lunedì 9 ottobre 2017

A tu per tu con l’opera d’arte: Massimo Capuozzo e l’Enseigne de Gersaint di Antoine Watteau

La fine del «Grand siècle», la morte di Luigi XIV e il nuovo regime, a capo del quale sale suo nipote, rappresentano una svolta nella Storia e nella Storia dell’Arte francese. Questi eventi furono accompagnati, a Parigi, da un senso di sollievo e di euforia, reso molto bene nell'ultimo quadro di Watteau, l’Enseigne de Gersaint, ma si tradusse, alla fine degli anni Venti, in un timore di decadenza.
Antoine Watteau, di ritorno dall’Inghilterra, dipinse l'Enseigne de Gersaint, un olio su tela di ampie dimensioni (1,66 × 3,06 m), nell'autunno del 1720 in otto giorni, baciati da un particolare stato di grazia.
Watteau accelerò il processo creativo, che gli permise di completare un dipinto molto più grande di quelli che normalmente eseguiva, forse per il peggioramento della sua salute e per il sentirsi prossimo alla morte, che lo colse nel mese di luglio del 1721.
Questo dipinto era destinato ad essere un cartellone pubblicitario per un suo amico, il mercante d’arte Edmé-François Gersaint, nella cui casa Watteau aveva soggiornato e aveva tratto ispirazione per questo dipinto il cui tema centrale è concentrato sulla vendita dell'arte. Gersaint fu un mercante fondamentale nello sviluppo del mercato dell'arte e degli articoli di lusso durante la Reggenza, quando il gusto prevalente diventò il Rococò.
L’insegna fu appesa quindici giorni all'esterno del negozio di Gersaint, situato a Parigi sul centralissimo ponte Notre-Dame, e suscitò l’ammirazione di tutta Parigi.
Il dipinto raffigura un’immagine molto originale, perché rappresenta una scena di vita quotidiana in strada, nell’interno di negozio con clienti e venditori: un tema di vita quotidiana "contrario a tutte le norme artistiche del tempo" e completamente atipico alla poetica di Watteau.
«Quest’opera di occasione – come rileva Frédéric Gaussen in Paris vu par les peintres del 2004 – realizza un doppio prodigio: da un lato essa è un documento inestimabile sulla vita cittadina del tempo; da un altro, per la modernità della sua fattura, essa anticipa i grandi osservatori della vita parigina, che saranno, più di un secolo dopo, Daumier, Manet e Degas.».
Nell’interno della galleria d’arte, molte persone dell'élite parigina acquistano opere d'arte e sembrano indifferenti alla facciata misteriosamente scomparsa e sono più preoccupati di ottenere i pezzi desiderati.
Dodici personaggi – uomini e donne la cui eleganza è evidenziata dal riflesso luminoso emesso dalla luce sui loro abiti di raso – che sarebbero potuti essere cortigiani ieri a Versailles, parlano dei molti dipinti esposti e li sottopongono al loro severo giudizio critico: nudità mitologiche, opere religiose, una natura morta, un paesaggio. Si possono distinguere alcuni autori di questi dipinti e ma i nomi di maggiore prestigio sono veneziani del Cinquecento come Veronese, Bassano, e i due Palma oltre che fiamminghi del Seicento come Rubens e i dipinti appesi alle pareti sono realizzati secondo il gusto tipico di quei pittori. Ovviamente l’Enseigne non rappresenta opere davvero in vendita, neanche i clienti sono veri e i volti sono poco riconoscibili, non sono quindi dei ritratti.
Questa tela è dunque una visione ideale del negozio di Gersaint.
Si deve notare che manca la facciata del negozio: una donna sta entrando nel negozio a sinistra, dove presumibilmente c’era l’ingresso; vediamo anche l’acciottolato della strada.
Mentre un cane dorme in un angolo della strada un cane alla destra dell'immagine, mentre all'altro lato un facchino in piedi sembra indifferente alla scena. Il cane nell'angolo è direttamente ispirato a quelli dell’Incoronazione di Maria dei Medici di Rubens: così Watteau volle rendere omaggio al grande pittore.
In primo piano, a sinistra, un giovane e una giovane donna, stanno entrando per quella che dovrebbe essere la porta del negozio, gettano uno sguardo distratto ai gesti di un dipendente garzone della galleria chiuso nel suo camice, sta mettendo le opere acquistate in una grande cassa di legno.
Al bancone, un uomo e sua moglie guardano uno specchio, non sappiamo se contemplano il loro riflesso o ammirano l'oggetto stesso.
Sullo sfondo, a destra, un commerciante presenta una scena mitologica. 
Una coppia piuttosto anziana esamina con attenzione un grande quadro ovale che rappresenta una scena mitologica: la donna in abito scuro e cappello esamina il paesaggio con il mento appoggiato alla mano, mentre il suo compagno guarda nudi femminili.
Altri tre visitatori ammirano sognanti uno specchio da toilette che è mostrato da una giovane donna seduta dietro un grande banco di quercia.
Anche se questo dipinto non è una rappresentazione vera della galleria di Gersaint, offre agli spettatori la visione che l'elite ha di una solida e fiorente galleria francese: cattura la clientela di alta classe e il fiorente commercio che ha reso il negozio d'arte una parte vitale del mercato d'arte francese del XVIII secolo.
Lo sguardo di Watteau è mezzo divertito, mezzo distaccato, sembra quasi dare un addio al passato: tra ieri e domani, questa splendida immagine, dipinta durante la reggenza, è un po' il simbolo del crepuscolo di un regno, del crepuscolo del Grand Siècle. Non è casuale che il nome scelto da Gersaint per il suo negozio, era Au Grand Monarque. E non è casuale che il garzone confeziona un Ritratto di Luigi XIV dipinto da Hyacinthe Rigaud; l'immagine del re è già seminascosta come se lui fosse già sulla strada del dimenticatoio.
Watteau si avvicina a questo capolavoro finale in modo del tutto diverso dalle altre opere. Normalmente dipingeva lentamente, ma quest'ultima opera che avrebbe lasciato al mondo sarebbe stata l'eccezione.
Resta che questo è il testamento artistico di Watteau.

domenica 28 maggio 2017

Il possibilismo del Fascismo: politicizzazione dell’estetica o estetizzazione della politica. L’esperienza di un’avanguardia discussa: il caso De Chirico, la Metafisica e il disimpegno politico


Con l’introversa e solitaria figura di Giorgio de Chirico, anche la pittura metafisica anticipò un distacco dalle altre tendenze della sua epoca, percorrendo una strada originale che non aveva però nulla in comune con Futurismo, Espressionismo o Cubismo.
A causa della sua chiara figuratività, la pittura metafisica, sembra immune da qualsiasi rinnovamento del linguaggio pittorico tradizionale, tanto che da alcuni studiosi essa è stata tenuta fuori dalle avanguardie, sebbene la sua lezione abbia fornito importanti elementi per la nascita dell’ultima avanguardia storica: il Surrealismo.
Non a caso Alberto Savinio, fratello di de Chirico e teorico della Metafisica, dichiarò con orgoglio e con consapevolezza che André Breton, il maestro del Surrealismo, avesse asserito che i fratelli de Chirico erano i padri della rivoluzione artistica non solo metafisica del Novecento[1].
Giorgio de Chirico iniziò a dipingere metafisicamente già nel 1909, lo stesso anno in cui era nato il Futurismo rispetto al quale però la Metafisica si colloca in posizione diametralmente opposta. Mentre nel Futurismo tutto è dinamico, energico e veloce, nella Metafisica tutto è statico e immobile e, non solo manca la velocità, ma tutto sembra solidificato in un attimo senza tempo, dove oggetti e spazi si cristallizzano per sempre. Mentre il Futurismo è roboante e l’arte è un grido forte e possente, la Metafisica invece è muta e il silenzio più assoluto predomina sempre. Mentre il Futurismo vuole rinnovare radicalmente il linguaggio pittorico, la Metafisica si affida invece agli strumenti più tradizionali della pittura: la prospettiva e il chiaroscuro.
In tal senso sembrerebbe che la Metafisica sia solo un movimento di retroguardia fermo a posizioni accademiche. Invece no. Essa riesce a trasmettere messaggi totalmente nuovi, la cui carica di suggestione è immediata e, come dichiarava Breton, evidente.
Le atmosfere suggerite dalla pittura di de Chirico, magiche ed enigmatiche, colpiscono proprio per la loro apparente semplicità e le sue immagini rivelano una realtà che solo in apparenza assomiglia a quella che noi percepiamo con la nostra esperienza sensibile: la luce è irreale e colora gli oggetti e il cielo di colori innaturali, la prospettiva, che sembrava costruire uno spazio geometricamente credibile, è invece spesso volutamente alterata, cosicché lo spazio acquista un aspetto sconosciuto. In questo consiste la grande rivoluzione di de Chirico: pensa un’immagine che, pur rispettando l’integrità della figura e la precisione della forma, colloca quella figura e quella forma in un’atmosfera sospesa, stupita, bloccata dal tempo.
