lunedì 1 febbraio 2016

La Pietà di Sebastiano del Piombo. di Massimo Capuozzo

Non bisogna toccare gl'idoli: la doratura ci rimane sulle dita.
Gustave Flaubert.

Rimasto per secoli, nell'ombra, perché su di lui è gravato piuttosto notevolmente il giudizio negativo di Vasari ed inoltre perché le sue opere sono sparse dovunque, soprattutto in varie raccolte museali degli Stati Uniti, Sebastiano del Piombo (1485 – 1547) è stato un insigne rappresentante della pittura rinascimentale, forse il più grande ritrattista della sua epoca. Sebastiano tuttavia non fu soltanto un pittore di genere ma seppe raggiungere risultati elevatissimi anche nella pittura religiosa che, secondo i canoni dell’epoca, era “la più alta maniera di dipintura”.
la Pietà del Museo civico di Viterbo, il dipinto più famoso e più discusso di Sebastiano, è un capolavoro della pittura rinascimentale, oltre ad essere una delle opere più significative e nodali del suo iter stilistico e quella che meglio riassume i suoi successivi orientamenti artistici.
Il dibattito è nato da questa pagina di Vasari: «Mentre che lavorava costui [Sebastiano]queste cose in Roma, era venuto in tanto credito Raffaello da Urbino nella pittura che gl’amici et aderenti suoi dicevano che le pitture di lui erano, secondo l’ordine della pittura, più che quelle di Michelagnolo, vaghe di colorito, belle d’invenzioni e d’arie più vezzose e di corrispondente disegno, e che quelle del Buonarroti non avevano dal disegno in fuori niuna di queste parti. E per queste cagioni giudicavano questi cotali Raffaello essere nella pittura, se non più eccellente di lui, almeno pari, ma nel colorito volevano che ad ogni modo lo passasse. Questi umori, seminati per molti artefici che più aderivano alla grazia di Raffaello che alla profondità di Michelagnolo, erano divenuti, per diversi interessi, più favorevoli nel giudizio a Raffaello che a Michelagnolo. Ma non già era de’ seguaci di costoro Sebastiano perché, essendo di squisito giudizio, conosceva a punto il valore di ciascuno. Destatosi dunque l’animo di Michelagnolo verso Sebastiano, perché molto gli piaceva il colorito e la grazia di lui, lo prese in protezzione, pensando che se egli usasse l’aiuto del disegno in Sebastiano, si potrebbe con questo mezzo, senza che egli operasse, battere coloro che avevano sì fatta openione, et egli sotto ombra di terzo giudicare quale di loro fusse meglio. Stando le cose in questi termini et essendo molto, anzi in infinito, inalzate e lodate alcune cose che fece Sebastiano, per le lodi che a quelle dava Michelagnolo, oltre che erano per sé belle e lodevoli, un messer non so chi da Viterbo, molto riputato appresso al Papa, fece fare a Sebastiano, per una cappella che aveva fatta fare in San Francesco di Viterbo, un Cristo morto con una Nostra Donna che lo piagne. Ma perché, se bene fu con molta diligenza finito da Sebastiano che vi fece un paese tenebroso molto lodato, l’invenzione però et il cartone fu di Michelagnolo, fu quell’opera tenuta da chiunque la vide veramente bellissima. Onde acquistò Sebastiano grandissimo credito e confermò il dire di coloro che lo favorivano».
Analizzando il testo vasariano, in poche, sintetiche e chiare parole, riferite alla tavola di Viterbo, liquida Sebastiano del Piombo come il semplice esecutore di un progetto altrui, eccetto che nell’ideazione dello sfondo.
Ma le cose non andarono proprio così.
