L’identificazione di Giovanni Gentile con il Fascismo, resa ancor più forte ed emotivamente percepibile per il suo impegno nella Repubblica Sociale Italiana e per la sua tragica morte, e l’identificazione dell’attualismo con il Fascismo hanno condannato per decenni la sua figura di filosofo ed il suo pensiero ad una sorta di damnatio memoriae.
La polemica storiografica sul Fascismo, si è incentrata sull’idea del Fascismo come anticultura o come negazione della cultura e, essendo Gentile il principale filosofo del Fascismo e non una sentinella della libertà in un regime privo di cultura, ha comportato il tentativo di operare una netta separazione fra il Gentile uomo pratico e il Gentile filosofo, laddove, invece, i due aspetti non sono affatto separati.
Eugenio Garin, in Cronache di filosofia italiana del 1955, aveva già diffuso l’interpretazione di Gentile come espressione del liberalismo e per salvare Gentile dall’accusa di Fascismo, distingue il Gentile filosofo dal Gentile fascista, considerando il pensiero gentiliano indipendente dal Fascismo, e Gentile vittima di un’illusione e di una fedeltà nobili verso quel regime che gli aveva concesso cariche ed onori. Norberto Bobbio aveva successivamente ripreso quest’interpretazione, estremizzandola non senza forzature, per dimostrare che il Fascismo non avesse mai avuto una cultura autonoma: per Bobbio, se Gentile, dunque, non poteva essere del tutto considerato un esponente della cultura fascista, significava che il Fascismo fosse privo di radici culturali. L’idea che il nucleo speculativo della filosofia di Gentile fosse stata del tutto indipendente e per certi versi addirittura incompatibile con la gentiliana adesione al Fascismo è stata sostenuta anche da Emanuele Severino e da Gennaro Sasso, che, tuttavia, è stato molto rigido circa la persistenza della fedeltà di Gentile al Fascismo dopo la promulgazione delle leggi razziali.
Più convincente è stato invece il discorso di Giacomo Noventa, di Paolo Rossi e, successivamente, quello sviluppato da Augusto Del Noce.
Già Rossi aveva preso le distanze sia da Garin sia da Bobbio, avvicinandosi in sordina all’interpretazione di Del Noce: Rossi era, infatti, lontano dal giudicare la speculazione gentiliana robusto e geniale, ma non si sentì neppure di condividere l’opinione di Garin, secondo cui il nucleo centrale del pensiero filosofico di Gentile «non ha nulla a che fare col Fascismo».
Del Noce ha invece del tutto smantellato le interpretazioni di Garin e di Bobbio, ritenendo Gentile la maggiore espressione filosofica del Fascismo, a parte certi toni retorici spesso sgradevoli, non è stata una cattiva filosofia, non considerando strumentale la sua adesione al regime e vedendo nel Fascismo non un errore contro la cultura, ma anzi un errore della cultura: quest’interpretazione è ormai condivisa da molti, in Italia e nel mondo, in particolare del rapporto tra Gentile e il Fascismo ed in generale tra la cultura italiana ed il Fascismo. Se non vi è legame pianificato, tra la speculazione di Gentile e la sua attività di intellettuale fascista, tuttavia la congruenza tra le due esiste. Molto prima di aderire al Fascismo, Gentile aveva condannato il giusnaturalismo ed il contrattualismo per il loro materialismo, e le teorie liberali ottocentesche francoinglesi per il loro atomismo individualistico; Gentile aveva, inoltre, negato la distinzione tra la prassi e il pensiero, aveva proclamato l’identità della politica con la morale ed aveva elaborato, con sottintesi accenti totalitari, alcuni nuclei portanti della dottrina dello Stato etico, forma istituzionale in cui l'istituzione statuale stessa è il fine ultimo cui devono tendere le azioni dei singoli individui, nonché la realizzazione concreta del bene universale.
Ripresa nel Novecento da Gentile, la teoria dello Stato Etico può essere usata per spiegare il fondamento della concezione dello Stato Fascista di Mussolini. Mentre la dottrina hegeliana affermava che lo Stato è fonte di libertà e norma etica per il singolo e che la condotta dello Stato non può essere oggetto di valutazioni morali da parte dell'individuo in quanto lo Stato si pone fine supremo e arbitro assoluto del bene e del male. Staccandosi dall’ideologia hegeliana, Giovanni Gentile affronta la questione dello Stato etico come discorso di libertà, partendo dallo spirito umano e non dallo spirito oggettivo.
Senso dello Stato è per Gentile societas in interiore homine, cioè quell’atto di forte libertà spirituale che è concepire volontaristicamente l’attività politica e di governo come servizio nell’interesse generale e non per il proprio tornaconto, ossia non soltanto per l’affermazione della propria personale ambizione o per realizzare prevalentemente il proprio interesse economico, né tantomeno per imporre un credo intellettualistico o classista. Sentire eticamente lo Stato è esattamente il contrario di fare dello Stato il proprio piedistallo per dominare e imporre totalitariamente idee ed inquadramenti.
Gentile uscì dalla concezione hegeliana prima che nasceva il Fascismo e quindi portò nel Fascismo un principio filosofico di altruismo sostanziale alla base dell’operare pubblico e della battaglia politica.
Dopo aver trattato dell’impossibile distinzione tra il filosofo e il politico ci si domanda se l’attualismo è Fascismo e Gentile stesso risponde nel 1925: «Non c’era un solo Fascismo, ma ve ne erano tanti quante le persone che lo interpretavano, ognuno dal suo punto di vista». Insomma Gentile affermava quella poligonia che già Gioberti aveva sostenuto per il cattolicesimo: «come c’erano tanti cattolicesimi, c’erano fascismi, dei quali quello risorgimentale, era il suo». E così quando scrive il Manifesto degli intellettuali fascisti, e nella Dottrina del Fascismo, pubblicata sulla Enciclopedia Treccani, è possibile scorgere i concetti, i termini, lo stile, improntati all’attualismo.
Gentile, con l’aiuto dell’attualismo, sensibilizzò molto l’aspetto, comunemente rigido, della visione del Fascismo.
Dicendo questo di Gentile e della sua influenza nel Fascismo, non si vuole respingere la qualifica di totalitarismo attribuita al regime fascista e alle sue istituzioni: un regime peraltro si definiva regime totalitario perchè non si ammettevano ideologie diverse dalla propria e perché gli interessi dell’individuo erano subordinati agli interessi dello Stato. Per la tutela degli interessi dello Stato, l’opposizione non era consentita. Non va dimenticato, però, che tutti gli statuti delle corporazioni e dei sindacati che contribuivano a formare la Camera legislativa, prevedevano le elezioni interne per la selezione dei propri rappresentanti.