Tutta la rivoluzione metafisica cominciò in un pomeriggio d'autunno del 1909, quando agli occhi di de Chirico si svelò un mondo nuovo in piazza Santa Croce a Firenze e lo rese concreto nel quadro Enigma di un pomeriggio d'autunno del 1910. L’artista trasformò la veduta in una visione e il visionario in un veggente.

In uno scritto giovanile e in seguito nelle Memorie della mia vita[2], de Chirico descrive come nacque l'idea di questo dipinto: «[...] in un limpido pomeriggio autunnale ero seduto su una panca al centro di Piazza S. Croce a Firenze. Naturalmente non era la prima volta che vedevo quella piazza [. . .] Al centro della piazza si erge la statua di Dante, vestita di una lunga tunica, il quale tiene le sue opere strette al proprio corpo ed il capo coronato dall’alloro pensosamente reclinato... Il sole autunnale, caldo e forte, rischiarava la facciata della chiesa. Allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta, e la composizione del dipinto si rivelò all’occhio della mia mente. Ora ogni volta che guardo questo quadro, rivedo ancora quel momento. Nondimeno il momento è un enigma per me, in quanto esso è inesplicabile. Mi piace anche chiamare enigma l’opera da esso derivata. [...] A Firenze dipingevo qualche volta quadri di piccole dimensioni; il periodo boeckliniano era passato ed avevo cominciato a dipingere soggetti ove cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d'autunno, di pomeriggio, nelle città italiane».
Da questo momento inizia una delle più emozionanti avventure intellettuali del Novecento e l'impatto della metafisica di De Chirico segna in modo fondamentale la cultura internazionale.
De Chirico è un pittore colto, oltre che di consumato mestiere: aveva studiato il disegno al Politecnico di Atene, successivamente all’Accademia delle belle artidi Firenze poi a quella di Monaco di Baviera. In Enigma di un pomeriggio d'autunno si respira il concetto di disvelamento, tipico del pensiero di Schopenhauer con l'influenza di Nietzsche (dato dall’immagine della vela che si intravede in secondo piano) simbolo del navigare avventuroso della vita. Quando realizzò questo quadro de Chirico era appena uscito da un periodo di salute precaria per cui la sua ispirazione artistica era particolarmente sensibile. La piazza del quadro è quella di Santa Croce e per l'artista tutto ha forma ancestrale,modificando i contenuti temporali, così la chiesa medievale nasce da un tempio greco, come la statua di Dante si trasforma nella scultura greca priva della testa. Tutto è sospeso nel tempo e l'ambiente appartiene ad un mondo sconosciuto e straniante che per de Chirico è incomprensibile e per questo egli stesso lo definisce un enigma.
Ovviamente l'influenza di Böcklin è ancora molto presente in ragione del Simbolismo. Ma qui c'è qualcosa di più, di estraneo e di incomprensibile che forse sfugge allo stesso artista e che deve rimanere sospeso in quel mondo metafisico. In questo dipinto c’è un principio di straordinaria sospensione di un’arte senza tempo che mette in relazione l'arte del passato con quella contemporanea: una relazione che l'artista continuerà a rappresentare nelle sue opere successive, cercando linguaggi e immagini sempre nuove, ma che non saranno mai svelate: all’osservatore la libertà di cogliere il proprio enigma.
La pittura di de Chirico, come la poesia inquietante e carica di mistero di Eugenio Montale, esprime il male di vivere e dà voce allo stesso disagio esistenziale: la vita è semplicemente un enigma assurdo.
«Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato»
non è come la ignara tranquillità dell’uomo comune, «che se ne va sicuro», che vuole ignorare la verità e il dolore della vita, evitando di fermarsi a riflettere. La «divina Indifferenza» di Montale è esattamente quella rappresentata negli spiazzi cittadini di de Chirico, l’insensibilità assoluta, la somma distanza dai mali del mondo.
Evitando le deformazioni dell’Espressionismo e le scomposizioni del Cubismo o del Futurismo, de Chirico aveva iniziato il suo modo moderno di concepire la pittura. Pur indugiando ancora nel classicismo, il suo non è un classicismo caratterizzato da certezze, da risposte, ma da un senso di mistero, da una domanda senza risposta, non reinventando le cose, ma reinventando il loro significato, avventurandosi nelle regioni più impetuosamente fantastiche e suggestive dell’io.
La figura umana e tutto ciò che ha vita per de Chirico diventa uno schermo che nasconde tante altre cose: la rivelazione nasce da una sorta di fissaggio e di pietrificazione, dalla sostituzione del paesaggio con l’architettura e dell’uomo con la statua o con il manichino.
L’avventura della Metafisica inizia a Firenze, centro vivo di fermenti culturali e punto d’incontro di alcuni tra i maggiori intellettuali italiani alla vigilia della Prima guerra mondiale. Ma se Firenze fu fonte d’ispirazione per de Chirico, Torino fu la città che gli fornì i maggiori spunti iconografici: l’edificio della stazione, la Mole Antonelliana, le piazze con i porticati, i monumenti equestri. E non deve meravigliare perché Torino è una città esoterica quindi metafisica.
Il tema del tempo e della sua cristallizzazione, trova un esempio perfetto nell’orologio, immagine ripresa e riproposta anche dal surrealismo, che appare per la prima volta nel dipinto L’enigma dell’ora del 1911.
In quest’opera l’artista riproduce la piazza della stazione di Torino con l’orologio su una fila di arcate e la fontana che sgorga in primo piano. L’orologio e le arcate hanno il potere di bloccare il tempo e di fermarlo in un attimo preciso. Nel dipinto sono assenti le statue e sono presenti due figure umane: una donna in primo piano, mentre un uomo è inserito nella seconda arcata da destra. In questo dipinto come nel precedente non vi è alcuna densità atmosferica: l’aria è sempre limpida e pulita. La luce non si diffonde, ma ha una direzionalità precisa, creando una forte differenza tra zone chiaramente illuminate e ombre nette e oscure.
Il titolo del quadro nasce dalla volontà di de Chirico di rappresentare un orologio fermo la cui immobilità è indotta all’osservatore solo dall’immobilità di tutta la scena: è il tutto a indicare che anche l’orologio è fermo, anche se non ne avremo mai la certezza. Magari l’orologio è l’unica cosa che continua a muoversi, segnando un tempo senza senso, perché non produce più modificazioni nel corso delle cose.
L’architettura del portico è essenziale, geometricamente pura senza alcuna decorazione superflua che ne renda identificabile l’appartenenza stilistica. Queste architetture dipinte di de Chirico colgono una classicità senza tempo, sono forme pure che però conservano tutto ciò che il classico deve avere: armonia, ritmo, proporzione, equilibrio. E questi saranno anche i contenuti di quell’architettura classicista che, nel ventennio, divenne lo stile fascista in campo architettonico. E come luogo costruito, metafisico per eccellenza, rimane proprio il Palazzo della Civiltà Italiana che, progettato per la grande Esposizione Universale di Roma del 1942, è la testimonianza più famosa dei gusti architettonici classicheggianti e metafisici del Fascismo.
Nel 1913 a Parigi, in occasione della sua esposizione al Salon des Indépendant, de Chirico conobbe Guillaume Apollinaire che, in una sua recensione, escluse qualsiasi dipendenza di de Chirico dall'arte precedente, e sottolineò l'importanza del suo nuovo modo di fare arte che, sebbene distante dagli orientamenti delle altre avanguardie, rappresentava una novità riguardo i contenuti e la tecnica d'esecuzione, ancorata alla tradizione.
André Breton, padre del Surrealismo[3], sostiene che tutta la mitologia moderna ancora in formazione ha le sue fonti “les deux œuvres, dans leur esprit presque indiscernables” di Alberto Savinio e di Giorgio de Chirico, opere che raggiunsero il loro punto più alto nel 1914 alla vigilia della guerra. Secondo Breton, Savinio e de Chirico sfruttano simultaneamente tutte le risorse visive e auditive ai fini della creazione di un linguaggio simbolico, concreto, universalmente intelligibile in quanto tendeva a testimoniare col massimo rigore la realtà specifica dell'epoca, e l'interrogativo metafisico proprio di quest'epoca[4].Proprio sulla rivisitazione del capriccio si innestano in de Chirico temi di misteriosa magia poetica, di visioni architettoniche, di piazze, di statue solitarie, di oggetti illogicamente avvicinati.
* * *
Il 24 maggio 1915 l’Italia entrava in guerra contro l’Austria e la Germania. De Chirico e suo fratello furono richiamati alle armi: tornati da Parigi, dapprima furono destinati al distretto di Firenze, poi furono trasferiti a Ferrara.Immediatamenteraggiunti dalla madre, presero alloggio in un appartamento di proprietà del sindaco di Ferrara, vicino a casa Tibertelli.Ilmaggiore GaetanoBoschi, medico e ideatore della “Villa del Seminario”, una struttura ospedaliera d’avanguardia per il periodo e specializzata in malattie nervose da guerra, trovandosi di fronte al soldato Giorgio de Chirico si chiese a che cosa servisse mandare un artista in guerra.
