domenica 18 settembre 2016

Istanze tridentine nell'arte della Controriforma di Massimo Capuozzo

Quando furono istituiti i dipartimenti, sembrava solo un adempimento burocratico, ma pian piano diventò un momento di incontro e di confronto una felice occasione per parlare di didattica e per scambiare esperienze.
Il nostro mentore era Francesco Patrizio che ha sempre mostrato di credere in me, in noi, quando le nostre singolarità diventarono un plurale. Il dipartimento era numeroso. La nostra Filomena Pontecorvo, la cara Rosalba Mascolo, il compianto Gigi Attianese. Nel corso degli anni tuttavia la schiera, per non so dire quali lambiccate ragioni oltre ai pensionamenti e a qualche dolorosa perdita, si è andata assottigliando e questo se da una parte ci diede un maggiore senso di debolezza, dall’atro ci ha fatto maggiormente stringere le une alle altre. Poi le schiere si sono di nuovo rimpolpate e accanto a me e alle mie care Nella Aversa, Pina Castaldo e Anna Limodio si sono aggiunte Maria Antonietta Zeppetella del Sesto, passata ora alla presidenza, e Rosaria Menditti, animatrice dell’indirizzo turistico. Poi sono giunte la dolce Rosalba Grosso, la tenera Luisa Panariello, Giovanna Aspide, dolcissima ma forte, e poi ancora le vivacissime Antonella Ferrentino e Marica.
A tutte loro dedico questo mio lavoro, faticoso, che spesso per vicissitudini domestiche e per reali oggettive difficoltà di indagine avevo pensato di abbandonare. Ma gli incoraggiamenti di Anna e di Nella mi hanno spinto a continuare.
Non volevo deludere e volevo donare l’unico florilegio che sono in grado di donare un saggio di arte che spero che accetterete anche coi suoi vistosi limiti.
Una parola ancora voglio dedicare alle professoresse Rosanna Larosa che spesso collabora con il nostro dipartimento, mostrando per noi grande simpatia, e alla professoressa Ida Balì che ha spesso amabilmente apprezzato i miei scritti.
Incontri importanti che a volte il destino ci dona.
Con stima e affetto

Max

La Chiesa, l’arte e le immagini sacre. Un rapporto affascinante quanto complesso, non privo di tensioni e di contraddizioni durante un secolo, il Cinquecento, percorso da profonde e laceranti lotte religiose.
All’inizio del secolo, i fermenti che avevano già a lungo agitato la religiosità tardomedievale si coagularono nella Riforma protestante avviata nel 1517 da Martin Lutero e proseguita da Zwingli a Zurigo e da Calvino a Ginevra. I protestanti accusavano la Chiesa romana di aver perduto il senso di umiltà e di povertà che aveva caratterizzato la chiesa delle origini, lasciandosi allettare solo da potere, da ricchezza e da piaceri terreni.
L’attacco al tradizionale magistero della chiesa fu destinato a produrre effetti vastissimi a tutti i livelli. L’Europa occidentale fu spaccata a metà dalla riforma protestante: la parte centro-settentrionale aderì al Protestantesimo, quella meridionale rimase la roccaforte del Cattolicesimo.
Le conseguenze di questa spaccatura furono notevoli non solo sul piano politico, perché in gioco non c’era soltanto un contrasto teologico-dottrinale, ma uno scontro di potere che determinò un clima di guerra, combattuta con le armi dell’inquisizione, dello spionaggio e della caccia alle streghe. Questo clima si arroventò sempre di più con la conclusione del Concilio di Trento nel 1563. Le conseguenze si riverberarono profondamente anche sul piano socioculturale, quindi l’arte, il teatro, la musica, la letteratura e gli stessi stili di vita furono profondamente influenzati dalla diffusione delle problematiche teologiche e devozionali.
Il Concilio, convocato nel 1545 per tentare una ricomposizione tra cattolici e protestanti, diventò in realtà il luogo di elaborazione della nuova ideologia della chiesa romana che, con la sua Riforma, dava una risposta alla Riforma proposta dai protestanti.
La Chiesa romana non poteva ignorare la sua eccessiva mondanizzazione, ma il risultato degli interventi conciliari, più che ravvivare la fede dei credenti, produsse sostanzialmente un clima di maggiore severità e la risposta al Protestantesimo diventò l’intolleranza: si poteva essere imprigionati, torturati e condannati a morte per semplici reati di opinione, instaurando un clima di terrore che serviva ad arginare la diffusione dello scisma riformistico. Casi notevoli di questa intolleranza furono le vicende dapprima di Giordano Bruno e poi di Galileo Galilei: in pratica bastava avere idee diverse da quelle delle gerarchie ecclesiastiche per andare incontro ad accuse, processi, terrore e morte.
Fra i protestanti e la chiesa romana ci furono profonde divergenze anche sul piano artistico che produssero potenti contraccolpi. Allo sfarzo esteriore e all’eleganza tutta umana dell’arte rinascimentale, propri di una chiesa ormai mondanizzata, la Riforma protestante contrapponeva una religiosità che metteva in primo piano l’interiorità, la valorizzazione della fede e il ruolo imprescindibile della grazia divina nella salvezza dell’uomo. I nuovi edifici religiosi costruiti sotto l’influenza protestante mostrano, infatti, caratteri di funzionalità e di sobrietà e lasciano poco spazio alle preoccupazioni rappresentative. Lutero tuttavia, attento all’assimilazione della sua dottrina della fede, favorì sia il ruolo catechetico delle immagini, sia il principio della libertà individuale di utilizzarle e, sebbene non avesse abolito del tutto l’iconografia religiosa, la piegò alle proprie esigenze, conservando ciò che poteva rafforzare, sul piano del messaggio visivo, la nuova lettura del Vangelo richiesta dal canone luterano. La scelta degli artisti andava per lo più verso la raffigurazione letterale di «storie bibliche», mentre erano del tutto escluse le storie dei santi, pertanto utilizzò un’opportuna iconografia propagandistica delle sue idee riformatrici cui non sfuggirono artisti come Albrecht Dürer e Hans Holbein.
Posizioni estreme sulle immagini sacre furono invece quelle assunte da Huldrych Zwingli che, accusandole di essere uno strumento di idolatria, ne sosteneva la distruzione. Nell’Europa protestante non mancarono forme di profonda intolleranza, infatti, diversi riformatori protestanti, fra i quali il già citato ZwingliGiovanni Calvino e Andrea Carlostadio, appellandosi ai divieti del Pentateuco e richiamandosi ai Dieci Comandamenti, incoraggiarono la demolizione delle immagini religiose: immagini di santi o della Madonna, vetrate che raffiguravano eventi miracolosi o soprannaturali furono rimosse dalle chiese e dalle cappelle e spesso furono distrutte. Nel 1559 anche l’Inghilterra di Elisabetta accettò le tesi iconoclastiche e l’ondata del fanatismo percorse Svizzera, Germania, Francia, Paesi Bassi e giunse a fino alla Danimarca. Con la predicazione dei riformatori calvinisti l’impeto si abbatté sulla Scozia, riducendo in rovine secoli di civiltà. In Francia importanti edifici sacri come la Basilica di San Martino a Tours, la Basilica di Notre-Dame a Rouen e la Basilica di Santa Maria Maddalena a Vézelay furono bersaglio della violenza dei protestanti. Nel 1566 le Fiandre furono colpite dalla cosiddetta tempesta delle immagini quando folle inferocite, sobillate da predicatori calvinisti, in Olanda, Belgio e Lussemburgo demolirono centinaia di chiese cattoliche, cappelle, abbazie, monasteri e tutto ciò che contenevano; nella stessa Germania il patrimonio artistico fu talmente smembrato e devastato a causa dell’iconoclastia protestante, che Luigi I di Baviera nel 1842 scrisse: «Dove sorgeva la Riforma, tramontava l’arte figurativa». Simbolo di quel periodo di devastazioni fu la "Giornata del falso idolo", quando nella città di Ulma, nella Germania meridionale, i falò furono così tanti e alti da intossicare l’aria.
Quest’atteggiamento iconoclasta del Protestantesimo era in netta controtendenza con la chiesa cristiana che, in generale, aveva sempre avuto un rapporto fecondo con l’arte. Il Cristianesimo era stato infatti l’unica religione abramitica, l’unico monoteismo, che non aveva mai rifiutato la rappresentazione artistica di figure umane e di storie. Già durante l’Alto Medioevo la chiesa di Roma aveva assunto una posizione molto forte contro l’iconoclastia bizantina, mostrando un atteggiamento sempre tollerante verso la creatività degli artisti, anche quando, con l’avvento dell’Umanesimo e con il ritorno alla cultura classica, i precetti estetici e i miti rinascimentali portarono l’arte ad approdi eccellenti, ma poco ortodossi dal punto di vista religioso.
Nella vasta e complessa riforma della Chiesa, il Concilio di Trento nelle sue fasi finali s’interessò anche dell’arte religiosa, un problema che richiedeva un’urgente soluzione, perché i riformatori protestanti tendevano a valutare tutte le arti figurative come idolatre. Particolare rilievo ebbe nella realizzazione del XXV decreto del Concilio padre Diego Laìnez, successore di Ignazio di Loyola alla guida della Compagnia di Gesù
Padre Laìnez partecipò al Concilio di Trento fin dalle prime sessioni, dapprima come padre spirituale degli alti prelati, poi come consultore teologico, ed elaborò una vera e propria “teologia delle immagini” di cui rimangono degli importanti appunti che sono alla base del Decreto stesso. Padre Laìnez elaborò il complesso pensiero dei gesuiti riguardo alle immagini sacre ne difese la funzione simbolica, chiarendo che non si adorava l’immagine, ma ciò che essa rappresentava: «L’immagine non è intesa per quello che raffigura, ma in relazione al prototipo in esso raffigurato: Cristo, la Vergine, i santi».
Secondo Christian Hecht, la difesa delle immagini dei padri conciliari fu motivata da ragioni storiche e di tradizione, la cui autorità fu anteposta addirittura a quella dello stesso Pontefice: furono richiamate, infatti, come precedente storico le decisioni del secondo concilio di Nicea nel 786 che si era occupato dell’iconoclastia. Ma i padri conciliari andarono ben oltre: le conclusioni del dibattito in merito a questo tema furono raggiunte nella XXV e ultima sessione di lavori del Concilio di Trento, in cui si stabilì il principio che le chiese e gli altri edifici di culto dovessero essere luoghi in cui risultasse evidente la dimensione divina attraverso la magnificenza delle strutture e dell’arredo richiamandosi agli esempi testimoniati nel Vecchio Testamento in merito al Tabernacolo di Mosè e al Tempio di Salomone. Era stato inevitabile riallacciarsi a esempi biblici, specialmente perché il mondo protestante sosteneva che la magnificenza delle chiese fosse invece successiva all’Impero di Costantino e come tale non fedele all’originario messaggio divino. In quella sessione si era inoltre affrontato il problema della rappresentazione pittorica della divinità e si erano discussi i canoni in base ai quali essa doveva essere affrontata e valutata.
Neanche questo problema era trascurabile. I riformatori protestanti avevano duramente contestato alla chiesa l’uso delle immagini sacre, perché le consideravano sconvenienti o spesso oltraggiose e al limite della blasfemia: proprio nel Rinascimento l’iconografia sacra aveva, infatti, raggiunto un grado di inammissibile sensualità, di principesco sfarzo e di gravi difformità rispetto alle sacre scritture. Per queste ragioni i protestanti avevano per lo più assunto un atteggiamento iconoclasta, considerando la venerazione delle immagini, una superstizione alla stregua di un’eresia pagana: nei paesi tedeschi si era inoltre diffusa la moda di produrre immagini, spesso a stampa, di carattere irriverente o addirittura blasfemo nei confronti del Cattolicesimo. Per questo motivo i padri conciliari dovevano affrontare il problema per cui si rendeva necessario un rigoroso controllo sull’ortodossia delle immagini religiose.
Occupandosi inoltre di tutte le manifestazioni della fede, i padri conciliari ritennero anche necessario affermare il valore catechetico e devozionale delle immagini sacre che, in contrasto con il pensiero protestante, potevano essere invece utilizzate come strumento di insegnamento religioso e di contemplazione. Si stabilì pertanto che bisognava attribuire onore e venerazione alle immagini sacre, non certo perché in esse si riconosceva qualche essenza divina, come facevano i pagani di fronte ai loro idoli, ma piuttosto bisognava utilizzarle come modelli.
Se il loro valore catechetico consisteva nel fatto che il fedele doveva trarre dalle immagini un insegnamento morale, questo implicava grande attenzione al rapporto fra l’opera d’arte e la devozione del fedele, e si doveva mirare a tre elementi fondamentali: l’educazione del fedele, il rispetto per ortodossia cristiana e lo stimolo del fedele al messaggio devozionale cattolico.
Le conclusioni furono sancite da un decreto del 4 dicembre del 1563 Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini nel quale la Chiesa riaffermava gli antichi argomenti in favore delle immagini sacre, dichiarando che le pitture erano la Bibbia degli illetterati e che l’arte religiosa doveva essere al servizio della Chiesa, per l’adorazione di Cristo e della Madonna e per la venerazione dei santi, in netta opposizione al divieto del loro culto, propugnato invece dal Protestantesimo.
Le decisioni del Concilio, prese nel pieno del Rinascimento, appaiono come un arretramento alle posizioni della dottrina medievale e dispongono la necessità di un intervento diretto e rigido della Chiesa su ogni produzione artistica affinché «niente appaia disordinato, niente fuori posto e rumoroso, niente profano, niente meno onesto».
I decreti dettarono le norme per la produzione artistica commissionata dalla Chiesa[1].
Si doveva ritornare a composizioni semplici e di immediata comprensione quindi si dovevano raffigurare pochi personaggi che esprimessero tramite gesti chiari particolari atteggiamenti.
Si dovevano rispettare maggiormente le fonti bibliche e agiografiche perciò furono vietate le invenzioni gratuite e le immagini di nudi, divieto quest’ultimo che restaurò il pudore nell’arte sacra: alcune scene di nudo, infatti, furono «rivestite» per indicazione di papi o di prelati particolarmente zelanti.
Si doveva prestare particolare attenzione nel rendere l’arte un efficace strumento di propaganda delle dottrine controriformiste in modo che i contenuti delle opere d’arte toccassero i punti sui quali il Concilio di Trento aveva insistito, come ad esempio il culto mariano, il dogma dell’eucarestia come presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata, il pieno risalto all’intervento divino nella vita degli uomini.
Si incoraggiava la rappresentazione o la descrizione dell’esperienza mistica, che ebbe un periodo di particolare rigoglio nell’età della Controriforma.
L’arte doveva indurre alla preghiera, doveva quindi puntare al coinvolgimento emotivo del fedele, ma senza cadere mai in eccessi drammatici o teatrali.
Si consigliarono espressamente i martiri dei santi, soprattutto quelli più truculenti, e il tema del martirio diventò uno dei più ricorrenti fino a tutto il Seicento, quasi a testimoniare una nuova visione della religione, basata soprattutto sul dolore e sulla mortificazione.
Si raccomandò anche l’uso di colori non squillanti e di ambientazioni attendibili. In un certo senso, in quest’atmosfera buia, anche i colori si scurirono: sono sempre più gli artisti che, sulla scia di Caravaggio, affondano le loro immagini in una cornice di oscurità avvolgente.
I decreti conciliari introdussero infine il principio che tutte le opere d’arte destinate alle chiese o ad altri luoghi sacri, con eccezione delle destinazioni private, dovessero essere approvate dal vescovo della diocesi e, qualora non fossero conformi alle attese, potevano essere rifiutate o si poteva richiederne la modifica: qualora infine ci fossero stati casi dubbi o di controversia con l’artista, si sarebbe ricorsi all’insindacabile giudizio del Sant’Uffizio.
Padre Laìnez aveva avvertito però con estrema lucidità che l’uso delle immagini doveva essere corretto soltanto qualora si trattasse di autentico abuso, fornendo i criteri per comprendere cosa fosse abuso e cosa non lo fosse per evitare critiche scandalistiche da parte dei protestanti.
Investiti di questa grande responsabilità, i vescovi ebbero atteggiamenti diversi che andarono da un’ottusa e oscurantistica rigidità ad aperture critiche e intelligenti verso lo strumento della pittura. Lo strumento di controllo furono le Sante visite ossia gli interventi dei vescovi in visita pastorale per accertare lo stato della chiesa, del suo patrimonio, della sua anagrafe spirituale, dell’atteggiamento del clero e del popolo dei devoti con l’istituzione ecclesiastica.
Il controllo ecclesiastico in termini di committenza, ma anche di norme e pronunciamenti ufficiali di natura teorica e pratica fu fondamentale sulla natura, sull’uso e sulla forma delle immagini: l’artista non era più libero di agire secondo il proprio arbitrio figurativo, come vorrebbe il punto di vista moderno dell’autonomia dell’artista, poiché non produceva immagini per sé, ma per un contesto specifico e per destinatari con determinate aspettative, pertanto doveva trovare il sistema più efficace per trasmettere dei contenuti che gli erano forniti.
In questo modo la gara tra gli artisti si faceva sulle invenzioni compositive, sullo stile, chiamato a svecchiare e portare a maggiore verità formule iconografiche note e correnti, senza però contraddirne il senso, né spiazzare né confondere troppo lo spettatore; il pittore poteva, per un certo tema/soggetto richiestogli dal committente, presentargli più di una soluzione tra cui scegliere, ma il limite invalicabile nell’opera dell’artista era quello fissato dall’ortodossia e dal decoro.
I pronunciamenti in tal senso del Concilio di Trento furono fondamentali e disciplinarono la produzione delle immagini sacre, tendendo a correggere o ad eliminare dettagli o impostazioni fuorvianti ed evitando immagini di natura sensuale o percepite come tali dalla morale dell’epoca o ritenute sconvenienti, o infine che si riteneva potessero fuorviare il fedele.
Furono eliminate alcune iconografie non più accettabili sul piano teologico o formale, come l’immagine trifronte o tricefala del Cristo per rappresentare la Trinità, la cui origine iconografica risaliva ad alcune religioni precristiane veicolate successivamente nell’arte cristiana, o come la Madonna del Latte, in cui le rappresentazioni di Maria a seno scoperto erano accusate, per la sensualità del seno nudo, di distogliere i fedeli dalla preghiera. I vescovi ebbero il compito di valutare le varie rappresentazioni e di decidere se queste dovessero essere ritoccate, oppure rimosse. Nella diocesi di Milano, ad esempio, Carlo Borromeo trovò sconvenienti tali immagini molto diffuse nell’area brianzola e provvide in molti casi a farle coprire con ritocchi; inoltre alcune chiese intitolate alla Madonna del latte, cambiarono denominazione.
L’importanza del decoro, inteso come appropriare una forma a un contenuto o adeguare l’oggetto-immagine al contesto cui è destinato, si evince da celeberrimi rifiuti come nel caso di Caravaggio. Nella Cappella Contarelli della Chiesa di San Luigi dei Francesi, Caravaggio lavorò in due riprese, dipingendo quattro tele: due sulla Conversione di San Paolo e due sulla Crocifissione di San Pietro, per il fatto che le prime versioni di ognuna, ritenute troppo audaci per motivi percettivi, furono rifiutate dai committenti; nella Basilica di Santa Maria del popolo, il quadro dell’altare della Cappella Cerasi con San Matteo e l’angelo, Caravaggio realizzò una prima versione, che fu rifiutata per motivi teologici, infatti, si vedeva san Matteo con l’aspetto di un popolano quasi analfabeta, al quale l’angelo dirigeva la mano per farlo scrivere.