Quindi Fascismo ed attualismo sono il frutto della stesse maturazioni spirituali e culturali che l’hanno preceduto e di quel voler essere che è l’essenza dell’agire etico. La storia è un intreccio di cause ed effetti che costituisce la realtà, così come Vico ha insegnato.
Sulla base di una maturità basata sul positivismo, Gentile promuove anch’egli che la concretezza del fatto serve a dare all’Idealismo una positività particolare, mutando il fatto in atto.
La costruzione di Gentile è un sistema teoretico di filosofia della storia chiamato attualismo perché fondato sull’azione del pensiero che, pensando, attua ciò che pensa. Gentile non vuole forzare l’ideologia hegeliana, ma è più vicino a Fichte e alla sua concezione dello Stato di tutti cittadini. Per Gentile, insomma, non è più la fatalità del pensiero greco o il cinismo del pensiero moderno che considera immodificabile il sopruso o l’errore, né è il determinismo del pensiero marxista che si dilania tra la velleità rivoluzionaria e la inevitabilità della società degli uguali; in lui vi è la responsabilizzazione dell’uomo che agisce pensando e che, pensando, opera. L’attualismo gentiliano diviene la base etica per la selezione democratica della classe dirigente politica.
In quest’ottica, tutti i tentativi di sostenere l’estraneità dell’attualismo rispetto al Fascismo, tutti gli sforzi per sdoganare la figura di Gentile dal peso ingombrante del Fascismo, trasformandolo nella migliore delle ipotesi in un conservatore o in un liberale ingenuo e tradito dagli avvenimenti, sono destinati a scontrarsi contro la realtà dei fatti e contro la stessa natura di un pensiero che finiva per sottintendere l’identità di filosofia e di politica.
Gentile è stato, infatti, fascista, rispettato interlocutore di Mussolini, ed è stato anche un grande filosofo del Novecento, riconosciuto ed apprezzato dai maggiori pensatori del secolo.
L’incontro tra Gentile e Mussolini è stato descritto con esplicito ricorso alla categoria speculativa dell’armonia prestabilita. Apparentemente i due erano lontanissimi l’uno dall’altro, ma ognuno dei due avvertì che l’altro aveva ciò che a lui mancava. Gentile possedeva una filosofia senza soggetto politico e Mussolini un movimento politico cui occorreva dare un’autocoscienza culturale e dottrinale. Il terreno su cui avvenne l’incontro tra Gentile e Mussolini era stato de facto preparato dalle battaglie idealistiche del primo decennio del Novecento, specie nella loro versione crociana: la lotta contro il materialismo, la mentalità massonica, il modernismo cattolico, il democratismo egualitario, il giolittismo; la riscoperta di Marx, di Machiavelli, del sindacalismo rivoluzionario, di Sorel.
La filosofia di Gentile era già integralmente costituita nei primi due decenni del Novecento: questa filosofia, volontaristica, attivistica, risorgimentalistica, anti–individualistica ed orientata allo Stato etico, senza che le fosse più apportata alcuna modificazione rilevante, divenne la filosofia ufficiale del Fascismo. Essa mantenne questo ruolo fino alla caduta del regime, per una scelta lucida e consapevole di Mussolini, nonostante le varie, dure opposizioni da essa incontrate all’interno del Fascismo: da parte del clericalfascismo mirante alla restaurazione teocratica di Gemelli, da parte dei monarchici, dei nazionalisti, di Grandi e di altri gerarchi.
Gli indissolubili rapporti di Giovanni Gentile con la cultura ed il partito fascista sono stati esposti in un saggio di Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, in cui la studiosa dimostra che dal 1922 al 1944 il principale nemico di Gentile fu il Partito nazionale fascista.
Gentile fece parte del primo governo Mussolini nel 1922, come ministro dell’Istruzione, ma, a differenza di molti intellettuali transfughi, aderì alla Repubblica Sociale Italiana, per questo il suo itinerario politico-culturale accompagna l’intera storia del Fascismo.
Nato a Castelvetrano il 29 maggio 1875, Giovanni Gentile, dopo aver trascorso la sua infanzia a Campobello di Mazara, frequentò il liceo a Trapani: durante l’ultimo anno decise di partecipare al concorso alla Scuola Normale Superiore di Pisa e dopo esservi Stato ammesso, Gentile s’iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia.
L’esperienza presso l’ateneo pisano influì in maniera decisiva sul suo pensiero e sulle scelte culturali e politiche. La Scuola Superiore di Pisa, infatti, aveva avviato uno studio filologico e storico sulla letteratura italiana e sul ruolo del pensiero italiano nella filosofia europea: quest’impostazione era in linea con l’esigenza post unitaria di cercare di rintracciare storicamente l’unità della penisola dal punto di vista politico e da quello culturale e spirituale. Gentile fece suo questo pensiero e cercò di definire meglio e di ricostruire la storia spirituale d’Italia, con frequenti richiami alla continuità storica e politica con il Risorgimento.
Sotto l’insegnamento storico di Alessandro D’Ancona e quello filosofico di Donato Jaia, Gentile iniziò a pubblicare i suoi primi articoli. L’influenza dei due professori fu antitetica: mentre D’Ancona, seguace del metodo storico, veniva dalla storiografia positivista e da ambienti liberali, Jaia era un hegeliano, seguace di Spaventa.
Queste due personalità costituirono due bisogni diversi ma conciliabili: l’attenzione filologica per i documenti e per i testi, e per l’interpretazione di Bertrando Spaventa della filosofia di Hegel.
Oltre all’influenza esercitata dai suoi due maestri, fu decisivo negli anni pisani, l’incontro con Benedetto Croce: il loro carteggio iniziò nel 1896 e si protrasse fino all’adesione di Gentile al partito fascista nel 1923. La discussione tra i due si svolse all’inizio su argomenti storici e letterari, successivamente, l’argomento principale divenne la filosofia. Col passare del tempo, l’amicizia tra i due si rafforzò fino a diventare cruciale per la formazione e lo sviluppo del pensiero di entrambi e per la carriera accademica di Gentile. La base della discussione con Croce fu l’Idealismo che accomunò per un verso i due filosofi, ma che al tempo stesso li divise a causa di alcune divergenze che saranno motivo della loro separazione. I due combatterono insieme la guerra contro il positivismo e le degenerazioni dell’università italiana: il loro scopo comune fu quello di costituire un polo filosofico crescente nella cultura italiana.