Non a caso proprio in questo luogo di cura si strutturarono le basi della Metafisica.
A Ferrara i de Chirico conobbero il ventenne mar­chese Filippo Tibertelli de Pisis, scrittore ma non ancora pittore che, proprio in quegli anni, era stimolato dalla sorella Ernesta, brillante intellettuale, agli aspetti esoterici delle opere di Schopenhauer e di Nietzsche. De Chirico strinse amicizia col poeta Corrado Govoni allora trentaduenne che lo ospitava talvolta nella propria casa; dal mese di novembre il pittore iniziò un rapporto epistolare con Giovanni Papini. Nel frattempo, grazie ai pochi impegni della vita militare nelle retrovie, de Chirico trovava il tempo di dipingere.
Per combattere l’illogicità del mondo, la sua pittura diventò estremamente realistica e meticolosa nei particolari. «Contro ‘la grande pazzia che esisterà sempre e continuerà a gesticolare e a far dei segni dietro il paravento inesorabile della materia», dice PaoloBaldacci[5], riprendendo le parole del pittore, «de Chirico inizia a dipingere un microcosmo di oggetti comuni, fatto di biscotti, di cartine, di guanti».
In questa ricerca salvifica, de Chirico cominciò a scoprire la cultura esoterica che riempiva la città, rimanendo affascinato dagli affreschi di Palazzo Schifanoia – come dimostrano opere come L’angelo ebreo e I pesci sacri. In questo senso, Ferrara diventò per lui metafora del mondo, in cui è necessario riuscire a dominare la magia della realtà cercando l’occhio in ogni cosa. «Attraverso le sue opere, l’artista deve saper offrire una forma di riscatto: solo così l’arte diventa ‘evangelium’, una buona novella. Deve saper scovare lo spirito nascosto degli oggetti, attraverso la potenza della poesia e dell’arte».
Nel 1917 a Ferrara capitò anche Carlo Carrà allora trentacinquenne che, per motivi di salute – gli erano stati diagnosticati infatti depressione e deperimento organico – fu ricoverato nell'ospedale militare di Ferrara dove incontrò de Chirico anch’egli sotto le cure del maggiore Boschi.
Nel breve giro di qualche mese nacque la Metafisica: un gruppo di artisti ancora giovani–Giorgio de Chirico,AlbertoSavinio, Carlo Carrà e Filippo De Pisis  e lo scrittore Corrado Govoni – reagiva alla realtà traumatica, cercando un senso più profondo delle cose, attraverso un'arte che ritornasse ad essere prima di tutto esperienza interiore. Apparve così quel modo di percepire la bellezza arcana, il mistero e il dramma delle cose ordinarie, evocate a prendere vita sulla tela in accostamenti impossibili, in incontri tanto improbabili quanto illogici.
Per qualche mese, nel 1917, de Chirico condivise con Carrà l’esperienza di Villa del Seminario dove, i due erano incoraggiati a dipingere dal direttore del nosocomio. «Nasce tra loro un sodalizio dialettico: si influenzano nelle opere, leggono gli stessi libri, si confrontano. Svilupperanno in seguito temi simili, ma ciascuno secondo le proprie peculiarità». Fuori dall’ospedale militare di Ferrara c’era la guerra, che mieteva vittime come mai era successo in passato e quell’orrore era appena fuori le mura estensi.«Mentre per Giorgio Morandi il manichino è puro elemento formale, dopo l’esperienza di Villa del Seminario Giorgio de Chirico assume sul tema una diversa visione. Le muse metafisiche diventano dunque le guardiane della città, due simboli illogici che puntano a governare i misteri dell’universo», conclude Baldacci al cospetto de Le Muse inquietantile due vestali sono degli strumenti, che aiutano a dominare le atrocità e le follie del suo tempo».
Nel pieno del disastroso conflitto mondiale, Ferrara con i silenzi delle sue atmosfere rarefatte e surreali, da piccola e silenziosa città di provincia improvvisamente, per un breve periodo fra 1916 e 1917, diventò capitale dell’arte italiana.
Città di provincia certamente, ma dall’illustre passato, Ferrara aveva cominciato, sebbene con ritmi rallentati, a risvegliarsi dal torpore accademico che l’aveva avvolta per tutto il XIX secolo, dopo essere tornata alla ribalta della scena artistica nazionale grazie alla ritrattistica di Giovanni Boldini e alla versione simbolico-onirica del Divisionismo, elaborata da Gaetano Previati. Nel 1911 il Teatro Bonacossi aveva ospitato una delle prime serate futuriste alla quale avevano partecipato Marinetti, Boccioni, Carrà, Lucini e Russolo.
In quel momento germogliò a Ferrara, preparata dalla preveggenza di de Chirico e dalle sue intuizioni maturate a Firenze, a Torino e finalmente nel suo primo soggiorno parigino (1910-1914), l’altra delle due grandi avanguardie italiane del secolo, che esplose nella città dalle cento meraviglie,come sarà definita da de Pisis, fino allora aristocraticamente restia ad accogliere la modernità.
Per il richiamo alla tradizione e per il recupero di valori poco prima rinnegati dall’impeto delle avanguardie futuriste e cubiste, l’episodio ferrarese fu destinato ad avere esiti determinanti. Dalla dotta fantasia dei de Chirico, corroborata dall’assidua frequentazione di Filippo de Pisis e delle sue stanze segrete ubicate nel palazzo di via Montebello – peraltro visitate in quegli anni anche da Ardengo Soffici – prese forma l’immaginario metafisico sprigionato nelle prime tele di de Chirico create presso la stanzetta dell’Ospedale militare della città. Senza contare che, proprio da Ferrara, proveniva anche Roberto Melli, il pittore che sarebbe diventato, insieme con Mario Broglio, un fautore di Valori Plastici.
La Metafisica, pur non essendo mai diventata un vero movimento – non partorì mai, ad esempio, un proprio manifesto – e pur rimanendo estranea ai riti delle altre più variopinte e chiassose avanguardie europee d’inizio secolo – con le quali peraltro non tardò ad entrare in polemica – ebbe una lunga e varia eco in gran parte della pittura degli anni Venti, in Italia e in Europa, influenzando direttamente la parte migliore di quel Realismo magico che dalla Germania passò in Italia e poi dilagò ovunque in Europa, esercitando suggestioni determinanti sulla nascita del Surrealismo.
La stessa svolta metafisica di Carrà va letta non come semplice reazione ai suoi trascorsi futuristi, piuttosto come la confluenza di parecchi ideali che già si facevano impellenti nella sua percezione dell’arte. Innanzi tutto la definizione di una nuova immagine dell'arte, attraverso la quale egli afferma l'indivisibilità della coppia stabilità/movimento, il che significa anche la stretta interdipendenza tra modernismo e tradizione.In secondo luogo la reintroduzione dei valori tipici della pittura italiana del primo Rinascimento, con la conseguente accezione dello spazio secondo la geometria euclidea, essendo l'architettura delle forme la fonte primaria di significato. Infine la necessità di confermare una dimensione spirituale nelle opere d’arte, assente nel naturalismo della seconda metà del XIX secolo e ancor più nelle opere d'avanguardia dell'inizio del XX. Carrà avanza l'ipotesi che tale dimensione debba realizzarsi nell'estrapolazione delle forme dai fenomeni sensibili, ipotizzando in definitiva che la pittura sia una pura operazione mentale ed applica al suo pensiero la formula di Giambattista Vico (1668 – 1744), secondo cui: «Il vero poetico è un vero metafisico a petto del quale il vero fisico qualora non gli si conformi deve ritenersi per falso». Carrà spiega il prestito dal filosofo napoletano dicendo: «Ho interpretato questa frase di Vico attribuendole il significato che il mondo delle apparenze degli oggetti non giunge alla sua autentica realtà che in conspectu aeternitatis, sotto forma di allegoria metafisica della sua realtà fisica, che altro non è che un incidente offerto quasi per caso alla percezione dei nostri sensi»[6].
I dipinti e i disegni generati da questi pensieri sono caratterizzati essenzialmente da un misterioso carattere esoterico, se non ermetico. Non si tratta più di rappresentazione nel senso classico, cioè in riferimento al mondo reale e a ciò che si chiama Natura, ma di complesse associazioni di idee e di immagini: «Cercavo nelle mie tele [...] di creare una sintesi di forme che avesse dei sottintesi di carattere metafisico, come in una realtà percepita nella meditazione o nel sogno»[7]. È evidente che l'attività del pittore e la sua produzione sono vissute e trasmesse in ciò che hanno di più taumaturgico e magico, come espressione superiore dello spirito umano, come teatralità della cultura.
Solo allora la Metafisica assunse i caratteri di corrente vera e propria, e ne furono stabiliti i canoni. In primo luogo la pittura metafisica doveva far leva sull'effetto sorpresa e sulle suggestioni di immagini irreali e fantastiche. In secondo luogo l'ambientazione doveva essere costituita da scene nitidissime, senza nulla di deformato o di irriconoscibile, con toni freddi e chiaroscuri dai contrasti fortissimi. Infine doveva abbracciare presenze solitarie come piazze, torri, statue, edifici senza età, nature morte e piccole figure di uomini indistinti che sembravano trovarsi dentro il quadro come per un incantesimo.