Tuttavia, diversamente da quanto avvenne nel caso della produzione a stampa di libri o di opere scientifiche, in campo artistico non ci furono atteggiamenti di grave intolleranza o di censura, anche perché gli artisti, fiutato il mutato clima di morigeratezza, evitarono l’uso eccessivo del nudo, soprattutto di quello femminile, che, se non scomparve del tutto, fu usato in modo più castigato e meno sensuale e i soggetti mitologici, che neppure scomparvero, ma furono riservati solo alle opere laiche per la committenza privata.
L’unico caso noto di procedimento inquisitorio nei confronti di un artista fu quello a carico di Paolo Veronese, per la Cena in casa Levi, ma anche qui non ci furono soluzioni radicali e il compromesso fu presto raggiunto con qualche piccola modifica e con il cambio del titolo all’opera.
Nel 1573, Paolo Veronese aveva completato una colossale tela, oggi presso le Gallerie dell’Accademia, per il Convento dei Santi Giovanni e Paolo dei domenicani di Venezia, per sostituire un dipinto di Tiziano andato distrutto nel 1571.
Il tema doveva essere quello dell’Ultima cena, ma Veronese lo affrontò da un punto di vista molto innovativo e particolare. La scena si svolge, infatti, con troppa abbondanza di personaggi e di dettagli, sotto un luminoso portico in stile palladiano. Sebbene fosse uno dei momenti salienti della vita di Gesù, l’attenzione non è concentrata sulla tavola, dove si sta compiendo il rito della comunione, ma è distratta da mille altre scene collaterali che non hanno niente a che fare con la vicenda biblica, ma che contribuiscono a dare un tono realistico alla scena. Il tema della transubstanziazione, che è peraltro uno dei dogmi più attaccati dai protestanti, è trattato dall’artista con leggerezza e mondanità tutta umana oltre che con inattendibilità storica. Per i dettami del Concilio tutto questo era inammissibile e Veronese fu convocato davanti al tribunale ecclesiastico, contattato dal priore della Basilica per dare spiegazioni. Veronese non accettò le richieste di modifiche al dipinto e, chiamato a esporsi di fronte al Tribunale del Sant’Uffizio nel luglio 1573, il pittore difese coraggiosamente le proprie scelte di artista, dapprima appellandosi alla libertà che gli artisti e i poeti si prendono per dare libero sfogo al loro potere immaginifico, poi analizzando e motivando la presenza e la disposizione di alcune figure contestate dall’organo religioso. Alla fine della contesa, Veronese non fu condannato, ma fu costretto a modificare il nome dell’opera e ad ascrivere il nuovo titolo sul parapetto della scala in primo piano, una scelta che comunque il pittore preferì alle modifiche che gli erano state richieste.
Il nuovo titolo del dipinto divenne La cena a casa di Levi che ricalca un episodio del Vangelo secondo Luca in cui Matteo, o più precisamente Levi, ricco pubblicano noto per i suoi bagordi, prepara una grande festa e organizza un ricco banchetto nella propria casa per Gesù durante il quale si converte, prendendo il nome di Matteo.
Il dibattito sulle immagini sacre diede origine alla nascita di importanti trattati, pubblicati per istruire gli artisti alle nuove norme compositive e raffigurative.
Il primo in ordine di pubblicazione è il trattato Due dialoghi degli errori de’ pittori di Giovanni Andrea Gilio del 1564, che mostra un atteggiamento molto conservativo se non addirittura reazionario soprattutto nel secondo dialogo, in cui «si ragiona de gli errori e degli abusi de’ pittori circa l’historie, con molte annotationi fatte sopra il Giuditio di Michelangelo et altre figure, tanto de la vecchia quanto de la nova Capella; et in che modo vogliono essere dipinte le sacre imagini».
Il punto fermo rimane per Gilio l’esigenza del decorum, inteso però soprattutto come adeguamento e come rispetto pedissequo dei testi sacri. Da questa esigenza deriva un’approfondita invettiva contro gli abusi dei pittori e le ormai note critiche al Giudizio michelangiolesco. Il primato dell’historia, che per Gilio è la storia narrata dalle Scritture e dalla letteratura agiografica, filologicamente riveduta e corretta, non può dunque essere discusso, anche perché qui si superano i limiti di una libertà interpretativa che era diventata problematica proprio con la Riforma e proprio a partire dal testo e dalla storia sacra.
D’altra parte le evidenti necessità di ordine pratico, derivanti anche dall’analisi di un ampio ventaglio di esempi concreti, spingono Gilio ad individuare e mediare tra tre diverse categorie di pittore: lo storico, il poetico e il misto, che poi, nella prassi, finisce per essere la categoria dominante. Lo stesso Gilio, infatti, è costretto a riconoscere che talvolta solo scostandosi dalla lettera del testo si può ottenere quell’efficacia didascalica e psicagogica che per lui, come per la maggior parte dei trattatisti tridentini, costituisce il fine morale della pittura religiosa.
L’accoglimento del decreto tridentino presenta un progetto d’arte cristiana anche da parte dello storico e teologo cattolico Jan Molanus (1533 - 1585), professore e in seguito rettore all’università di Lovanio, fra le cui opere figura uno studio sul diritto sulle immagini con contenuti religiosi il cui titolo è De Picturis et Immaginibus Sacris, pro vero earum usu contra abusus. Quest’opera, pubblicata a Lovanio nel 1570, è interessante poiché proviene dai Paesi Bassi meridionali, quindi da un terreno minato dalle lotte religiose, e fu ben presto letta avidamente in ambito cattolico. L’opera rappresenta una presa di posizione verso la contesa iconoclastica del Protestantesimo, ma affronta anche il problema delle ingenue sconvenienze delle figurazioni popolari, che davano particolare occasione agli attacchi degli avversari. A tale proposito Molano stabilisce per ogni santo e per ogni mistero del calendario liturgico la corretta iconografia: «Le pitture sono dette i libri dei laici e degli idioti; (...) dunque quello che è proibito nei libri, è proibito anche nelle pitture». Nell’apertura alla devozione è pure presente un realismo naturalistico e storico, fedele al testo scritturistico, attento alla memoria corretta della storia della Chiesa, a rappresentare la natura come disegno di Dio, per la riforma della vita cristiana.
Siccome le prescrizioni conciliari sull’architettura erano state alquanto generiche, nel 1577, Carlo Borromeo, cardinale, arcivescovo di Milano, pubblicò il trattato Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae. Grande difensore del valore didascalico ed educativo di una pittura ortodossa, Carlo Borromeo aveva già preso parte attiva al dibattito sulle arti durante il Concilio e redasse il suddetto trattato sulla costruzione e sull’arredamento dei luoghi di culto. Lo scritto di Borromeo attesta il controllo episcopale sugli artisti e sul clero: «Ogni immagine risponda pienamente alla verità della Scrittura, della tradizione, della storia ecclesiastica e agli usi di santa chiesa».
Le Instructiones furono la risposta più articolata ed autorevole della Chiesa controriformata a tutte le accuse e agli attacchi mossi nei decenni precedenti dal mondo protestante in materia di edifici ecclesiastici e dei loro arredi.
Nel trattato furono enunciati i dettami di come doveva essere eretta e arredata una chiesa (o altro edificio ecclesiastico) e i principi fondamentali per la riforma dello spazio sacro. Si mise in evidenza soprattutto la scansione gerarchica tra navata e presbiterio e si conferì un ruolo centrale al Santissimo Sacramento, collocandolo sull’altare maggiore.
San Carlo durante il Concilio, era stato segretario di Pio IV Medici, ma le sue prescrizioni furono il risultato di diversi sinodi provinciali che si tennero negli anni successivi alla chiusura dell’assemblea trentina.
Nel 1582 fu pubblicato il Discorso intorno alle immagini sacre e profane del cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), arcivescovo di Bologna nel 1576, la cui figura intellettuale è stata particolarmente indagata negli ultimi decenni dalla storiografia bolognese.
Ispirato alla precettistica tridentina, il Discorso intorno alle imagini sacre e profane, si prefiggeva come Gilio di combattere gli abusi dovuti «all’ignoranza dei pittori circa le realtà soprannaturali, naturali e umane» e proponeva, inascoltato da Roma, un Indice delle immagini proibite, con un atteggiamento centralista della Chiesa e con un dirigismo in tema di forme devozionali. Il compito del pittore per Paleotti doveva essere «l’imitare le cose nel naturale», in tal modo sarebbe potuto risultare comprensibile a tutti e assicurare alla pittura un valore didattico popolare. Il fine irrinunciabile al quale il pittore doveva puntare era: «la pittura, la quale ha da servire ad huomini, donne, nobili, ignobili, ricchi, poveri, dotti, indotti et ad ognuno in qualche parte, essendo ella il libro popolare, dovesse ancor essere formata in modo che proporzionalmente potesse saziare il gusto di tutti». Ogni artista che nei soggetti sacri non rispettasse la verità storica era invece da condannare.
Partendo da queste premesse, Paleotti afferma che l’arte debba «illuminare l’intelletto, eccitare la devozione e pungere il cuore» attraverso l’ordine, la chiarezza, la semplicità, il controllo della forma, il rifiuto delle stravaganze del Manierismo.
Il Discorso del Paleotti ebbe una grande influenza presso molti pittori, in particolar modo per coloro che si formarono nella Bologna di fine Cinquecento, da Bartolomeo Cesi ai Carracci e ai giovani dell’Accademia degli Incamminati. Nel dialogo che Paleotti intrattiene con gli artisti del suo tempo, da Bartolomeo Cesi a Camillo Procaccini, dai Carracci a Lavinia Fontana, prende voce anche l’ineludibile conflitto tra committenza pubblica e privata e le sue regole si diffusero in tutta Italia e nell’Europa cattolica.
Il punto di partenza per una disamina dell’arte riformata, sia della trattatistica sia delle rappresentazioni pittoriche, è inevitabilmente il citato decreto conciliare sulle immagini sacre. Se il primo obiettivo di tale deliberazione era ribadire il valore pedagogico e religioso delle immagini di fronte alle critiche riformate, fu nello stesso tempo l’occasione per porre un freno al proliferare di iconografie sempre meno ortodosse o dettate da credenze superstiziose.
Intanto occorre ricordare che non fu facile per gli artisti del maturo Rinascimento abbandonare la cultura paganeggiante e adeguarsi al nuovo clima controriformista. L’intenso e appassionato dibattito sull’immagine sacra e la sua applicazione nell’arte fu complesso e dinamico, fatto di equilibri a volte riusciti e a volte falliti tra esigenze talvolta molto diverse talvolta addirittura divergenti. C’erano le esigenze del committente, spesso laico, che poteva fornire indicazioni iconografiche e anche tecniche, c’erano poi quelle della chiesa – da riferirsi spesso a vari ordini religiosi con altrettanto varie esigenze, che comunque doveva rimanere custode dell’ortodossia teologica in un’epoca di violente divisioni. Parallelamente c’erano le esigenze dell’artista, che oscillavano tra ambizioni e affermazione del proprio ruolo sociale. Tensioni e instabilità erano dunque inevitabili.
Tra i pittori che mostrarono un più rapido aggiornamento al dettato tridentino, è significativa la posizione dell’artista urbinate Federico Barocci, detto il Fiori (1535 – 1612), uno dei più importanti pittori di pale d’altare della sua epoca, considerato dai contemporanei il degno erede del suo conterraneo Raffaello.
La sua prima formazione era avvenuta presso la bottega di suo padre Ambrogio, uno scultore di origine milanese che frequentava la corte di Urbino. Barocci studiò da vicino l’opera di artisti come Tiziano (1485 - 1576), Raffaello (1483 - 1520) e soprattutto Correggio (1489 - 1534), che influirono molto su di lui, sebbene egli sia stato in realtà un riformatore dell’arte, proiettato verso il futuro e non un semplice manierista cioè  ammiratore e puro imitatore del Rinascimento. Barocci invece, come molti storici dell’arte lo definiscono, è un capostipite della pittura barocca che seguiva però, applicando alla perfezione il principio rinascimentale dell’armonia fra natura e idea, senza  estremizzare né uno né l’altro elemento. Ciò che garantiva tale perfezione era soprattutto la minuziosa e organizzata arte del disegno preparatorio. Come Leonardo, Barocci partiva sempre dall’osservazione del reale per realizzare i suoi modelli da cui derivavano composizioni immuni da ogni forma di artificio e dotate di una grazia spontanea e naturale nonostante la complessa elaborazione.
A Roma Barocci lavorò presso la bottega del pittore marchigiano Taddeo Zuccari (1529 – 1566) e la sua carriera fu tanto folgorante da suscitare l’apprezzamento dell’ormai vecchio Michelangelo, ma anche l’invidia di pittori che operavano in quegli anni a Roma. Secondo alcune fonti, pare che alcuni di essi, gelosi del successo di Barocci, abbiano tentato di avvelenarlo. Da questa tragica esperienza uscì fortemente debilitato e, ritornato a Urbino, non volle più spostarsi. Giorgio Vasari (1511 – 1574) definì Barocci un giovane di grandi aspettative e Gian Pietro Bellori (1613-1696), il massimo biografo dell’età barocca, lo considerava il maestro assoluto del suo periodo.
Cronologicamente la formazione di Barocci coincide con il momento culminante del Manierismo la cui parabola si colloca fra il 1520 – anno della morte di Raffaello – e il 1527 - anno del Sacco di Roma - e si può considerare conclusa con il Concilio di Trento, che nel 1563 chiese agli artisti di raffigurare nelle opere soggetti semplici e di facile comprensione, il contrario di quanto realizzavano i manieristi.
Il mutato clima culturale aiuta a comprendere l’originale stile di Barocci, frutto della sua adesione alla Controriforma: la sua attività si svolse, infatti, tutta all’insegna dell’arte riformata, un’arte che condizionò la sua lunga e fruttuosa carriera, grazie anche alla sua familiarità con San Filippo Neri (1515 – 1595) che gli commissionò una pala d’altare con la Visitazione per la Cappella Pizzamiglio nella sua Chiesa di Santa Maria in Vallicella.
A questo punto occorre soffermarsi sull’importanza della committenza nella realizzazione di un’opera nel contesto dell’arte riformata. Il fervore religioso nato dal Concilio portò anche a una maggiore attenzione per i cicli iconografici, che dovevano recare in sé un preciso e chiaro contenuto teologico aggiornato sui decreti conciliari.
Le tele delle cappelle laterali della Chiesa di Santa Maria in Vallicella, dove San Filippo Neri aveva fondato la congregazione degli Oratoriani, sono espressione puntuale della predicazione e della catechesi della Chiesa abituata nei secoli a dipingere i misteri di Cristo cioè gli eventi della vita di Cristo insieme al loro significato salvifico. In questo senso i misteri non sono soltanto quelli che i singoli evangelisti raccontano di un episodio evangelico, ma sono piuttosto quell’evento considerato alla luce di ciò che Gesù intendeva manifestare operando quell’evento. Nel termine mistero è implicito, in sostanza, il fatto reale, storico, unitamente alla significatività salvifica di quell’evento capace di cambiare la storia e i cuori degli uomini.
Nel mistero dell’Annunciazione, l’angelo Gabriele mandato da Dio era andato da Maria e le aveva annunciato un figlio, il figlio di Dio e sempre a lei, essendo ella turbata poiché non capiva come potesse essere successo, dal momento che non aveva ancora conosciuto uomo, l’angelo aveva rivelato che anche sua cugina Elisabetta era in attesa, nonostante la sua età matura e la supposta sterilità ed aveva aggiunto che a Dio nulla è impossibile. Dopo l’annuncio e dopo aver ricevuto lo Spirito Santo, Maria si era messa in viaggio per la Giudea, per andare proprio da Elisabetta alla quale avrebbe offerto il suo aiuto, almeno fino al momento della nascita del bambino, suo nipote.
Nella Visitazione Barocci raffigura Maria che, con tutti quei pensieri per lei incomprensibili, ha finalmente raggiunto la casa della cugina, che la accoglie in una calorosa stretta nel portico della sua casa. Nel volto di Elisabetta c’è la percezione di trovarsi di fronte alla donna che portava in grembo il Messia e loda Maria per essere stata degna e disponibile al progetto di Dio «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo. A che devo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». Maria riceve in quel momento la conferma della veridicità delle parole dell’Angelo e come risposta alla lode di Elisabetta, Maria esprimerà il ringraziamento a Dio attraverso quello che è conosciuto come il Magnificat riportato dall’evangelista Luca, un cantico sublime, bello e terribile, denso di reminiscenze bibliche dove si rende grazie a Dio che preferisce chi lo teme, gli umili e gli affamati, rispetto ai superbi, ai ricchi e ai potenti.
Soltanto Maria non pare sorridere nella gaiezza generale della scena, forse perché presaga del suo destino, forse perché sta cominciando a intuire la tragedia che si abbatterà su di loro.
In questa tela l’artista propone la stessa atmosfera domestica del testo evangelico e traduce non con magnificenza aulica, ma con tono facile e comprensibile, quella felice occasione che è familiare per le due donne e lo diventa anche per lo spettatore.
Alla fastosa retorica manierista si sostituisce un linguaggio semplice e diretto, che sfiora l’animo del fedele accarezzandolo e commovendolo, guidandolo infine al sentimento più puramente devoto.
Questa tela, considerata dai contemporanei di Barocci raffinata per la sua capacità di unire attraverso l’uso del colore delicatezza e sensualità, fu dipinta tra 1583 e il 1586 in «maniera sì bella, sfumata, dolce e vaga». Barocci, infatti, non lasciò nulla all’improvvisazione ne studiò meticolosamente la creazione, secondo le sue abitudini compositive.
La prospettiva, secondo una bella suggestione della pittura nord italiana del brano architettonico sotto a un arco, apre lo sguardo su un paesaggio suggestivo, nella parte retrostante come uno squarcio di realtà implicito nell’estensione del sistema prospettico fino alla figura femminile che indossa una veste gialla, che occupa la stessa posizione dello spettatore che osserva la scena, mentre un’altra figura di un anziano, forse Giuseppe che raccoglie il suo sacco, si muove fuori della composizione per collegarsi al pubblico, e ancora Zaccaria, alle spalle del gruppo centrale di Elisabetta e Maria che appare sull’uscio della casa.
In questo modo Barocci si sposta dalla superficie del piano unico della pittura manierista e sviluppa la profondità con la modulazione morbida e cangiante dei colori e degli effetti chiaroscurali vibranti di emozioni e con figure che trascinano lo spettatore nell’opera, quindi con le fisionomie gaie e i gesti naturali e spontanei della vita di tutti i giorni.
Nel dipinto sono bellissimi i dettagli: le due mani che si stringono calorosamente, la mano anziana di Elisabetta e quella giovane e delicata di Maria; l’asino spettatore dell’evento e le gallinelle nella cesta che ci comunicano che questa storia è viva nel presente. Tutto è intriso di una grazia e di una brillantezza tali che, secondo le parole di Nicholas Penny, «Barocci non è mai stato superato per le armonie di colori originali e ricercate, per la dolcezza del sentimento, per le composizioni irresistibili e vertiginose. Ha reso il sacro nello stesso tempo divinamente bello e irresistibilmente umano». L’opera era particolarmente cara a san Filippo Neri la cui spiritualità cercava di ricollegare il regno dello spirito con la quotidianità della vita delle persone: in questa Visitazione colpisce, infatti, l’ambientazione quotidiana e la particolare resa della luce che, fin dagli esordi, caratterizzò lo stile di questo pittore i cui colori iridescenti e delicati riflettono da un lato la cultura artistica in tumultuosa trasformazione nell’ultimo scorcio del Cinquecento e dall’altro la spiritualità intensa e gioiosa che caratterizza il fondatore della Congregazione dell’Oratorio.
Nella Visitazione, Barocci continua a sviluppare attraverso la poetica del colore una strategia di coinvolgimento emotivo: utilizzando un sistema di colori atto a creare un impatto emotivo, usa accostamenti cromatici molto diversi, e una qualità iridescente, come si osserva con il tessuto giallo svolto nella più ampia tonalità chiaroscurale.