Nel 1903, Croce e Gentile fondarono la rivista La Critica e lavorarono incessantemente alla creazione di nuove collane editoriali e alla pubblicazione delle loro rispettive opere. Il profondo contrasto speculativo tra Croce e Gentile, che i due, per iniziativa di Croce, resero pubblico nel 1914 fu un esito da lungo tempo preparato e latente, ma a entrambi i filosofi via via sempre più chiaro. Le ragioni del dissenso si connettevano principalmente al rapporto di convertibilità tra filosofia, storia della filosofia e storia istituito da Gentile e alla gentiliana autocreazione dell’esperienza pura, forma del conoscere che è potenza creatrice di tutto il reale.
Dopo la laurea, Gentile iniziò la sua carriera di insegnante, ottenendo una cattedra a Campobasso, al liceo Mario Pagano e, nel 1906, riuscì ad ottenere la cattedra di Storia della filosofia all’Università di Palermo.
Malgrado ambisse ad una cattedra a Napoli per la vicinanza con Croce e con gli ambienti culturali napoletani, l’esperienza e l’insegnamento a Palermo furono per lui fondamentali: intorno alla sua cattedra e agli incontri del circolo culturale di Giuseppe Pojero, cominciò a crearsi quella scuola di allievi che contribuirono alla diffusione dell’Idealismo e della sua filosofia, che si arricchì in quegli anni di testi importanti tra cui L’atto del pensare come atto puro del 1912, che ne costituisce il manifesto, e La riforma della dialettica hegeliana del 1913, fondamento dell’opera sistematica La teoria generale dello spirito come atto puro del 1916.
L’insegnamento diede a Gentile la possibilità di toccare con mano il disagio della scuola italiana, inadatta per lui a contribuire alla fortificazione dell’unità nazionale e delle sue basi culturali, ed incapace di formare una nuova classe dirigente che conduceva il paese verso una sorte migliore del degrado politico e spirituale in cui versava.
Durante la prima guerra mondiale, Gentile iniziò a collaborare con diversi giornali, tra cui il Resto del Carlino e il Nuovo Giornale di Firenze, per promuovere la sua battaglia contro l’attendismo e, dopo la guerra, per tentare di dirigere la ricostruzione culturale e politica della nazione.
Nel 1920 nacque il Giornale Critico della Filosofia Italiana che riuniva tutti coloro che si ispiravano al sistema gentiliano o che si erano formati nella sua scuola e a quali la rivista offriva la possibilità di pubblicare testi che sarebbero loro stati utili per carriere e concorsi.
Nello stesso periodo Gentile iniziò a definire meglio i caratteri del proprio impegno politico: vide nel nascente partito fascista, la forza nuova in grado di traghettare l’Italia nel delicato periodo del dopoguerra e l’unico in grado di assicurare all’Italia un governo e uno Stato forte e stabile: per questo Camillo Pellizzi, nel 1922, sosteneva che Mussolini e Gentile fossero sovvertitori delle tendenze culturali e morali dell’Italia liberale e che l’Idealismo gentiliano, già negli anni della Prima guerra mondiale, si muovesse nella stessa direzione del Fascismo.
Nel 1923 Gentile si iscrisse al Partito nazionale fascista, in cui vide sempre l’espressione del moto risorgimentale di unità nazionale e fu nominato dal governo Mussolini Ministro della Pubblica Istruzione: la sua nomina a ministro scatenò le polemiche dei fascisti intransigenti, scontenti della scelta di Mussolini di inserire nel governo un personaggio ritenuto ambiguo, liberale e non ancora aderente al Fascismo. Gentile sentì sempre come una vera e propria missione il suo ruolo di insegnante e di educatore; la sua pedagogia non può essere staccata né dal suo sistema filosofico, né dal suo progetto di riforma della scuola che attuò nel 1923-24, una riforma che gli attirò altre ostilità: l’ala intransigente del regime non gli risparmiò, infatti, critiche, immettendo volentieri nella polemica sulla politica scolastica attacchi alla persona.
Per comprendere il senso ed il significato della riforma scolastica di Gentile occorre fare un passo indietro nella riflessione e nella produzione delle sue opere. Al 1900, poco dopo aver iniziato ad insegnare, risale la prima opera pedagogica di Gentile, L’insegnamento della filosofia nei licei in cui, fin dai suoi esordi, affida all’insegnamento della filosofia un ruolo centrale perché questo permette una formazione generale dello spirito che prepara a tutte le facoltà universitarie. Il principio di una filosofia regina delle scienze ha un’importanza cruciale per comprendere lo sviluppo della pedagogia di Gentile e la struttura che egli diede alla scuola italiana dopo la riforma.
Nel 1913 la pedagogia gentiliana è sistematicamente esposta nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica, articolato seguendo due principi, cui sono rispettivamente dedicate le due parti del testo: il superamento della dualità di educatore ed educando nella dialettica nell’atto educativo ed il rifiuto di ogni contenuto particolare dell’insegnamento e di ogni regola didattica. Nel saggio, Gentile critica le comuni distinzioni dualistico-pedagogiche, e particolarmente quella fra contenuto e forma dell’insegnamento, fra materia da far apprendere e metodo con cui fare apprendere. Non esiste per lui un metodo valido per ogni materia: ogni materia, ogni argomento è metodo a se stesso, non è cioè nozione astratta e isolata da memorizzare, ma atto di ricerca attiva e creativa; le indicazioni di metodo possono servire all’insegnante solo nel delineare la fase di preparazione all’atto di insegnare in cui, poi, l’insegnante stesso supererà la dualità con l’allievo permettendo ad entrambi di pensare l’unica verità.
La pedagogia di Gentile risente di un’impostazione morale ed etica, che mira a formare, prima che specialisti dell’insegnamento, persone moralmente degne di esserlo; la subordinazione delle materie scientifiche a vantaggio delle materie cosiddette umanistiche rispondeva, a quei tempi, alla precisa esigenza di formare quello spirito nazionale e quell’unità che ancora, l’alto tasso di analfabetismo e la confusione politica, non aiutavano a rinsaldare.
Secondo l’impostazione gentiliana, la scuola doveva contribuire all’unità del popolo italiano, ma non era di massa: la formazione filosofica doveva restare un privilegio per i pochi che l’ingegno destinava agli studi più alti e la riforma della scuola che egli attuò nel 1923-24 e che difese lungo tutto il restante arco della sua vita contro i tentativi di modificarla, fu dunque il risultato di venti anni di riflessioni sul ruolo della scuola nella formazione della coscienza nazionale degli italiani. La scuola dopo la riforma Gentile divenne molto selettiva e per certi versi classista.
