lei un mito che ha potuto sfidare i secoli, perché consacrato da una straordinaria convergenza di opere letterarie, dipinti e sculture che sono tra le più alte espressioni del Rinascimento.

Massimo Capuozzo

venerdì 13 febbraio 2015

Incontro con Pascoli di Massimo Capuozzo

PREFAZIONE
Rimangono rimangano questi canti su la tomba di mio padre!... Sono frulli d'uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane: non disdicono a un camposanto. Di qualche lagrima, di qualche singulto, spero trovar perdono, poiché qui meno che altrove il lettore potrà o vorrà dire: Che me ne importa del dolor tuo?
Uomo che leggi, furono uomini che apersero quella tomba. E in quella finì tutta una fiorente famiglia. E la tomba (ricordo un'usanza africana) non spicca nel deserto per i candidi sassi della vendetta: è greggia, tetra, nera.
Ma l'uomo che da quel nero ha oscurata la vita, ti chiama a benedire la vita, che è bella, tutta bella; cioè sarebbe; se noi non la guastassimo a noi e a gli altri. Bella sarebbe; anche nel pianto che fosse però rugiada di sereno, non scroscio di tempesta; anche nel momento ultimo, quando gli occhi stanchi di contemplare si chiudono come a raccogliere e riporre nell'anima la visione, per sempre. Ma gli uomini amarono più le tenebre cha la luce, e più il male altrui che il proprio bene. E del male volontario dànno, a torto, biasimo alla natura, madre dolcissima, che anche nello spengerci sembra che ci culli e addormenti. Oh! lasciamo fare a lei, che sa quello che fa, e ci vuol bene.
Questa è la parola che dico ora con voce non ancor ben sicura e chiara, e che ripeterò meglio col tempo; le dia ora qualche soavità il pensiero che questa parola potrebbe esser di odio, e è d'amore.
Livorno, marzo del 1894.

Lavandare
Da Myricae[1] di Giovanni Pascoli
·         Lavandare, poesia pascoliana inserita nella terza edizione di Myricae (1894), è un testo assai indicativo per mettere in luce sia alcune costanti della poetica del suo autore sia l’evoluzione del gusto e dello stile della raccolta, che ne 1894 arriva a raccogliere ben centosedici testi, rispetto ai ventidue originari.
·         Il madrigale presenta un breve scorcio di campagna, di cui l’occhio del poeta coglie soprattutto dettagli visivi ed uditivi, che compongono una visione inedita e straniante, la quale serve a cogliere un tratto psicologico (la solitudine di una donna e il dolore del poeta stesso).
·         Forma metrica per musica polifonica, modellata sulla struttura della ballata e dello strambotto. Il madrigale è costituito da terzine di endecasillabi o settenari (solitamente da due a cinque), chiuse da un distico, anche a coppia, o da un verso isolato. Il madrigale, a partire dal Canzoniere di Petrarca (in cui compaiono quattro madrigali) ha un discreto successo in ambito letterario, fino al suo recupero otto - novecentesco con Carducci,  D’Annunzio e Pascoli (come nella poesia Lavandare).

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero[2]
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare[3] delle lavandare
con tonfi spessi[4] e lunghe cantilene[5]:

Il vento soffia e nevica la frasca[6],
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese[7].

Novembre
Gemmea[8] l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi[9] gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo[10] l'odorino amaro
                                          senti nel cuore[11]...
Ma[12] secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno[13],
vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
                                         sembra il terreno[14].
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile[15]. È l'estate,
                                         fredda, dei morti[16].

X Agosto
·         X Agosto esce su rivista nel 1897 e viene raccolta nella quarta edizione di Myricae lo stesso anno. La poesia è scritta nel 30° anniversario dalla morte di Ruggero Pascoli, padre del poeta: viene rievocato il momento in cui egli, ucciso, non torna al "nido", provocando disperazione nella famiglia in attesa (i "rondinini"). 
·         Nel componimento il piano biografico viene trasposto su un piano cosmico: tale slittamento è probabilmente derivato da Leopardi (ad esempio in A se stesso), sebbene linguisticamente l'eco più diretta sia manzoniana (con la parola "attonito", che rievoca il Cinque maggio).
·         Dal punto di vista metrico, le quartine sono composte da decasillabi e novenari alternati. La compresenza di elementi cosmici in uno scenario familiare, che ne stempera la potenza rispetto all'immaginario romantico, rappresenta una delle caratteristiche principali della poesia pascoliana. La grandezza di Pascoli - come sosteneva Debenedetti - è nella sua "rivoluzione inconsapevole", nella sua capacità di tenere costantemente il linguaggio della poesia a cavallo tra due mondi.

San Lorenzo[17], io lo so perché tanto
     di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
     nel concavo cielo[18] sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
     l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
     la cena dei suoi rondinini.

Ora è là, come in croce[19], che tende
     quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
     che pigola sempre più piano[20].

Anche un uomo tornava al suo nido:
     l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
     portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
     lo aspettano, aspettano[21] in vano:
egli immobile, attonito, addita
     le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
     sereni[22], infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle[23] lo inondi
     quest’atomo opaco del Male[24]!


I due fanciulli
Da Poemetti[25] di Giovanni Pascoli
I
Era il tramonto: ai garruli trastulli
erano intenti, nella pace d’oro
dell’ombroso viale, i due fanciulli.