Dapprima occorre ricordare la scarsa simpatia nutrita da Vasari per il pittore veneziano per motivi anche piuttosto puerili: a lui dedica solamente quattro pagine di cui metà sono di elogi l’altra metà di critiche. Ma quali sono questi motivi? Il primo è di ordine pregiudiziale perché per Vasari l’arte toscana era suprema e quella di Michelangelo era il non plus ultra. Il secondo è legato ad uno screzio fra Michelangelo e Sebastiano a proposito della tecnica usata da Michelangelo nell’affresco del Giudizio universale un episodio trattato da Vasari come se l’oltraggio fosse stato fatto a lui in persona. L’ultimo, ma non certo per importanza, è il livore misto ad invidia che Vasari nutre per Sebastiano perché era stato un collaboratore di Michelangelo, privilegio che a lui non era mai toccato.
È indubbiamente legittimo parlare di un influsso michelangiolesco in Sebastiano, ma non è legittimo parlarne in senso rigorosamente materiale: intorno al 1515, infatti, la pittura di Sebastiano cominciò ad essere sempre più influenzata da Michelangelo, quando il veneziano strinse amicizia con Michelangelo, inserendosi nella rivalità che si stava accendendo in quegli anni tra Michelangelo e Raffaello.
La potenza di Michelangelo, dapprima celebrata nell’ambito della corte papale per il titanico lavoro alla volta della Cappella Sistina, cominciava a perdere interesse a favore del bello-buono portato avanti da Raffaello, l’uomo dalla pittura lieve e gioiosa. Lo stesso Vasari riferisce « … era venuto in tanto credito Raffaello da Urbino nella pittura, che gl’amici et aderenti suoi dicevano che le pitture di lui erano, secondo l’ordine della pittura, più che quelle di Michelagnolo, vaghe di colorito, belle d’invenzioni e d’arie più vezzose e di corrispondente disegno, e che quelle del Buonarroti non avevano dal disegno in fuori niuna di queste parti. E per queste cagioni giudicavano questi cotali Raffaello essere nella pittura, se non più eccellente di lui, almeno pari, ma nel colorito volevano che ad ogni modo lo passasse. Questi umori, seminati per molti artefici che più aderivano alla grazia di Raffaello che alla profondità di Michelagnolo, erano divenuti, per diversi interessi, più favorevoli nel giudizio a Raffaello che a Michelagnolo». Poi aggiunge «Ma non già era de’ seguaci di costoro Sebastiano perché, essendo di squisito giudizio, conosceva a punto il valore di ciascuno. Destatosi dunque l’animo di Michelagnolo verso Sebastiano, perché molto gli piaceva il colorito e la grazia di lui, lo prese in protezzione, pensando che se egli usasse l’aiuto del disegno in Sebastiano, si potrebbe con questo mezzo, senza che egli operasse, battere coloro che avevano sì fatta openione, et egli sotto ombra di terzo giudicare quale di loro fusse meglio». Per questo motivo, cioè unire le forze per sgominare il grande rivale di Michelangelo fra il grande maestro e Sebastiano si stabilì un rapporto di vera e propria collaborazione artistica.
Siamo nel biennio 1515-16 e Roma è il teatro dove si scontrano due geni dell’arte: Michelangelo, frequentava Roma da un ventennio e pensava di essere il migliore in scultura, ma anche in pittura. Nel 1512 aveva ultimato la volta della Cappella Sistina con quello che comportava in termini di meraviglia, di fama e di gloria. Raffaello, era arrivato in città solo da pochi anni, ma con i pennelli era magico e diversamente dallo scontroso Michelangelo, era simpatico, sapeva stare al mondo e si era già fatto tanti amici et aderenti, come li chiama Vasari. Amici che sostenevano che le sue pitture fossero «più vaghe di colorito, più belle di invenzione, e d’arie più vezzose di quelle di Michele Agnolo Buonarroti». Era un’opinione come tante, ma Michelangelo, uomo profondo, ottimo intellettuale, artista multiforme, ma al tempo stesso viveva di invidia e di rancore, se la prese a talmente a male, da mettere in atto un piano per abbattere il rivale, o almeno per dimostrare che con i colori Raffaello non era poi così eccezionale.