Molti dei tentativi che furono fatti per modificare la sua riforma, quand’egli non era più ministro, partirono proprio dalla piccola e media borghesia, desiderosa di diplomi per i propri figli e poco incline ad una tale selettività. Discorso a parte merita l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nella scuola elementare per questo Gentile si batté sempre. Nel sistema filosofico gentiliano la religione ha un ruolo intermedio tra l’arte e la filosofia: come tale il suo insegnamento è propedeutico alla filosofia perché offre al bambino le prime basi per una visione complessiva del mondo. La religione insegnata nelle scuole doveva essere la cattolica perché questa era la forma spirituale storica del popolo italiano, ma doveva essere inglobata e superata dallo studio della filosofia.
Merito della riforma di Gentile fu di permettere la partecipazione alla vita scolastica dei bambini sordi e muti, consentendo anche a loro di ottenere una certa cultura.
Dimessosi dal governo dopo l’assassinio di Matteotti nel 1924, Malaparte, nella rivista da lui diretta La conquista dello Stato del 1924, accusò il filosofo di identificare il liberalismo con il Fascismo: la non partecipazione di Gentile alle lotte politiche delle origini era una macchia indelebile.
L’adesione di Gentile al Fascismo del 1923, costituì la molla della rottura con Benedetto Croce e gli comportò molte inimicizie. Il distacco di Gentile da Croce spesso è attribuito al fatto che Gentile si iscrisse al partito fascista e Croce invece no. Ma la ragione per Croce fu più consistente della sola divergenza sull’esitazione ad aderire ad una partito – allora, nel 1923, non ancora regime – che non sembrava volesse abolire la libertà politica. In un primo momento Croce era quasi intenzionato ad aderire al Fascismo convinto che esso avrebbe restaurato un ordine conservatore, ma se ne allontanò quando si accorse, non tanto della dittatura dopo il delitto Matteotti, quanto del programma sociale di Mussolini: la motivazione dunque fu meramente reazionaria e non progressista.
L’adesione di Gentile al Fascismo diede altresì al filosofo la possibilità di accrescere ulteriormente la sua influenza sulla cultura italiana, grazie anche ad alcune importanti iniziative. Gentile, dopo le sue dimissioni nel sistema governativo, continuò a svolgere un impegno attivo nella vita politica dello Stato e questo, per un lungo periodo, lo portò ad abbandonare, di fatto, gli studi filosofici: pubblicava i suoi vecchi trattati con nuove introduzioni ed approfondiva qua e là i temi su cui aveva lavorato fino ai cinquant’anni, ma era diventato principalmente sponsorizzatore di iniziative culturali, divenendo così l’organizzatore delle attività culturali fasciste, editore ed organizzatore degli studi e delle ricerche dei suoi allievi, promuovendo la realizzazione della Enciclopedia Italiana, alla cui composizione collaborarono anche molti intellettuali antifascisti, meno però di quanti Gentile avesse auspicato. Nel suo disegno, questa opera doveva costituire un monumento all’unità e alla concordia della cultura italiana, cui dovevano contribuire tutti gli studiosi, di qualsiasi credo politico.
Durante la sua militanza nel PNF, Gentile, oltre che direttore di numerose riviste e collane, e curatore di varie opere, fu, nel 1924 Presidente della Commissione dei Quindici.
Nel 1925 Gentile fu Presidente della Commissione dei Diciotto e, adoperandosi per dare al Fascismo un programma ideologico e culturale, redasse Manifesto degli intellettuali del Fascismo, prospettando il Fascismo come un rinnovamento morale e religioso degli Italiani, Gentile tentò di collegarlo direttamente al Risorgimento. A questo manifesto Benedetto Croce rispose con il Manifesto degli intellettuali antifascisti che, da allora in poi, rese insanabile il contrasto fra i due filosofi.
Dal 1925 al 1937, Gentile fu Presidente dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura e fu ideatore e Direttore Scientifico della Enciclopedia italiana.
Dal 1926 al 1928, Gentile fu Presidente del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e dal 1928 Regio Commissario della Scuola Normale Superiore di Pisa.
Gentile, all’interno stesso del Fascismo subì diverse sconfitte: la più bruciante fu la firma del Concordato tra la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano nel 1929: sebbene egli considerasse il cattolicesimo come la forma storica della spiritualità italiana, il Concordato contraddiceva il suo disegno di uno Stato etico, garante di una sorta di unità divina tra gli appartenenti che negava perciò ogni Dio indipendente dallo Stato.
Il vero taglio del cordone Idealismo-Fascismo sopraggiunse negli anni Trenta da parte della giovane generazione di intellettuali raccolta intorno a riviste come L’Universale, diretta da Berto Ricci e Romano Bilenchi, e soprattutto da alcuni teorici del Fascismo quali il giurista Carlo Costamagna e i filosofi Julius Evola e Ugo Spirito: l’Idealismo di Gentile non rappresentava più il sostrato teorico dell’ideologia fascista.
A Gentile restavano prestigiosissimi incarichi accademici e politici, ma la sua presa intellettuale era tramontata. Nel 1931 Giovanni Papini aveva sentenziato: «Una filosofia dura trenta anni o poco più». L’Idealismo italiano era dunque finito.
Le polemiche contro Gentile aumentarono di intensità: lo schieramento degli antigentiliani, negli anni Trenta, crebbe di numero, determinando una sorta di isolamento del filosofo, reso ancor più amaro dalle polemiche e dalle accuse che vennero da ambienti filosofici e culturali avversi all’Idealismo. Infatti, quasi tutti gli esponenti del mondo cattolico, antigentiliani sin dai primi anni del Novecento, vedendo nel suo sistema filosofico la forma più penetrante del pensiero moderno, ateo e immanentista, gravido di pericolose assonanze con il modernismo, videro in Gentile un pericolo: testate come La Rivista di filosofia neoscolastica, Studium, Vita e pensiero e La civiltà cattolica si riempirono di attacchi. Gli stessi settori del Fascismo lo accusavano di essere un liberale mascherato, o, di nutrire simpatie per il Comunismo come gli intransigenti ed agguerriti Curzio Malaparte, Ardengo Soffici e Telesio Interlandi.
L’isolamento di Giovanni Gentile negli anni Trenta fu tuttavia compensato dalla stima che Mussolini continuò a manifestargli in più occasioni e dalle soddisfazioni che gli comportavano l’impegno in grandi iniziative culturali, nonché dall’insegnamento universitario e dall’intensa attività editoriale, oltre che, naturalmente, dai compiti istituzionali di senatore del Regno.