Nel gioco, serio al pari d’un lavoro,
corsero a un tratto, con stupor de’ tigli,
tra lor parole grandi più di loro.

A sé videro nuovi occhi, cipigli
non più veduti, e l’uno e l’altro, esangue,
ne’ tenui diti si trovò gli artigli,

e in cuore un’acre bramosia di sangue,
e lo videro fuori, essi, i fratelli,
l’uno dell’altro per il volto, il sangue!

Ma tu, pallida (oh! i tuoi cari capelli
strappati e pésti!), o madre pia, venivi
su loro, e li staccavi, i lioncelli,

ed «A letto» intimasti «ora, cattivi!»

II
A letto, il buio li fasciò, gremito
d’ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d’ogni angolo al labbro alzino il dito.

Via via fece più grosse onde e più rare
il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentia passare.

L’uno si volse, e l’altro ancor, leggero:
nel buio udì l’un cuore, non lontano
il calpestìo dell’altro passeggero.

Dopo breve ora, tacita, pian piano,
venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano.

Guardò sospesa; e buoni oltre il costume
dormir li vide, l’uno all’altro stretto
con le sue bianche aluccie senza piume;

e rincalzò, con un sorriso, il letto.

III 
Uomini, nella truce ora dei lupi,
pensate all’ombra del destino ignoto
che ne circonda, e a’ silenzi cupi

che regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzio d’un’ape dentro il bugno vuoto.

Uomini, pace! Nella prona terra
troppo è il mistero; e solo chi procaccia
d’aver fratelli in suo timor, non erra.

Pace, fratelli! e fate che le braccia
ch’ora o poi tenderete ai più vicini,
non sappiano la lotta e la minaccia.

E buoni veda voi dormir nei lini
placidi e bianchi, quando non intesa,
quando non vista, sopra voi si chini

la Morte con la sua lampada accesa.

L’aquilone
·         La fanciullezza e i giochi con i compagni di studio sono sempre rimasti tra i temi più cari a Pascoli, il quale amò in modo particolare questa poesia, come confidò nel 1901 all’amico Tommaso Ricciarelli: «Leggi nei Poemetti la poesia L’aquilone. Mi domandarono l’altrieri sera qual poesia delle mie amavo più: risposi L’aquilone».
·         In questa poesia, Pascoli rievoca gli anni in cui, bambino, frequentava il collegio degli Scolopi a Urbino. Il poeta, ormai adulto, avverte qualcosa nell’aria che gli riporta alla mente i giochi dell’infanzia, il volo degli aquiloni, le voci degli amici di un tempo, ma anche un evento drammatico: la morte prematura di un compagno di scuola. Questo tragico ricordo offre al poeta l’occasione per riflettere sul significato della vita e per domandarsi se non sia meglio morire quando si è ancora giovani, prima di affrontare le delusioni e i dolori dell’età adulta.
·         Metro: terzine di endecasillabi a rima incatenata (ABA, BCB, CDC, …)

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico1: io vivo altrove[26],
e sento che sono intorno nate le viole.

Son nate nella selva[27] del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle querce agita il vento[28].

Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle[29], e visita[30] le chiese
di campagna, ch’erbose hanno le soglie:

un’aria d’altro luogo e d’altro mese
e d’altra vita[31]: un’aria celestina
che regga molte bianche ali sospese[32]...

sì, gli aquiloni! È questa una mattina
che non c’è scuola[33]. Siamo usciti a schiera[34]
tra le siepi di rovo e d’albaspina[35].

Le siepi erano brulle, irte[36]; ma c’era
d’autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera

bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre[37] del fosso.

Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino[38]
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino[39].

Ed ecco ondeggia, pencola[40], urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza[41].

S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano[42].

S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo[43].

Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù... Ma ecco una ventata
di sbieco[44], ecco un trillo alto... – Chi strilla?

Sono le voci della camerata[45]
mia: le conosco[46] tutte all’improvviso,
una dolce, una acuta, una velata...

A uno a uno tutti vi ravviso[47],
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l’omero il pallor muto del viso[48].

Sì: dissi sopra te l’orazïoni[49],
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni[50]!

Tu eri tutto bianco, io mi rammento;
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento[51].

Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso[52], stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi[53]!

Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi petali un fiore

ancora in boccia[54]! O morto giovinetto,
anch’io presto verrò sotto le zolle[55]
là dove dormi placido[56] e soletto:

meglio venirci[57] ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda[58]
corsa di gara per salire un colle!

Meglio venirci con la testa bionda[59],
che poi che fredda giacque sul guanciale[60],
ti pettinò co’ bei capelli a onda

tua madre... adagio[61], per non farti male.
(Giovanni Pascoli, Poemetti, Einaudi)