Michelangelo aveva avuto modo di vedere i lavori che Sebastiano aveva eseguito per il potente banchiere Agostino Chigi, nella sua sontuosa villa di cui aveva già affidato una parte della decorazione a Raffaello. E lì Agostino Chigi aveva messo all’opera anche Sebastiano e i suoi affreschi non sfiguravano, accanto a quelli di Raffaello. Nella Sala di Galatea, il veneziano aveva decorato otto aeree lunette e, nel riquadro a sinistra del soffitto in cui Raffaello aveva realizzato il meraviglioso Trionfo di Galatea, Sebastiano aveva dipinto un maestoso Polifemo, un gigante che Michelangelo notò: con tutti quei muscoli e con quelle proporzioni sembrava quasi ideato da lui. Forse proprio vedendo quel Polifemo, Michelangelo iniziò a pensare che se avesse fatto lui i cartoni per qualche dipinto di Sebastiano, altro che Raffaello, sarebbero stati quelli i veri capolavori. Disegno suo, il più grande dei toscani, e colori di un veneto, allievo di Giorgione e di Bellini: una combinazione insuperabile.
Era una splendida idea, che non restò solo tale. Michelangelo, avrebbe potuto fornire davvero dei disegni per qualche dipinto di Sebastiano. Il più famoso di questa collaborazione è la Resurrezione di Lazzaro, realizzato per competere direttamente con la Trasfigurazione di Raffaello, entrambi voluti dal Cardinale Giulio de’ Medici per la cattedrale di Narbonne. Alla Resurrezione di Lazzaro Sebastiano cominciò a lavorare nello stesso periodo in cui gli fu commissionata la Pietà. Forse monsignor Botonti, il committente dell’opera, doveva aver sperato che il disegno fosse di Michelangelo: come tutti sapeva del sodalizio tra Sebastiano e Michelangelo, e tutta Roma sapeva che Michelangelo stava eseguendo dei disegni per alcuni personaggi della Resurrezione di Lazzaro.
Monsignor Botonti forse sperava, ma Vasari non ha dubbi; per lui la vicenda è andata proprio così. «Stando le cose in questi termini et essendo molto, anzi in infinito, inalzate e lodate alcune cose che fece Sebastiano, per le lodi che a quelle dava Michelagnolo, oltre che erano per sé belle e lodevoli, un messer non so chi da Viterbo, molto riputato appresso al Papa, fece fare a Sebastiano, per una cappella che aveva fatta fare in San Francesco di Viterbo, un Cristo morto con una Nostra Donna che lo piagne. Ma perché, se bene fu con molta diligenza finito da Sebastiano che vi fece un paese tenebroso molto lodato, l’invenzione però et il cartone fu di Michelagnolo, fu quell’opera tenuta da chiunque la vide veramente bellissima. Onde acquistò Sebastiano grandissimo credito e confermò il dire di coloro che lo favorivano».
Per noi, come lo era per tutti gli artisti di quell’epoca, sono noti i punti forti della pittura fiorentina e di quella veneta nei primi anni del Cinquecento: linearismo disegnativo e primato del disegno in Toscana, tonalismo e primato del colore in Veneto. Tuttavia sarebbe inimmaginabile che un ritrattista della fama di Sebastiano fosse del tutto sprovveduto nel disegno: con Michelangelo, quindi, avrebbe potuto migliorare questo aspetto della sua pittura. Quando si presentò l’occasione di una buona committenza il Cardinale Giulio de Medici per la Resurrezione di Lazzaro Michelangelo, cominciò a dare man forte al giovane amico.
Nello stesso periodo un gentiluomo di ricca famiglia viterbese, il chierico di Camera Apostolica, monsignor Giovanni Botonti, raffinato umanista tenuto in grande considerazione presso la Curia, volle decorare l’altare della sua cappella gentilizia, ubicata nel transetto sinistro della Chiesa di San Francesco alla Rocca a Viterbo e dedicato a Cristo Salvatore.
Diversamente dalla Resurrezione di Lazzaro, Sebastiano completò in breve tempo la grande tavola di 270 x 225 centimetri che risulta pronta già prima del maggio 1516.