Alberto Savinio, fratello di de Chirico,diede un inquadramento teorico a questa nuova corrente pittorica.Fin dai primi anni a Parigi dove si era stabilito nel 1910 insieme al fratello, Savinio aveva frequentato gli ambienti culturali e artistici, divenendo amico di Guillaume Apollinaire. A Parigi Savinio aveva concepito l'arte non come ricerca del bello: non aveva apprezzato molto i cubisti, non aveva interesse per la loro pittura ed era giunto a definirli addirittura dei «rozzi pennellatori». Ai cubisti Savinio riconobbe soltantoche erano stati «buoni liberatori» dall’«estetismo tradizionale» vigente in quegli anni, ossia da quella costrizione dell'arte a un'imitazione lirica della realtà e a una puristica ricerca del bello, adatta per lui soltanto a consolare «la donna».
Passata la bufera della guerra, quell'idea che lo sorresse sempre nella sua poliedrica attività crebbe di motivazioni e di spessore critico: per lui l'arte doveva essere cosa mentale, intellettiva, anzi «cerebrale», e il «genio» che l'avrebbe accompagnata avrebbe dovuto essere soprattutto «amico della conoscenza», rifiutando ogni barriera fra le varie discipline e disinteressandosi ad ogni abilità puramente tecnica per raggiungere quello «stato dell'intelligenza» in cui si doveva ravvisare un esito autentico della prassi artistica.
Nel corso degli anni, cambiò qualche conclusione, ma l'idea dell'arte come atto di conoscenza non lo abbandonò mai. Idea che è già abbastanza completa alla fine degli anni Dieci, ai primi del decennio seguente, quando Savinio pubblicò una serie di saggi sulla rivista Valori Plastici e destinò ad essa i suoi più importanti e difficili momenti di riflessione teorica di quel periodo. Entrato a far parte del gruppo romano Savinio diventò uno dei suoi maggiori teorici nel momento di passaggio dalla Metafisica al ritorno all’ordine. Nel suo scritto Anadiomènon egli stesso definisce il suo ruolo: «Intraprendo la filosofia dell’arte. (...) Tento di individuare, in altro modo, il posto di ogni pittore, conformemente alla posizione di ciascheduno d’essi a cospetto della ragione superiore dell’Arte[8]». E ancora: «Viviamo in un mondo fantasmico con il quale entriamo gradatamente in dimestichezza. Questo benevolo plurale non mi farà più d’uopo inoltre: fummo, siamo e saremo in pochissimi a risentire la sostanza piena della vita. […] Con l’acquistare questo senso nuovo e vasto in una realtà più vasta, metafisico, or non accenna più a un ipotetico dopo-naturale; significa bensì, in maniera imprecisabile – perché non è mai chiusa, ed imprecisa dunque, è la nostra conoscenza – tutto ciò che della realtà continua l’essere, oltre gli aspetti grossolanamente patenti della realtà medesima[9]».
Oggi i saggi di Savinio su ValoriPlastici sono raccolti nel volume La nascita di Venere[10]. Nei suoi scritti Savinio spiega agli inquieti uomini del ritorno all’ordine, la posizione e il significato della pittura di de Chirico e in un primo momento anche di quella di Carrà.
I primi hanno un tono profetico, «entriamo ormai nell'epoca di un grande riprincipio»[11]e di accusa, a tratti anche irriverente e immotivata, sulla pittura francese. Eppure inquesti primi saggi, ci sono delle felici intuizioni, come il «fantasmico», come lo «stato iniziale del momento di scoperta» o come la «ragione classica»,intuizioni che furono in seguito sviluppate nei Primi saggi di filosofia delle arti. Se nell’articolo Fini dell'Arte Savinio offre una bella definizione della pittura metafisica «tutto ciò che della realtà continua l'essere, oltre gli aspetti grossolanamente patenti della realtà medesima»[12]nei Primi saggi presuppone a soggetto della pittura «la vita non come è, ma come dovrebbe essere»[13]detratto dunque da essa l'aspetto drammatico, e sancita all'opposto, come metro di forma, «l'immobilità, bene supremo» in opposizione all'illusione della vita: e anche qui torna forse, insieme a un preciso ricordo di Schopenhauer, un’influenza pirandelliana, e attraverso essa, e grazie all'azione della «memoria», «l'eternità terrena, fecondissima per le arti».
Inattesa, ma sostanzialmente conseguente, è infine la svalutazione che Savinio fa del sogno, come falsa avventura sottratta al governo dello stato felice dell'intelligenza; e il recupero dell'«elemento lirico», prima individuato come infecondo e adesso intuito come momento cruciale della creazione, in opposizione a quello drammatico, troppo propenso all’imitazione della realtà.
Questi scritti di Savinio oscillano fra intuizioni e ritorni: vi parlò a più riprese dell'«ironia» come momento irrinunciabile della pittura metafisica, attitudine del creatore capace di corrodere l'ambiguità e l'inganno del reale e di ricostituirlo atto alla forma.
Attitudine che affonda in una crisi, in uno stato doloroso in cui, dopo le ottimistiche e declamate certezze proclamate nei primi saggi su Valori Plastici, Savinio vede avvolto l'atto stesso della creazione. In questo senso è l’avvertimento che si legge nei Fini dell'Arte, dove Savinio mette in discussione anche la normatività del classico[14], suggerendo la necessità di intendere il pensiero estetico come problematicamente interno ai dubbi della modernità e molto lontano dall'annunciare le tanto illusorie certezze che sarebbero state proclamate nel successivo clima del «ritorno all'ordine».
* * *
Sul finire del secondo decennio, alla Metafisica si convertì anche Giorgio Morandi che, attorno al 1918, vide pubblicate sulla rivista La Raccolta di Giuseppe Raimondi, alcune opere di de Chirico e di Carrà e, attratto da esse, realizzò anche lui opere di stile metafisico.
Ma fu solo una breve parentesi:già sul finire del 1919 Morandi riprese a dipingere nature morte e paesaggi in stile realistico sebbene nella severità e nella perfezione delle immagini metafisiche avesse trovato il suo stile più personale.
Il rapido passaggio di Morandi accanto alla Metafisica del 1918 e del 1919 e i successivi dipinti intrisi della sobrietà e della tensione classica che alimentava i Valori Plastici, ultimo linguaggio artistico comune cui il pittore trentenne volle aderire, fu l'ultima militanza stretta accanto e insieme ad altri giovani, ad altre coerenti ipotesi di forma e alle loro teorizzazioni.
Un ultimo tentativo di integrarsi in una più vasta famiglia fu quello, ancora una volta sollecitatogli da Ardengo Soffici, di stringersi al linguaggio comune del Selvaggio, la rivista di Mino Maccari, e del movimento di Strapaese, che proclamava un ritorno alle radici più umili ed autentiche di un’Italia contadina. Morandi collaborò con loro, fra il 1926 e il 1928, ed allora soltanto Mino Maccari, Leo Longanesi e Ardengo Soffici scrivono di lui, per sostenerlo, proclamando polemicamente la sua inascoltata grandezza. Con quest'immagine di uomo schivo e solitario Morandi si identificò anche quando Maccari e Soffici gli offrivano quella casa, quelle solidarietà critiche e d'affetti, che altrove gli mancavano. Maccari gli dedica un lungo articolo in Il Resto del Carlino, l’8 giugno 1927, mettendo in risalto l'italianità e la genuinità dell'arte morandiana, così come fece Leo Longanesi l'anno successivo in L'Italiano, definendo Morandi il più bel esemplare di Strapaese. La consacrazione su questa via avvenne quattro anni dopo quando un interno numero de L'Italiano, quello del 10 marzo 1932, fu dedicato interamente a Morandi con un saggio critico di Ardengo Soffici.
Ma anche questa breve parentesi si chiuse, e Morandi uscì, da quest’ultima esperienza di prossimità cercata con altri, ancor più fermamente inteso a cercare in solitudine la propria forma.
È a questo punto che cominciò per Morandi il tragitto più solitario: l’artista si chiuse nella sua provincia, nel silenzio del suo studio, rotto da rare visite di amici, da poche parole che non fossero quelle delle sorelle. Nacque allora, fondato su questo suo isolamento, il mito dell'«uomo schivo, che sta in via Fondazza», come lo definì Cesare Brandi.
Caro esclusivamente ad una élite e prediletto da un raffinato, ma ristretto collezionismo, la pittura di Morandi fu una presenza costante nelle maggiori rassegne d'arte italiana nei principali musei d'Europa e degli Stati Uniti, già negli anni Trenta, quando gli venne il primo vasto riconoscimento in occasione della terza Quadriennale romana del 1939.