Alla fine degli anni Trenta l’influenza del pensiero di Gentile sulla cultura fascista era ormai ridotta ai minimi termini: se nei primi anni Venti l’Idealismo poteva essere considerato un tutt’uno con il Fascismo, adesso l’Idealismo era tornato puramente gentiliano, e neanche più tanto alla moda.
Sebbene dall’ultimo scorcio degli anni Trenta e durante gli anni di guerra si fosse ormai allontanato dall’impegno politico, sebbene si sentisse estraneo a certe scelte del regime, a cominciare dalla politica razziale, che era in antitesi con l’antinaturalismo del suo pensiero e che egli cercò di contrastare, offrendo sostegno e protezione a molti intellettuali ebrei, sebbene ormai relegato dallo stesso regime ad un ruolo politico pressoché nullo, per la sua fedeltà al Partito nazionale fascista, aderì comunque nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana e, quando, nel momento in cui l’andamento del conflitto stava volgendo al peggio, Carlo Scorza, nuovo segretario del PNF, lo invitò a parlare in Campidoglio, Gentile non si tirò indietro.
Il 24 giugno 1943, Gentile pronunciò il famoso Discorso agli italiani che lo riportò alla ribalta dell’attenzione politica e che provocò sconcerto e amarezza in amici e allievi e dure polemiche da parte di avversari. Da quel discorso, rivolto a fascisti e non fascisti, e tutto improntato sul tema della pacificazione, emergeva il fatto che per lui il problema vero non era più l'esito della guerra, quanto piuttosto la continuità storica della nazione italiana anche all’indomani di una prevedibile sconfitta. Rivolgendosi idealmente ai giovani comunisti che avevano ascoltato le sue lezioni a Roma e a Pisa, dette la sensazione di comprendere le loro idee e le loro passioni. «Chi parla oggi di Comunismo in Italia - disse in quella occasione - è un corporativista impaziente delle more necessarie dello sviluppo di un’idea che è la correzione tempestiva dell’utopia comunista e l’affermazione più logica e perciò più vera di quello che si può attendere dal Comunismo».
La sua collaborazione con la Repubblica Sociale Italiana, fu anche una conseguenza della sua filosofia, ovvero dello stretto nesso pensiero-azione, mitico dell’attualismo e, al tempo stesso, fu l’esito della sua concezione del rapporto tra Fascismo e storia d’Italia.
Il ritorno alla filosofia avvenne nel momento in cui lo sbarco degli Alleati in Sicilia, la caduta di Mussolini e il pericolo di morte che minacciava la patria gli ispirarono una riflessione conclusiva sul senso dell’esistenza.
Il breve libro che scrisse nell’agosto del 1943 s’intitola Genesi e struttura della società. Il suo protagonista non è più l’atto puro, cioè quel concetto idealistico della prassi con cui Gentile fece il suo clamoroso ingresso nel clima positivista degli studi italiani agli inizi del secolo. Il protagonista è l’io sociale, un essere umano unito ai suoi simili da un rapporto organico, un uomo che sopravvive, indipendentemente dalla sua sorte personale, nella vita dei suoi compagni e familiari. Il libro aveva toni profetici. Giunto alla fine dei suoi studi Gentile intravedeva l’umanesimo del lavoro, un mondo in cui lo Stato dei cittadini, nato dalla Rivoluzione francese, sarebbe Stato sostituito da uno Stato «del lavoratore, quale esso è, con i suoi interessi differenziati secondo le naturali categorie che a mano a mano si vengono costituendo». Non è lo Stato leninista dei lavoratori, ma è una forma molto avanzata dello Stato corporativo, il segno di una svolta che Ugo Spirito, il più corporativista dei filosofi gentiliani, definì per l’appunto il Comunismo di Giovanni Gentile.
Il 15 aprile 1944, l’assassinio di Gentile fu, compiuto materialmente a Firenze da militanti comunisti aderenti ai Gap: un colpo di pistola abbatté il filosofo sulla soglia della sua villa fiorentina, brutalmente e barbaramente trucidato da un gruppo di partigiani, che non ebbero alcun rispetto per l’anziano e dotto intellettuale. Quel che contava per loro, travolti da una furia barbara, era eliminare ogni fascista, ignorante o colto che era. L’assassinio di Gentile finì per assumere il valore emblematico della fine del predominio dell’Idealismo nella cultura politica italiana.
Sulla matrice comunista dell’attentato non sussistono dubbi, anche se allora, dopo la morte, circolò la voce senza prove che erano stati gli stessi fascisti estremisti ad ucciderlo o perfino i servizi segreti inglesi. La verità è molto più semplice e la responsabilità dei comunisti è indiscutibile e se rimane un punto oscuro è quello del livello del partito dal quale partì l’ordine.
In proposito non si può dimenticare che, già la sera del 24 maggio, Togliatti, dai microfoni di Radio Milano Libertà, commentando il Discorso agli italiani pronunciò parole durissime che avevano il sapore di una vera e propria condanna e che pesavano come pietre: Togliatti disse che La santa rivolta della nazione avrebbe liberato l’Italia dai suoi tiranni e anche da questo filosofo venduto ai nemici della patria.
L’assassinio di Gentile fu deciso su considerazioni politico-culturali di natura strategica, per quanto riguardava le preoccupazioni di lungo periodo, e per ottenere un effetto di ammonimento e di deterrenza, per quanto riguarda il profitto immediato.
Nelle considerazioni che abitualmente sono svolte da storiografi che si sono occupati di questa vicenda, non è messo in luce il fatto più importante che turbava profondamente l’ambiente intellettuale comunista dell’antifascismo operativo di quel momento: il prof. Concetto Marchesi, comunista, autore del noto articolo di incitamento alla eliminazione del filosofo, ma anche i professori Egidio Meneghetti, Norberto Bobbio, Enrico Oppocher che, successivamente azionisti di Giustizia e Libertà, affermavano che «Gentile era pericoloso, non solo perché intellettuale noto ed autorevole che sosteneva la RSI, ma soprattutto come filosofo politico del Fascismo sociale». Gentile era, infatti, un temibile concorrente del comunismo, come ideologia che avrebbe conquistato il potere in alternativa al capitalismo. Temevano un suo comunismo nazionale contrapposto al comunismo sovietico.