Prefazione
Da I canti di Castelvecchio
E su la tomba di mia madre rimangano questi altri canti!... Canti d’uccelli, anche questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, d’allodole, di rosignoli, di cuculi, d’assiuoli, di fringuelli, di passeri, di forasiepe, di tortori, di cincie, di verlette, di saltimpali, di rondini e rondini e rondini che tornano e che vanno e che restano. Troppi? Facciano il nido, covino, cantino, volino, amino almen qui, intorno a un sepolcro, poiché la crudele stupidità degli uomini li ha ormai aboliti dalle campagne non più così belle e dal sempre bel cielo d’Italia! E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto. Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D’altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c’è visione che più campeggi o sul bianco della gran neve o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c’è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie.
Crescano e fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo, cesti o stipe) autunnali. Nei luoghi incolti fanno le stipe che fioriscono di primavera, e fanno i cesti, ancor più umili, che fioriscono d’autunno; e la lor fioritura assomiglia. Mettano queste poesie i loro rosei calicetti (che l’inverno poi inaridisce senza farli cadere) intorno alla memoria di mia madre, di mia madre che fu così umile, e pur così forte, sebbene al dolore non sapesse resistere se non poco più d’un anno. Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa, cioè, qual ch’ella sia, la mia attitudine poetica. Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppo: io appoggiava la testa su le sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder soffiare i lampi di caldo all’orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì.
Seguì mio padre. E qui, devo chiedere perdono, anche questa volta, di ricordare il delitto che mi privò di padre e madre e, via via, dei fratelli maggiori, e d’ogni felicità e serenità nella vita? No: questa volta non chiedo perdono. Io devo (il lettore comprende) io devo fare quel che faccio. Altri uomini, rimasti impuniti e ignoti, vollero che un uomo non solo innocente ma virtuoso, sublime di lealtà e bontà, e la sua famiglia, morisse. E io non voglio. Non voglio che sian morti.
Se poi qualcuna di queste poesie che contengono cose non solo vere ma esatte (e il lettore comprenderà anche qui: certe cose non s’inventano, anche a volere), ispirasse un più acuto ribrezzo del male, io, oh! non me ne terrei io, ma ne benedirei la memoria de’ miei cari martiri, per i quali nessuno (nemmeno i loro assassini) soffrì, e che dalla loro fossa rendono anche oggi, per male, bene.
Castelvecchio di Barga, marzo del 1903.

Il gelsomino notturno[62]
Da I canti di Castelvecchio di Giovanni Pascoli
E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso a’ miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni[63]
le farfalle crepuscolari[64].

Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala[65].
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta[66] per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento ...

È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

La cavalla storna
da Canti di Castelvecchio di Giovanni Pascoli
Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

I cavalli normanni alle lor poste[67]
frangean[68] la biada[69] con rumor di croste.

Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa[70] spiaggia;

che nelle froge[71] avea[72] del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi[73].

Con su la greppia[74] un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea[75] sommessa:

« O cavallina, cavallina storna[76],
che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto[77];

il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie[78].

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.

Tu c’hai nel cuore la marina brulla[79],
tu dai retta alla sua voce fanciulla».

La cavalla volgea[80] la scarna[81] testa
verso mia madre, che dicea[82] più mesta:

« O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte

O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso[83] nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti[84] la tua via,
perché facesse in pace l’agonia . . . »

La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.

«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dové[85] pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe[86],

con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:

lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole».

Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbraccio’ su la criniera.

« O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!

a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona . . . Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise[87].

Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come».

Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian[88] sognando il bianco della strada.

La paglia non battean[89] con l’unghie vuote:
dormian[90] sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.

La mia sera
La poesia descrive una sera dopo il temporale. Di fronte allo spettacolo della natura rinfrescata dal temporale e che pullula di vita (le rane, le rondini), il poeta si domanda che fine hanno fatto i dolori del passato. Come il temporale è passato ed è ritornato il sereno, così i dolori dell'infanzia nell'età adulta si sono acquietati e nella sera, al suono delle campane, al poeta sembra di ritornare bambino ed udire di nuovo la voce della madre.
Si possono distinguere due parti: la prima dal verso 1 al 20 (si tratta delle prime due strofe e mezzo) che è rivolta a rappresentare la natura rasserenata; la seconda dal verso 21 al verso quaranta, che è incentrata sulla corrispondenza tra la vicenda del giorno (il temporale che ha fatto sì che le rondini prolunghino la caccia in cerca di cibo per sfamare i pulli che durante il giorno non hanno avuto la loro razione quotidiana) e la vicenda biografica del poeta ( che ha vissuto un'infanzia segnata dalla morte del padre e dolorosa, alla quale ha fatto seguito la serenità della fase conclusiva della vita e della vecchiaia, che può anche suggerire l'idea della morte.
Questa poesia è suddivisa in 5 strofe di 8 versi ciascuna. I versi sono tutti novenari tranne gli ultimi di ogni strofa che sono senari e sono chiusi sempre dalla parola sera (che si trova quindi in anafora).
La rima è alternata e segue principalmente lo schema ABABCDCD. NB. Anche se non sembra, i versi 17 e 19 rimano fra di loro: È quella infinita tempésta | dei fulmini fragili réstano.
Il v. 19 aggiunge, però, una sillaba in più, della quale nella metrica non si tiene conto. Nel 3 verso c’è una sinestesia “tacite stelle”, cioè l'accostamento di un'immagine visiva, le stelle, con un suono, il silenzio. Le stelle vengono anche personificate e per questo sono silenziose.
Nel verso 4 c’è un onomatopea “breve gre gre di ranelle”, con questa espressione il poeta crea
molta musicalità e inoltre con l’allitterazione della lettera r rende il suono più cupo, più dolce e più
acuto. Abbiamo un'allitterazione anche al verso 19 (“..fulmini fragili...”).
Nel verso 32 c’è un onomatopea “don….don” che riproduce il suono delle campane.
Ai versi 34 – 35 è presente una climax che va da un suono più forte («cantano») ad uno impercettibile («bisbigliano»)
Nel verso 36 “voci di tenebra azzurra” è una metafora che indica le voci dei morti che sembrano
parlare al poeta.
Nell'ultima strofa la ripetizione dell'imperativo «dormi» (anafora) contribuisce a sottolineare ancora di  più il ritmo della poesia, che sembra quasi assomigliare ad una ninna nanna.