I giudizi su questo capolavoro sono stati fin da subito contrastanti, soprattutto perché Vasari parla di un cartone e di disegni preparatori eseguiti da Michelangelo e, sempre secondo il biografo, la Pietà «è opera di cui l’invenzione» sarebbe di Michelangelo. Tutto questo pose una lunga ombra sul ruolo di Sebastiano nell’esecuzione dell’opera.

In realtà il cartone di cui scrive Vasari non è stato mai ritrovato pertanto non abbiamo certezze sulla veridicità della notizia da lui riferita. Sembra piuttosto che Vasari voglia ignorare cosa sia un rapporto di collaborazione e quali siano i sistemi con cui funzionava una bottega, sebbene in questo caso non si tratti di un lavoro di bottega, ma forse solo di un rapporto di collaborazione. Peraltro un individualista come Michelangelo avrebbe sicuramente rivendicato per sé il successo di Sebastiano, invece sappiamo che ne rimase profondamente ammirato.
Certamente a Michelangelo va riconosciuto uno studio preparatorio conservato al Museo dell’Albertina di Vienna sulla posizione delle mani oranti della Vergine, ma nel Museo civico di Viterbo sono anche conservati alcuni studi preparatori e schizzi di Sebastiano relativi al volto della Vergine: questo fa pensare che Sebastiano non abbia utilizzato il presunto cartone di Michelangelo, perché non avrebbe senso aver studiato il volto della Vergine se questo fosse stato già pronto nella preparazione di Michelangelo.
La critica più recente ha allontanato questa teoria, restituendo il giusto merito al pittore veneziano, capace con quest’opera di sintetizzare il disegno toscano con il colorito veneziano, la magnificenza delle figure con l’armonia.
La Pietà è un’opera iconograficamente molto innovativa se non rivoluzionaria: Sebastiano non raffigura il tradizionale tema iconografico del Vesperbild nordico cioè della Vergine che tiene sulle ginocchia il corpo senza vita del Figlio (come nella celeberrima opera michelangiolesca di San Pietro), ma ritrae le due figure separate una dall’altra. Per gli stessi motivi iconografici il confronto con la Pietà del giovane Michelangelo, che non si era discostato dall’iconografia tradizionale, diventa particolarmente audace.
Se si considerano i precedenti iconografici, il Cristo in pietà sorretto da due angeli di Andrea Mantegna dello Statens Museum for Kunst di Copenaghen, la Pietà di Fra Angelico della Alte Pinakothek di Monaco di Baviera o la Pietà di Giovanni Bellini della Pinacoteca di Brera, non si trova nulla di simile in pittura, ma esistono esempi magistrali riguardanti il Compianto sul Cristo morto di Giotto nella Cappella Scrovegni a Padova, nel Cristo morto sempre di Mantegna a Brera e nel Compianto su Cristo morto di Perugino della Galleria Palatina a Firenze.
Pietà e Compianto sono due soluzioni tematiche e compositive diverse, ma un artista non ragiona con tale rigidità e se coglie una forma, un’immagine o una posizione del corpo, la può recuperare dal proprio serbatoio conoscitivo anche a distanza di anni e magari proporre l’immagine anche fuori dal suo contesto. Nell'opera viterbese le raffigurazioni di Vergine e di Cristo sono nettamente contrapposte anche dal punto di vista cromatico: la prima presenta un colore scultoreo, quasi pietrificato, mentre Cristo è caratterizzato da una delicatissima graduazione tonale, una morbidezza ed una trasparenza tipicamente veneziane.
L'opera di Sebastiano raffigura piuttosto che una pietà, un lamento ed un compianto: il corpo di Cristo non è adagiato sul grembo di sua madre, ma steso in terra. Tramite questa separazione fra le due figure il pittore riproduce, secondo Claudio Strinati, una sorta di «compianto universale in cui la storia sacra e la Natura partecipano della stessa situazione e la dimensione notturna si erge a simbolo assoluto».