Sugli anni Venti, così vari, e sui Trenta, più compatti almeno fino allo esplosione cromatica che caratterizza le opere ultime inviate alla Quadriennale del 1939 che gli attribuì una ampia mostra personale e un secondo premio, dietro al più giovane e assai più esile Bruno Saetti, e sollecitò finalmente la lettura critica profonda della sua pittura di Cesare Brandi, e in seguito le prime monografie di Arnaldo Beccaria[15], poi dello stesso Brandi[16]).
Solo allora Morandi, ormai quasi cinquantenne, divenne un ‘caso’ nazionale, uscendo da quella situazione di semi-clandestinità in cui era stata confinata sino ad allora la sua pittura, troppo intimista ed ermetica, com’era spesso definita dalla critica del tempo, e prediletta soltanto da un raffinato, colto ma ristretto collezionismo, soprattutto d’area milanese.
Morandi fu un pittore riservato ma, diversamente da quanto si dice oggi, non fu sempre lontano dal Fascismo: l'evidenza della sua riservatezza verso il clima politico italiano, sempre più invischiato fra le due guerre in una antiquata retorica, è tale che un solo sguardo alle sue nature morte e ai suoi spogli paesi basta a dimostrarlo. Ma se fu lontano dal Fascismo militante, fu certamente vicino a circoli fascisti strapaesani. Egli stesso, il18 febbraio 1928, dichiarò: «Ebbi molta fede nel Fascismo fin dai suoi primi accenni, fede che non mi venne mai meno neppure nei giorni più grigi e tempestosi[17]
E sempre a proposito di Giorgio Morandi fa molta impressione leggere, nel libro di Annalisa Capristo L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, l’elenco degli intellettuali che risposero con zelo ed entusiasmo al censimento per identificare «i membri di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti che cesseranno di far parte di dette istituzioni». Bastava una compilazione burocratica e svogliata dei moduli, per chi non avesse avuto il coraggio di sottrarsi a quel compito infame il 5 Settembre 1938. E invece Giorgio Morandi e centinaia di intellettuali illustri vollero sfoggiare «l’aggiunta di esplicite dichiarazioni antisemite sotto forma di precisazioni ai vari quesiti tenuti nella scheda[18]».Più tardi Morandi collaborò con la rivista “Primato” dell’allora ministro Giuseppe Bottai.
Carlo Carrà, come tutti i reduci del Futurismo, aderì al movimento fascista e nel corso della vita ebbe rapporti con esso anche se il maniera piuttosto defilata.
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Tra il 1918 e il 1925, si avvicinano alla pittura metafisica anche Filippo de Pisis, Mario Sironi, Felice Casorati e altri pittori meno conosciuti.
De Pisis si trovò, poco più che giovanetto, a condividere con i fratelli de Chirico e con Carrà la straordinaria avventura della Metafisica e, sebbene allora non poté trarne fino in fondo tutto il profitto, si abituò a guardare la realtà con inclinazione imitativa e straniata, cominciando a comprendere la possibile ambiguità in ogni sua manifestazione. Infatti agli inizi espresse a modo suo la pittura di tali maestri rendendola più brioso.
Filippo de Pisis teneva molto all’esordio metafisico di Ferrara anche se le pagine scritte per Emporium nel 1938 riducono il suo momento metafisico al felice sodalizio con de Chirico, Savinio e Carrà in quelle stanze di via Montebello a Ferrara dove nascevano gli spazi assurdi e la scatola magica che «formavano una specie di prontuario della pittura Metafisica, prima che fosse stampato quello del Surrealismo».
Metafisica diventava sinonimo di poesia, fantasia come de Pisis afferma nel suo scritto: «una pittura davvero bella sempre sconfina verso l’aldilà. La Metafisica è fatta spesso più di semplicità, chiarezza, sonorità e palpito che di ricerca e di aridità».
Dall’insegnamento dei de Chirico, poi, de Pisis scoprì il desiderio per il viaggio e la consapevolezza che un panorama più vasto di quello offertogli da Ferrara gli sarebbe stato indispensabile. Nel1920, appena laureato in Lettere de Pisis partì per Roma per essere soprattutto scrittore e poeta, ma improvvisamente avvenne una sorta di conversione: nel 1923, de Pisis decise di diventare pittore. Del 1923 è, infatti, Paesaggio metafisico, un saggio di quella quiete di pochissime stagioni e rarissimi quadri, in cui acquistano compattezza le forme in una geometria arcaica e nello stesso tempo moderna, straordinario segnale di ricerca condiviso con gli amici metafisici.
Trascorse altri due anni a Roma, dove intensificò i suoi rapporti con il mondo romano dell’arte. Sempre lo stesso anno de Pisis ebbe occasione di esporre in una personale che attirò l’attenzione della critica e, una ventina di dipinti gli furono comprati dal collezionista Angelo Signorelli. La sua carriera di pittore era iniziata: continuò, sempre a Roma, l’anno seguente, con la partecipazione alla terza e ultima Biennale romana e con un’altra personale organizzatagli dalla Casa d’Arte Bragaglia” in via Condotti.
Da Roma, dopo cinque intensissimi anni in cui aveva preso tutto quello che poteva ricevere, de Pisis si trasferì a Parigi. Quando lasciò l’Italia per la Francia scrisse: «Vado a Parigi perché non sono fascista».
A Parigi vi ritrovò i due de Chirico, con molti altri italiens de Paris (Gino Severini, Mario Tozzi, Massimo Campigli, René Paresce) che avevano dato vitaa un gruppo stimato e riconosciuto dalla cultura ufficiale della città. Frequentò i suoi connazionali, ma soprattutto si immerse completamente nella nuova vita parigina e se ne entusiasmò: “ebbro di felicità”trascorreva le sue giornate tra “fiori e amori”.
In queste intrecci così aperti, si insinuava intanto la pittura, occasionata da ogni incontro con quella realtà di cui s’incantava e più si comprometteva con la vita, più toccava corde di profonda bellezza.Conobbe Edouard Manet e CamilleCorot, HenriMatisse e i Fauves, fondamentali per un uso più gestuale del colore e, oltre alle nature morte, dipinse nel periodo parigino paesaggi urbani, nudi maschili e immagini di ermafroditi. A Parigi, grazie allo studio dei grandi ottocentisti francesi e contemporanei, raggiunse la piena padronanza dei suoi mezzi, avviando uno dei più straordinari itinerari della pittura del Novecento, non solo italiana.
Durante il Fascismo, più volte de Pisis rischiò il confino per l’ostentazione della sua omosessualità.De Pisis collaboròcon la rivista “Primato”,diretta da Bottai.
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Diversamente da de Pisis, riformato per nevrastenia, allo scoppio della Prima guerra mondiale, Mario Sironi (1885 – 1961) era andato invece in guerra in bicicletta, arruolandosi nel Battaglione lombardo dei ciclisti a pedalare e a scansare pallottole con Marinetti, Boccioni, Erba, Russolo e Sant'Elia: tutti futuristi, tutti volontari e tutti interventisti convinti almeno, finché la morte non li aveva raggiunti sul campo di battaglia, come accadde a Umberto Boccioni a Chievo, accanto a Verona, disarcionato dal cavallo che montava, a Carlo Erba, caduto durante un assalto all'arma bianca sull'Ortigara colpito da una scheggia di granata, e ad Antonio Sant'Elia colpito mortalmente alla testa mentre guidava un assalto ad una trincea nemica sul Carso, che fecero appena in tempo a ricredersi sul pensiero marinettiano della guerra come unica igiene del mondo.
Queste frequentazioni avevano portato Sironi verso il Futurismo, che senz'altro condizionò in maniera netta la sua esperienza pittorica. Ma se nell’ideale politico interventista aveva pienamente condiviso gli ideali futuristi, nel suo lavoro artistico, non condivise mai pienamente il dinamismo delle loro immagini e nemmeno aveva accettato la frammentazione dei cubisti, elementi che contrastavano con la sua naturale inclinazione verso forme solide, compatte e monumentali.
Al di là delle città, delle fabbriche e delle suggestioni del progresso tecnico, esiste anche un Sironimetafisico e, proprio al suo periodo metafisico si devono dipinti e disegni di grande importanza e inoltre le influenze di quelle suggestioni contaminarono successivamente tutta l'arte di Sironi del suo universo di immagini.
Il giovane pittore si accostò, anche se con molta cautela, a temi metafisici, trattandoli comunque nella solita personalissima maniera, con le figure più che mai scandite nei vigorosi chiaroscuri, tanto che può essere avvicinato più a certa pittura nordica tedesca, vicina a Georg Grosz (1893 – 1959) o a Constant Permeke (1893 – 1959), che alla nitida e pulita pittura di Giorgio De Chirico (1888 –1978).
Negli anni del primo dopoguerra, Mario Sironi transitò da una pittura di violente spezzature plastiche a una di volumi compatti, definiti da una luce drammatica e tagliente. Questo passaggio avvenne attraverso una breve stagione, che, per comodità e con qualche forzatura, è definibile la stagione metafisica di Sironi.