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.

E', quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Nè io ... che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don ... Don ... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra ...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era ...
sentivo mia madre ... poi nulla ...
sul far della sera.



[1] Myricae – É la prima raccolta di Giovanni Pascoli e viene pubblicata per la prima volta nel 1891, in un’edizione comprendente solo 22 componimenti. Successivamente, il poeta interverrà spesso per rimaneggiare e modificare il testo, che nel 1911 giungerà a raccogliere complessivamente ben 156 poesie.
Il titolo, come indicato anche dall’epigrafe alla prima edizione, è di ascendenza classica: è tratto infatti dalla quarta ecloga di Virgilio (“Sicelides Musae, paulo maiora canamus! | Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae”) ed indica da subito l’ambientazione della raccolta nell’umile realtà del mondo della campagna, che il poeta descrive con sfumature simboliste.
 Myricae, pur essendo una raccolta in progress dal 1891 al 1911, presenta alcuni nuclei tematici ben identificabili, che costituiscono anche la linea fondamentale della poetica pascoliana. Innanzitutto, spicca nei testi di Myricae il mondo della natura e della campagna, contemplato nelle sue realtà più “umili” (simboleggiate appunto dalle “tamerici” del titolo) e cariche di implicazioni simboliche. È compito del poeta, che deve farsi “fanciullino” (come Pascoli spiegherà in un importante testo teorico), cogliere il mistero che sta dietro alle cose e trasmetterlo agli altri uomini con gli strumenti della creazione letteraria.
Alla descrizione del mondo naturale (che raggiunge le punte di massima espressività in testi come L’assiuolo o Novembre) e della sua ciclicità, si aggiungono - soprattutto a partire dall’edizione del 1894 - altri temi tipicamente pascoliani, come il dolore per la perdita degli affetti familiari (esemplare in questo senso X Agosto) e in generale il tema della morte e del conflitto tra la purezza del mondo di Natura e le minacce del mondo reale, fino ad arrivare al compito storico-sociale della figura del poeta.
Dal punto di vista letterario Myricae si inserisce nella tradizione poetica simbolista, di cui Pascoli è uno dei principali esponenti; in tal senso, il poeta si serve di una serie di strumenti tecnici e di figure retoriche ricorrenti, all’interno di strutture metriche che restano regolari ed ancorate alla tradizione per quanto riguarda le strutture strofiche e il ricorso alla rima o alle forme di assonanza e consonanza.
Innanzitutto, ad essere privilegiate sono le sensazioni e le percezioni indistinte, che riproducono le sensazioni sfumate (e talvolta inquietanti) dell’io poetico di fronte al mistero della natura, come ad esempio in Lavandare. Pascoli così privilegia strutture sintattiche leggere, prevalentemente costruite per paratassi, su cui intervenire per mezzo di figure retoriche caratteristiche (analogie, sinestesie, metonimie e onomatopee). Importantissimo è poi l’aspetto fonosimbolico del testo, per cui la struttura di suoni della poesia deve evocare sulla pagina le sensazioni e le intuizioni provate dal poeta.
[2] mezzo grigio e mezzo nero: l’indicazione coloristica segnala che il campo è stato solo parzialmente arato, dato che il colore tra il terreno superficiale (“grigio”) e quello rivoltato dal macchinario (“nero”) è differente.
[3] sciabordare: il verbo, collocato praticamente al centro del madrigale, indica con precisione terminologica l’azione di rimestare e battere dei panni in acqua per lavarli. Si tratta di una pratica diffusa e comune in tutte le campagne, al tempo del poeta.
[4] tonfi spessi: la sinestesia unisce la sensazione di pesantezza dei panni, intrisi d’acqua, con il rumore sordo che essi producono durante le operazioni di lavaggio (che solitamente avvenivano su assi di legno). Il sintagma è anche un buon esempio del fonosimbolismo pascoliano, che con i suoni - t - ed - sp - prova a riprodurre l’effetto sonoro del lavaggio alla “gora” (v. 4).
[5]  lunghe cantilene: sono le canzoni di origine popolare con cui le lavandaie accompagnano il lavoro, per alleviarne la fatica. Senza una precisa indicazione tipografica, Pascoli inserisce qui dei versi che servono a chiarire il parallelismo su cui è incentrato il testo: la solitudine dell’aratro nel campo ricorda quella di una donna abbandonata dall’uomo che ama.
[6] nevica la frasca: nell’immagine, costruita con la figura retorica dell’analogia, convergono due immagini: quella della “frasca” (cioè, i rami di foglie) e la lenta caduta dei fiocchi di neve. In tal modo, la caduta autunnale delle foglie viene paragonata ad una nevicata, tipica della stagione invernale. Inoltre nel verso si può osserva la disposizione a chiasmo di verbi (“soffia” e “nevica” sono collocati internamente) e soggetti (“vento” e “frasca” occupano invece le posizioni più esterne).