Questa innovazione è dovuta alla volontà di restare fedeli al testo evangelico (in nessun Vangelo è infatti riportato l’episodio di Maria che regge fra le braccia il Figlio morto) ed alla volontà di chi ha anche scelto di rappresentare la Pietà in questa maniera tanto nuova. L’idea è di Sebastiano, ma non perché la Pietà di Michelangelo è così diversa da questa: dopo vent’anni da quando l’aveva compiuta, Michelangelo avrebbe potuto maturare nuove idee, ma nelle altre opere raffiguranti quel tema gli intrecci di personaggi sono tutt’altra cosa rispetto alla  composizione della pala,  ispirata ad un minimalismo che ricorda piuttosto Giorgione e le sue figure isolate nei paesaggi.
L’idea di togliere Cristo dalle braccia della Madonna si deve a Sebastiano e potrebbe aver pensato di farlo magari per affermare una propria indipendenza da Michelangelo, ma è improbabile che da solo l’artista si sarebbe spinto tanto oltre. La soluzione di Sebastiano, infatti, non solo contrasta con il modello michelangiolesco, ma viola una tradizione iconografica ben consolidata, arrivata in Italia da un secolo e cominciata in Germania almeno un secolo prima. Una tradizione cui lo stesso Michelangelo, pur con la gioventù commovente della sua Madonna, si era attenuto.
Nonostante l’esempio del Cristo morto di Mantegna, che Sebastiano avrebbe potuto conoscere attraverso qualche disegno giunto nella bottega di Bellini, nonostante l’esistenza dei Compianti scultorei bolognesi e modenesi, dove Cristo giace al suolo, e che tanto lui quanto Michelangelo potrebbero aver visto, Sebastiano non avrebbe osato tanto, correndo il rischio di non essere pagato. Si deve pensare quindi a Giovanni Botonti per quella vera e propria rivoluzione dipinta, una rivoluzione che non solo monsignor Botonti non ha impedito, ma che più probabilmente ha guidato, forse dal punto di vista iconografico e sicuramente da quello ideologico.
Quando si ha a che fare con una grande opera del Cinquecento, bisogna sempre tener conto del committente, senza il cui denaro un artista di propria iniziativa, non si sarebbe mai messo al lavoro, se non altro per il costo esorbitante dei colori: basti solo considerare a mo’ di esempio che la veste della Madonna è stata colorata, velando un fondo rossastro, che traspare nelle ombre, con un blu molto intenso e che quel blu era ottenuto polverizzando preziosi lapislazzuli. Quindi monsignor Botonti del quale Vasari non conosce neppure il nome, doveva essere abbastanza ricco da commissionare una pala per la sua cappella gentilizia e abbastanza competente di arte da affidarne l’esecuzione a Sebastiano del Piombo, con quanto, in quel momento, significava una commissione d’arte.
L’illustre ignoto di Vasari, monsignor Botonti era un umanista di grande spessore e un uomo di fede, esponente di quell’ambiente culturale viterbese, sensibile agli ideali di riforma della Chiesa Cattolica che gravitava intorno al teologo agostiniano Egidio da Viterbo  (1469 – 1532), e come lui era cosciente del profondo stato di crisi della Chiesa. È curioso osservare che mentre Sebastiano completava la Pietà, un altro monaco agostiniano, Martin Lutero stava compiendo la sua riforma.
Egidio da Viterbo era fra i fautori di quel culto del Corpo di Cristo, del Santissimo Sacramento, che si andava ampiamente diffondendo in quegli anni in base alla quale la Chiesa poteva risollevarsi solo tornando a meditare sul significato dell’offerta che Cristo ci ha fatto del proprio corpo.
L’iconografia della Pietà di Sebastiano si piega alla luce delle indicazioni di questa predicazione: quando si trovava nella sua collocazione originaria nella cappella Botonti, infatti, la pala presentava il corpo di Cristo come se fosse deposto sulla mensa del sottostante altare, a memoria del significato più profondo dell’Eucarestia, mentre Maria alludeva all’umanità in attesa della redenzione.