Certamente Sironi non cercò direttamente la poetica metafisica, ma essa era forse nell’aria quando la percepì e fu probabilmente colta anche in seguito al desiderio di ritorno all’ordine che si avvertì nell’Europa dell’immediato dopoguerra prima sommessamente poi sempre più imperiosamente.
Sicuramente alcuni tratti stilistici che ricordano questa affinità spirituale si possono riscontrare anche nel primo Sironi, il Sironi futurista e che pure nel firmare il Manifesto contro tutti i ritorni del 1920 aveva criticato la Metafisica.
Sta di fatto che il biennio 1919 – 1920 è il più misterioso di tutta la sua produzione per la differenza fra il suo pensiero estetico e la sua produzione.
Anche a questo periodometafisicosono legati alcuni dei suoi capolavori e una splendida serie di disegni.
In pochi e decisivi quadri, Sironi definisce quella poetica di tragica rappresentazione della condizione umana attraverso il conferimento di un’intrinseca monumentalità alle più comuni presenze quotidiane.
Nelle opere eseguite fra il 1919-1920, quadri e disegni, enigmatiche figure esibiscono il loro status di manichini e, nello stesso tempo, la condizione di una dolente umanità. I richiami alla tecnologia meccanica contemporanea convivono con una crescente volontà classicista e in gelidi interni si addensano presenze cariche di tensione. Sironi si avvicinò intanto al Fascismo e Marinetti lo ricorda già nell'ottobre 1919 fra coloro che partecipavano alle riunioni del Fascio milanese[19].
L'adesione al Fascismo, che negli anni Trenta Sironi espresse anche in grandi opere di contenuto ideologico, ma mai propagandistico, ha condizionato il giudizio sulla pittura di Sironi, molto più di quanto non sia accaduto ad altri artisti, per esempio, Terragni, non meno fascista di Sironi, come dimostrano i suoi scritti e la stessa Casa del Fascio di Como, ma gli studi sulla sua opera non si sono incentrati in modo preponderante sulle sue convinzioni politiche, come è accaduto invece per gli studi sironiani. Lenumerose indagini sull'argomento non si sono quasi mai sforzate di capire che cosa sia stato il fascismo di Sironi, come consigliava Vittorio Pica[20].
Per Sironi, come si deduce dai suoi scritti, il Fascismo significava essenzialmente due cose. La prima è il sogno di una rinascita dell'Italia, e quindi dell'arte italiana. La seconda è il desiderio di «andare verso il popolo», per usare l'espressione mussoliniana: dunque, in campo espressivo, il sogno di un'arte destinata non ai salotti, per i facoltosi collezionisti, ma alle piazze e ai muri degli edifici, per tutti. Quando ArturoMartini, nel 1944, diceva che Sironi «credeva di essere fascista, invece era d'animo bolscevico e quasi abissale» voleva appunto sottolineare il senso del fascismo sironiano, che è sempre stato (per dirla con una formula schematica e non priva di equivoci) un fascismo di sinistra, o comunque a vocazione sociale
[21].
Nell’ottobre del 1919, Sironi espose in una sua prima personale a Roma alla Casa d’Arte Bragaglia, commentata, con qualche polemica, da Mario Broglio su Valori Plastici. Le opere presentate da Bragaglia hanno un’impostazione già quasi metafisica, quindi, la mostra ufficializzava nel 1919 l’inizio della fase più propriamente metafisica di Sironi, quella in cui l’artista medita quasi esclusivamente sul tema del manichino da sartoria o da studio di artista – elemento che, insieme alla statuaria antica, è tipico del linguaggio metafisico, e proprio sulla mescolanza ibrida tra statua, manichino e figura umana – si basa una delle migliori strategie di straniamento. Ma i manichini di Sironi, diversamente da quei vaticinatori atemporali di de Chirico, sono immanenti nell’umano e nell’attuale, calati in una concretezza drammatica e in un afflato patetico che non ha riscontri in altri artisti del periodo. Diversamente da Carrà poi, in Sironi temi ed elementi metafisici appaiono già anticipati in diverse opere futuriste: ai manichini Sironi affianca talvolta elementi meccanici, come in L’atelier delle Meraviglie, La ballerina e La lampada, oppure cavalli, o ancora nature morte – dando origine a composizioni assolutamente peculiari per concretezza e drammaticità.
Nello splendido Atelier delle Meraviglie della Pinacoteca di Brera, per esempio, Sironi costruisce una scenografia di elementi meccanici e moderni visti però non nel frenetico dinamismo di una città industriale, ma nell’atmosfera dalla realtà immota e sospesa di una stanza e svela non solo la meccanicità e la modernità dell’epoca nuova, ma il dinamismo della città industriale.
Del 1919 è anche un altro dipinto famoso, La lampada, un interessante quadro in cui il pittore propone il tema del manichino, tanto amato da de Chirico con la differenza che, mentre quest’ultimo attribuisce alle sue figure un ruolo immobile e fantastico, Sironi resta ancorato alle realtà, dando al manchino un ruolo tragico e immoto, quasi bloccato nella sua esistenza, squilibrando così il messaggio naturale della metafisica ufficiale.
Questa è la caratteristica della metafisica di Sironi: sebbene de Chirico rimanga lo spirito metafisico per eccellenza, questa corrente fu molto variegata per le grandi personalità che l’accostarono quindi Carrà visse la metafisica con minore attenzione intima e più ordine formale, Morandi poeta del quotidiano, trovò una dimensione metafisica dimessa e sublime, fragile ed eterna, come avvolta in un silenzio e in una solitudine e de Pisis si affidò a sue forme e figure libere, aeree, quasi impalpabili.
Nel dipinto di Sironi la lampadina montata sotto il lume, piccolo totem della vita moderna tanto celebrato dai futuristi come «sole elettrico dell’avvenire», appare inquietantemente spenta. Eppure barbagli indecifrabili si diffondono furtivamente lungo il profilo del manichino da sartoria, in piedi sui tacchi delle scarpe, un mostro dalla natura ambigua che di umano ha l’ombelico, l’orecchio e i capelli, mentre allunga una mano inumana verso la lampadina.
Barbagli di luce rimbalzano sulla piramide in bilico sul tavolo. L’ambiente del quadro è in penombra mentre alcuni oggetti sembrano brillare di luce propria, animandosi di colori preziosi e nello stesso tempo segreti. Misteriosi intrecci cromatici li legano gli uni agli altri, come il giallo della piramide che sembra riflettere sulla coscia sinistra e su un pezzo, il più nascosto, del busto, il verde smeraldo del tavolo tinge le calze del manichino e si raccorda col rosso rubino dell’altra metà del busto del manichino. Un gioco luminoso audace tra cupezza e fulgore. È l’interno metafisico per eccellenza, il più metafisico che l’artista forse abbia mai dipinto.
L’atelier delle meraviglie e La lampada sono forse le due opere più note e più indicative di questa stagione, e sono anche due sicuri capolavori della pittura italiana del Novecento. La loro interpretazione è, allo stato degli studi, problematica.
Sempre del 1919 è La ballerina delle Civiche Raccolte d’Arte a Milano: incastonato sulla tela nella tecnica futurista del collage, il soggetto, anch’esso di tradizione futurista, è trasformato in un automa meccanico, un manichino, elemento metafisico per eccellenza.
La Metafisica non è solo una questione d’atmosfera immota e atemporale, ma è specialmente identificabile in una rassegna di oggetti tipici e il repertorio metafisico di Sironi, oltre al manichino, esibisce Il Cavallo bianco, dipinto nel 1919 oggi al Museo Guggenheim di Venezia, in cui il manichino ha una sua concretezza drammatica. Il dipinto apparentemente sembra banale per l’evidenza del tema, ma in realtà cela molte più cose di quelle che lascia intendere al primo sguardo.
Un altro capolavoro è la Venere dei Porti delle Civiche Raccolte d’Arte a Milano, un’opera che attesta la fase di passaggio tra le esperienze tardofuturiste e l’incipiente approccio alla pittura metafisica, riconoscibile nell’imponente figura femminile simile a un manichino da sartoria.
Sola, ritta e irrigidita in un busto giallo; i tacchi alti e il volto misterioso, coperto da un’ombra profonda. Che cosa fa quella donna in piedi su un molo deserto, in una notte senza luna? Forse è la fidanzata di un marinaio, forse la moglie di un pescatore o forse una prostituta in attesa dell’ultimo cliente. Il soggetto della Venere non ritrae un personaggio reale, ma simboleggia la donna che il marinaio trova in ogni porto, una figura ideale, simbolica, monumentale, che non ha nulla di romantico e riflette il paesaggio portuale circostante, che rimanda alle periferie urbane industriali, con le loro atmosfere deserte. Quella donna misteriosa è una dea moderna: futurista nel collage di giornali che costruisce il suo corpo; metafisica e cubista nei volumi geometrici che la rendono simile a un manichino.