[7] maggese: antica tecnica agricola per cui, nel mese di maggio (da cui appunto deriva “maggese”), il campo veniva lavorato per poi essere lasciato a riposo, per migliorarne la produttività. Il “maggese” fa parte delle pratiche di rotazione delle colture.
[8] Gemmea: il verbo - indice dell'accuratissima ricerca anche lessicale della poesia pascoliana - è un trisillabo, che contribuisce a dilatare, anche metricamente, l'immagine su cui si apre Novembre, e a trasmettere con efficacia l'idea di limpidezza dell'atmosfera serena di metà novembre.
[9] tu ricerchi: il "tu" potrebbe presupporre un interlocutore muto, oppure essere impersonale, e quindi rivolgere tutto il discorso al poeta stesso; in entrambi i casi, spicca la dimensione intima del dialogo, che serve a focalizzare le reazione dell'io poetico di fronte al paesaggio naturale
[10] prunalbo: si tratta di un biancospino; la rinomata sapienza botanica di Pascoli affianca alle sensazioni visive dei primi due versi le note olfattive.
[11] L’aria tersa e il sole luminoso possono far credere che sia un giorno di primavera, in cui quindi viene naturale cercare gli albicocchi in fiore e può sembrare di sentire l’odore del biancospino.
[12] Il cielo è vuoto perché senza uccelli primaverili che lo solcano; il terreno suona cavo perché probabilmente ghiacciato. Tuttavia, data anche la vicinanza cronologica con la commemorazione liturgica dei defunti (2 novembre), si può anche immaginare che queste cavità nel terreno alludano alle tombe dei morti.
[13] Ma: l’avversativa - in posizione rilevata - fa capire che la descrizione primaverile è solo un’illusione, almeno per il poeta che proietta nei minimi dettagli del paesaggio la propria inquietudine.
[14] nere trame segnano il sereno: l'antitesi di colori contribuisce a creare la sensazione di inquietudine che culmina nell'ultima verso e nell'"estate dei morti".
[15]un cader fragile: ipallage (ovvero una figura retorica per cui si attribuisce ad un elemento della frase qualcosa che semanticamente e logicamente dovrebbe riferirsi ad altro), in quanto sono le "foglie" e non il loro "cader" ad essere "fragili".
[16] l'estate, fredda, dei morti: non si tratta dunque di una vera giornata primaverile (come ci viene rivelata nell'explicit del testo) ma dell’estate di San Martino, che si colloca verso l’11 novembre (giorno in cui è celebrato il santo) e si caratterizza generalmente per temperature relativamente miti rispetto al periodo dell’anno, dopo le prime gelate novembrine.
[17] Ogni anno la notte di San Lorenzo, ravviva la magia del cosmo: si dice che se si esprime un desiderio vedendo la stella che traccia una scia nel cielo scuro della notte, questo si avvererà. L’appuntamento magico che ci offre il cielo, è la pioggia meteorica delle Perseidi, più nota come le lacrime di San Lorenzo. Si tratta dello sciame di meteore meglio osservato in tutto il mondo, consistente in residui della disintegrazione progressiva della cometa Swift-Tuttle. Le piccole particelle, scontrandosi a gran velocità con l’atmosfera terrestre, danno luogo a scie luminose di altissimo effetto.
Il nome di “Perseidi”, invece, è determinato dalla posizione del radiante, il punto sulla volta celeste dal quale sembrano provenire le meteore, situato appena al di sopra della costellazione del Perseo. E se l’apparizione di una stella cadente è oggi associata ad un sentimento di stupore, nell’antichità, invece, l’apparizione di meteore, comete e altri fenomeni passeggeri che sembravano alterare l’immutabilità del cielo, erano considerate segni infausti. Il cielo sembrava piangere lacrime di fuoco, ad esempio, in occasione di crisi di governo, battaglie o assedi, coincidenti con sciami meteorici ricorrenti e questa superstizione si è tramandata, in varie forme, nei secoli. Ad esempio, tra ottobre e novembre del 902 d.C., stando a quanto ci riferiscono le antiche cronache, l’invasione di Sicilia e Calabria da parte dei Saraceni e le stragi successive furono seguite da un abbondante pianto divino. Oggi è certo che si trattò di una fittissima pioggia di stelle cadenti dello sciame delle Leonidi, visibile ogni anno a novembre.
La tradizione cristiana, come noto, ha legato il concetto di pioggia di stelle cadenti al martirio del santo Lorenzo, dal III secolo sepolto nell’omonima basilica a Roma. Sarebbero proprio le lacrime versate dal santo durante il suo supplizio; a vagare eternamente nei cieli, discendendo sulla terra solo il giorno in cui Lorenzo morì, creando un’atmosfera magica e carica di speranza. Secondo la tradizione popolare, le stelle del 10 agosto vengono dette anche fuochi di San Lorenzo, ricordando le scintille provenienti dalla graticola infuocata su cui venne ucciso il martire, poi volate in cielo. In realtà la storia sostiene che il santo non venne sottoposto al martirio della graticola, bensì venne decapitato. Nell’immaginario popolare l’idea dei lapilli volati in cielo ha comunque preso piede, tanto che ancora oggi, in Veneto, un proverbio recita “San Lorenzo dei martiri innocenti, casca dal ciel carboni ardenti”.