La pala si allontana dal precedente stile accademico che aveva caratterizzato la Deposizione di Cristo di Perugia, databile fra il 1567 e il 1569, ma segue invece il programma della Controriforma con una connessione mistica alla spiritualità.
San Filippo Neri amò tanto quest’opera che secondo la tradizione ne suscitò le estasi. Nel 1593, Barocci realizzò la pala con la Presentazione della Vergine al tempio, nella cappella Cesi nel transetto di sinistra della stessa chiesa.
Come molti dipinti della seconda metà del Cinquecento, anche le opere di Barocci – da molti considerato l’anello di connessione tra le distorsioni forzate del Manierismo e il dinamismo del Barocco –, sono piene di figure rappresentate in vigorosa azione, ma Barocci, pur rimanendo fedele al Manierismo caratteristico della sua epoca, ebbe con esso un approccio originale, per l’uso drammatico della luce e per una spiritualità molto esaltante. Dimostrò una sensibilità unica nel rendere con colori caldi, emozionanti e affascinanti figure realistiche e delicatamente espressive; aderendo alle nuove regole compositive dettate dalla Controriforma, la sua arte conserva il ricordo dello stile raffaellesco e rappresenta una visione aggraziata e soave dell’iconografia sacra, su modello di Correggio e sull’esempio della lezione leonardesca[2].
In contrapposizione ai temi gioiosi che caratterizzano il quadro di Barocci, Scipione Pulzone da Gaeta (1540-42 – 1598), ottimo pittore tardocinquecentesco, messo in ombra oggi dall’arte di Caravaggio, offre un moderato e sobrio senso patetico nella sua Pietà del 1593, ora al Metropolitan Museum di New York, mentre al suo posto oggi si trova una bella Deposizione dell’artista bosniaco Safet Zec (1943).
Scipione Pulzone, conosciuto anche come Scipione Gaetano, o semplicemente come Il Gaetano, è uno fra i più originali esponenti della pittura nell’età della Controriforma e fra i più apprezzati artisti attivi nel territorio romano nella seconda metà del Cinquecento.
Pulzone fu riscoperto da Federico Zeri, autore del saggio Pittura e Controriforma. L’arte senza tempo di Scipione da Gaeta, edito nel 1957.
Pulzone probabilmente si formò presso il pittore fiorentino Iacopino del Conte (1515 – 1598), un artista assai vicino alla pittura fiamminga e veneta, soprattutto a quella di Sebastiano del Piombo (1485 – 1547). Sviluppò un linguaggio pittorico alquanto originale ed efficace che si finì in un percorso stilistico in cui erano armonizzate esigenze tradizionali a quelle religiose. Oltre ad essere un abile ritrattista, nell’età della Controriforma Pulzone fu uno fra gli artisti più ricercati dalla committenza religiosa. Fu console dell’Accademia di San Luca e a capo della Congregazione dei Virtuosi al Pantheon un’accademia pontificia nata nel XVI secolo, avente lo scopo di favorire lo studio, l'esercizio e il perfezionamento delle Lettere e Belle Arti, con particolare riguardo alla letteratura d'ispirazione cristiana e all'arte sacra in tutte le sue espressioni, e di promuovere l'elevazione spirituale degli artisti, in collegamento con il Pontificio Consiglio della Cultura.
Le opere a tema religioso di Pulzone eseguite in piena autonomia, come ad esempio la Sacra Famiglia, testimoniano quello che poi fu definito dagli studiosi a proposito della sua pittura, un’arte senza tempo: uno stile difficile da inserire in uno specifico contesto storico, basato su un sapiente impiego di elementi arcaicizzanti, che ispirano sentimenti di pietà e devozione, spingendo il fruitore alla meditazione religiosa.
La pittura di Pulzone, ad eccezione della sua consistente produzione ritrattistica, è soprattutto legata al suo periodo e alla sua particolare committenza (prevalentemente gesuita), e rimane uno dei punti di riferimento di quel brevissimo e non troppo chiaro periodo artistico.
Vicino ai gesuiti, Scipione Pulzone dipinse la pala d’altare della Pietà per la Cappella della Passione del Cristo nella Chiesa del Gesù a Roma, quartier generale dell’ordine dei gesuiti. Anche in questo caso c’è una grandissima attenzione al programma iconografico. Le scene della Passione, iniziano dalle lunette (Gesù nell’Orto di Getsemani, il Bacio di Giuda) e proseguono in sei tele, quattro sui pilastri (Cristo alla colonna, Cristo nel Pretorio, Cristo da Erode, l’Ecce Homo) e due sulle pareti (la Salita al Calvario, la Crocifissione) e finivano con la pala d’altare della Pietà di Pulzone.
La pala della Pietà ebbe una vicenda curiosa. Secondo la tradizione, Pulzone l’aveva dipinta per l’altare della Cappella di Sant’Andrea, ma poi fu rimossa probabilmente su pressione di Federico Zuccari che aveva curato tutta la decorazione della cappella e fu collocata nella Cappella della Passione di Cristo; in seguito la pala andò dispersa e infine fu riconosciuta da Federico Zeri in un’asta di New York nel 1946 ed acquistata dal Metropolitan Museum. Federico Zeri ritiene più verosimilmente invece che l’opera sia stata eseguita direttamente per la Cappella della Passione quindi a completamento dell’insieme ideato e diretto da Padre Giuseppe Valeriano, anzi così strettamente connesso, che un documento segnala un acconto per la pala versato dai committenti nel febbraio 1590 allo stesso Valeriano.
Il tema del Lamento sul Cristo morto, che si inserisce fra il momento della crocifissione e quello della deposizione nel sepolcro, si era sviluppato parallelamente alla sensibilità ispirata alla devozione dell’incarnazione, messa alla prova della morte.
Il dipinto si inserisce perfettamente nella produzione artistica successiva al Concilio di Trento, e, anche più vistosamente di quella di Barocci, esprime chiaramente questo nuovo orientamento, attraverso una composizione molto semplice, con pochi personaggi, tutti immediatamente riconoscibili e con un abbigliamento consono alla tradizione, che non dà spazio ad una possibile ambientazione della vicenda nel presente.  La tela di Pulzone è concepita non come una narrazione, ma come una meditazione sulla morte di Cristo, in linea con gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola.
Per avere un’idea più precisa della nuova interpretazione dello stesso tema nell’arte riformata, è opportuno l’immediato richiamo al Compianto sul Cristo morto di Rosso Fiorentino. In questo dipinto del Rosso, conservato a Sansepolcro nella Chiesa di San Lorenzo, tutto lo spazio compositivo è affollato da una moltitudine di personaggi, non tutti facilmente riconoscibili, perché alle figure canoniche protagoniste dell’episodio se ne aggiungono altre, alcune delle quali, profondamente inquietanti che emergono dall’oscurità con tratti surrealisticamente mostruosi. L’abbigliamento tanto ricercato e la realizzazione delle acconciature, visibile soprattutto nelle due donne in primo piano, una delle quali è la Maddalena, non trova nessun riscontro nella sobrietà proposta da Scipione Pulzone.
Nel dipinto di Pulzone tutta la composizione si articola intorno al corpo di Cristo, adagiato sulle ginocchia della madre e sostenuto da Giuseppe d’Arimatea, mentre Giovanni regge la corona di spine. Tutti i personaggi occupano il primo piano, ruotando intorno alla figura di Cristo che, disteso sulle gambe della Vergine, raccorda le quattro figure principali, mentre le due donne in piedi sul lato sinistro sono più decentrate. Il pallore esangue del corpo languido, appena segnato da qualche traccia di sangue all’interno delle ferite, contrasta con i colori vivi dei mantelli rosso e blu di coloro che lo circondano. Prima della sua sepoltura, Cristo è in questo modo offerto alla meditazione dei fedeli che sono invitati a condividere l’emozione delle donne piangenti o della Maddalena, dai lunghi capelli dorati, immersa nel suo dolore e assisa ai piedi del suo Signore.
Alle loro spalle, in secondo piano, appaiono i primi chiarori dell’alba, un’alba che spunta già sotto le nubi, lasciando sperare nella resurrezione. Si apre un paesaggio montagnoso e lacustre – delimitato dai due uomini posti ai lati che trasportano le scale – organizzato in modo tale da indirizzare lo sguardo verso il punto focale della composizione, grazie alle linee oblique dei profili rocciosi che convergono verso il centro.
I colori utilizzati, molto luminosi, contribuiscono a dare maggiore plasticità alle figure, dai cui volti traspare un’espressione di dolore e di pateticità comunque contenuta che non arriva ed esplodere in un eccesso di pathos. I rapporti volumetrici e cromatici sono scanditi da un metro misuratissimo, contro un fondo che non è più unito, ma che si apre in un calmo e ampio paesaggio, dove lungo un torrente, le capanne dei pastori sorgono accanto ai ruderi di fortificazioni medievali; e sotto le due scale parallele (quella a destra sorretta da un vecchio in cui forse si deve identificare il ritratto del Padre Valeriano) i colori si stendono in zone piane, aperte, sonoramente pure, dove domina l’azzurro della Vergine. La vicinanza con le tempestose composizioni di Padre Valeriano ed eseguite da Gaspare Celio doveva accrescere, per forza di contrasto, il significato di questa pala, nella quale il momento supremo del dramma si placa in una cristallizzazione di somma pacatezza, dolcemente rassegnata.
Il pittore ha così realizzato, rispecchiando le esigenze della Controriforma, a una rappresentazione dalla quale traspare una forte carica ispirata a devozione e mistica, accentuata dall’atmosfera soffusa e quieta che pervade l’intera composizione.
Per la sua semplicità straordinaria rispetto alle lambiccate rappresentazioni del tardo manierismo, il dipinto sembra rievocare addirittura le atmosfere della pittura quattrocentesca; i personaggi sono tutti facilmente individuabili, come la Vergine e la Maddalena, e sono raffigurati con abiti estranei alla moda contemporanea e a eccessi nei colori.
Dopo il Concilio, la pittura sacra doveva essere rinnovata secondo gli ideali controriformistici, in particolare era diventato necessario superare l’artificiosità dell’ultima Maniera in favore di opere più semplici e comprensibili. Non solo, ma il contenuto stesso doveva rispettare la rinnovata visione religiosa della Chiesa di Roma, più umile e devota.
Massimo esempio di aggiornamento in questo senso sono i prodotti di Ludovico Carracci (1555-1619) che, rifacendosi alle norme di decoro e di semplicità compositiva dettate dal cardinal Paleotti, fu in grado di esprimere la propria spiritualità appassionata con toni patetici e ricchi di persuasiva eloquenza.
L’Annunciazione del 1584 di Ludovico Carracci, oggi conservata nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, è esemplare in questo senso: la raffigurazione si mantiene, infatti, molto vicina al racconto evangelico e, tramite il richiamo alla quotidianità dell’ambiente, invita il fedele alla preghiera nella vita di tutti i giorni.
Ludovico Carracci, di nascita e di formazione bolognese, crebbe sotto lo stesso tetto con i suoi cugini Agostino (1557-1602) e Annibale (1560-1609), che diventarono i suoi più stretti collaboratori. Probabilmente nella sua adolescenza Ludovico diventò l’allievo di spicco del pittore manierista bolognese Prospero Fontana (1512 - 1597).  Carlo Cesare Malvasia, biografo di Ludovico, riferisce che Ludovico approfondì la sua formazione artistica, viaggiando a Firenze, Venezia, Mantova, Parma e che studiò la grande arte di queste città. Nel 1578 Lodovico si iscrisse come maestro nella Corporazione dei pittori di Bologna, e nel 1582 fu nominato nel Consiglio della Corporazione. Le prime opere note di Ludovico risalgono ai primi anni Ottanta quando lottava per affermare la sua posizione a Bologna. Entro la fine degli anni Ottanta Ludovico e i suoi cugini erano molto richiesti da mecenati locali e stavano acquistando fama anche fuori della città. Ludovico iniziò una produzione costante di pale d'altare, quadri devozionali, e un minor numero di soggetti profani per gli utenti privati, produzione ​​che continuò senza sosta fino alla sua morte. Verso la metà degli anni Novanta i Carracci erano i pittori preminenti di Bologna, e avevano attirato migliori allievi della regione, tra i quali Guido Reni (1575 - 1642), Domenichino (1581 - 1641) e Francesco Albani (1578 - 1660). Intorno al 1582 Ludovico e i suoi cugini fondarono l’Accademia degli Incamminati, un centro privato di educazione autoctono che ripropose la conoscenza dei grandi maestri del Rinascimento, meditati alla luce di una rinnovata coscienza della natura e della tradizione. L'accento fu posto sull'importanza del disegno come mezzo per indagare la realtà e la natura così da arrivare a un nuovo modo di dipingere che fosse scevro degli aspetti convenzionali del manierismo cercando di ridare spontaneità e immediatezza alle forme, in direzione di un nuovo classicismo.
Ludovico si assunse il ruolo di teorico ed impose l'indirizzo verso lo studio del vero (prima disegnato e poi ripulito dai difetti) l'approccio diretto al soggetto raffigurato era il primo passo della rappresentazione al fine di renderla più naturale.
Altro principio della dottrina carraccesca era l'aspetto devozionale, il rispetto dell'ortodossia delle storie rappresentate. Nel far questo i Carracci seguirono le istruzioni contenute nell'opera dei teorici del tempo come il cardinale Paleotti che nella sua opera auspicava il controllo da parte delle autorità ecclesiastiche dei contenuti delle scene sacre e che i santi e i loro attributi dovevano essere facilmente riconoscibili e rispettosi della tradizione inoltre le storie dovevano dimostrare fedeltà ai testi sacri, mentre agli artisti rimaneva la libertà di scegliere lo stile più adeguato. Altro punto di riferimento era l'opera di Giovanni Andrea Gilio in cui si criticavano gli eccessi di ricercatezza, di allegoria e le invenzioni bizzarre dell'arte manierista. Le storie e i personaggi resi verosimili dall'imitazione della natura dovevano poi essere nobilitati dall'esercizio dell'arte e raffinati sull'esempio dei grandi maestri del passato. Seguendo questi dettami, l'arte avrebbe svolto un preciso compito di educazione e di elevazione spirituale, e la scena sacra si faceva più vicina alla dimensione umana.
L’Annunciazione, eseguita da Ludovico Carracci non ancora trentenne, fu su commissione di Giulio Cesare Guerini per la Compagnia del Santissimo Sacramento, arciconfraternita con sede nella Chiesa di San Giorgio in Poggiale. L’opera era corredata di una predella, dipinta da Camillo Procaccini (1561 – 1629), perduta durante la Seconda Guerra Mondiale.
In quest’opera si riscontrano strutture narrative e schemi compositivi molto semplificati rispetto alla pittura tardomanieristica e tali semplificazioni testimoniano in pieno il significato intensamente umano della riforma che Ludovico stava compiendo nella Bologna degli anni ottanta del Cinquecento, raggiungendo un risultato più naturale e vicino al vero, requisito indispensabile per poter meglio muovere i sentimenti dello spettatore.
Per rendere al meglio quest’effetto di naturalezza, Ludovico si ispira e imita Correggio che in passato era riuscito a indagare la sfera dei sentimenti umani, rappresentando le più sottili forme di espressività, ma di Correggio il giovane maestro tempera l’ardore con la sobrietà delle pose dei protagonisti, dei loro gesti e con un composto uso delle luci e dei colori.
L’opera è impostata su una struttura semplice e rigorosa di gusto neo-quattrocentesco, la cui prospettiva è messa in risalto dalle piastrelle che corrono verso il punto di fuga e nello stesso tempo aprono lo spazio allo spettatore, coinvolgendolo nella dimensione esistenziale dell’evento.
La scena è ambientata in un interno domestico essenziale e ricco di uno spirito quotidiano, una quotidianità accentuata dalla cesta dei panni ai piedi dell’inginocchiatoio e da quei libri posti in cima. Maria, rappresentata molto giovane coerentemente con il personaggio storico, è resa secondo un ideale neoraffellesco di verginale purezza che ebbe in seguito una forte eco: è una giovinetta umile, devota, casta, laboriosa che sta pregando nella sua stanza ordinata e tranquilla, con i suoi libri di preghiera. Accanto all’inginocchiatoio, giace a terra il suo cesto di lavoro, più indietro il letto riassettato con cura. L’evento soprannaturale si inserisce nella sua vita di tutti i giorni con estrema naturalezza: l’angelo, entrato dalla porta semiaperta, si inginocchia davanti a lei e comunica il messaggio divino mentre lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, discende con un raggio di sole dalla finestra.
A questa semplicità ben si addicono la prospettiva lineare e la sobrietà dei gesti, delle luci e dei colori, anzi è proprio la luce che assume nell’opera una funzione particolare: l’originale sperimentazione luministica, sebbene sia in realtà artificiosa perché proviene da tre sorgenti diverse (quella principale che investe dal primo piano i due protagonisti, la luce della colomba che cala dall’alto e quella che entra di striscio da una porta laterale), serve per fare notare gli elementi chiave del dipinto come il cesto, l’inginocchiatoio, le ali frementi dell’angelo e il suo ramoscello di gigli.
Lontana dal luminismo spettacolare del Tintoretto, presente nella coeva Annunciazione di San Rocco, l’opera di Ludovico Carracci, per la severità della tavolozza, anticipa il naturalismo di affetti e le ricerche di verità umana e d’ambiente del primo Seicento, compreso Caravaggio.
Anche in questo dipinto si scorge un’applicazione dei dettami controriformistici, in particolare riferimento a quanto aveva detto il cardinale Paleotti nel suo Discorso: le immagini sacre dalle quali si vedrà spirare pietà, modestia e devozione penetreranno dentro di noi con molta maggior violenza che le parole e con la sua testimonianza la Vergine Maria ci ricorda che nella vita comune di ogni giorno si accoglie il disegno di Dio e si realizza la santità cristiana, ma sempre con disciplina spirituale. La dimensione quotidiana di questa religiosità semplice, diretta e toccante sembra rispecchiare lo spirito che il cardinale Paleotti aveva espresso nel suo fondamentale Trattato.
Il filone di studi inaugurato dal libro di Emile Mâle[3], L’arte religiosa nel Seicento. Italia, Francia, Spagna, Fiandra del 1932 sull’arte sacra della Controriforma, proseguito con vivaci sollecitazioni e le aperture suggerite da Paolo Prodi nella Ricerca sulla teorica delle arti figurative nella Riforma Cattolica del 1962 e da Bruno Toscano in Storia dell’arte e forme della vita religiosa[4] del 1979, aiuta a far luce nella vasta messe di opere prodotte nell’ambito dell’arte riformata fino allora liquidata come un coacervo di opere convenzionali.
Il concilio di Trento portò ordine e disciplina in tutti i settori della Chiesa. Spesso non si considera come l’assemblea tridentina si sia caratterizzata per un forte taglio pastorale, assumendo anzi la cura d’anime come prospettiva fondamentale. Le sue direttive si innestarono e si intrecciarono su un tessuto religioso piuttosto vivace, cercando di fare sintesi tra le esigenze di ortodossia e di disciplina richieste dalla degenerazione diffusa in tutto il corpo ecclesiale e la sensibilità popolare. Ciò avvenne incanalando le manifestazioni popolari verso alcuni elementi centrali della fede cristiana. In particolare tre: la croce, l’Eucaristia e, appunto, la Madonna.
Nacquero così molte manifestazioni di culto mariano – canti, processioni, santuari – che tuttora sussistono e sono sentiti come attraenti e coinvolgenti perché riescono a coniugare l’insopprimibile elemento sentimentale della religiosità con la correttezza teologica dei suoi contenuti e la disciplina ecclesiastica dei comportamenti.