I comunisti inoltre, temevano che molti allievi ed estimatori di Gentile ne seguissero l’esempio e si schierassero a favore della RSI. Molti degli appartenenti al Partito d’Azione erano colleghi ed amici di Gentile e avevano svolto attività culturale, universitaria, scolastica, giornalistica al suo fianco: basti pensare a quanti erano stati da lui chiamati a far parte della redazione della Enciclopedia Italiana Treccani.
Tutto questo, dunque, determinava un incentivo ed una giustificazione ad eliminare Gentile come deterrente oltre che come concorrente. Bruciava agli intellettuali comunisti, alcuni di loro rivelatisi anche partigiani feroci la famosa frase del discorso del 24 giugno 1943 in Campidoglio rivolta ai comunisti definiti corporativisti impazienti. Spaventava il programma socializzatore, proclamato da Mussolini e sostenuto dal maggior filosofo italiano non liberale e non di sinistra.
La motivazione sociale era preponderante nel volontariato degli studenti del liceo e della università verso la RSI. I concetti di maggior giustizia sociale e di necessità del riscatto dal tradimento della parte reazionaria del regime fascista monarchico erano dibattuti proprio tra i giovani che poi finivano per arruolarsi nel nuovo esercito repubblichino.
Il ragionamento fatto era questo: ”combattendo acquistiamo anche il diritto, tornati alla vita civile dopo la guerra, di imporre una decisa svolta socialrivoluzionaria al Fascismo”. Il precedente di quei combattenti che, dopo essere stati “interventisti-intervenuti” nella Prima guerra mondiale, avevano fatto la marcia su Roma rappresentava il modello comportamentale.
Tutto questo indeboliva la propaganda comunista, la più forte rispetto a quella di altro orientamento antifascista.
Per inquadrare storicamente l’assassinio di Gentile bisogna rifarsi alla temperie di quei mesi e ai fermenti che circolavano negli ambienti studenteschi che avevano i loro collegamenti, sia da parte degli studenti e professori antifascisti che da parte di quelli fascisti o simpatizzanti, con altre università, quella di Firenze in particolare.
Da un lato, dunque, il desiderio di un nuovo Stato profondamente sociale – l’aggettivazione della nuova Repubblica lo proclamava – che poteva essere realizzato nell’ambito del riscatto della Patria dal tradimento delle forze del capitalismo badogliano e filo anglo-americano; dall’altro lato, quello comunista e genericamente antifascista avvallato da Radio Londra, la propaganda contro il “Fascismo oppressore del proletariato e servo dei tedeschi”.
Ma quest’ultima argomentazione era molto meno sentita dagli ambienti intellettuali e studenteschi di quel che si sia voluto far credere.
Naturalmente la popolazione stava a guardare soprattutto preoccupata per i bombardamenti e per la penuria alimentare, sebbene il sistema del tesseramento annonario funzionasse piuttosto bene nelle aree urbane e contadine del Nord, fornendo l’essenziale, e seguiva poco il dibattito circa il futuro assetto politico-costituzionale.
Non va dimenticata la rilevanza quantitativa del fenomeno: nei 100 giorni della RSI si arruolarono volontari nei vari reparti del nuovo esercito repubblichino circa novecento mila soldati, metà dei quali erano studenti, mentre entrarono nelle file partigiane combattenti poche migliaia di studenti. Naturalmente, poi gli eroi della sesta giornata risultarono di più, ma questa è una regola storica che non sorprende.
I professori Marchesi e Meneghetti erano interpreti del pericolo culturalmente strategico rappresentato da Gentile e, se molto probabilmente non furono i mandanti direttamente operativi, ma solo esortativi, furono deliberatamente e nei fatti i mandanti morali e giustificatori dell’assassinio.
L’attribuire a Gentile un indirizzo di pensiero definito dagli antifascisti comunisti di allora come nazionalcomunismo era infondato, ma le semplificazioni sono alla base della dialettica. D’altra parte Gentile rappresentava, in effetti, un’alternativa al comunismo e rispondeva alla diffusa esigenza di un avanzamento sociale degli strati economicamente meno dotati della popolazione che sopportava i disagi della guerra.
Era suggestiva la sua etica del lavoro, seppur allora non si conoscesse l’ultima sua opera uscita postuma Genesi e struttura della società. Il filosofo era sostenitore dello Stato corporativo, come istituzione organica e partecipata che nulla aveva a che fare con lo Stato centralizzato, istituzione proprietaria e coercitiva, del modello della Russia dei Soviet.
Né Gentile concepiva il partito unico come ente ordinatore al di sopra dello Stato, secondo la concezione marxista-leninista, e poi staliniana. Gentile vedeva il partito unico come fase storica di propulsione per una forma sostanziale basata sui corpi sociali intermedi. La sua era una concezione più fichtiana non hegeliana dello Stato di tutti i cittadini, ciascuno dei quali, però conta per ciò che fa, ossia per il suo apporto di lavoro e di cultura.
Ma in tempi di guerra totale, e quelli lo erano, si usano anche le armi della mistificazione pur di giungere al risultato. Nel caso di Gentile, tuttavia, la preoccupazione da parte degli avversari era fondata: la sua dottrina poteva mobilitare gli spiriti e le armi per una nuova rivoluzione costruttrice.
È inutile interrogarsi sul ruolo che Gentile avrebbe avuto nella cultura italiana, ma è facile comprendere perché gli intellettuali comunisti abbiano sempre avuto con la sua memoria un rapporto imbarazzante. Per dottrina di partito non potevano ripudiare le parole sprezzanti con cui Togliatti aveva approvato l’assassinio del filosofo, ma non potevano neppure ignorare il debito che avevano contratto con il suo insegnamento. I loro maestri non erano stati Marx e Lenin, ma Gramsci e Gentile. Potevano onorare il primo, ma erano costretti a conservare verso il secondo un atteggiamento riservato. E i loro eredi oggi preferiscono abbandonarlo al bagaglio culturale della destra postfascista. Riconoscerne i meriti significherebbe riconoscere implicitamente che l’esperienza fascista fu almeno in parte positiva e che non può essere gettata nella pattumiera della Storia.
lunedì 27 luglio 2009
La vecchia signora sconosciuta: ritratto di Maria Sofia l’ultima regina di Napoli di Maurizio Delle Donne
Una vecchia signora, ancora bella, girava nei campi di prigionia italiani. La vecchia signora cercava di alleviare le sofferenze dei soldati italiani specialmente di quelli meridionali, regalando loro i suoi libri italiani e parlando con loro soprattutto di Napoli.