Ma chi era San Lorenzo e qual è il legame tra questo Santo e la pioggia di stelle cadenti? Lorenzo nacque a Osca (Huesca), città della Spagna, nella prima metà del III secolo. Venuto a Roma, centro della cristianità, si distinse per la sua pietà, carità verso i poveri e l’integrità di costumi. Grazie alle sue doti, Papa Sisto II lo nominò Diacono della Chiesa, dovendo egli sovrintendere all’amministrazione dei beni, accettare le offerte e custodirle, provvedere ai bisognosi, agli orfani e alle vedove. Per queste mansioni, Lorenzo fu uno dei personaggi più noti della prima cristianità di Roma ed uno dei martiri più venerati, tanto che la sua memoria fu ricordata da molte chiese e cappelle costruite in suo onore nel corso dei secoli. Lorenzo fu catturato dai soldati dellImperatore Valeriano il 6 agosto del 258 nelle catacombe di San Callisto, assieme al Papa Sisto II ed altri diaconi. Mentre il Pontefice e gli altri diaconi subirono subito il martirio, Lorenzo fu risparmiato per farsi consegnare i tesori della chiesa. Si narra che all’Imperatore Valeriano, che gli imponeva la consegna dei tesori della Chiesa, Lorenzo abbia portato davanti dei poveri ed ammalati, esclamando: “Ecco i tesori della chiesa”. In seguito Lorenzo fu dato in custodia al centurione Ippolito, che lo rinchiuse in un sotterraneo del suo palazzo, dove si trovava imprigionato anche un certo Lucillo, cieco.
Lorenzo confortò il compagno di prigionia, lo catechizzò alla dottrina di Cristo e, servendosi di una polla d’acqua che sgorgava dal suolo, lo battezzò. Dopo il Battesimo, Lucillo riebbe la vista. Il centurione Ippolito visitava spesso i suoi carcerati e, avendo constatato il fatto prodigioso, colpito dalla serenità, dalla mansuetudine dei prigionieri e illuminato dalla grazia di Dio, si fece cristiano, ricevendo il battesimo da Lorenzo. In seguito Ippolito, riconosciuto cristiano, fu legato alla coda di cavalli e fatto trascinare per sassi e rovi fino alla morte. Lorenzo venne arso vivo sulla graticola, in un luogo poco lontano dalla prigione ed il suo corpo portato al Campo Verano, nelle catacombe di Santa Ciriaca. Il Martirio di San Lorenzo è datato dal martirologio romano il 10 agosto del 258 d.C. A ricordare questi avvenimenti furono erette, ad esempio a Roma, tre chiese: San Lorenzo in Fonte, luogo della prigionia, San Lorenzo in Panisperna, luogo del martirio, e San Lorenzo al Verano, luogo della sua sepoltura.
Tale data ispirò anche Giovanni Pascoli che volle dedicare la sua celebre poesia “X Agosto, alla morte del padre, avvenuta proprio in quel giorno. Nell’opera, il poeta identifica il firmamento del 10 agosto come un grande pianto di stelle, sottolineandone la natura malinconica, e rivolgendosi direttamente al Santo: «San Lorenzo, io lo so perché tanto di stelle per l’aria tranquilla arde e cade, perché sì gran pianto nel concavo cielo sfavilla».
[18] concavo cielo: è la volta celeste, nella notte delle "stelle cadenti".
[19]come in croce: evidente qui un parallelismo fra la rondine uccisa caduta tra le spine e Gesù in croce (cui già alludono gli "spini" del v. 6, che ricordano la crocifissione sul Golgota); è uno degli artifici per aumentare il tasso di patetismo del testo, come, più avanti, il pigolio dei rondinini o le "due bambole in dono" che, secondo il figlio, Ruggero Pascoli aveva con sé.
[20] Il pigolio degli uccellini si fa sempre più debole perché sono sempre più affamati e senza energie per mancanza di cibo: il lutto colpisce quindi anche le creature più innocenti ed indifese del "nido".
[21] lo aspettano, aspettano: la ripetizione ovviamente sottolinea, dal punto di vista della famiglia in apprensione, l'aspetto tragico di quella notte del 10 agosto 1867.
[22] sereni: Gli altri pianeti del sistema solare sono sereni in quanto indifferenti a ciò che succede sulla Terra. Sembra di cogliere in questo passaggio un accento leopardiano, in particolare alla riflessione (si pensi alle Operette morali o al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) sull'indifferenza della Natura per il dolore dell'uomo.
[23] pianto di stelleanalogia che sta a rappresentare la cascata di stelle della notte di San Lorenzo, ma allude anche esplicitamente al dolore privato del poeta, orfano di padre.
[24] quest'atomo opaco del Male: la Terra è una piccolissima parte dell’universo, come un atomo di materia, ed è opaco perché - nella prospettiva di Pascoli - non illuminato dalla luce del Bene e della giustizia.
[25] Poemetti – La seconda grande opera poetica di Giovanni Pascoli, Primi Poemetti reca nel frontespizio l’epigrafe latina Paulo Maiora e la dedica A Maria Pascoli.