Il collocarsi della devozione mariana accanto quelle direttamente cristologiche (croce ed eucaristia), in epoca tridentina, non dipende soltanto dal ruolo centrale di Maria nella storia della Redenzione e dalla sua vicinanza a Gesù, ma anche dalla opportunità di collocare a fianco e quasi a custodia della Verità incarnata quella che è da sempre l’immagine della Chiesa-madre. La mediazione materna di Maria si poneva come efficace e persuasivo richiamo della ineliminabile mediazione ecclesiastica. L’arte della Controriforma quindi diffuse ed esaltò l’immagine della Vergine. Ciò avvenne attraverso la fondazione di numerosi santuari dedicati alla Madonna e la ridefinizione del modello di pala mariana che nella struttura compositiva fu anch’essa semplificata e ospitò figure rigidamente e ieraticamente impostate.
Varie devozioni mariane legate all’iconografia di Maria presero vigore: se era stata bandita nella forma della Madonna del latte, l’immagine della Vergine assurse di volta in volta a baluardo della lotta antiprotestante o di quella antimusulmana in particolare la Madonna del Rosario, che ricevette un notevole impulso in seguito alla battaglia di Lepanto nel 1571, la Madonna di Loreto e l’Assunta che incontrarono una notevole fortuna iconografica. Frequente è anche la raffigurazione dell’Immacolata Concezione che presenta, oltre alla falce lunare e il serpente, anche alcuni attributi derivanti dall’Antico Testamento come la palma e la scala coeli.
Non mancano poi altre classiche iconografie mariane come l’Incoronazione e la Madonna della Misericordia di cui uno splendido esempio è la Madonna del Popolo, un’opera emblematica di Federico Barocci.
Il dipinto, che rientra nell’iconografia della Madonna della Misericordia, è un olio su pannello di 359 x 252 cm, dipinto fra il 1575 e il 1579 e oggi custodito a Firenze alla Galleria degli Uffizi.
Nel 1575 la Pia Confraternita dei laici di S. Maria della Misericordia di Arezzo aveva commissionato a Barocci la pala d’altare per la propria cappella che Vasari aveva realizzato per loro nella Pieve d’Arezzo. Barocci firmò e datò nel 1579 la Madonna del popolo.
Nel dipinto di Barocci, il tradizionale tema della Madonna della Misericordia è declinato in modo completamente diverso. Nella raffigurazione tradizionale la Vergine è in piedi, ha grandi dimensioni e allarga il proprio mantello per accogliervi i fedeli inginocchiati. Anche dopo la Controriforma il soggetto continuò ad avere un largo seguito, per le sue evidenti connotazioni devozionali, ma qui la Madonna, dal regno dei cieli, volge il suo sguardo verso Gesù e mostra al Figlio benedicente il popolo, esortandolo alla carità e qui l’artista sottolinea l’istante drammatico di intercessione della Vergine per il suo popolo.
La scena coinvolge lo spettatore in un vortice di colore e di vitalità creato dalla grande varietà di persone e di pose in una fusione affascinante fra esperienza quotidiana e passione trascendente, reso possibile dalla grande varietà di prospettive, di dettagli, di luci e colori e di effetti atmosferici.
Nonostante questo processo tecnico preciso, il genio di Barocci conserva le pennellate appassionate e libere, e, sebbene per lui il popolo assuma un ruolo di protagonista nel dipinto più degli stessi personaggi divini, una luce spirituale investe tutti i personaggi e sembra tremolare come il riflesso di un gioiello su volti, mani, tendaggi e cielo. La profonda devozione e la religiosità di Barocci sono espresse con una gioia spontanea ed intima: nel dipinto permangono ancora i toni gioiosi e una gamma di espressioni delicate e in certi casi malinconiche, le pose sono varie e vivaci, non sono mai scomposte e innaturali e tutti gli elementi sono equilibrati tra loro.
La composizione è legata ad un rigoroso schema strutturale che mette ordine anche in una scena intricata come questa e, mentre i personaggi dei manieristi presentano spesso atteggiamenti caricati e innaturali deformazioni, le figure di Barocci si mantengono aderenti alla struttura organica e i loro atteggiamenti esprimono direttamente la loro condizione sociale e psicologica.
Barocci segue ancora i concetti spaziali della maniera, infatti, preferisce anche qui una visuale pittorica limitata: la sua formula usuale consisteva in una prospettiva che, precipita rapidamente in un primo piano angusto, sale poi rapidamente in alto; ma diversamente dagli effetti disordinati e illogici dello spazio concepito dei manieristi, quello del Barocci è calcolato matematicamente e basta non solo a contenere le figure, ma ad esaurire il loro movimento.
Altra caratteristica del dipinto del Barocci che egli condivideva con la maniera è l’irregolare quanto capricciosa sofisticazione del colore, ma, mentre i manieristi usavano per lo più colori intermedi, in toni molto leggeri, delimitati da linee di contorno caricate in un tono fumoso e cupo, Barocci invece usa tutti i colori in una gradazione intensamente satura e li usa per costruire le forme senza servirsi delle linee di contorno e inoltre usava per le ombre il colore complementare dell’oggetto che le proiettava con il risultato che nei suoi quadri quasi non ci sono zone scure, ma essi si presentano come campi continui di colore fluttuante.
Le innovazioni del Barocci per quanto riguarda la scelta del soggetto non sono meno interessanti delle sue deviazioni stilistiche dalla maniera. Per la prima volta nella storia dell’Arte egli rappresenta il misticismo religioso, trasportando la scena in una sfera completamente distaccata da qualsiasi elemento narrativo, in diretta comunicazione con la fonte celeste della rivelazione; in ciò è probabilmente riflessa una semplice, personale esperienza di quel pietismo che costituì un aspetto di fondo, non militante, della Controriforma nell’Italia centrale e del nord.
La sua arte ha avuto una notevole importanza nello sviluppo iconografico europeo dell’età moderna, in virtù del suo uso realistico delle figure e della luce e di un originalissimo uso del colore. In notevole anticipo su Caravaggio, infatti, Barocci si servì di tonalità accese e contrasti chiaroscurali per dare maggior forza espressiva alle proprie figure, catturandone l’umanità con elegante vigore.
Dopo il Concilio di Trento il culto della Madonna di Loreto diventò uno dei più popolari del mondo cattolico.
Questo culto era nato alla fine del XIII secolo quando, secondo la tradizione, espulsi definitivamente i crociati dalla Palestina, le pareti in muratura della casa della Madonna, la cosiddetta Santa Casa dove la sacra famiglia aveva vissuto e dove Gesù aveva trascorso la sua infanzia, fu miracolosamente trasportata da Nazareth a Loreto, dopo una breve sosta in Croazia.
In un primo momento, la preziosa reliquia fu sopraelevata e coperta da una volta, poco dopo circondata da portici, poi da una chiesetta e infine dall'attuale imponente basilica, che nel 1587, con l'aggiunta della bella facciata rinascimentale, poté ritenersi finalmente conclusa. L’edificazione della grande Basilica e del Palazzo Apostolico avevano accresciuto la fama del miracolo e l’ampio afflusso di pellegrini non solo dall’Italia, ma anche da altri Paesi europei. Nel 1585 il santuario fu affidato alle cure dei Gesuiti. La fama di Loreto era cresciuta ulteriormente in seguito alla strepitosa vittoria della Lega Santa contro i Turchi nella battaglia navale di Lepanto nel 1571 attribuita da papa Pio V Ghisleri all’intervento miracoloso della Madonna. I reduci vittoriosi, ritornando dalla guerra, passarono per Loreto a ringraziare la Madonna. In seguito alla vittoria, i galeotti che erano stati messi ai banchi dei remi furono liberati: sbarcati a Porto Recanati, salirono in processione alla Santa Casa, dove offrirono le loro catene come ex-voto alla Madonna. Dalla fusione di catene e ceppi furono fabbricati i grandi cancelli delle cappelle e i quattro cancelli della Santa Casa; il comandante della Lega Santa, don Giovanni d’Austria, sciolse il suo voto alla Madonna di Loreto con un pellegrinaggio nel 1576. Dinanzi alla Basilica, oggi, la statua dedicata a Sisto V Peretti ricorda il papa marchigiano che aveva dato un grande impulso alla diffusione del culto della Madonna di Loreto e aveva promosso la recita, insieme al rosario, delle Litanie lauretane, supplica che si cantava originariamente proprio nella Santa Casa.
Negli anni vivaci ed esaltanti, in cui il papato si preparava a celebrare l'anno santo 1600, con 2-3 milioni di pellegrini, era stata sconfitta la paura del luteranesimo e il papato aveva riconquistato il suo predominio. Con le sue ricche committenze papali, Roma era diventata la capitale culturale d'Europa, popolandosi di migliaia di artisti provenienti da ogni parte d'Italia e da Spagna, Francia, Germania, Fiandre e Paesi Bassi che potevano scambiare le esperienze delle rispettive scuole, in un processo di rinnovamento rapido e coinvolgente. Roma assorbiva inoltre l'arrivo di nobili casate come gli Aldobrandini, i Barberini, i Borbone, i Chigi, i Ludovisi, i Pamphili oltre a quelle tradizionali dei Caetani, dei Colonna, degli Orsini, e le nuove committenze venivano anche da loro: reagendo alla paura riformista con restauri e arredi finemente decorati era diventata un cantiere a cielo aperto e vi si contavano 2000 pittori su una popolazione in aumento dai 50 ai 100 mila abitanti, dopo il sacco del 1527.
Fra questi artisti, due giovani pittori molto diversi fra loro erano giunti a Roma, Caravaggio (1571 – 1610) nel 1594 e Annibale Carracci (1560 – 1609) nel 1595: fra il 1604 e il 1605 dipinsero due quadri raffiguranti la Madonna di Loreto.
Le due Madonne sono assolutamente contemporanee e rappresentano lo stesso soggetto, ma con differenze quasi abissali nell’iconografia e nel modo di dipingere. Due interpretazioni così radicalmente diverse dello stesso tema non potevano essere immaginate: in quella di Caravaggio si osserva uno stile naturalistico talmente spinto da diventare rivoluzionario, in quella di Annibale si osserva la rielaborazione di una pittura classicista di matrice raffaellesca, basata sulla rappresentazione di una realtà idealizzata. Carracci propone una composizione tipica dell'iconografia classica, che esalta la concezione di dogma: prospettiva e telaio prospettico. Caravaggio invece ribalta completamente il processo attraverso il sistema dal basso verso l'alto: la composizione parte infatti dai piedi per poi procedere diagonalmente. Si tratta di una questione non solo puramente compositiva, ma anche legata al messaggio che conferisce una nuova visione della religiosità, legata non alla divinità, ma alla cultura dell'uomo di fronte al fatto religioso.
Questo confronto è particolarmente interessante, perché da questi due giganti della pittura discendono tutti gli artisti che operarono a Roma nei decenni successivi. Scambiandosi stimoli ed esperienze, Annibale e Caravaggio in un dialogo puramente visivo spazzarono via in pochi anni gli stereotipi tardo-manieristi e portarono innovazioni tecniche e stilistiche che furono percepite in tutta Europa, finché si fusero nel Barocco appoggiato da Urbano VIII Barberini per celebrare il definitivo trionfo della Chiesa cattolica.
La cosa veramente interessante di questo confronto è tuttavia osservare quanto questi due artisti hanno in comune: nati a undici anni di distanza l’uno dall’altro, Annibale nel 1560 e Caravaggio nel 1571, morti prematuramente a un anno esatto di distanza, Annibale nel luglio 1609 a quarantanove anni e Caravaggio nel luglio 1610 a trentotto, entrambi nati nell’Italia settentrionale, dove si erano formati artisticamente, entrambi sono stati ispirati dai grandi maestri veneziani, in particolare da Tiziano, entrambi sono arrivati ​​a Roma nel biennio 1594-95, nel momento in cui la Controriforma trionfava, entrambi avevano respinto il manierismo come fenomeno artificioso e avevano optato invece per una pittura dal vero, ricreando ciò che avevano visto in natura, entrambi infine avevano un talento per quel gioco di luci e di ombre chiamato chiaroscuro.
Sebbene ai nostri occhi Caravaggio sia l’artista più audacemente innovativo, Carracci era anch’egli nella sua epoca considerato un artista fra i più radicali, in particolare nella sua precoce attività giovanile. Ma con le severe normative sugli artisti a Roma, sotto l’austero Papa Clemente VIII Aldobrandini, Carracci diventò abilissimo nell’attenersi alle norme. Mentre Caravaggio stava diventando sempre più audace tanto che diversi dipinti erano stati rifiutati dai committenti, Carracci stava diventando il beniamino del mondo dell'arte. Mentre Caravaggio notoriamente dipingeva la vita proprio come la vedeva e direttamente sulla tela, Carracci aveva scelto di catturare il mondo ideale nel modo più naturale possibile con una cura straordinaria per il disegno. Due diversi approcci al naturalismo.
La Madonna di Loreto di Annibale, più comunemente chiamata La traslazione della Santa Casa, è un classico della sua poetica: l'interpretazione idealizzata del miracolo. Annibale imposta la scena su uno schema perfettamente simmetrico: due angeli incoronano la Madonna, serena nelle sue vesti rosse e blu (colori che rimandano rispettivamente al terreno e al divino), con il Bambino in braccio, seduta su un trono di nuvole poggiato sulla cima della Santa casa. La casa è piccola con tetto spiovente ed è sorretta in volo da tre angeli, su un cielo luminoso e tenero. Una "luce universale", frontale e diretta, illumina la scena mentre in basso c’è un paesaggio oscuro col suolo squarciato dal Purgatorio. Durante il transito due angeli incoronano la Madonna regina del cielo e Gesù Bambino versa l'acqua per alleviare le anime del Purgatorio.
Luigi Spezzaferro ha voluto vedere nell'immagine di Annibale un'icona: tutti i volti sono idealizzati e così pure i corpi degli angeli ispirati alle forme classiche nelle vesti e nelle proporzioni, non mostrano né tensioni né la fatica nel reggere la Santa casa in volo. La Madonna ricorda la gloria dell'Assunzione: la terra in basso è oscura e lontana, un altro mondo ben diverso da quello del miracolo.
Il dipinto fu commissionato ad Annibale dal cardinale Carlo Madruzzo per la chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo dov'era la Cappella della Madonna di Loreto, starebbe a rappresentare la preghiera della Vergine per la salvezza delle anime del Purgatorio.
Sarebbe difficile immaginare il papa e il clero offesi da questo e certamente Annibale non infranse le severe regole che il cardinal Paleotti aveva codificato nella sua opera, manuale ineludibile per gli artisti durante la Controriforma. Niente potrebbe essere più plausibile, più aggraziato e piacevole agli occhi della sua Madonna di Loreto.
La Madonna di Loreto di Caravaggio, meglio nota come la Madonna dei Pellegrini, fu dipinta per la Cappella Cavalletti nella chiesa di Sant'Agostino a Roma, su commissione dalla vedova del marchese Ermete, già membro della confraternita Santissima Trinità dei Pellegrini, in ricordo di un pellegrinaggio compiuto dal marchese: alcuni, infatti, vogliono vedere nel pellegrino il marchese e nell'anziana donna, sua madre.
Nel dipinto di Caravaggio tutto cambia, la scena è rivoluzionata. Non c'è la Santa casa, che pure nel culto della Madonna di Loreto, è centrale nella sua venerazione, trattandosi dell'evento miracoloso. La sua Madonna di Loreto è qualcosa di completamente diverso rispetto al dipinto di Annibale. La Madonna è appoggiata a uno stipite della porta sopra a uno scalino, dettaglio che si può ricondurre alla Santa casa solo perché il titolo del dipinto lo suggerisce: nulla farebbe pensare che è scesa dal cielo, tanto meno portata da angeli che non vi sono raffigurati. E non c'è nulla di miracoloso, la luce non è universale, come nel dipinto di Annibale, ma ci sono quelle tipiche bordate luminose caravaggesche, che mettono in risalto aspetti realistici e umani dei due gruppi a sinistra e a destra della composizione, provengono da sinistra lungo una diagonale che lascia buia la parte centrale.
Caravaggio scelse di raffigurare una giovane e bella Madonna con in braccio Gesù Bambino ormai cresciuto, poco pulito e dal ventre gonfio, che quasi le scivola dalle braccia nell'atto di sporgersi in avanti sulla soglia di una casa ordinaria.
La rappresentazione della Vergine, una bellezza popolana con un bambino, è straordinariamente umana ed è ritratta nell'atto di accogliere sulla porta della sua casa due anziani e laceri pellegrini che, stremati dalla fatica ma sostenuti dalla loro fede, si inginocchiano in adorazione. Sono scalzi, con i piedi sporchi e gonfi, segnati dalla fatica di un lungo cammino, il viso della donna sotto la cuffia sdrucita è rugoso eppure è illuminato dalla grazia della fede.
Il posto del miracolo che ha fatto volare la Santa casa è preso qui dalla devozione che ha spinto i due pellegrini al lungo cammino ed essi pregano affinché la Vergine appaia loro: sembra che Ella si materializzi improvvisamente, sorprendentemente, come se fosse la proiezione del loro stesso desiderio. Si materializza plasmata da una luce potentissima, la luce della fede e dell'anima.
Il collo della Vergine è bianco e allungato, il suo sguardo tenero e dolce, i suoi seni appena sporgenti dall'abito di velluto rosso e blu. I suoi piedi, delicati e puliti, sono impercettibilmente sollevati da terra, quasi ad accennare un passo di danza. Uno squisito ricordo dell’Assunta di Tiziano. Ed è proprio quella posizione dei piedi di Maria che rimanda all'iconografia tradizionale della Madonna di Loreto, che vuole la Vergine in volo sopra la sua casa.
Nella preghiera dei due pellegrini e nel capo dell'umile Madonna reclinato verso di loro c'è tanta umanità: la sua grazia traspare dallo sguardo pieno d’amore rivolto ai pellegrini. È una madre che, con dolcezza e trasporto, offre suo figlio per la salvezza del mondo e non una regina incoronata e portata in gloria dagli angeli. Non c'è spazio per l'idealizzazione e non ce n’è necessità. Ogni particolare è ritratto dal giovane maestro con estremo realismo e con eccezionale umanità, nella stessa misura in cui c'era tanta maestà nella Madonna di Carracci al centro di una simmetria costruita sui cinque angeli che circoscrivono la composizione, senza che vi sia alcuna presenza umana , ma tutti è volutamente sovrannaturale.
Questo dipinto di Caravaggio suscitò comprensibili polemiche fin dall'inizio e non solo per i piedi sporchi e per i lombi del pellegrino in faccia allo spettatore. Non era la prima volta che Caravaggio faceva risaltare, nelle sue tele, i lombi di un personaggio: lo aveva già fatto pochi anni prima nella Crocifissione di San Pietro, dove in primo piano si offrono all'osservatore le natiche di uno degli aguzzini. Anche gli stessi pellegrini erano sfrontatamente veri, un troppo vivo ricordo della loro spiacevole forte presenza in una città già affollata. Oltre a questo, una delle regole sancite da Paleotti era il divieto di rappresentare santi impegnati in ordinarie attività quotidiane e non era ammissibile che la Vergine uscisse sulla soglia di casa come una casalinga, soprattutto se alla Vergine erano date le sembianze di Lena Antognetti, una ragazza di discussa fama che aveva posato per Caravaggio e che era frequentata da molti. Servirsi di lei come modella era un’operazione ardita, poiché a Roma molti conoscevano Lena e conoscevano la sua bellezza: quindi si può ben immaginare che vederla sugli altari suscitasse qualche sussulto.
Caravaggio palesemente ignorò il divieto del Concilio di Trento di rappresentare le figure sacre come persone viventi e riconoscibili, oltre che sensualmente attraenti, ma in qualche modo vinse la sua partita proprio con la bellezza: nel senso che gli parve naturale che la migliore bellezza di Roma fosse destinata a rappresentare Maria e ancor oggi, guardando quella tela, ci si persuade subito della saggia imprudenza di quella scelta. Del resto l’idea che Caravaggio si era fatta di Maria, era quella di una donna sottomessa al Figlio, ma non certo al mondo, semmai era una capace di tener testa al mondo.