I soldati italiani erano stupiti davanti a questa misteriosa signora, e cercavano di capire che cosa volesse dire, ma le loro domande non trovavano mai risposta precisa sull’identità di questa signora di una bellezza appena invecchiata dal tempo. Le uniche risposte poteva darle lei, esprimendo in un italiano appena mescolato con un dolce accento tedesco la sua vera identità. E se qualcuno dei giovani soldati appena più intraprendente le chiedeva chi fosse, ella rispondeva semplicemente: ”Sono una signora che conosce bene Napoli“. Oppure: ”Sono una signora che imparò da giovane a parlare italiano”.
Ma chi era quest’anziana signora, stravagante, carica di classe e di ricordi che si aggirava in un campo di prigionia italiano dell’Impero austro-ungarico?
La sua storia comincia da lontano nel tempo, non nello spazio infatti l’anziana signora era nata a Possenhofen un paesino della ridente campagna bavarese nel 1841 da Max, duca di Baviera, e da Ludovica di Wittelsbach, entrambi membri della famiglia reale di Baviera di cui Ludovica era una delle nove figlie del re.
Da piccola la chiamavano affettuosamente Spatz cioè passerotto ed il suo nome era Maria Sofia.
Nota per la sua indole avventurosa e per le sue stravaganze, Maria Sofia aveva trascorso la sua giovinezza in Baviera. Da suo padre aveva ereditato l’amore per la natura, per la caccia, per cavalli, cani e pappagalli. Ella ebbe un’educazione liberale: amava lo sport, l’equitazione, il nuoto, la scherma e il tiro con la carabina. Diversamente dalla sua più celebre sorella Elisabetta d’Austria, Maria Sofia cercava la felicità. In un’intervista dichiarò: “Noi, le cinque figlie del duca Max, ci chiamavano da giovani die Wittelsbacher Schwestern, le sorelle Wittelsbach. Portavamo tutte e cinque le trecce nere, ricondotte a giro appena al di sopra delle orecchie e sulla fronte, al modo delle contadine dello Oberbayern. Poi tutte pigliammo il volo: Elisabetta diventò imperatrice d’Austria, Elena diventò principessa di Thurn und Taxis, Matilde sposò Luigi conte di Trani, Carlotta il duca di Alençon: ma di tutte e cinque, io ero quella più predisposta dalla natura a godersi la vita”. Come sua sorella Elisabetta, Maria Sofia aveva un carattere ribelle: fumava, cosa eccezionale per una donna di quei tempi.
Nel 1858, a 17 anni, fu promessa in sposa a Francesco di Borbone, duca di Calabria ed erede al trono delle Due Sicilie del già sofferente Ferdinando II. Il matrimonio avrebbe dovuto rafforzare i legami con l’impero austriaco. Maria Sofia non conosceva Francesco di persona, aveva avuto solo l’opportunità di vederlo raffigurato in una sua miniatura nella quale appariva d’aspetto gradevole.
Dopo la cerimonia di fidanzamento, avvenuta il 22 dicembre 1858, il matrimonio fu celebrato per procura la sera dell’8 gennaio 1859. Dopo qualche giorno, accompagnata dalla sorella imperatrice d’Austria, Maria Sofia si recò a Trieste, dove la aspettavano i rappresentanti della Real Casa delle Due Sicilie con le fregate Tancredi e Fulminante, su cui il 1° febbraio s'imbarcò per Bari. Nella città, in cui erano stati preparati grandiosi festeggiamenti, l'attendevano Francesco e il re Ferdinando II, sempre più ammalato e sofferente.
Maria Sofia era molto bella: aveva il corpo alto e snello, gli occhi ridenti, i lunghi capelli neri e l'espressione dolce. Partì per Napoli il 7 marzo 1858, mentre le condizioni del Sovrano si aggravavano sempre più e il suo anticonformismo contrastava con il clima tradizionalista della corte borbonica. La sua bellezza e la sua personalità riuscirono però a conquistare il popolo meridionale.
Francesco, di temperamento mistico, era cresciuto nel culto di sua madre, la regina Maria Cristina detta dai napoletani la regina Santa. Il principe aveva studiato diritto ecclesiastico e non era stato educato all’aggressività, non usava armi, non faceva esercizi fisici, non frequentava coetanei, ma non mostrava neppure attenzione ai fermenti politici di quegli anni, perché per lui tutto era rimesso alla volontà di Dio. Magro, alto e con il volto pallido, lo sguardo basso, piuttosto impacciato, non era certo il principe che Maria Sofia avrebbe desiderato sposare.
L’esuberanza di Maria Sofia influì però positivamente sul marito che si affezionò a lei.
Quando Ferdinando II morì il 22 maggio 1859, lasciò al figlio inesperto un trono traballante e circondato da una moltitudine di cortigiani piuttosto incapaci e disonesti.
Maria Sofia, diventata regina di Napoli a soli 18 anni, entrò subito in contrasto con la suocera, alla quale Francesco II invece si mostrava sempre più sottomesso. Maria Sofia non soffrì di questa sua condizione e viveva comunque allegramente: riempiva la casa di animali, faceva il bagno in mare, si faceva fotografare, diventando in breve una delle tre donne più in vista d’Europa e il 7 luglio 1859 dimostrò il suo coraggio, trattando con alcune Guardie Svizzere in rivolta, chiamate dai napoletani Titò.
Dopo la morte di Ferdinando II e l’ascesa al trono di Francesco II, Maria Sofia esercitò su di lui un forte ascendente anche nella gestione degli affari familiari e politici. Fu punto di riferimento del partito costituzionale ed ottenne la nomina a capo del governo per il liberale Carlo Filangieri.
L'aumento di popolarità di Maria Sofia che aveva progettato, in accordo con Filangieri, di instaurare un regime costituzionale su modello bavarese, spinse forse la regina madre Maria Teresa ad ordire un complotto per detronizzare Francesco II a favore di Luigi, conte di Trani. Nonostante il fallimento del complotto, la compattezza della classe dirigente del Regno, quella ancora fedele, si dimostrò incrinata. Anche Filangieri, di età ormai avanzata, rassegnò le dimissioni. A Maria Sofia non restò altro che far rifiorire la vita di Corte, fino a quel momento abbastanza oscura.
Durante la seconda guerra di indipendenza, Maria Sofia avrebbe dunque voluto che si concedesse la costituzione, ma era ostile ad ogni accordo con i Savoia e respingeva ogni ipotesi di guerra con l’Austria di cui sua sorella era imperatrice. Cavour sognava invece nella penisola la creazione di tre stati indipendenti e alleati fra loro: il Regno sabaudo, lo Stato della Chiesa ed il Regno delle due Sicilie.