L’Italia che si andava illuminando con l’elettricità era la stessa dei carusi che in Sicilia erano venduti per lavorare nelle miniere, delle donne che raccoglievano ancora le fascine per il fuoco. Sironi vive drammaticamente questo passaggio e ne sente la malinconia più che l’energia. Non è un ottimista e i suoi colori scuri, quasi seicenteschi, rivelano i suoi dubbi di testimone che cinque anni prima ha vissuto la fine della Belle époque con la Grande guerra per la quale si era arruolato volontario, e durante la quale aveva vissuto l’umiliante sconfitta di Caporetto. Sironi vide l’inizio della fine del mondo rurale e individua nel progresso tecnologico il suo potenziale di alienazione.
Nel 1919 Sironi si stava chiedendo in che cosa credere poiché, come i futuristi, sferzava la borghesia quanto il bolscevismo, ma con la mostra del 1919, Sironi aveva chiuso pressoché definitivamente con l’avanguardia, anche se quest’esperienza aveva lasciato sempre intelligibili tracce nella poetica futurista.
Allo stato attuale delle ricerche, la fase più propriamente metafisica di Sironi, quella in cui l’artista medita quasi esclusivamente sul tema del manichino, è individuata al 1919, ma non fu solo un momento: da allora in poi l’elemento metafisico rivestì un’importanza essenziale nello sviluppo della sua arte e del suo universo pittorico lungo tutto l’arco degli anni venti e dei primi trenta, fino a una breve stagione neometafisica nel periodo della seconda guerra mondiale.
Nella sua pittura, nelle sue periferie, c’è certamente un richiamo alla realtà, ma soprattutto vi si legge una sorta di intuizione, di illuminazione di un ordine superiore che sfugge, di un’attesa e di un respiro come di chi resta ad aspettare che l’evento si compia.
* * *
LaMetafisica non era destinata a vivere a lungo, il suo momento eroico si concluse attorno al 1920 e nel 1921 il gruppo era già sciolto, quando iprincipali esponenti presero altre strade, evolvendo naturalmente il proprio stile.
La Metafisica rimase tuttavia il tono di fondo nei quadri di Giorgio de Chirico e come atmosfera magica nei lavori degli altri artisti che avevano condiviso la sua esperienza.
Nonostante la relativa brevità di questo movimento, la sua influenza fu avvertita sia in Italia sia all'estero, dal momento chedalla metà degli anni Venti, il senso di ambiguità e di mistero che improntarono la pittura metafisica furono riproposti dal Realismo Magico, al gruppo Valori Plastici, dalmovimento Novecento e dal Surrealismo vere alternative all'astrazione che mantennero viva la mescolanza di ambiguità e ironia propria del de Chirico metafisico.
Lo stesso Alberto Savinio[22] ebbe una così alta consapevolezza di ciò che nell’introduzione al libro Tutta la vita, dichiarava: «Iniziatori dunque per quanto incolpevoli del surrealismo siamo noi due fratelli, figli della stessa madre e dello stesso padre, e fratelli nello spirito non che nella carne. In materia di surrealismo come contestare le affermazioni dello stesso capo del surrealismo e del suo teorico più riconosciuto?».
Per Valori Plastici, de Chirico scrisse numerosi articoli riguardo tematiche etiche ed estetiche dell'arte che si trovano in sintonia con il rappel à l’ordre successivamente teorizzato nel 1926 da Jean Cocteau il teorico del superamento dell'Avanguardia e inedito connubio tra le spinte eversive di questa e la rilettura delle radici classico-romantiche della cultura europea.
Le scene urbane, che sono protagoniste indiscusse di questi quadri, hanno un aspetto dilatato e vuoto. In esse predomina l’assenza di vita e il silenzio più assoluto. Le rappresentazioni di de Chirico superano la realtà, andando in qualche modo «oltre». Ci mostrano una nuova dimensione del reale. Da ciò il termine «metafisica» usata per definirla. Le immagini di de Chirico sono il contesto ultimo a cui può pervenire la realtà creata dal nostro vivere.
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Giungendo infine al rapporto fra de Chirico e il Fascismo
iorgio de Chirico non fu così di destra come si crede. Troppo scettico ed egocentrico per interessarsi a problemi politici o sociali si faceva guidare da un candido opportunismo. Convinto di essere un abile calcolatore, riuscì solo a danneggiarsi. Nel gennaio 1938 iniziò a far la corte al regime in modo assai maldestro: «Duce - scriveva -, di ritorno da Nuova York e prima di tornare a Parigi, ove abitualmente risiedo, sono di passaggio in Italia, e, da Roma, mi permetto di portare alla conoscenza dell’E. V. ...». Ma Mussolini reagiva malissimo al suo tono da fuoruscito e le lettere finivano nel cestino. Imperterrito, un mese dopo si recò da Bottai chiedendo di affidargli «la creazione di una nuova accademia con poteri assoluti» per «liberare l’arte italiana dal giogo di Parigi» e «ridare alla pittura le qualità perdute da più d’un secolo, con facoltà di usare «tutti i mezzi: dai morali ai tecnici, dai didattici ai disciplinari e persino ai coercitivi». Duce delle arti, quindi. Ma nelle Memorie del 1945, piene di invettive antifasciste, finse di essersi solo offerto per un insegnamento gratuito e se la prese con Bottai. Il corteggiamento proseguì con interviste e dichiarazioni miranti a ottenere premi, onorificenze e commesse. Pochi i risultati: un cavalierato nel 1941, e solo perché nel frattempo era diventato il pittore prediletto di Edda e Galeazzo Ciano. Contro le persecuzioni razziali non disse una parola pur avendo avuto due mogli ebree. Nel 1941 non si vergognò di imputare la degenerazione dell’arte moderna all’influenza degli israeliti «privi di un’immagine di dio», nel 1942 tolse le frasi favorevoli agli ebrei dall’edizione italiana di Ebdòmero e fu il trionfatore di una tetra Biennale di guerra. Eppure era un uomo mite, impressionabile e fragilissimo, di un egotismo spaventoso, infantile e pronto per bisogno di affetto a compiacere chiunque, facilmente dominabile. Non dipinse mai un quadro celebrativo, neanche quando gli sarebbe stato utile, e mentre corteggiava maldestramente il fascismo dava voce a paure e ossessioni confessando le sue fantasie di omosessuale represso in frammenti letterari che uscivano a Parigi in piccole edizioni surrealiste e poi, purgati, in Italia. Fascista non era mai stato, per eleganza, per cultura, per stile: ne aborriva la retorica e la mancanza di ironia e diffidava del binomio arte e politica. Si era iscritto al partito nel 1933, appena tornato pieno di debiti dalla Francia, per poter lavorare. Il suo studio di Parigi era frequentato da antifascisti ai quali dava lavoro. Incurante della politica, nel 1927 dichiarò a un giornalista di preferire la Francia all’Italia e di sentirsi «quasi francese», cosa che gli valse parecchi anatemi in Italia, oltre all’esclusione dalla Biennale di Venezia. Un equivoco nacque in quegli anni attorno ai quadri con ambigue lotte di gladiatori sotto lo sguardo severo di tristi fantasmi. Abituato a non curarsi dei critici, purché parlassero bene di lui, non batté ciglio quando Waldemar George, un reazionario ossessionato da Spengler e dal declino dell’Occidente, interpretò quei dipinti come una restaurazione da Basso Impero di fronte alla crisi dell’arte europea, dando implicitamente ragione a Breton che lo aveva accusato di piaggeria verso i miti della virilità fascista e della romanità. Invece erano derisioni di questi miti ed esternazioni di un’omofilia che non aveva il coraggio di manifestare altrimenti. Se un sentimento politico si può dedurre dalle testimonianze di una coscienza civile, i due fratelli de Chirico erano più interessati allo sviluppo della loro arte che ai doveri civici. Renitenti alla leva, emigrarono a Parigi nel 1911 e Giorgio, che si presentò l’anno dopo al distretto di Torino, fuggì subito e fu condannato per diserzione. L’idea di Patria era in loro fortissima, ma riguardava più il bisogno di identità dell’apolide che il rapporto tra diritti e doveri. Savinio, contagiato dal bellicismo di Soffici, soffrì di questa incoerenza e fece di tutto per andare al fronte. Giorgio, più scettico, dopo aver accondisceso per un po’all’imperante sciovinismo, trovò il coraggio di scrivere nel dicembre 1919 che la guerra era stata una inutile scemenza e non un fatale necessità come si andava dicendo, e che anche il futurismo era stato inutile e dannoso come la guerra e se ne sarebbe potuto benissimo fare a meno, concludendo: «Ora tutto tramonta (...) La politica insegna. Gl’isterismi e le cialtronerie sono condannati nelle urne. Credo che ormai tutti siano sazi di cialtronerie, sia politiche, letterarie o pittoriche». Dichiarazione chiara perché le elezioni appena concluse avevano visto la sonora sconfitta dei Fasci e il trionfo di Socialisti e Popolari. Diversa la linea di Savinio, che per malinteso patriottismo aspirò prima a farsi intellettuale organico al nascente regime, collaborando ai fogli più estremisti, e dopo la parentesi francese (1926-1932) volle diventare il teorico di un «tramonto dell’Occidente» in contrasto con l’«aurora di una nuova civiltà italiana». Ma questa è un’altra storia