E il risultato? La gente di tutto il mondo visita Sant'Agostino per vedere la versione della Madonna di Loreto di Caravaggio come fanno per quella di Carracci a Sant'Onofrio? Perché non è così? La risposta ce la offre Vittorio Sgarbi quando dice: «Non sono stati il Settecento o l'Ottocento a capire Caravaggio, ma il nostro Novecento. Caravaggio viene riscoperto in un'epoca fortemente improntata ai valori della realtà, del popolo, della lotta di classe. Ogni secolo sceglie i propri artisti. E questo garantisce una attualizzazione, un'interpretazione di artisti che non sono più del Quattrocento, del Cinquecento e del Seicento, ma appartengono al tempo che li capisce, che li interpreta, che li sente contemporanei. Tra questi, nessuno è più vicino a noi, alle nostre paure, ai nostri stupori, alle nostre emozioni, di quanto non sia Caravaggio».
La sua Madonna di Loreto affascina e ipnotizza: ha un impatto emotivo e un'immediatezza maggiore rispetto a quella di Annibale, perché parla direttamente al cuore. Anche nei riferimenti religiosi si possono vedere i differenti versanti, quello ortodosso e classico della chiesa trionfante nella sua gloria in Carracci; quello spiritualista di ispirazione francescana della chiesa povera che non evoca la gloria dei cieli, ma l'umiltà e l'umana comprensione in Caravaggio. Occorre, infatti, tenere ben presente che se nei comportamenti Caravaggio appare un pittore maledetto, stereotipo di genialità e sregolatezza, le sue opere sono permeate da una profonda religiosità: il giovane Michelangelo Merisi, orfano di uno dei mastri fabbricatori addetti ai cantieri delle chiese milanesi, era vissuto nella cattolicissima Caravaggio ed era stato orientato a una formazione di tipo cattolico-pauperistica secondo lo spirito devoto di San Carlo Borromeo. La sua formazione adolescenziale era avvenuta nelle parrocchie, sotto la cura dello zio sacerdote, lo stesso che lo aveva spinse a Roma dal cardinal Del Monte. A Milano Caravaggio aveva formato la sua visione del mondo ispirata al pauperismo e, come ha già mostrato Maurizio Calvesi nel suo saggio Le realtà del Caravaggio del 1990, il giovane pittore «amava un cristianesimo delle origini nel solco di San Carlo» e che la sua ideologia si opponeva ad aspetti della Controriforma troppo dogmatici o troppo lontani dalle esigenze dei più poveri. Il giovane Caravaggio, vissuto fino alla sua morte sotto l’egida di Costanza Colonna, marchesa di Caravaggio, doveva aver seguito le lezioni di catechismo che la nobildonna era solita impartire nei giorni festivi nel borgo e partecipava con fervore all’adorazione delle Quarant’Ore. Sarebbe un errore pensare che, con il suo arrivo a Roma, tutta questa formazione si sia dissolta nel flusso violento della sua vita e della sua pittura. Tutta la sua pittura è piena di allegorie evidenti: nel luglio del 1600 il significato pittorico della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi con il ciclo delle tre tele su san Matteo era un’evidente metafora teologica che assimilava l’ombra al peccato e il fendente di luce alla Grazia.
È interessante notare infine che, mentre Caravaggio è notevolmente l'artista più popolare oggi, Carracci, per centinaia di anni dopo la sua morte, fu considerato il più grande pittore italiano a cavallo del XVII secolo e che, mentre Caravaggio era stato del tutto dimenticato a soli vent’anni dopo la sua morte, la sua popolarità sarebbe cominciata a salire di nuovo per buona parte del XX secolo.
Un altro esempio di successo iconografico mariano ci è offerto da Giovanni Battista Crespi, detto il Cerano (1573 –1632), con la sua Madonna del Rosario del 1612, una delle più tradizionali raffigurazioni nelle quali la Chiesa cattolica venera Maria.
Dal punto di vista iconografico, l’immagine della Madonna del Rosario, sconosciuta in oriente, è strettamente legata ai Domenicani ed è ripresa da quella, più antica, della Madonna della cintola in cui la Vergine, durante la sua Assunzione al cielo, donò la sua cintola all’apostolo Tommaso. L’origine storica del tema del Rosario risale invece al XII secolo, quando i monaci Cistercensi, partendo dalla tradizione di dedicare alla Vergine una corona di rose, elaborarono una speciale ghirlanda: una preghiera che essi chiamarono appunto Rosario, essendo essa paragonata a una mistica corona di rose offerte alla Madonna. La devozione del Rosario fu in seguito perfezionata e diffusa da san Domenico il quale nel 1214 ricevette, secondo la tradizione agiografica, il primo rosario dalla Vergine Maria che lo indicò come rimedio per la conversione dei non credenti, per la salvezza dei peccatori e per sconfiggere l’eresia albigese. Dopo il Concilio di Trento la pietà mariana trovò nella recita del rosario una delle sue più peculiari espressioni. Questa forma popolare di preghiera fu propagandata dalla Chiesa cattolica per contrastare la riforma protestante. Nel 1569, Pio V Ghisleri approvò ufficialmente quella pratica e nel 1572 istituì la festa liturgica con il nome di Madonna della Vittoria a perenne ricordo della battaglia navale di Lepanto, svoltasi appunto il 7 ottobre del 1571 nella quale la flotta della Lega Santa aveva sconfitto quella dell’Impero ottomano: i cristiani attribuirono il merito della vittoria alla protezione di Maria, che avevano invocato recitando il Rosario prima della battaglia.
Con l’aiuto della pittura la Chiesa contribuiva a propagare la recita del rosario che fu chiamato anche il Vangelo dei poveri, che in massima parte non sapevano leggere, perché dava il modo di poter pregare e nello stesso tempo meditare sui misteri cristiani, senza la necessità di leggere un testo.
Iconograficamente, nella Madonna del Rosario, la Vergine è rappresentata tradizionalmente con una veste azzurra e una corona del Rosario tra le mani di solito accompagnata dal Bambino Gesù in braccio spesso venerata da alcuni santi domenicani che accolgono dalle sue mani (o da quelle del Bambino) la corona del Rosario. I santi domenicani che ricorrono più frequentemente ai piedi e intorno alla Vergine sono San Domenico di Guzmán, Santa Caterina da Siena e Santa Rosa da Lima. Dopo la Controriforma furono eseguite molte raffigurazioni della Madonna con la corona del Rosario: le numerose varianti riportano, solitamente, accanto all’immagine centrale, i riquadri con i quindici misteri del Rosario.
Cerano, di due anni più giovane di Caravaggio, è uno dei massimi artisti del periodo tra la fine del Cinquecento e il primo Seicento. Non più manieristico e non ancora barocco, visse nel periodo in cui si andò codificando un’arte religiosa direttamente guidata e voluta dagli uomini della Controriforma. Per la Chiesa di San Lazzaro alle Monache a Milano, Cerano dipinse questa sua Madonna del Rosario, oggi custodita ed esposta nella Pinacoteca di Brera.
Quest’opera, comunemente considerata la più celebre del Cerano per le sue numerose riproduzioni novecentesche in testi scolastici e divulgativi, è caratterizzata da una grande accentuazione pietistica, infatti, si nota il tentativo del maestro di fondere le richieste di propaganda cattolica controriformata con lo stile del pieno Rinascimento, propugnato da Raffaello e da Tiziano e mediato attraverso Gaudenzio Ferrari e Lorenzo Lotto.
Nel dipinto l’atmosfera è concreta e umana, i gesti sono misurati ed esprimono veri esempi di virtù cristiana. L’opera rappresenta da un lato la “pietosa cautela” che il cardinale Federico Borromeo raccomandava al clero nell’esposizione della dottrina cristiana e dall’altro l’arte tipicamente conservatrice del Cerano.
Di pregevolissima e finissima fattura, la Madonna del Rosario con i suoi giochi di colore impostati su contrasti di bianchi, di rossi e di neri fu un modello fondamentale per gli allievi, dal genero Melchiorre Gherardini (1607 – 1668) a Girolamo Chignoli, anche per la comparsa dell’intonazione preparatoria bruno-rossastra che caratterizza la fase più matura del Cerano.
La critica moderna ha pienamente rivalutato il Cerano come uno dei massimi artisti della sua epoca. Il pittore, figlio d’arte, iniziò giovanissimo l'attività nella zona di Novara, fin dalle prime opere sono evidenti la forza della tradizione drammatica di Gaudenzio Ferrari e l'interesse per certi spunti realistici di Camillo Procaccini.
In un clima culturale molto complesso, caratterizzato dai grandi cicli decorativi del Manierismo internazionale, il Cerano si orientò verso la corrente pietistica della Controriforma, che trovò in lui uno dei suoi più severi e alti esponenti, ma a questo unì una resa pittorica della natura di pura tradizione lombarda. Nel 1601, dopo un viaggio a Roma con il cardinale Federico Borromeo, tornò a Milano, iniziando un lungo periodo di attività durante il quale produsse questa Madonna del rosario.
Contemporaneamente alla richiesta di canonizzazione di Carlo Borromeo, il Cerano dipinse i quattro teloni con Storie del Beato Carlo, intelligente teatro sacro popolare per le celebrazioni del giorno anniversario. Nel 1610, per l'avvenuta canonizzazione, Crespi curò tutti gli apparati celebrativi di Roma e Milano, da eseguire con il massimo fasto per il grande santo della Controriforma. I Sei Miracoli di San Carlo del Duomo di Milano, riprendono gli schemi compositivi e i colori sontuosi dei teloni precedenti, fissando un'iconografia da aristocrazia ecclesiastica e nello stesso tempo intimamente sentita dal cuore del popolo.
Per rinforzare nei cattolici la consapevolezza della loro fede e per risvegliare in loro la pietà religiosa, i committenti privilegiarono i temi iconografici più adatti alla meditazione e alla penitenza, attraverso una produzione artistica che affascinasse e commuovesse gli animi, stimolasse sentimenti di pietà, educasse alla devozione e alla condivisione collettiva della fede: perciò gli artisti comunicarono anche con un linguaggio drammatico e teatrale, adeguato sia a rendere verosimili le visioni meravigliose di gaudio paradisiaco sia a rappresentare realisticamente le storie di martirio dei testimoni della fede sia a svelare in modo struggente tutte le atrocità patite da Cristo sul Golgota, le storie degli apostoli, le opere di misericordia, i sacramenti, le visioni estatiche dei Santi.
Nel rilancio dell’arte in questa funzione propagandistica, catechistica e morale fu rivisitata anche l’iconografia della Crocifissione per la quale si abbandonò il carattere narrativo a favore di una raffigurazione iconica concentrata sul dramma di Cristo. Nacquero così i grandi altari che sembrano costruiti su piani ascendenti, come tanti monti Calvario, con i Crocifissi al centro o al vertice.
Il Crocifisso ligneo che il cardinale Cesare Baronio nel 1564 donò alla chiesa di San Bartolomeo apostolo di Sora rappresenta un mirabile esempio di scultura lignea post-tridentina. Il 26 gennaio 1564 Pio IV aveva promulgato le costituzioni e i decreti tridentini con la bolla Benedictus Deus e proprio il 26 gennaio 1564 Cesare Baronio scrive in Roma la lettera con la quale informa lo zio Paolo che il Crocifisso, destinato alla cappella di famiglia nella chiesa di San Bartolomeo, era pronto. La figura del Cristo crocifisso, caratterizzata dall’equilibrio compositivo e classica nelle sue forme anatomiche, si offre alla devozione dei fedeli come nobile paradigma della perfezione del mondo creato. I segni della passione, senza sconvolgere la sublime compostezza dell’Uomo-Dio, appaiono trasumanati nella resa evocativa di un silenzio carico di serena misericordia.
Ancora Federico Barocci dipinse nel 1604 il Crocifisso spirante, un olio su tela di 374 x 246 cm oggi al Museo Nazionale del Prado.
Questo tipo iconografico di Cristo, con la stessa intensa carica di pathos e di compostezza formale, si riscontra in opere di uguale soggetto e di datazione più tarda, dipinte da Guido Reni, oggi alla Galleria Estense di Modena, e da Anton Van Dyck, oggi al Museo nazionale di Capodimonte, del 1631-32. Pertanto quest’opera di Barocci può essere considerata il loro immediato antecedente.
Nel dipinto di Barocci, Cristo è raffigurato in croce in primo piano, con lo sfondo della città di Urbino, vista dalla finestra della casa del pittore in via San Giovanni. Cristo si erge tra nubi tenebrose che si rischiarano solo alla sommità della croce, proprio ad accentuare la separazione tra il cielo e la terra, tra lo spirituale e il terreno.
Lo sfondo, costituito dal cielo e dal paesaggio, è basato su una tavolozza di toni delicatamente cupi, che si staccano nettamente e decisamente dai colori chiari, a tal punto da creare un notevole contrasto fra lo sfondo scuro e il corpo di Cristo illuminato da una luce frontale, tipicamente e volutamente divina.
L'opera fa parte dell’ultima produzione del pittore e presenta contrasti tonali che dovettero sembrare al Barocci più efficaci della concordia e unione designate da Gian Pietro Bellori come il massimo dell’armonia compositiva. Qui la morbidezza dei colori e il giusto accostamento tra gli stessi si fissano come elementi peculiari e prevalenti della pittura di Barocci.
La veduta paesaggistica, uno dei primi paesaggi non idealizzati della pittura italiana, è notevole: è distinguibile il Palazzo Ducale, in alto il convento di Santa Caterina e in basso il borgo di Valbona, a mezza altezza c'è il Mercatale e alla destra la chiesa di San Rocco. È splendido il profilo delicato delle montagne, velate sul fondo dalla foschia e dipinte con tonalità grigio–azzurre. Basterebbe questa veduta per comprendere fin in fondo il legame affettuoso e cordiale tra il pittore e la sua città natale.
Per comprendere meglio questo dipinto è utile contestualizzarlo nel catalogo delle opere del maestro, quindi confrontarlo con i lavori precedenti di identico soggetto: la differenza più evidente tra le precedenti Crocifissioni, confrontandola con quella del Duomo di Perugia, e il Crocifisso Spirante, è il supremo lirismo di questa tela: l'unica di Barocci in cui Cristo sia il solo personaggio presente, nessuno è chiamato a partecipare, a testimoniare il suo sacrificio e la sua sofferenza. Gesù è, infatti, completamente solo di fronte al mistero della morte.
Se però nelle precedenti crocifissioni Barocci aveva raffigurato Cristo con il capo reclinato e con gli occhi chiusi secondo l’iconografia del Christus patiens, nel Crocifisso Spirante il maestro lo raffigura ancora vivo, con gli occhi aperti levati al cielo, riproponendo in una chiave assolutamente nuova l'iconografia del Christus Triumphans, ossia del trionfatore sulla morte.
Diversamente poi dalle altre crocifissioni nelle quali la croce, posta in leggera profondità, lascia vedere la base del montante ben piantato nel terreno, qui Barocci ha pensato di non inserire nessun piano prospettico tra Cristo e lo spettatore, omettendo il dettaglio dello stauros conficcato nel terreno, così che il crocifisso sembra innalzarsi senza soluzione di continuità davanti agli occhi dello spettatore. Soltanto il paesaggio orizzontale compensa l’estrema verticalità che creata dalla croce.
Sempre considerando il catalogo si può osservare che questo paesaggio urbinate è l'estrema evoluzione fra i quattro dipinti dal Barocci: pur essendo le quattro opere accomunate dal medesimo punto di vista, la stanza del pittore, il Crocifisso Spirante lo presenta in versione notevolmente più ampia ed estesa oltre che meglio articolata visivamente.
Durante il suo soggiorno in Italia tra il 1621 e il 1632, Antoon van Dyck produsse una serie di Crocifissi isolati (esemplari oltre a questo di Napoli sono quello di Palazzo Reale di Genova, quello delle Gallerie dell'Accademia a Venezia), destinati alla devozione privata, che incontrarono grande successo e furono per questo più volte replicati con poche varianti servendosi di un modulo compositivo più o meno identico.
Il Cristo sulla croce di Capodimonte fu dipinto da Van Dyck fra il 1621 e il 1625 appartiene a questa serie.
Il dipinto, un olio su tela di 123 x 192 cm, raffigura il momento in cui Gesù, avvertita ormai l’inesorabile fine, grida a gran voce la celebre frase "Dio mio, Dio mio! Perché mi hai abbandonato?" Dietro la Croce, come su tutta la Terra, in quello stesso istante, il cielo si oscurò e un lampo, proprio come quello che compare dietro la mano destra di Cristo, squarciò le nubi.
Seguendo fedelmente il racconto evangelico, Van Dyck coglie lo spasimo doloroso di un uomo che sente vicina la morte e si contrae irrigidendo tutti i muscoli del corpo in un ultimo, inutile tentativo di resistenza all'ineluttabile destino di morte prima dell'abbandono definitivo.
I toni cupi del paesaggio e del cielo squarciato da improvvisi bagliori fanno emergere con enfasi la figura chiara di Cristo, dalle membra fragili e tese. Le iridescenze grigio-argentee del perizoma contrastano con il crudo realismo del rosso del sangue che dai chiodi conficcati nelle mani e nei piedi cola lungo le braccia tese mentre le dita si accartocciano come artigli, la testa scivola all'indietro e gli occhi si volgono imploranti a cercare l'aiuto divino.
Sull'elegante corpo affusolato di Cristo spicca il candido chiarore dell’ampio perizoma riccamente panneggiato che recinge i suoi fianchi e che appare quasi abbagliante nel contrasto con lo sfondo cupo e tenebroso.
La drammatica perfezione della Crocifissione di Van Dyck, sublimazione pittorica di ogni sofferenza, si inquadra nella ricerca di patetismo e nello stesso tempo di adesione alle Sacre Scritture e di semplicità rappresentativa che la Chiesa richiedeva all'arte per suscitare nei fedeli pietà, commozione e senso religioso.
Sempre sulla stessa iconografia della Crocifissione c’è il Cristo crocifisso di Guido Reni, un olio su tela, di 261 x 174 cm, dipinto nel 1636 su commissione del nobile reggiano Girolamo Resti per l’altare maggiore del piccolo “Oratorio delle cinque piaghe di Gesù” annesso alla “chiesa di Santo Stefano”.
Girolamo Resti, uomo di grande pietà e amante dell'arte e aveva fatto fare per il suo tomba un capolavoro di pittura e di scultura e avrebbe voluto restasse per sempre nell'oratorio cui lui l'aveva destinato. Ma, smantellato l'oratorio, trasferita l'ancona in Duomo, il Crocefisso finì prima negli appartamenti del Duca di Modena e oggi il dipinto è conservato nella “Galleria Estense” di Modena.
Questo Crocifisso è stato un’icona di enorme fortuna per tutta l’età moderna: rispetto al coevo esemplare che Reni eseguì per la basilica di San Lorenzo in Lucina a Roma, dove compare un dettagliato paesaggio urbano nello sfondo, in questo di Modena invece tutto è lineare ed essenziale. C’è un Golgota che assume la rotondità simbolica dell'intero cosmo, c’è la croce che si staglia contro un cielo lunare definito solo dal movimento delle nuvole nel vento. C’è solo Cristo che squarcia con la sua luce il buio, una luce proiettata dall'alto come un faro potente che illumina il suo corpo. Nessun personaggio a corredo, nessun santo in adorazione, nessuna scena corale con i classici dolenti e i soldati romani.
Anche questo Cristo crocifisso, come già quello di Barocci, volge la testa al cielo e un breve soffio di vento sembra l’esalazione del suo ultimo respiro. Il senso di astrazione di questa spazialità senza tempo e senza luogo è accentuato dalla luce argentea che eleva la figura dolente in una dimensione metafisica.