La prima edizione è del 1897, si intitolava soltanto Poemetti e comprendeva solo 20 testi; la seconda edizione del 1900 ne conteneva 45; la terza, del 1904, prende il titolo definitivo di Primi Poemetti, la quarta edizione ed ultima, del 1907.
La prefazione espone le intenzioni e il significato dell’opera, che riafferma l’importanza della Natura; anche il tema del mistero acquista un significato e una profondità maggiori; il terzo grande tema della raccolta nella solidarietà internazionale tra tutti gli uomini come un popolo di rondoni, un popolo bellicoso e straniero, porta da mangiare alle rondini.
La Sementa racconta la storia di una famiglia contadina che svolge lavori agricoli. I personaggi sono Rosa, la sorella maggiore, Viola, la sorella minore, e due fratelli piccoli, Nando e Dore, guidati da un capofamiglia. Al centro della storia c’è l’innamoramento di Rosa per Rigo un cacciatore.
Nella sezione Il bordone, Pascoli ha inserito alcuni componimenti poetici, come L’aquilone o Suor Virginia o ispirati dal senso oscuro del mistero, come I due fanciulli, Nella nebbia, La grande aspirazione, L’immortalità, Il Libro.
Nello sviluppo di questi temi l'autore ha inserito dei personaggi allegorici come Il cieco e L’eremita.
L’opera termina con un poemetto Italy dedicato all’Italia raminga, che racconta la storia di una famiglia emigrata in America, ma costretta a rientrare, per via di una bimba malata, che viene ricondotta a casa, con la speranza che il clima della Penisola, mite e salubre le possa giovare. Gli emigranti maledicono l’Italia, perché in essa non hanno trovano lavoro, ma Pascoli li invita a non farlo, perché un giorno essa accoglierà tutti e darà lavoro a tutti.
Tutta l’opera poetica è in terzine di endecasillabi a rime incatenate. I componimenti poetici sono quelli che esulano dal romanzo agreste e georgico.
I componimenti più brillanti sono quelli che Pascoli scrisse, in tempi e su riviste diverse, ma che poi sistemò in un ordine ideale nell’opera poetica. Tra questi, un capolavoro assoluto è sicuramente costituito da L’aquilone, che viene dopo due componimenti forti, Il soldato di San Pietro in Campo e Digitale purpurea.
Nella quarta sezione L’accestire notevole è il componimento La siepe.
Ma la sezione che contiene i componimenti più coinvolgenti è la quinta sezione. Il tema di questa sezione è il Mistero e la pace internazionale come nel primo poemetto I due fanciulli. Segue la poesia Nella nebbia una poesia simbolica. Poi La grande aspirazione e il componimento L’immortalità. Seguono tre componimenti poetici Il libro, La felicità e Il cieco, considerato il più bello dell’intera raccolta. Il cieco è un personaggio allegorico è simboleggia l’intera umanità, cieca di fronte al mistero dell’universo e della vita. Egli non conosce la propria provenienza e non conosce la propria destinazione, così come l’umanità non sa da dove è venuta e non sa dove andrà a finire. Il cieco ha perso il cane che lo guidava, così l’umanità ha perso la scienza che la conduceva verso la pace e verso la felicità. Il cieco si rivolge a Dio, per avere indicazioni. Ma Dio non risponde, tace immobilmente.
Nuovi Poemetti reca sul frontespizio il motto Paulo Malora ed è dedicata agli scolari dello scrittore, di Matera, Massa, Livorno, Messina, Pisa e Bologna.
Giovanni Pascoli riprende i temi dei Primi Poemetti e sviluppa ulteriormente la storia della famiglia, inserendo rapsodicamente pregevoli poemetti sparsi, come Il naufrago, La morte del Papa, La pecorella smarrita, La vertigine, Gli emigranti della luna e termina con il poema Pietole.
Questi componimenti sottolineano l'esiguità della Terra nei confronti dell’Universo e indulgono alla riflessione sull'esistenza di Dio, entità percepita nella sua assente indifferenza nei riguardi della vicenda umana.
[26] io vivo altrove: io mi sento trasportato in un altro luogo [e anche in un altro tempo].
[27] selva: bosco.
[28] tra… vento: tra le foglie morte che il vento agita ai piedi delle querce.
[29] dure zolle: zolle di terreno indurite dal freddo invernale.
[30] visita: raggiunge.
[31] d’altro... vita: di un altro luogo [Urbino], di un altro mese [la primavera], di un’altra vita [la giovinezza].
[32] bianche ali sospese: gli aquiloni.
[33] che non c’è scuola: di festa.
[34] a schiera: in gruppo, tutti assieme.
[35] albaspina: biancospino.
[36] brulle, irte: spoglie, pungenti.
[37] aspre: secche.
[38]abbiamo… Urbino: vediamo di fronte a noi la città di Urbino.
[39]ognuno… turchino: ciascun ragazzo lancia da un’altura il suo aquilone verso il cielo azzurro.
[40] pian piano… s’inalza: sale lentamente verso il cielo accompagnato dal grido prolungato dei bambini [un grido di gioia e di stupore].
[41] pencola: oscilla.
[42] come… lontano: il filo dell’aquilone scappa dalle mani del fanciullo e sale verso il cielo come un fiore che si stacca dallo stelo.