Eppure, nel 1938, anche de Chirico provò a corteggiare il duce per ottenere la direzione di una nuova accademia, premi e onorificenze. Tuttavia non era credibile, tanto più che scriveva da Parigi e Mussolini, come Roberto Longhi, considerava la sua arte esterofila, decadente e rammollitrice. Ottenne ben poco anche se si era iscritto al partito nel 1933, di ritorno dalla Francia dove accoglieva gli antifascisti nel suo studio. Ambiguo lo fu anche nei confronti delle leggi razziali: non disse una parola, pur avendo avuto due mogli ebree. Solo nel 1945 si scagliò finalmente contro il fascismo e fu creduto perché non era riuscito a compromettersi. Giorgio de Chirico non fu così di destra come si crede. Troppo scettico ed egocentrico per interessarsi a problemi politici o sociali si faceva guidare da un candido opportunismo. Convinto di essere un abile calcolatore, riuscì solo a danneggiarsi. Nel gennaio 1938 iniziò a far la corte al regime in modo assai maldestro: «Duce - scriveva -, di ritorno da Nuova York e prima di tornare a Parigi, ove abitualmente risiedo, sono di passaggio in Italia, e, da Roma, mi permetto di portare alla conoscenza dell’E. V. ...». Ma Mussolini reagiva malissimo al suo tono da fuoruscito e le lettere finivano nel cestino. Imperterrito, un mese dopo si recò da Bottai chiedendo di affidargli «la creazione di una nuova accademia con poteri assoluti» per «liberare l’arte italiana dal giogo di Parigi» e «ridare alla pittura le qualità perdute da più d’un secolo, con facoltà di usare «tutti i mezzi: dai morali ai tecnici, dai didattici ai disciplinari e persino ai coercitivi». Duce delle arti, quindi. Ma nelle Memorie del 1945, piene di invettive antifasciste, finse di essersi solo offerto per un insegnamento gratuito e se la prese con Bottai. Il corteggiamento proseguì con interviste e dichiarazioni miranti a ottenere premi, onorificenze e commesse. Pochi i risultati: un cavalierato nel 1941, e solo perché nel frattempo era diventato il pittore prediletto di Edda e Galeazzo Ciano. Contro le persecuzioni razziali non disse una parola pur avendo avuto due mogli ebree. Nel 1941 non si vergognò di imputare la degenerazione dell’arte moderna all’influenza degli israeliti «privi di un’immagine di dio», nel 1942 tolse le frasi favorevoli agli ebrei dall’edizione italiana di Ebdòmero e fu il trionfatore di una tetra Biennale di guerra. Eppure era un uomo mite, impressionabile e fragilissimo, di un egotismo spaventoso, infantile e pronto per bisogno di affetto a compiacere chiunque, facilmente dominabile. Non dipinse mai un quadro celebrativo, neanche quando gli sarebbe stato utile, e mentre corteggiava maldestramente il fascismo dava voce a paure e ossessioni confessando le sue fantasie di omosessuale represso in frammenti letterari che uscivano a Parigi in piccole edizioni surrealiste e poi, purgati, in Italia. Fascista non era mai stato, per eleganza, per cultura, per stile: ne aborriva la retorica e la mancanza di ironia e diffidava del binomio arte e politica. Si era iscritto al partito nel 1933, appena tornato pieno di debiti dalla Francia, per poter lavorare. Il suo studio di Parigi era frequentato da antifascisti ai quali dava lavoro. Incurante della politica, nel 1927 dichiarò a un giornalista di preferire la Francia all’Italia e di sentirsi «quasi francese», cosa che gli valse parecchi anatemi in Italia, oltre all’esclusione dalla Biennale di Venezia. Un equivoco nacque in quegli anni attorno ai quadri con ambigue lotte di gladiatori sotto lo sguardo severo di tristi fantasmi. Abituato a non curarsi dei critici, purché parlassero bene di lui, non batté ciglio quando Waldemar George, un reazionario ossessionato da Spengler e dal declino dell’Occidente, interpretò quei dipinti come una restaurazione da Basso Impero di fronte alla crisi dell’arte europea, dando implicitamente ragione a Breton che lo aveva accusato di piaggeria verso i miti della virilità fascista e della romanità. Invece erano derisioni di questi miti ed esternazioni di un’omofilia che non aveva il coraggio di manifestare altrimenti. Se un sentimento politico si può dedurre dalle testimonianze di una coscienza civile, i due fratelli de Chirico erano più interessati allo sviluppo della loro arte che ai doveri civici. Renitenti alla leva, emigrarono a Parigi nel 1911 e Giorgio, che si presentò l’anno dopo al distretto di Torino, fuggì subito e fu condannato per diserzione. L’idea di Patria era in loro fortissima, ma riguardava più il bisogno di identità dell’apolide che il rapporto tra diritti e doveri. Savinio, contagiato dal bellicismo di Soffici, soffrì di questa incoerenza e fece di tutto per andare al fronte. Giorgio, più scettico, dopo aver accondisceso per un po’all’imperante sciovinismo, trovò il coraggio di scrivere nel dicembre 1919 che la guerra era stata una inutile scemenza e non un fatale necessità come si andava dicendo, e che anche il futurismo era stato inutile e dannoso come la guerra e se ne sarebbe potuto benissimo fare a meno, concludendo: «Ora tutto tramonta (...) La politica insegna. Gl’isterismi e le cialtronerie sono condannati nelle urne. Credo che ormai tutti siano sazi di cialtronerie, sia politiche, letterarie o pittoriche». Dichiarazione chiara perché le elezioni appena concluse avevano visto la sonora sconfitta dei Fasci e il trionfo di Socialisti e Popolari. Diversa la linea di Savinio, che per malinteso patriottismo aspirò prima a farsi intellettuale organico al nascente regime, collaborando ai fogli più estremisti, e dopo la parentesi francese (1926-1932) volle diventare il teorico di un «tramonto dell’Occidente» in contrasto con l’«aurora di una nuova civiltà italiana». Ma questa è un’altra storia.



[1]Silvana Cirillo, Alberto Savinio: le molte facce di un artista di genio, Milano, 1997
[2] G. de Chirico: Memorie della mia vita, Bompiani tascabile, 2008.
[3]Il termine Surrealismo fu usato per la prima volta da Guillaume Apollinare e successivamente ripreso da André Breton indica al di sopra della realtà.
[4] André Breton, l'Anthologie de l'humour noir, Parigi, 1940. trad. Italiana a cura di  traduzione di M. Rossetti e I. Simonis, Einaudi, 1970,
[6]Carlo Carrà: La mia vita, Milano, 1945.
[7] Carlo Carrà, op. cit
[8]A Savinio Anadiomènon. Principi di valutazione dell’arte contemporanea, in “Valori Plastici”, 1919,
[9]A Savinio: ibid.
[10]La nascita di Venere, a cura di Giuseppe Montesano e Vincenzo Trione, Adelphi.
[11]A. Savinio, Fini dell'Arte, in La nascita di Venere , cit.
[12]A Savinio, ibidem
[13]A Savinio: Primi saggi,
[14]A. Savinio «Classicismo che, beninteso, non è ritorno a forme antecedenti, prestabilite e consacrate da un'epoca trascorsa; ma è raggiungimento della forma più adatta alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica - la quale non esclude affatto le novità di espressione, anzi le include, anzi le esige»
[15] Arnaldo Beccaria, Giorgio Morandi : 34 tavole, Milano, 1939
[16]Cesare Brandi: Morandi, Firenze, 1942
[17]Giorgio Morandi, Autobiografia in L'Assalto, dalla rubrica Autobiografie di scrittori e artisti del tempo fascista, 18 febbraio 1928, p. 3; cfr Giorgio Morandi Lettere, a cura di Lorella Giudici, Milano , 2004.
[18] Annalisa Capristo: L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, prefazione di Michele Sarfatti, Torino, 2002.
[19]F. T. Marinetti, Taccuini 1915-1921, Bologna 1987.
[20]"Irriducibile sostenitore di Sironi, anche dopo la guerra, Pica ammise con franchezza che Sironi era stato fascista, come lui, che - disse - lo era ancora. 'Ma lei deve capire che cosa è stato il nostro fascismo' ammonì" riporta Emily Braun (Mario Sironi. Arte e politica sotto il fascismo, Torino 2003). A questo saggio si rimanda per un'analisi complessiva dell'argomento. Ma si veda anche R. De Grada in Sironi, catalogo della mostra, Milano 1973.
[21]A. Martini in G. Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, Milano 1968. Alla testimonianza di Martini si può avvicinare quella della moglie di Sironi, Matilde, che dirà di lui: "Lo si definisca anarchico! Da parte mia lo definirei, sia pure a posteriori, un "comunista" […] Era "mussoliniano", questo sì" (Matilde Sironi, in E. Fabiani, Mario Sironi nei ricordi della moglie, "Gente", n. 7-8, Milano, marzo 1973, p. 68 e p. 71).
[22]Alberto Savinio Tutta la vita, 1945

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