Reni mostra qui di aver assimilato quella rigidità immobile della pittura fiamminga del XV secolo che Denijs Calvaert, il suo primo maestro, gli aveva insegnato ad apprezzare e traduce l’evento in una fissità sovrannaturale, come se l’eternità entrasse improvvisamente nella Storia: metafisico è il lembo del perizoma girato in alto che sembra sovvertire ogni legge fisica di gravità, per rappresentare l'immobilità del tutto, anche di quel velo che sembra essersi fermato.
Il solo movimento avvertibile, con il suo potente richiamo, è nello sguardo del Cristo e nel suo dialogo con il Padre. Il corpo di Gesù non è più devastato dal dolore, il suo sacrificio si è già compiuto, ma è colto nell'attimo in cui transita verso la Resurrezione e coglie l'alba di un mondo nuovo, dove l'eternità irrompe nella Storia grazie alla redenzione.
In Guido principio ideale e realtà s'identificano, come stretta conseguenza della teoria classicista, nel mito stesso della bellezza, per questo il suo Gesù Crocifisso è un'opera modernissima, lineare, essenziale, dove la luce è irradiata dal Cristo in croce, come presenza essenziale, quasi metafisica, per incarnare i valori che il Concilio di Trento, tramite il cardinale Paleotti e grazie a teorici come Giovanni Andrea Gilio, ha cercato di infondere negli artisti e che trovano in Guido Reni il maggiore interprete.
Il classicismo di Reni fu la pittura che piacque Gian Pietro Bellori, infatti, ritiene che Reni, grazie a concetti fondanti come l’idea e il primato della linea, nel campo del bello ha superato tutti gli altri artisti del […] secolo e si può dire che abbia influenzato Poussin, e pittori come i Nazareni e Puristi del XIX secolo.
Il tema della sofferenza e della morte è suggerito dalla Chiesa nella rappresentazione dei martiri che rappresentano la forma più elevata dell’imitazione di Cristo, perché il martirio è la suprema testimonianza d’amore. 
Il martirio dei santi diventò secondo i dettami del Concilio uno dei temi più ricorrenti fino a tutto il Seicento, quasi a testimoniare una nuova visione della religione basata soprattutto sul dolore e sulla mortificazione. La necessità di suscitare commozione nel fedele comportò la rappresentazione di scene crudeli e spesso macabre, caratteristica che si ritrova anche nel complesso ciclo di affreschi che Nicolò Circignani dipinse nella chiesa romana di Santo Stefano Rotondo intorno al 1582, con scene del Martirio di vari santi: analitiche e accurate descrizioni delle efferate crudeltà cui erano stati sottoposti i difensori della fede, testo offerto alla riflessione dei novizi gesuiti e momento tra i più indicativi della religiosità e della moralità controriformistica di immediata ispirazione gesuitica.
Negli ultimi anni del Cinquecento Caravaggio vantava ormai committenti celebri: i Doria, i Giustiniani e tra i collezionisti, intenditori entusiasti delle novità della sua pittura, annoverava anche Giambattista Marino. Abbandonate così le piccole tele a carattere simbolico, si cimentava ormai nella pala sacra: di questo periodo sono le bellissime opere come il Riposo nella fuga in Egitto e la sublime Vocazione di San Matteo.
In questo momento gli giunsero due grandi committenze anche grazie al suo potente mecenate Cardinale Del Monte: la Cappella Cerasi in Santa Maria del popolo e la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi.
Nelle due cappelle ci furono le richieste di due martiri, genere nel quale il giovane maestro si cimentava per la prima volta e nel quale si distingue per la rappresentazione dei supplizi di santi apostoli e di martiri cristiani, eseguiti in varie fasi della sua tormentata esistenza – Martirio di San Matteo, Martirio di San Pietro, Martirio di San Giovanni Battista, Martirio di Santa Lucia, Martirio di Sant’Orsola per dire solo di quelli di certa attribuzione.
Il primo di questi supplizi è il Martirio di san Matteo, un olio su tela di grandi dimensioni (323 x 343 cm) che fa parte della serie di tre dipinti su San Matteo che Caravaggio eseguì per la chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma tra il 1597 e il 1603, ed è ormai assodato che la tela del martirio fu la prima che Caravaggio realizzò.
La Legenda Aurea di Jacopo da Varagine racconta che san Matteo avrebbe convertito Egippo re di Etiopia e la terra su cui regnava dopo aver resuscitato miracolosamente la figlia Ifigenia. La tradizione racconta che, quando gli successe sul trono suo fratello Irtaco, questi avrebbe voluto sposare Ifigenia che però aveva consacrato la sua verginità al Signore. Poiché Irtaco chiese a Matteo di persuaderla a concedersi a lui, il santo lo invitò ad ascoltare una sua predica che avrebbe tenuto il sabato successivo nel tempio al cospetto di tutti. Quel sabato l'apostolo proclamò solennemente che il voto di matrimonio di Ifigenia con il re celeste non sarebbe potuto essere infranto per il matrimonio con un re terreno. Il santo sarebbe stato ucciso sull'altare mentre celebrava la messa, trafitto a colpi di spada da un sicario inviato dal re.
Caravaggio coglie il momento culminante di questo vicenda per esprimere la violenza dell'azione nell'immagine tragica di un delitto. Il momento rappresentato è l’istante preciso in cui San Matteo sta per essere ucciso dal sicario del re ed è trattenuto per un braccio dall’assassino che sta preparando la spada per uccidere l’apostolo che, scaraventato brutalmente a terra, è poco visibile, quasi fosse un elemento secondario, spostato verso la parte bassa del quadro.
La figura che domina la scena e che attira tutta l'attenzione su di sé è invece l'assassino. Il giovane è seminudo: la corporatura atletica, la sua capigliatura ricciuta e la fascia in testa ricordano gli eroi delle statue greche, ma diversamente da questi emblemi della perfezione morale, il richiamo classico assume una connotazione negativa, indica la crudeltà, l'ingiustizia, la violenza, il sacrilegio del mondo pagano. Il suo volto, con la bocca aperta sembra che stia digrignando i denti, in preda a un furore che sta per abbattersi sul santo.
Dall'alto un angelo irrompe e si protende per lasciare la palma del martirio nella mano aperta di san Matteo, trasformando così il semplice evento della sua morte nel momento topico del suo martirio. Nella scena non è chiaro se San Matteo con il braccio destro stia cercando di difendersi dal suo aggressore o se stia invece cercando di afferrare la palma che gli sta tendendo l’angelo.
Il crimine di questo personaggio si svolge in chiesa davanti all'altare, e interrompe la messa celebrata dal santo: il sacrificio di san Matteo colpito a morte è un evidente richiamo al sacrificio eucaristico della messa, e il suo sangue che sgorga, rinvia al sangue di Cristo sulla croce.
Tutto intorno ai due, vi è un aprirsi convulso della folla che assiste inorridita a quanto sta avvenendo e che mostra reazioni diverse davanti a questo evento: i personaggi fuggono dappertutto, sconvolti, spaventati. C’è chi è terrorizzato, chi è stupito e chi non sa cosa stia succedendo: sono gesti di stupore, di agitazione, di orrore. Il groviglio di corpi rimanda ancora a composizioni manieriste, mentre i nudi sono di chiara derivazione michelangiolesca.
Caravaggio racconta il martirio come un comune fatto di cronaca, come un volgare omicidio anonimo di quelli che capitavano spesso per le strade di Roma: San Matteo, sopraffatto dal manigoldo, non è un eroe sacrificato, ma una vittima indifesa che cade malamente. Un povero vecchio brutalmente aggredito. Tutte le figure sono poste all’interno di uno spazio oscuro appena visibile nel quale i soggetti emergono grazie a una luce la cui sorgente è tutta esterna alla tela, e serve a esaltare i dettagli mentre tutto è immerso nell'ombra, in un gioco di contrasti che rende l'effetto della concitazione e del dramma.
Un dettaglio della tela è particolarmente interessante. A sinistra, dietro lo sgherro c'è un personaggio con la barba che, mentre fugge, sembra voltarsi per osservare la scena. La sua espressione sconvolta, contratta in una smorfia di dolore, sembra che stia piangendo: è l’autoritratto di Caravaggio. Il pittore si inserisce nella scena in mezzo alle altre figure come se fosse un testimone, coinvolto suo malgrado in un episodio tragico, quasi a volerci testimoniare la violenza dilagante del suo tempo che si intreccia con la tragedia della sua vita personale. È una testimonianza viva, piena di consapevolezza della sua realtà.
Caravaggio era giunto a questa composizione piuttosto sovraffollata, estremo retaggio del manierismo, dopo diversi tentativi: dalle radiografie del dipinto sono emerse, infatti, le tre precedenti versioni, diversissime da questa, sovrapposte prima di giungere alla scelta finale a dimostrazione dell’estremo travaglio del maestro e delle lunghe prove e meditazioni. Nella prima, la scena del martirio era collocata in un ambiente con il fondo chiuso da un tempio e al centro era presente un soldato, ovvero l’assassino il quale dominava l’intera composizione arrivando addirittura a coprire San Matteo. Nella seconda versione invece la gestualità dei personaggi presenti era più vivace e molto simile a quelli presenti nella versione finale. Nella terza versione infine possiamo ammirare l’opera com’è ora, nella sua apparente casualità, costruita su un sapiente equilibrio di pieni e vuoti, masse e piani che si richiamano e che si dispongono in un'armonia rigorosa impostata sulle diagonali.
L’intera scena è immersa nel buio, come se tutto stesse avvenendo di notte. Da questo momento Caravaggio userà sempre il fondo scuro per le sue immagini.
Con la commissione di Monsignor Cerasi dei due quadri per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, la già citata Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo, Caravaggio fu ufficialmente riconosciuto nel 1600 egregius in urbe pictor.
Caravaggio realizzò fra il 1600 e il 1601 la Crocifissione di san Pietro, una grande tela di 230 x 175 cm che fa da pendant con La conversione di San Paolo. Entrambe le tele sono molto interessanti, perché Caravaggio, ancora nella fase sperimentale della sua ricerca, prosegue nella definizione di nuovi schemi strutturali in cui colloca i propri soggetti, e nell'approfondimento della pittura di storia, tenendo conto soprattutto del luogo dove erano destinate queste opere, che obbligavano gli spettatori a una visione di scorcio.
Diversamente dalla Conversione di san Paolo di cui si conosce la prima versione rifiutata dal committente, l’unica versione della Crocifissione di San Pietro giunta fino a noi è questa esposta sulla parete sinistra della cappella: anche in questo caso la prima versione fu rifiutata perché ritenuta troppo realistica. Purtroppo questa non è mai stata ritrovata, ed è difficile immaginare come potesse essere ancor più realistica, rispetto a questa splendida seconda versione.
Diversamente poi dalle numerose fonti relative alla Conversione di San Paolo, riguardo la crocifissone di Pietro abbiamo solo poche notizie che, stando ai testi biblici, fu perseguitato durante l’impero di Nerone: solo il libro apocrifo degli Atti di Pietro, racconta che durante la persecuzione ordinata dall'imperatore Nerone, san Pietro stava fuggendo da Roma per evitare il martirio, quando sulla via Appia gli apparve Gesù che camminava nella direzione opposta, verso la città. «Quo vadis, Domine? chiese l'Apostolo. Eo Romam, iterum crucifigi gli rispose Gesù».
L'apostolo capì allora che Gesù, con questo segno, gli aveva chiesto di ritornare a Roma e di accettare il martirio e obbedì. Per suo stesso desiderio l’apostolo scelse di essere crocifisso a testa in giù, come gesto di umiltà nei confronti del proprio maestro e per essere inferiore a Gesù che aveva subito la stessa condanna.
Caravaggio scelse di seguire questa tradizione, ma ne stravolse alcuni elementi per rendere questa scena memorabile. Anche in questo caso Caravaggio stupì il pubblico, realizzando una tela dal carattere antieroico ed eliminò qualsiasi accenno di sacralità presente nella tradizionale iconografia della Crocifissione di San Pietro: la scena è infatti ridotta all’essenziale, con i tre aguzzini, che qui però appaiono  come semplici operai piuttosto che come spietati carnefici, il santo, la croce, la fune, la pala, il mantello azzurro e una grossa pietra in primo piano. Anche qui, il paesaggio è del tutto assente e manca qualsiasi riferimento al luogo del martirio, mentre gli elementi raffigurati contribuiscono alla costruzione della scena, caratterizzata da un impianto solido e da un’immediatezza fisica inaspettata.
Coloro che stanno legando il santo alla croce non sono soldati che eseguono una sentenza, ma modesti operai che stanno lavorando e lo si evince soprattutto dalle loro movenze, oltre che dall’abbigliamento. Non aguzzini quindi, ma manovali intenti a sollevare faticosamente la croce sulla quale è stato inchiodato Pietro. Questa visione induce a pensare che essi siano soltanto degli strumenti inconsapevoli di quello che stanno facendo, perché stanno eseguendo soltanto gli ordini come se fosse un qualsiasi lavoro.
Diversamente da come accade in altre opere, dove la luce illumina solo il corpo e il volto dei santi, in questo caso invece la luce è concentrata tanto su Pietro quanto sui carnefici, quasi esonerandoli dalle proprie responsabilità legate alla morte del santo. Di loro Caravaggio non mostra i volti, come per oscurarne i sentimenti e i pensieri, mettendone invece in evidenza i corpi, muscolosi e sudici, che scandiscono i tempi dell’azione: il becchino che, dopo aver scavato nel terreno la buca per issare la croce, posa l’attrezzo e si abbassa per permettere ai compagni di svolgere il loro lavoro; poi l’operaio che, legata la corda all’asse di legno, sorregge il crocifisso; infine l’altro operaio, incurvato e concentrato a tirare la corda finché si compia l’estremo e definitivo innalzamento che consenta di eseguire la sentenza capitale. Nonostante non sia visibile la fatica sui loro volti, Caravaggio rende palpabile lo sforzo dei tre.
Tutta l’attenzione dello spettatore, grazie all’uso sapiente della luce che si diffonde nel quadro, è concentrata sul vecchio Pietro che, nonostante appaia stanco, rassegnato e stordito a causa dell’improvvisa perdita dell’orientamento conseguente al rovesciamento della croce sulla quale è inchiodato, solleva la testa e volge lo sguardo oltre la sua martoriata mano sinistra, verso l’altare sul quale è collocata la pala di Annibale Carracci con l’Assunzione della Vergine.
In questo dipinto si rivela una nuova padronanza stilistica, basata su una complessa struttura impostata su più diagonali che si intersecano e sono formate dalla croce e dalla schiena dell'aguzzino: la prosecuzione degli assi compositivi diagonali conferisce alle immagini un moderno sconfinamento oltre il limite della tela ed elimina l'illusionismo prospettico tanto caro al Rinascimento.
Ancora una volta il pittore dedica una minuziosa attenzione ai particolari, essenziali per rendere realistico il dipinto e per farne uno dei capolavori di Caravaggio: si può segnalare per esempio il piede sporco di uno degli aguzzini che solleva la croce con la schiena, e ancora l’attenzione nella realizzazione della croce con le venature del legno, e infine il riflesso della luce sulle unghie di San Pietro.
In questa tela l’andamento della luce radiale svolge un'azione costruttiva sui corpi fortemente plastici, sporgenti dal fondo scuro. Tuttavia la luce, pur conferendo tridimensionalità alle figure, pur rendendole concrete, non approfondisce lo spazio perché qui l'ombra (e ancor più nelle opere successive) è un elemento che si oppone simbolicamente alla luce. Le forme emergono dall'oscurità impenetrabile: il messaggio rivolto all'uomo di abbandonare le tenebre del peccato e restare nella zona illuminata delle virtù che conducono alla salvezza divina.
Anche in questa tela il carattere di religiosità impegnata procede di pari passo con la rievocazione del fatto storico in un clima dimesso e popolare.
Con queste prime opere monumentali del giovane maestro bergamasco si osserva perfettamente il passaggio dal primo stile romano, luminoso e chiaro, alla nuova maniera del "tenebroso".
Un esempio piuttosto atipico di raffigurazione di martirio è quello riguardante il martirio di San Sebastiano, uno dei più raffigurati (da Alessandro Allori a Battistello Caracciolo, da Caravaggio al Cavalier d’Arpino, da Daniele Crespi al Domenichino, da Paolo Finoglia a Luca Giordano, dal Guercino a Giovanni Lanfranco, da Carlo Maratta a Mattia Preti, da Ribera a Massimo Stanzione ad Andrea Vaccaro solo per ricordare i più noti in Italia). In tal senso la storia dell’arte gli è debitrice di capolavori assoluti, espressi in un perfetto accordo fra fede e devozione, fra spiritualità e raffigurazione. In molti di questi dipinti San Sebastiano è raffigurato solo, protagonista assoluto, modello dell’iconografia della bellezza e dell’integrità: un giovane bellissimo, nudo, che subisce il martirio delle frecce, legato a un albero o a una colonna, o sdraiato per terra, tanto bello che neppure il supplizio riesce a umiliarlo e a sfigurarlo.
Ma perché tanta frequenza nella rappresentazione di questo santo? Indubbiamente perché si riteneva che il santo potesse difendere dalla peste, che per millenni aveva flagellato l’umanità: si pensi alla terribile epidemia del 1348-1353 che uccise almeno un terzo della popolazione europea e che provocò un mutamento profondo nella società dell'Europa medievale, o alla pestilenza del 1576-1577, nota come la Peste di San Carlo, o alla terribile epidemia che si abbatté nel 1630 e che fu narrata da Alessandro Manzoni ne I Promessi sposi, o si pensi ancora alla peste del 1656 che produsse nella sola Napoli duecentomila vittime, o infine alla grande peste di Londra del 1665-1666 e a quella di Vienna del 1679. Ma accanto a quest’aspetto devozionale e apotropaico, la frequente rappresentazione del santo è probabilmente dovuta al fatto che questo giovane seminudo, legato a un albero o a un’antica colonna, sereno nell’accettazione del suo martirio o contorto negli spasimi della morte, è una celebrazione della bellezza del corpo umano, che gli artisti hanno amato esaltare proprio a partire dal Rinascimento.
Questo non spiega tuttavia perché una Chiesa così intransigente come quella post tridentina abbia potuto tollerare che, nella maggior parte dei casi, l'immagine di San Sebastiano trasmettesse una carica di sensualità così forte, che assai poco si attagliava alla spiritualità che in quel periodo la Controriforma proclamava e faceva veicolare.
Per comprendere più a fondo l’iconografia del santo, occorre soffermarsi come sempre sulle fonti agiografiche.
Le notizie biografiche su San Sebastiano sono poche e confuse.
Nato probabilmente a Narbona in Gallia o forse a Milano nel 263 in una famiglia cristiana, nel 283 Sebastiano si arruolò nell'esercito dell'imperatore Diocleziano. Giunto a Roma, diventò tribuno della prima coorte pretoriana e fu stimato per la sua lealtà e intelligenza dagli imperatori Massimiano e Diocleziano, che non sospettavano fosse cristiano. Il tribuno, approfittando della sua posizione, aiutò altri cristiani rinchiusi nelle carceri, durante la persecuzione di Diocleziano. In seguito a una delazione, Sebastiano fu condannato a morte per non aver voluto rinnegare la propria fede e, essendo un soldato, gli fu concesso un supplizio 'onorevole' ossia morire tramite dardeggiamento. Fu portato fuori città, spogliato e legato a un albero o a una colonna, e i suoi ex commilitoni lo trafissero con così tante frecce, «ut quasi ericius esset hirsutus ictibus sagittarum». Ciononostante Sebastiano si salvò miracolosamente e, creduto morto dagli arcieri, fu lasciato a terra in pasto agli animali selvatici. Secondo l’usanza dei cristiani, la vedova Irene, nel recuperare il corpo di Sebastiano, si accorse che il tribuno non era morto, lo curò e inaspettatamente Sebastiano riuscì a guarire. Quantunque consigliato di fuggire da Roma, Sebastiano, appena fu in grado di muoversi, andò da Diocleziano al Tempio di Ercole. L’Imperatore, dopo aver ascoltato i rimproveri di Sebastiano per la persecuzione contro i cristiani, perse la pazienza e lo condannò questa volta a un supplizio infamante: essere ucciso a bastonate o a frustate. L'esecuzione avvenne intorno al 304 nell’ippodromo del Palatino quando Sebastiano aveva appena trentaquattro anni e il suo corpo fu gettato nella Cloaca Massima, per evitare che i cristiani potessero ancora una volta recuperarlo, assicurandogli con la sepoltura la possibilità della resurrezione. La tradizione afferma che il martire, apparso in sogno la stessa notte alla matrona Lucina, le indicò il luogo dov’era approdato il suo cadavere per essere seppellito e questa lo fece seppellire nelle catacombe della Via Appia che da lui presero il nome, vicino all’omonima chiesa costruita alcuni anni dopo la sua morte.