Il secondo elemento, che dà uno scarto rispetto all’iconografia tradizionale e che balza immediatamente evidente nel dipinto, è l’uso che del notturno, il secondo della Storia dell’Arte dopo quello di Raffaello della Liberazione di San Pietro nelle Stanze, ma è la prima pala d’altare in cui è rappresentato un notturno. La scena è, infatti, ambientata al chiaro di luna, ma in un’atmosfera nuvolosa, in una natura tempestosa nel cui cielo cupo si apre uno squarcio di blu, che richiama il manto della Vergine, e dal quale filtra la luce glaciale della luna. Per ottenere questo effetto Sebastiano ha chiaramente fatto ricorso al serbatoio della memoria: la lezione della pittura tonale di Giorgione.
In questo caso, oltre la sensazione atmosferica, il tonalismo consente al pittore di staccare molto efficacemente il primo piano dai piani di sfondo, dando notevole profondità al quadro, pur in assenza di prospettiva lineare. In seguito, questo effetto notte sarà utilizzato in maniera oltremodo scenografica da moltissimi pittori, soprattutto nordici.
Il dipinto ha una struttura compositiva nettamente ortogonale: la sua architettura è costituita dalla linea retta, bassa e orizzontale del corpo morto di Cristo – una metafora della morte terrena – che s’incrocia con la linea retta verticale della Madonna seduta che, con lo sguardo rivolto verso il cielo, sposta verso l’alto lo sguardo dell’osservatore – metafora della vita eterna.
Entrambe le figure prendono luce dal candore del sudario su cui giace Cristo, che diventa in questo modo la sorgente di luce del dipinto.
Al primo sguardo, quel Cristo morto in primo piano è sconvolgente: così solo come saremo tutti nel mistero della morte. Il bianco del lenzuolo lo isola dall’oscurità che avvolge il resto del dipinto. Uno squarcio luminoso nelle tenebre che quasi fa aleggiare quel corpo, ne accentua il colore livido della morte e lo trasforma in una visione che ci sconvolge dal profondo.
La figura di Cristo è di chiara derivazione michelangiolesca, ma non è michelangiolesco. C’è un richiamo a Michelangelo, non solo nell’indice della mano sinistra di Cristo che è identico a quello della Pietà di San Pietro, ma soprattutto c’è un richiamo alla Creazione di Adamo della Cappella Sistina: la posa della gamba destra e della mano sinistra e soprattutto la posizione del piede destro richiama direttamente la creazione di Adamo, quindi Cristo, morto e deposto a terra, è proprio il momento di una nuova creazione e sembra che il suo piede si stia muovendo per andare incontro alla nuova creazione.
Alcuni hanno voluto vedere nella raffigurazione di Cristo l’opera di Michelangelo: ma se si osserva con attenzione l’immagine, il collo di Cristo è quasi incollato alla spalla in primo piano che a sua volta è troppo rialzata, mentre nel braccio, ad un poderoso bicipite corrispondono un avambraccio debole e un polso quasi femminile. È impossibile che Michelangelo abbia disegnato qualcosa del genere e non ha disegnato neppure le mani e i piedi. Sono soltanto citazioni come accade di continuo nella storia dell’arte: la mano che vediamo più in alto è una citazione di quella dell’Adamo nella Creazione della Sistina, una citazione che certo allude alla Resurrezione, ma che è talmente letterale da non richiedere l’intervento di Michelangelo. Un’altra citazione è il piede in primo piano, con l’alluce così divaricato che si ritrova in tante opere di Michelangelo un piede che nel Cristo di Sebastiano è sproporzionatamente piccolo.
Nel suo insieme, nonostante i difetti anatomici che la sapienza pittorica di Sebastiano ha nascosto (e su questa scia lo stesso accadrà ad altri eminenti maestri veneti, non ultimo Tiziano), il Cristo morto ha una sensualità apollinea in contrapposizione alla figura della Vergine.
Analizzando con attenzione la fisionomia del volto di Cristo si riscontra una visibilissima somiglianza con i caratteri somatici del cardinale Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII.