[43] S’inalza… cielo: l’aquilone sale sempre più in alto e porta con sé i piedi impazienti, il respiro intenso e carico di emozione, lo sguardo desideroso di vedere l’aquilone in volo, il viso e il cuore del bambino.
[44] ventata di sbieco: una folata di vento di traverso.
[45] camerata: dei miei compagni di collegio.
[46] conosco: riconosco.
[47] ravviso: rivedo.
[48] che… viso: che abbandoni sulla spalla il viso pallido e silenzioso [perché ormai privo di vita]. Si chiamava Pirro Viviani il ragazzino dalla “testa bionda”che morì a soli 17 anni, all’epoca in cui Giovanni Pascoli, con i fratelli Giacomo e Luigi, frequentava il collegio dei frati Scolopi a Urbino.
[49] l’orazïoni: le preghiere.
[50] eppur… aquiloni: eppure sei fortunato ad aver visto cadere soltanto gli aquiloni [secondo il poeta, il suo compagno di collegio, pur essendo morto giovane, può considerarsi “felice” perché non è stato toccato dai dolori della vita adulta].
[51] Solo... pavimento: avevi le ginocchia arrossate per le preghiere che recitavamo in ginocchio sul pavimento.
[52] persuaso: tranquillo, soddisfatto.
[53] il più caro dei tuoi cari balocchi: il più amato dei tuoi giocattoli [l’aquilone rappresenta inoltre per il poeta la parte migliore della vita: la fanciullezza].
[54] dolcemente… boccia: io sono sicuro che si muore dolcemente, stringendo ancora a sé la propria giovinezza, come un fiore che sta sbocciando tiene raccolti i suoi candidi petali.
[55] verrò sotto le zolle: verrò sotto terra, morirò.
[56] placido: tranquillo.
[57] venirci: morire.
[58] gioconda: allegra.
[59] con la testa bionda: ancora giovane, prima che i capelli diventino grigi.
[60] fredda… guanciale: che, dopo la morte, riposò sul cuscino.
[61] adagio: piano [la madre pettina i capelli del figlio con delicatezza, come se fosse ancora vivo].
[62] Il gelsomino notturno – Scritta il 21 luglio 1901, ma l'ideazione è degli anni 1897-98. Inserita nella prima edizione dei Canti di Castelvecchio del 1903. È rivolta all'amico Gabriele Briganti in occasione della nascita del figlio, ma è come se il poeta, che nel 1901 aveva 46 anni, la scrivesse a se stesso, poiché egli s'immagina d'essere uno sposo senza esserlo.
Cinque anni prima della stesura della poesia era naufragato il suo progetto di matrimonio con la facoltosa cugina riminese Imelde, ormai trentenne, figlia di Alessandro Morri. In questa decisione influì pesantemente la sorella di Pascoli, Maria, che viveva con lui.
Nel 1895 il matrimonio della sorella Ida l'aveva sconvolto. Scrive da Roma all'altra sorella Maria: “Questo è l'anno terribile, dell'anno terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato. Io amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni, virtualmente, mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre. Io resto attaccato a voi, a voi due, a tutte e due: a volte sono preso da accesi furori d'ira, nel pensare che l'una freddamente se ne va strappandomi il cuore, se ne va lasciandomi mezzo morto in mezzo alla distruzione de' miei interessi, della mia gloria, del mio avvenire, di tutto!”
[63] Viburni: il viburno comprende circa duecento specie di arbusti di dimensioni varie; molto diffusi nei giardini per la facilità di coltivazione, hanno in genere forma arrotondata, o eretta, e raggiungono i 3-4 metri di altezza nell'arco di alcuni anni. Il fogliame è ovale o lanceolato, in genere coriaceo, liscio o rugoso, a seconda della specie, di colore verde scuro. I fusti sono molto ramificati, e sopportano potature anche drastiche, per mantenere l'arbusto più compatto.
[64] Le… crepuscolari: secondo la tradizione popolare le farfalle crepuscolari e quelle nere portano sfortuna e sono presagio di guai e morte ed in esse si nascondono le anime dei dannati.
[65] Sala: stanza destinata alla conversazione e al ricevimento di ospiti.
[66] Chioccetta: la costellazione delle Pleiadi
[67] Poste: posto destinato a ciascun animale nella stalla.
[68] Frangean: rompevano.
[69] Biada: nome generico dei cereali usati per alimentare il bestiame.
[70] Salsa: salata.
[71] Froge: ciascuna delle estremità carnose delle narici degli equini.
[72] Avea: aveva.
[73] Aguzzi: acuti, appuntiti.
[74] Greppia: nelle stalle, rastrelliera per il fieno posta sopra la mangiatoia.
[75] Dicea: diceva.
[76] Storna: di mantello equino, di colore grigio scuro macchiettato di bianco. Di cavallo, che ha tale mantello.
[77] Giovinetto: ragazzo molto giovane, adolescente.
[78] Briglie: ciascuna delle due redini che si attaccano al morso del cavallo. L’insieme dei finimenti con cui si guida il cavallo.
[79] Brulla: mancante, privo di qualcosa.
[80] Volgea: girava.
[81] Scarna: del corpo o di una sua parte, molto magro, macilento.
[82] Dicea: diceva.
[83] Lasso: affaticato.
[84] Seguitasti: seguisti.
[85] Dové: doveva.
[86] Vampe: fiamma alta e intensa.
[87] Fise: fisso.
[88] Dormian: dormivano.
[89] Battean: battevano.
[90] Dormian: dormivano.

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