Il martirio di San Sebastiano fu molto caro alla cultura popolare, e l’arte assecondò queste istanze: oltre al privilegio di tanta rappresentazione, il Santo è considerato il terzo patrono di Roma, dopo i due apostoli Pietro e Paolo.
Nel corso dei secoli l’iconografia di san Sebastiano è molto cambiata. Intanto occorre ricordare che le vicende del suo secondo martirio hanno interessato relativamente poco la sua iconografia, che ha sempre invece prediletto la rappresentazione del supplizio delle frecce. Inizialmente il santo era stato raffigurato come un uomo anziano con la barba, vestito alla romana, e aveva come segno di riconoscimento o una piccola croce o una corona, emblema di martirio e di vittoria sulla morte. Nei ritratti più tardi del Medioevo compaiono le frecce e Sebastiano è raffigurato con l’armatura, propria di un militare. Dal XV secolo in poi, il santo cominciò a essere raffigurato come una figura giovanile e la sua immagine diventò così un pretesto per celebrare la bellezza del corpo nudo, secondo l’ideale edonistico del Rinascimento. A mano a mano le sue raffigurazioni si fecero sempre più sensuali e finirono per provocare scandalo, per questo alcune tele furono rimosse dalle Chiese e finirono sul mercato d’arte.
La possibilità di descrivere liberamente il martire come un giovane bellissimo che, quasi nudo subisce il martirio in un miscuglio di dolore e di piacere,  aumentò il numero delle sue raffigurazioni. Gli artisti si sentivano così sollecitati a cimentarsi nella trattazione del nudo, che trasformò il santo nel corrispettivo cristiano di divinità e di eroi pagani: da Apollo a Eros, da Prometeo legato ad Adone, come del resto  Michelangelo, nel Giudizio Universale lo aveva immaginato nudo e possente come un Ercole, mentre stringe in pugno un fascio di frecce, beato nella comunione dei beati con Dio.
Anche Guido Reni, pittore profondamente religioso ed estremamente devoto, subì il fascino sensuale dell’immaginario artistico legato a questo santo, e dipinse i suoi San Sebastiano come dei giovani bellissimi dalla pelle di seta e dal volto estatico.
Probabilmente in queste opere Reni dovette dare voce alle sue ossessioni omoerotiche e misogine come la fobia per le donne e la sua convinzione che gli portassero sfortuna. Dedicando ben otto dipinti alla figura di San Sebastiano, di cui cinque soltanto per Roma, Reni sembrò quasi ossessionato da quel corpo, al punto di raffigurarlo come un’icona sacra che colpisce per la sua bellezza e per la sensualità della sua posa. A questo proposito il critico americano Richard Spear, accennando all’omosessualità di Reni, sostiene che proprio quest’aspetto del pittore si rivela nella particolare attenzione al corpo nudo del santo. I San Sebastiano di Guido appartengono però al mondo del pittore, alla sua esperienza visiva di giovani, visti e frequentati: è pertanto pensabile che Guido in essi avesse messo non tanto inconfessabili desideri sessuali come sostiene Spear, quanto un'idea di piacere estatico ed erotico, in modo da poterla trasmettere allo spettatore, molto più di quanto quei giovani rappresentassero reconditi desideri del pittore.
Osservando il San Sebastiano della Pinacoteca Nazionale di Bologna, un olio su tela databile fra il 1639 e il 1640 di 235,5 x 137 cm, è evidente che Guido si sia ricordato del santo nudo che aveva copiato da giovane quando era all’"Accademia" dei Carracci e ne abbia ripreso alcuni aspetti. Ma si nota anche che egli abbia subito l’influsso di altri artisti, in particolare quello di Caravaggio. Quel piccolo panno che ricopre i genitali è volutamente spostato, per far intravedere, e per lasciare all’immaginazione. È visibile soltanto una piccola parte del pube con la peluria nerastra, e il santo non ha sul corpo nudo neppure una freccia, come se dovesse essere ancora colpito o come se le frecce non gli fossero ancora arrivate. Tutto il resto si immagina. Ciò che maggiormente interessa al pittore è mostrare al suo pubblico l'integrità di quel corpo, senza che niente possa disturbare la vista, frecce o monconi di frecce, o sangue o ombre marcate.
San Sebastiano è legato ad un albero, come già in Antonello da Messina, e poggia su di una specie di piedistallo di roccia, con una gamba rigida e l’altra morbidamente piegata. È chiaro che il pittore abbia voluto mostrare qualcosa di lascivo senza essere lascivo, per evitare la censura controriformistica. Ma è altrettanto chiaro che quel corpo è dipinto per turbare, secondo una precisa volontà esecutiva che forse doveva tener conto anche del desiderio del committente.
Reni ritrae un giovane qualsiasi, ma che ha in sé qualcosa di mistico. Un "ragazzo di vita" di caravaggesca memoria, messo lì come un santo ispirato nel quale i sensuali riccioli neri contrastano con gli occhi in estasi, rivolti verso l'alto. Seguendo la precettistica dei gesuiti sulle funzioni pedagogiche dell’arte sacra, i santi “con gli occhi al cielo” aiutano a sentire emozionalmente, con sangue e carne, cosa significhi l’afflato mistico che porta alla diretta comunicazione con Cristo, prerogativa della devozione più profonda. Santità ed eros, dunque, secondo la lezione del misticismo contemporaneo e attraverso le letture agiografiche.
Quest’opera nella sua semplicità può essere considerata una chiave di lettura di tutta la pittura di Reni: essa permette infatti, di comprendere l’estetica della santità e di conoscere e di capire meglio ciò che sta dietro la realizzazione dell’immagine, dell’invenzione, della maniera e della poesia nell’instancabile ricerca della perfezione di questo colto pittore, anch’egli molto opacizzato dall’attuale moda caravaggesca.
Reni cerca di rappresentare la bellezza, ma in un modo opposto a quello di Diego Velasquez: mentre Velasquez, infatti, rende bello ciò che nella realtà non lo è, e lo fa diventare il bello stesso dell’arte, Reni invece rappresentava persone belle, immagini belle, episodi belli in modo bello.
Il corpo di San Sebastiano, bello come un dio pagàno ed iconograficamente più pagàno di un dio greco, è un ideale di perfetta bellezza. Ma è anche un modello di bellezza erotica, che anche la Chiesa ha finito per tollerare in cambio di una maggiore attenzione al Santo. Specie nei cupi e tragici giorni della peste che furono molti e frequenti durante la seconda metà del XVI e tutto il XVII secolo, San Sebastiano andava fervidamente invocato, affinché impedisse il terribile flagello.
La Chiesa, consapevole del potere seduttivo del Santo, malgrado censure ed interventi più o meno drastici di proibizione e rimozione, non aveva ignorato il fatto che l'icona di Sebastiano aveva una presa straordinaria sui fedeli e quindi se da una parte induceva al peccato, dall'altra attirava, coinvolgeva e questo al di là della sua funzione di Santo protettore. Per questo si spiega la presenza in chiesa di dipinti che non avrebbero mai trovato accoglienza in un luogo sacro. A giustificazione di questa sensualità tollerata ci sono la purezza dell’anima e l’incrollabile fede che l’una e l’altra si riflettono nella sublime bellezza di questo giovane corpo, che, pur rimandando alla bellezza pagana, nell’idea del martirio si riveste di sacralità e di una luce di eternità. Quest’aura di bellezza e di intimo splendore che avvolge il corpo virile e nudo di San Sebastiano, cattura l’attenzione di tutti i più grandi artisti dal Rinascimento ai giorni nostri, che nel desiderio di sperimentare nuove accezioni del nudo maschile, partendo dai canoni classici, si sono cimentati nella raffigurazione del santo.
Guido Reni fu dunque un pittore molto ricercato proprio dalla committenza ecclesiastica, perché essa sapeva come il pittore, meglio di ogni altro, poteva rendere l'immagine di grande e coinvolgente attrazione. L'unico che poteva creare, in modo eccezionale, lo spettacolo del corpo.
Quest’aspetto di misticismo-erotico era ben noto agli artisti di quel periodo: Bernini, scolpendo il gruppo marmoreo di Santa Teresa d'Avila, realizzato tra il 1647 e il 1653, lo rispecchia in pieno.
Nell’austera oscurità della chiesa carmelitana di Santa Maria della Vittoria, un’immensa luce si apre nella Cappella Cornaro, e con essa il rapimento della santa, colta dall’estasi, trasforma la cappella nel palcoscenico di un teatro.
Gian Lorenzo Bernini, zelante lettore di Ignazio di Loyola, ricorda un passo che aveva letto sull'estasi nell'Autobiografia della santa, che racconta: «Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento[5]
L'angelo dirige in modo molto evidente il dardo fiammeggiante, sollevando le vesti della Santa: l'estasi è vissuta come esperienza erotica.
Il dardo-fallo che l'angelo orienta verso il corpo della Santa – una chiara allusione al simbolismo erotico, messo in evidenza dalle parole stesse di Teresa, che parla del penetrare e del fuoriuscire del dardo – sconvolge l'ordine e il rigore. Le vesti, che l'angelo solleva, sono tutte scomposte, come a porre l’accento sull'ardore, tanto mistico quanto erotico, che invade la Santa in estasi. Ella è rappresentata con le vesti scomposte, il corpo esanime e abbandonato, il capo rovesciato all'indietro, il volto dolcissimo con le palpebre socchiuse, gli occhi rivolti al cielo e le labbra dischiuse che si aprono per emettere un gemito.
L’angelo, raffigurato come un adolescente giocoso, ricorda anche per l'abbigliamento l'Eros classico, ha in mano un dardo, simbolo dell’Amore di Dio, le scosta le vesti per trafiggerla.
Bernini rappresentò l'esperienza dell'estasi nel momento della sua massima intensità, nel momento culminante dell’estasi-orgasmo, quello che maggiormente trasmette emozioni, sentimenti e sensazioni forti in modo dettagliato ma nello stesso tempo con straordinaria sensibilità.
Cosa che al tempo, non lo escluse dalle polemiche.
In realtà, superato il crinale del 1600, la cultura si avvia sempre più profondamente verso il Barocco assetato di esperienza, da un lato conseguenza del nuovo tipo di approccio con il mondo che l'indagine scientifica stava affermando, da un altro per l’azione profonda che la Controriforma stava operando all’interno dell’individuo, scuotendone la coscienza e accrescendo il senso di responsabilità di fronte al peccato. L’interiorità del soggetto assume un’importanza nuova, un’importanza diversa: nel “profondo del cuore”, nei suoi spazi sempre più bui e sconosciuti a mano a mano che l’uomo del Seicento vi spinge lo sguardo, si ricercano le tracce di una divinità che pare essersi ritirata nelle pieghe più recondite e oscure della coscienza.
Centro di questo doppio versante dell’esperienza è il corpo con i suoi sensi. Di tale rapporto tra esteriorità e interiorità i sensi sono allo stesso tempo il punto di incontro, strumento e criterio di indagine. Con i sensi il corpo barocco sprofonda nella realtà, percependola nella sua densità carnosa e interrogandone il senso sfuggevole e apparente. Con i sensi la cultura barocca s’immerge nell’interiorità dell’immaginario e della coscienza a percepire l’emozione e la passione in tutte le loro sfumature ed ambiguità, ma anche a sperimentare i segni del divino e i modi della sua presenza. Questa sensualità, infatti, si spinge a descrivere, a rappresentare e a esprimere anche l’esperienza del sacro.
I corpi dei martiri sono esibiti nella loro nudità sofferente, mentre sono feriti, lacerati e sottoposti ai più feroci supplizi; i corpi dei religiosi sono percorsi dall’emozione dell’estasi; i corpi dei santi, tra schiere di angeli semivestiti, affollano soffitti, pareti e absidi di chiese e cappelle.
Il linguaggio figurativo e letterario del classicismo si piega a rappresentare questa nuova sensibilità.
In tale trasfigurazione del classicismo tutta la vicenda evangelica della passione di Cristo, ad esempio, è messa in contatto con il mito classico e la sua grande potenza immaginaria. Ne sono accentuati gli aspetti patetici, ma ne sono anche declinate tutte le risonanze sensuali come nella meravigliosa Flagellazione di Cristo che Caravaggio dipinta per la chiesa di San Domenico a Napoli.
Così, mentre la pittura realistica di Caravaggio cerca il divino nei corpi, la pittura classicista di Guido Reni reinterpreta la classicità con una nuova sensibilità per la luminosità della pelle e per il patetismo silenzioso dei gesti, coniugando iconologia classica e contenuto religioso nei suoi San Sebastiano, sospesi fra tormento ed estasi.
La stessa sensualità investe gli oggetti della realtà di tutti i giorni, nelle pitture dei grandi maestri fiamminghi, come nei testi dei grandi mistici secenteschi. Costoro interrogano gli oggetti nella semioscurità degli interni in cui quotidianamente e ordinariamente si trovano, cogliendoli nei silenzi profondissimi da cui paiono sorgere e cui ancora sembrano alludere, mentre si offrono allo sguardo pensoso che li percorre. La dimensione nascosta della realtà, la sua evidente eppure sfuggevole ragione d’essere scopre in tal modo la dimensione mistica del mondo, in bilico tra presenza e assenza, tra attimo ed eternità, tra nulla e qualcosa. Il Barocco coglie anche questa dimensione della realtà: gli oggetti, percepiti attraverso i sensi e realisticamente rappresentati, diventano silenziosi depositari di un’enigmatica verità, vicina al divino.
Un altro tema di grande importanza fu quello dei santi in meditazione, tema rappresentato da alcuni dipinti tra cui due pale di Battistello Caracciolo, raffiguranti due eremiti per eccellenza, San Girolamo e Sant’Onofrio dando il suo contributo a questo tema.
Il San Girolamo è un olio su tela di 93 x 129 cm, databile intorno 1618, appartenente oggi alla Galleria Corsini.
Allievo dei manieristi Belisario Corenzio, Girolamo Imparato e Fabrizio Santafede, Battistello (1578 - 1635) fu con Carlo Sellitto, tra i primi ad abbracciare il verbo caravaggesco cui si era avvicinato quando Caravaggio era giunto a Napoli per la prima volta verso la fine del 1606, con un impatto immediato e molto profondo sulla vita artistica della città. Battistello, di pochi anni più giovane di Caravaggio, fu uno dei primi a testimoniare il nuovo stile e senz'altro fu uno dei più talentuosi tra i vari artisti che si cimentarono con le tecniche pittoriche introdotte dal grande maestro bergamasco, improntate al drammatico tenebrismo di una pittura piana, poco profonda, con figure plastiche in cui la luce acquistava un’importanza sempre maggiore rispetto alla prospettiva.
La potente opera di Battistello è stata un fattore decisivo nel rendere Napoli, una roccaforte del caravaggismo. Un gruppo di dipinti commissionati per le chiese napoletane rivela che egli poteva interpretare in modo intelligente il realismo di Caravaggio, ma, a differenza di tanti caravaggisti, guardò oltre gli stilemi di Caravaggio, emulando la pittura del maestro, ma con profondità di sentimenti propri così come imparò a padroneggiare l’uso drammatico della luce e dell’ombra.
Nel 1618 partì per Genova poi soggiornò a Firenze e a Roma. Durante questi soggiorni apprese molto dal classicismo rivisitato dei Carracci e si incontrò con pittori che condividevano con lui la riforma di Caravaggio. Insolitamente per un artista caravaggesco, Battistello era anche un valente pittore di affreschi e, di nuovo a Napoli, tradusse la sua esperienza in grandiose scene di ampio respiro. Un esempio è il suo capolavoro, la Lavanda dei piedi del 1622, dipinta per la Certosa di San Martino, che segna una svolta nella produzione dell'artista, è infatti intrisa di un profondo naturalismo, rivisitato alla luce dei modelli bolognesi e toscani conosciuti durante i soggiorni a Roma, a Firenze e a Genova, o ancora frequentando gli attivi cantieri delle chiese cittadine.
Nel San Girolamo in meditazione il santo appare immerso in un paesaggio del suo stesso colorito bronzeo. Il suo profilo, i capelli, la barba e la possente squadratura del braccio in luce sono costruiti con un fitto reticolo di pennellate. Anche il teschio, sulla sinistra, appare eseguito con quei risalti che Battistello aveva ammirato nel San Girolamo di Jusepe de Ribera attivo a Napoli di sicuro dal 1616.
La posizione del santo, concentrato nella lettura del libro e non focalizzato sul teschio e sul crocifisso, è un’altra citazione del San Girolamo di Ribera, purtroppo perduto e noto solo attraverso stampe. Nell’opera di Battistello, infatti, compaiono la stessa posa di concentrazione del santo sul volume; lo stesso restringimento della scena alla sola figura, o quasi e quasi la stessa distribuzione delle rocce e del brano di paesaggio. Originale di Battistello è invece la tonalità di azzurro cobalto e di indaco del mantello del santo, reso con pieghe semplici e di plastica classicità, così come risponde solo alla sua poetica la scelta di raffigurare il santo ancora concentrato nella lettura in un’ora ormai notturna, con la luna rossastra che spunta dal profilo di una roccia, incurante del giorno trascorso, ancora dominato dalla volontà di apprendere.
Il Sant’Onofrio attribuito a Battistello da Roberto Longhi e ormai dalla maggior parte degli studiosi è un olio su tela di 180,5 x 116,6, cm oggi esposto alle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma a Palazzo Barberini.
Ancora una volta la raffigurazione di un santo del Cristianesimo antico, ancora una volta un santo che ha preferito l’isolamento dal mondo.
La vita di Sant'Onofrio è nota solo dal racconto del suo discepolo, Pafnuzio, che lo incontrò nel deserto egiziano. Secondo la tradizione agiografica Onofrio, il cui floruit è nel IV secolo, era figlio di un re, che, appena nato, fu indicato da un demonio come figlio di una relazione adulterina della regina: sottoposto alla prova del fuoco, ne sarebbe uscito indenne, ma al suo ruolo di principe egli preferì quella monastica e si fece monaco in un cenobio nei pressi di Tebe: desideroso di una vita più solitaria sull’esempio di San Giovanni Battista e del profeta Elia, lasciò il monastero per dedicarsi alla vita eremitica. Per 60-70 anni, visse da solo nel deserto dei frutti di un albero e di una palma vicini alla sua grotta, e indossava solo i capelli e un perizoma di foglie.  Il vecchio vescovo Pafnuzio, desideroso di conoscere la vita degli anacoreti del deserto, lo incontrò e trascorse con lui gli ultimi giorni di vita di Onofrio, cui diede sepoltura in una grotta e riportò la sua esperienza nel libro La Vita che ebbe larga diffusione in Oriente dando l'avvio al culto di Sant'Onofrio che si estese per tutta l'Asia minore. Fu raffigurato per la prima volta nell’Yilanlı Kilise nella valle di Göreme, un museo a cielo aperto in Cappadocia.