Se si osservano i due ritratti di Clemente VII, dipinti dallo stesso Sebastiano e oggi alla Galleria Nazionale di Capodimonte a Napoli, sono sovrapponibili all’immagine del viso del Cristo e mostrano una corrispondenza quasi perfetta. Gli aspetti più significativi del volto, naso occhi e bocca, coincidono: anche la fronte presenta avvallamenti e prominenze analoghi e infine il mento che, se pur nascosto dalla barba, è volitivo nel Cristo come nel pontefice.
Questa somiglianza, così evidente, non appare casuale, soprattutto se consideriamo il rapporto privilegiato che legherà Sebastiano a Giulio de’ Medici, tanto che sarà lo stesso cardinale, diventato papa, a conferirgli nel 1531 l’ambito incarico di piombatore apostolico. Forse la genesi di questa protezione si deve ricercare, quando Sebastiano realizzava l’opera viterbese, con l’emergente Sebastiano che studia i lineamenti del cardinale de’ Medici e lo onora ritraendolo nel volto di Gesù.
La vergine è lì, seduta accanto al figlio, come in una solitaria veglia funebre, è resa ancora più sola dal suo immane dolore: non vi è nulla di tradizionale o di dolce in lei, le sue forme sono quelle di una popolana abituata al lavoro, sono le forme di una madre terrena, tutt’altro che regina coeli. Ella ha il volto di una madre cui sia morto un figlio, condannato senza una vera colpa a morire su una croce romana.  In questo emerge un’altra memoria del suo passato lagunare: il volto e l’espressione della Vergine che, nella sua immensa aderenza al realismo quotidiano, richiama Lorenzo Lotto. La stessa luce frontale che investe il Cristo illumina la Madre, come se ci fosse un faro o una luce radente di tipo caravaggesco che con questo sapiente uso delle luci, anticipa di un secolo i destini della pittura.
La luce fa del volto di Maria il secondo vertice drammatico del dipinto. Guarda in alto, verso il cielo: non sappiamo se prega, se si chiede il motivo o se sia valsa la pena o infine se spera affidando a Dio le spoglie mortali del Figlio. Il suo sguardo verso il cielo, in un muto dialogo con un Padre invisibile si fissa nella memoria dello spettatore e altrettanto fanno le sue mani, grandi, quasi virili, abituate alla fatica del quotidiano, unite in un gesto in cui sembrano unirsi preghiera e tormento, diventano anch’esse protagoniste del dramma.
Le mani della Madonna sono l’unica parte del dipinto che fu quasi certamente frutto del genio di Michelangelo: un suo disegno, conservato all’Albertina di Vienna, pare, infatti, raffigurarle.
Nel suo complesso, la Madonna non può essere basata su un disegno di Michelangelo perché, pur essendo michelangiolesche le sue proporzioni e l’architettura piramidale del suo corpo, proporzioni ed architettura sono troppo caricate perché siano di Michelangelo: il collo è toppo robusto per far pensare che sia opera di Michelangelo per il quale, com’è noto, l’anatomia era un gioco. Proporzioni ed architettura sono di Sebastiano, che le ha accentuate, cercando di imitare i modi di Michelangelo. La Vergine è ritratta in una posizione d’angolo, di spalla, in una torsione del busto tipica dei ritratti che Sebastiano aveva dipinto in quegli anni.
Sebbene la stessa struttura della Madonna vagheggi la struttura piramidale della Pietà di San Pietro ed alcuni critici hanno voluto vedere una sorta di somiglianza fra le due opere, al di là della struttura piramidale le analogie tra le due Pietà sono veramente poche: il volto della Pietà di San Pietro è improntato alla mesta dolcezza della figura di Maria, la Vergine in Michelangelo è estremamente ed eternamente giovane, per evidenziare che ella non è toccata dal peccato originale infine la madre ha in grembo il figlio e lo contempla in uno sguardo assolutamente fuori del tempo come se l’evento fosse permeato di eternità e nello stesso tempo ne fosse immerso. Tutti questi elementi furono pensati da Sebastiano in modo completamente differente.
In Sebastiano il volto di Maria è attraversato dal dolore, non malinconica dolcezza, è una donna che ha vissuto e non ultimo il dolore per la morte del figlio, ma soprattutto non si pone in un atteggiamento di contemplazione ma in una posizione di preghiera verso il cielo in una posa affine a quella della michelangiolesca Rachele della tomba di Giulio II che però è successiva all’opera di Sebastiano.
In Sebastiano Maria, che nella sua vita è andata meditando sulle cose che avvenivano – da quello strano annuncio a quella ancor più strana morte – e che non del tutto comprendeva, cede alla rassegnazione e si rende finalmente conto che quello non è un figlio per lei, ma un figlio che gli è stato donato e che a sua volta ella deve donare all’umanità per la sua salvezza, in perfetta attinenza con la dedicazione a Cristo Salvatore della cappella Botonti sul cui altare la tavola andava collocata.
Qualcuno ha voluto leggere nella preghiera della vergine rivolta al cielo una sorta di ringraziamento c’è quest’azione oblativa per cui la separazione fra madre e figlio non è una separazione solo di inquadratura e di impostazione architettonica del dipinto, quanto piuttosto un’illuminazione del mistero della morte e della resurrezione di Cristo.
Da tutto questo, è più conveniente pensare che sia stato Sebastiano a disegnare la Madonna e che per quanto riguarda le mani è probabile che Sebastiano, abbia chiesto a Michelangelo di mandargli disegni di mani e piedi che poi egli avrebbe usato nei suoi dipinti. Gli servivano dei modelli ed avrebbe avuto bisogno di molto tempo per disegnarli quindi dovette chiedere aiuto a Michelangelo per le mani giunte della Madonna, viste in una posizione poco usuale dal basso e difficili da rendere: a Michelangelo, invece, con la sua conoscenza dell’anatomia, sarebbe bastato un foglio di carta e qualche minuto. Ancora in una lettera del 1520, Sebastiano, oberato dal lavoro, dopo che la morte di Raffaello lo aveva reso il più importante pittore di Roma, chiese a Michelangelo schizzi di questi dettagli.
Vasari che attribuiva a Michelangelo l’esecuzione e l’attuazione del cartone della Madonna, riconosceva una potenza di luce a questo paesaggio nero, scuro attraversato da bagliori rossi in cui il terremoto sembra attraversare le case che nell’ombra e nell’oscurità, fugacemente illuminate con i bagliori rossastri dei lampi sembrano ancora muoversi. Forse rappresenta i dintorni di Viterbo e alcuni vi hanno voluto riconoscere il Bullicame, una sorgente di acqua sulfurea appena fuori della città. Sembra che Sebastiano abbia voluto dipingere lo scenario dantesco dell’infernale Flegetonte. È ipotetico non certo perché il paesaggio si intravede soltanto, a causa delle difficoltà ottiche, create magistralmente dal pittore, nella luce di una luna che sta sorgendo, cercando di farsi spazio fra le nuvole ed illuminandosi degli stessi colori di cobalto della veste della vergine. Questo paesaggio è, in sé e per sé, uno splendido brano di pittura, un “notturno sublime”, e una apprezzata novità nella Roma del tempo, che dimostrava le straordinarie doti colorista di Sebastiano e la sua perizia nella rappresentazione della campagna avvolta nelle tenebre.
È la prima volta che una pala d’altare ha un paesaggio così segnato da colori così tragici.
In questo stupefacente dipinto l’artista sintetizza il disegno toscano con il colorito veneziano e fonde armonicamente il pittorico del paesaggio con la plasticità delle possenti figure, in una sintesi che anticipa molta della successiva pittura del XVI e XVII secolo.
In questa struttura di drammaticità, ma anche di offerta e di mistero della salvezza, Sebastiano anticipa quello che è considerato il suo capolavoro, La sacra famiglia di Burgos dove la luce e l’elemento pittorico fiammingo veneziano si amalgamano con la struttura statuaria della vergine e il disegno ortogonale dell’impianto del quadro, la salvezza, il bambino reggerà il mondo in una mano e la madonna avrà le dita divaricate ad indicare i simboli della virtù e della salvezza.

Massimo Capuozzo

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