Dal punto di vista iconografico le immagini di Sant’Onofrio risultano dalla fusione con quelle del selvaggio dei boschi, una figura mitica che appare nell’arte e nella letteratura dell’Europa, infatti, è rappresentato come un uomo selvaggio vecchio e nudo completamente ricoperto dei propri capelli, con indosso una cintura di foglie. Ulteriori suoi attributi sono l'angelo, l'ostia e il calice, il teschio, il cammello e il perizoma di foglie.
Battistello non pone nessuno degli attributi iconografici, tranne il perizoma di foglie. La figura monumentale del santo, a dispetto della sua posa apparentemente instabile, è perfettamente bilanciata nello spazio del quadro. In piedi al centro del dipinto, la posa di Onofrio è uno studio di movimenti contrapposti. L’uso di Caracciolo della luce non annulla i dettagli di anatomia, come aveva fatto nel suo lavoro del 1610, ma abilmente pone l’accento sulla tridimensionalità pittorica con cui l'artista ha scolpito il corpo del santo. Un bel passaggio, questo nudo è descritto con un gradevole forza formale, senza l'indulgenza caratteristica di Ribera. Il volto, intenso e vibrante, è reso con pennellate rapide e senza alcun tentativo di nascondere i segni della vecchiaia. Invece, il volto si trasforma con un’espressività nobile che è accentuato solo dal severo, la gestione quasi monocromatica di colore.
Recentemente è stato proposto un probabile collegamento tra questo dipinto e l’Isaia di Cosimo Fanzago nella chiesa del Gesù Vecchio a Napoli, che Battistello sembra aver utilizzato come fonte compositiva. La figura monumentale del santo, a dispetto della sua posa apparentemente instabile, è perfettamente bilanciata nello spazio del quadro. La posa di Onofrio, in piedi al centro del dipinto, è uno studio di movimenti contrapposti.
L’uso della luce di Battistello non annulla i dettagli di anatomia, come aveva fatto nelle sue precedenti opere del 1610, ma pone l’accento invece abilmente la tridimensionalità pittorica con cui l'artista ha scolpito il corpo del santo. 
È specificatamente affermato il ruolo dei santi e allo svilupparsi di nuovi culti parallelo alla ripresa di quelli tradizionali. Tra i nuovi canonizzati spiccano in modo particolare il cardinale Carlo Borromeo, e il fondatore degli Oratoriani Filippo Neri.
L’iconografia borromaica è fissata da Il digiuno di San Carlo commissionato a Daniele Crespi (1598 - 1630) dall’Ordine dei Canonici Lateranensi.
In questo dipinto, olio su tela di 190 x 265 cm, datato intorno al 1625 e collocato nella Chiesa di Santa Maria della Passione a Milano, Crespi ritrae l’ascetica figura di San Carlo mentre è seduto in pensoso raccoglimento nella quasi completa solitudine degli esercizi spirituali che assorbivano ogni attimo del suo tempo libero.
L’immagine del santo vescovo emerge dall’oscurità con la forza di una fiamma intensa. Un’ombra di barba incornicia il suo volto pallido magro e affilato, la fronte aggrottata nell’intensità della lettura e della meditazione. Il suo volto è segnato dalle astinenze e dai digiuni, scavato dalle preoccupazioni per il suo gregge, solcato dalle lacrime suscitate il lui dalla rimeditazione della Passione di Cristo. Il volto è emaciato, ma il suo sguardo è vivo e diritto e la sua sofferenza si stempera in un timido sorriso, segno dell’interiore felicità dell’estasi e dell’amore di un padre. Pur essendo un principe della Chiesa, come evidenzia la porpora del suo abito, il suo pasto consiste soltanto in un pezzo di pane e in un sorso d’acqua, perché la testimonianza evangelica è vissuta giorno dopo giorno, nella solitudine della propria stanza, perché la coerenza e il rigore iniziano prima di tutto con sé e da se stessi. Il suo vero cibo, quotidiano e inesauribile, è in quel Crocifisso che sta lì, di fronte a lui.
La composizione è spoglia e austera, volutamente essenziale, in modo da suscitare la partecipazione immediata e commossa dello spettatore. Il fondo della scena è scuro, illuminato solo da una flebile luce notturna che sottolinea la povertà e la drammaticità del completo abbandono di San Carlo a Cristo.
L’attenzione ai dettagli, come gli oggetti da natura morta sulla tavola, un pane, una bottiglia d’acqua e il bicchiere, avvicinano questo personaggio al vissuto quotidiano dei fedeli. Quel pane sulla tavola nuda di Carlo ricorda quello della mensa di Emmaus di caravaggesca memoria. L’acqua limpida e cristallina racconta un’intima purezza dell’anima. Il cappello cardinalizio è posato su un altro banco, ai piedi del Cristo in Croce e simboleggia l’affidamento completo e senza riserve del ministero sacerdotale e pastorale di Carlo. Tutto è sospeso nel silenzio: i due uomini sullo sfondo, che scrutano dalla porta non osano entrare, per paura di disturbare, per timore di distogliere il Santo dalla sua religiosa meditazione, e intanto osservano, apprendono, capiscono.
Sulla tavola austera il cibo materiale quasi si annulla, sostituito dal nutrimento della parola attinta dalle pagine del libro che sta leggendo. Il crocifisso che fa da guardia su un altro tavolino in disparte suggerisce che il tema della meditazione sia quello doloroso della passione di Cristo, in effetti centrale nello stile di pietà in cui il Borromeo amava immergersi.
La scena è tutta svolta con la massima compostezza. La concentrazione spirituale coinvolge tanto San Carlo da muoverlo al pianto e a mescolare le lacrime al pane.
Il messaggio è quello della rinuncia e dello svuotamento di sé: imboccando la strada maestra della penitenza, nutrendosi della parola di Dio, sotto lo sguardo del Cristo della croce, san Carlo si identifica con il suo modello, ne condivide la sofferenza nelle sue stesse carni, con il corpo consunto dalle mortificazioni, il volto magro e scavato. Ci troviamo davanti a un martire della militanza, che vive la santità fino al sacrificio supremo[6]. Carlo Borromeo morì, infatti, di consunzione, a soli 46 anni, dopo aver dato tutto alla sua gente e alla sua Chiesa. Per questo forse è tale il ritratto più intenso e più vero di san Carlo.
Daniele Crespi dipinse il quadro attorno al 1625, meno che trentenne. Eppure una profonda maturità ispira quest’opera. Crespi era uno degli allievi più dotati, anche se forse non dei più assidui della nuova Accademia Ambrosiana, voluta dal cardinale Federico Borromeo di cui Crespi aveva fatto suoi il motto “quotidianità e decoro”, anche se con le varianti e le innovazioni del genio. Daniele sembrava nato talentuoso. Quel prodigioso talento guidava il suo pennello, lasciando stupiti colleghi e committenti, ma il giovane Crespi sembrava bruciare le tappe, come se avesse intuito che la sua vita sarebbe stata troppo breve. Visse, infatti, appena trentadue anni stroncato anche lui dalla peste del 1630 raccontata da Manzoni. Era diventato ben presto una figura artistica di spicco nella Milano seicentesca, dominata dagli spagnoli e posta sotto la guida morale di Federico Borromeo. La sua arte, caratterizzata da un profondo ascetismo morale e da una forte attenzione al reale, lo portò a lavorare per gli importanti cantieri del Duomo e di Santa Maria della Passione a Milano, e a quello della certosa di Pavia. Poi un viaggio a Genova nel 1622 e l’incontro con Velázquez furono fondamentali e le committenze dei grandi Ordini religiosi e la formazione di una scuola che ne proseguì i dettami.
Sono soprattutto i particolari, in questa tela a colpirci. Come sempre nella pittura di Daniele Crespi.
Crespi portò una ventata rivoluzionaria nella pittura lombarda del primo Seicento, e questo dipinto ne è forse una delle più alte testimonianze. Nulla di superficialmente devozionale vi è in quest’opera che parla di un uomo che agiva come predicava, e come pensava, davvero qualcosa di straordinario era accaduto, se si pensa che il suo predecessore era morto di indigestione senza aver mai messo piede nella diocesi che gli era stata assegnata.
La raffigurazione di San Filippo Neri è invece legata alla maestria di Guido Reni. La commissione di realizzare l’estasi di Filippo Neri gli fu affidata all’indomani della canonizzazione per la Chiesa di Santa Maria in Vallicella.
Nel Ritratto di san Filippo, Guido ritrae il santo della gioia non come egli era realmente da giovane, quando cadde in estasi nelle catacombe di San Sebastiano e un globo di fuoco gli implose nel petto, e non lo raffigura nemmeno come un povero tra i poveri, quando vestito di semplice tonaca sdrucita girava per i luoghi malfamati e i bassifondi di Roma, ma come un sacerdote nell’atto di celebrare la Messa, con i paramenti sacri del rito tridentino, adornato di quell’oro e di quel damasco scarlatto che Filippo aveva sempre rifiutato sempre. San Filippo, però è un martire della Carità per questo è raffigurato in abito sacerdotale rosso, il colore dei Martiri, ed è inginocchiato, con le braccia aperte in adorazione davanti alla Madonna con il Bambino. In basso il giglio bianco, simbolo del Santo. Ma la sua estasi, la Visione insostenibile di Dio è resa perfettamente. Filippo guarda di là dal mondo, oltre la tela, oltre chi guarda il dipinto stesso. Questo modo di raffigurazione di San Filippo Neri diventò quasi “ufficiale” anche grazie alla diffusione delle stampe.
In conclusione il tema del rapporto tra fede, Chiesa e arte da secoli dibattuto ancor oggi affascina ed emoziona, sebbene spesso abbia causato aspre tensioni e dall’Illuminismo in poi abbia ricevuto fin troppe critiche distruttive. Se il Concilio di Trento ha riaffermato il valore dell’arte “per la venerazione e l’istruzione”, spesso con faciloneria e per superficiale anticlericalismo il “Decreto XXV“ è ricordato solo per alcune infelici applicazioni, come i risibili “braghettoni” della Cappella Sistina, e se ne nega o peggio se ne ignora ogni aspetto realmente positivo.
Si è visto, attraverso alcune opere esemplari, quanta ripercussione il Decreto abbia avuto sullo sviluppo dell’arte sacra, innanzitutto smantellando le bizzarrie del Manierismo imperante. Il decreto ha suscitato un dibattito con posizioni spesso contrastanti, aprendo e approfondendo interrogativi e riflessioni utili per migliorare la conoscenza dell’arte, della storia, della teologia, ma anche della vita religiosa in tutti i suoi aspetti compresi quelli antropologici.
Il testo del decreto, di un equilibrio politico ed estetico notevole, mirava in primo luogo a contenere l’ondata di iconoclastia che aveva travolto i Paesi protestanti, trascinati dal conflitto fra i principi, con la distruzione di crocifissi, di chiese e di secolari monasteri.
L’arte sacra in base ad esso doveva assolvere ad alcune funzioni.
In primo luogo l’arte sacra doveva svolgere una funzione contemplativa: attraverso forme ed espressioni sensibili l’arte doveva predisporre il fedele a un dialogo di preghiera con Dio pertanto l’espressione artistica guidava alla contemplazione. L’arte cristiana, infatti, da sempre rappresenta l’adesione dell’umano al divino e, tramite essa il fedele, aiutato nella contemplazione, può compiere il passaggio dal sensibile al sovrasensibile, dal concreto all’astratto.
In secondo luogo l’arte doveva svolgere una funzione commemorativa, infatti, nella storia cristiana c’è bisogno di tramandare le verità di fede, mantenendole sempre vive nel cuore di ogni fedele attraverso la raffigurazione della vita di Gesù, delle Sue sofferenze e dei Suoi miracoli. In questo modo il fedele ricorda che Dio, il Verbo, si è fatto uomo e attraverso di Lui è avvenuta la salvezza del mondo.
In terzo luogo l’arte deve svolgere una funzione didascalica in base alla quale essa diventa uno strumento che consente all’uomo di apprendere velocemente e subito i concetti cristiani. L’arte è un mezzo d’insegnamento valido a tutti i livelli: da un primo stadio più semplice fino all’apprendimento di temi teologici molto più complessi, che comportano una preparazione più avanzata da parte del fedele. Chi era senza cultura, ed era la maggior parte dell’umanità, se non poteva leggere sui libri, doveva avere la possibilità di apprendere guardando le pareti. Le immagini servivano come libro per gli illetterati per lo più poveri e in grande percentuale per una corrispondenza immediata. Era stato questo il senso dei cicli musivi, pittorici e scultorei realizzati nei vari secoli nelle chiese e nelle cattedrali. Infine l’arte doveva avere una funzione decorativa, che comunque non era fine a se stessa, ma era legata al principio che la bellezza proviene da Dio. Intorno alla figura centrale di Gesù, nell’arte ruota una serie di raffigurazioni che contribuisce a rivelare in varia misura, ma sempre la presenza di Dio. Lo stesso uso di materiale pregiato serviva a manifestare, attraverso la ricchezza che esprime, la presenza divina: per questo motivo l’arte liturgica è realizzata prevalentemente con materiali preziosi perché, essendo essa al servizio del culto divino e in ogni sua parte deve sottintendere un profondo significato simbolico.
Infine, siccome verso l’inizio del Cinquecento in Europa del nord era dilagata una nuova forma iconoclastica protestante, anche la riforma cattolica, definita nel Concilio di Trento, si occupò dell’arte cristiana: l’arte fu definita potente strumento utile a diffondere e a mantenere viva la fede in tutti i popoli. Da quel momento in poi vi fu una grande diffusione di quei temi cristiani che, essendo rifiutati dai riformati, dovevano essere affermati dalla religione cattolica attraverso uno stile molto coinvolgente, uno stile di arte riformata che maturò poi nel Barocco.
Ma questo sarà un altro grande capitolo della Storia dell’arte e della bellezza.




[1] APPENDICE I «Il Santo Sinodo comanda a tutti i vescovi e a quelli che hanno l’ufficio e l’incarico di insegnare, che - conforme all’uso della Chiesa Cattolica e Apostolica, tramandato fin dai primi tempi della religione cristiana, al consenso dei Santi Padri e ai decreti dei Sacri Concili, - prima di tutto istruiscano diligentemente i fedeli sull’intercessione dei santi, sulla loro invocazione, sull’onore dovuto alle reliquie, e sull’uso legittimo delle immagini, insegnando che i Santi, regnando con Cristo, offrono a Dio le loro orazioni per gli uomini; che è cosa buona ed utile invocarli supplichevolmente e ricorrere alle loro orazioni, alla loro potenza e al loro aiuto, per impetrare da Dio i benefici, per mezzo del suo figlio Gesù Cristo, Nostro Signore, che è l’unico redentore e Salvatore nostro; e che quelli, i quali affermano che i santi - che godono in cielo l’eterna felicità - non devono invocarsi o che essi non pregano per gli uomini o che l’invocarli, perché preghino anche per ciascuno di noi, debba dirsi idolatria, o che ciò è in disaccordo con la parola di Dio e si oppone all’onore del solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo; o che è sciocco rivolgere le nostre suppliche con la voce o con la mente a quelli che regnano nel cielo, pensano empiamente. [...]
Inoltre le immagini di Cristo, della Vergine Madre di Dio e degli altri santi devono essere tenute e conservate nelle chiese; ad esse si deve attribuire il dovuto onore e la venerazione: non certo perché si crede che vi sia in esse una qualche divinità o virtù, per cui debbano essere venerate; o perché si debba chiedere ad esse qualche cosa, o riporre fiducia nelle immagini, come un tempo facevano i pagani, che riponevano la loro speranza negli idoli, ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi, che esse rappresentano. Attraverso le immagini, dunque, che noi baciamo e dinanzi alle quali ci scopriamo e ci prostriamo, noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi, di cui esse mostrano la somiglianza. Cosa già sancita dai decreti dei concili - specie da quelli del secondo concilio di Nicea - contro gli avversari delle sacre immagini. Questo, poi, cerchino di insegnare diligentemente i vescovi: che attraverso la storia dei misteri della nostra redenzione, espressa con le pitture e con altre immagini, il popolo viene istruito e confermato nel ricordare gli articoli di fede e nella loro assidua meditazione. Ed inoltre, che da tutte le sacre immagini si trae grande frutto, non solo perché vengono ricordati al popolo i benefici e i doni che gli sono stati fatti da Cristo, ma anche perché nei santi sono posti sotto gli occhi dei fedeli le meraviglie e gli esempi salutari di Dio, così che ne ringrazino Dio, cerchino di regolare la loro vita e i loro costumi secondo l’imitazione dei santi, siano spinti ad adorare ed amare Dio e ad esercitare la pietà. Se qualcuno insegnerà o crederà il contrario di questi decreti, sia anatema. Se poi, contro queste sante e salutari pratiche, fossero invalsi degli abusi, il Santo Sinodo desidera ardentemente che essi siano senz’altro tolti di mezzo. Pertanto non sia esposta nessuna immagine che esprima false dottrine e sia per i semplici occasione di pericolosi errori. Se avverrà che qualche volta debbano rappresentarsi e raffigurarsi le storie e i racconti della Sacra Scrittura – questo infatti giova al popolo poco istruito – si insegni ad esso che non per questo viene raffigurata la divinità, quasi che essa possa esser vista con questi occhi corporei o possa esprimersi con colori ed immagini. Nella invocazione dei santi, inoltre, nella venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle immagini sia bandita ogni superstizione, sia eliminata ogni turpe ricerca di denaro e sia evitata ogni licenza, in modo da non dipingere o adornare le immagini con procace bellezza.
[...]
Da ultimo, in queste cose sia usata dai vescovi tanta diligenza e tanta cura, che niente appaia disordinato, niente fuori posto e rumoroso, niente profano, niente meno onesto: alla casa di Dio, infatti, si addice la santità. E perché queste disposizioni vengano osservate più fedelmente, questo santo sinodo stabilisce che non è lecito a nessuno porre o far porre un’immagine inconsueta in un luogo o in una chiesa, per quanto esente, se non è stata prima approvata dal vescovo; né ammettere nuovi miracoli, o accogliere nuove reliquie, se non dopo il giudizio e l’approvazione dello stesso vescovo. Questi, poi, non appena sia venuto a sapere qualche cosa su qualcuno di questi fatti, consultati i teologi ed altre pie persone, faccia quello che crederà conforme alla verità e alla pietà. Se infine si presentasse qualche abuso dubbio o difficile da estirpare o se sorgesse addirittura qualche questione di una certa gravità intorno a questi problemi, il vescovo, prima di decidere aspetti l’opinione del metropolita e dei vescovi della regione nel concilio provinciale. Comunque, le cose siano fatte in modo tale, da non stabilire nulla di nuovo o di inconsueto nella chiesa, senza aver prima consultato il santissimo pontefice romano».
[2] Barocci fu l’artista più originale nell’Italia centrale del suo tempo e i suoi lavori più ambiziosi sono considerati "La deposizione della Croce", nel "Duomo" di Perugia, "La Madonna del popolo" della "Galleria degli Uffizi" e il "Martirio di san Vitale" della "Pinacoteca di Brera", opera questa che influenzò notevolmente il "Martirio di san Livinio" di Rubens.
[3] L’art religieux après le Concile de Trente. Etude sur l’iconographie de la fin du XVIe siècle, du XVIIe, du XVIIIe siècle. Italie, France, Espagne, Flandres,
[4] in Storia dell’arte italiana. Parte Prima. Materiali e problemi, a cura di G. Previtali, 4 voll., Torino 1979-1980, III, L’esperienza dell’antico, dell’Europa, della religiosità, 1979, pp. 271-318
[5] (Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX,13 )
[6] La sua, è una santità eroica, che si riversa nella lotta: una lotta che educa in primo luogo a spogliarsi di sé, a correggere le storture, a impegnarsi senza tregua contro la realtà negativa del mondo che intralcia l’obbedienza alle richieste della fede e il rispetto senza sconti della legge etica.

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