Mentre Cavour stava conquistando territori nel centro Italia Garibaldi sbarcò in Sicilia e la liberò.
Francesco II concesse la costituzione, ma ormai era troppo tardi perché Garibaldi aveva attraversato lo stretto e si dirigeva verso Napoli.
Per evitare inutili spargimenti di sangue, i sovrani si rifugiarono a Gaeta, dove Francesco II difese, eroicamente quanto inutilmente, la piazzaforte borbonica. Nella sua ritirata a Gaeta il re non portò con sé nessun bene di sua proprietà. Don Giovanni Rossi, impiegato della Real Casa e custode del borderò di quattro milioni di ducati, proprietà privata del Re, fu presentato a Garibaldi, appena costui entrò a Napoli, per farsene merito. I Savoia, dopo che ebbero annesso il regno di Napoli, non usarono alcun riguardo verso i Borbone, sovrani legittimi come loro. Vittorio Emanuele II sapeva che i quattro milioni di ducati venivano dalla dote di Maria Cristina di Savoia, madre di Francesco II, ed erano il frutto della vendita dei beni allodiali del primo ramo dei Savoia in Piemonte, e di palazzo Salviati a Roma e sapeva che la villa di Caposele non aveva nulla a che fare con i beni della corona, come ad esempio i palazzi reali di Portici e di Capodimonte, ma erano stati proprietà personale di re Ferdinando II e da questi era stata lasciata in testamento a suo figlio Francesco II, come bene libero. Ma neppure Vittorio Emanuele II come Garibaldi fece alcuna distinzione. Fu un re che si comportò come un predone e per questo Maria Sofia fu ostile ai Savoia fino alla morte.
Maria Sofia insistette con il marito Francesco II per attuare la resistenza ad oltranza.
Dopo la sconfitta dell'esercito borbonico nella battaglia del Volturno ed il trasferimento del 6 settembre della corte a Gaeta, Maria Sofia entrò con decisione ancora maggiore nella dimensione politica e militare. Fece un uso efficace dei simboli e della sua stessa immagine: distribuì ai soldati medaglie con coccarde colorate da lei stessa confezionate, adottò un costume calabrese di taglio maschile, affinché il popolo la sentisse più vicina.
Partecipò personalmente ai combattimenti contro i piemontesi, incoraggiando i soldati e visitando i feriti negli ospedali fin quando, il 13 febbraio 1861, fu firmata la resa. Fu in questo periodo che Maria Sofia conquistò l'attenzione e la simpatia di cronisti e letterati di tutta Europa.
Dopo la caduta della piazzaforte di Gaeta, la Corte Reale si rifugiò a Roma: nel frattempo lo Stato italiano comprendeva l’intera penisola tranne il Veneto e lo stato della Chiesa di cui Francesco II e Maria Sofia erano ospiti in Palazzo Farnese.
Il Palazzo Farnese di Roma era uno dei monumenti più significativi del Rinascimento italiano ed era uno dei più bei Palazzi Romani. Per l'occasione fu necessario realizzare dei lavori di restauro e di abbellimento per rendere degna la residenza dell'esilio degli ex-sovrani. I lavori furono affidati all'architetto Antonio Cipolla che per gli affreschi scelse uno stile retrò che richiamava motivi figurativi rinascimentali con grottesche ed amorini.
Maria Sofia si mise allora a capo di un’imponente organizzazione di anarchici e di terroristi per il ripristino del potere Borbonico: ella voleva radunare gli scontenti di tutta Europa per organizzare un’insurrezione armata contro i Savoia. Organizzò così insurrezioni armate che durarono anni.
Nel 1862 a Roma ci fu un clamoroso processo: erano state distribuite in mezza Europa fotografie che rappresentavano Maria Sofia, in pose scandalose. In quegli anni la fotografia nasceva e non si sapeva che esistessero i fotomontaggi.
Fra tante avventure, Maria Sofia improvvisamente lasciò Roma per andare in Baviera dai genitori: la Regina era rimasta incinta del conte belga Armand de Lawayss. Dopo un breve soggiorno a Possenhofen, fu ospitata in un monastero dove il 24 novembre del 1862 partorì due gemelle, Viola e Daisy. Maria Sofia cadde in uno stato di cupa prostrazione: dal convento scrisse al marito una lettera dove raccontava la verità, anche se diceva, di aver partorito una sola bambina, Daisy. Francesco II fu molto tollerante, così Maria Sofia tornò a corte. La notte di Natale del 1869, Maria Sofia ebbe una bambina, Maria Cristina. Sembrava che un po’ di felicità dovesse allietare la ancor giovane coppia, ma il destino non fu clemente con loro: la piccola morì dopo appena tre mesi, nel marzo del 1870.
Quando le truppe unitarie occuparono Roma, Maria Sofia e Francesco II si trasferirono a Parigi. La coppia non disponeva di grandi mezzi, avendo il governo unitario confiscato i beni dei Borbone, e, quando Vittorio Emanuele offrì a Francesco II la possibilità di rientrarne in possesso purché rinunciasse ad ogni pretesa sulle Due Sicilie, gli rispose: "il mio onore non è in vendita".
Dalla morte della bambina la coppia Reale visse per sempre separata.
A Parigi Maria Sofia allevava cavalli, ma organizzava anche una rete di rapporti con terroristi ed anarchici, fra cui figurava lo stesso Enrico Malatesta, organizzatore dell’assassinio di Umberto I; di questa organizzazione facevano parte anche alti prelati che rifiutavano l’unità d’Italia.
Dagli anni '80 in poi, per Maria Sofia fu un susseguirsi di sciagure familiari, culminate con la morte di Francesco il 31 dicembre del 1894 ad Arco di Trento.
Nonostante le traversie sofferte, dalla sua residenza a Neully-sur-Seine, Maria Sofia continuò a sperare nella restaurazione del Regno, si legò anche ad esponenti dell'estrema sinistra. Accolse socialisti, esuli anarchici e il prete Bruno Tedeschi, condannato da un tribunale italiano.
Nell’1900 con la cattura dell’anarchia Gaetano Bresci che aveva attentato alla vita di Umberto I di Savoia il movimento anarchico subì una dura sconfitta, Maria Sofia aveva 70 anni, ma continuava ad organizzare attività sovversive, continuamente sorvegliata dai servizi segreti. Nel 1904 il governo italiano arrestò ed espulse un suo agente e chiese ai governi d’Austria e di Francia di ammonirla.
Durante la prima guerra mondiale, Maria Sofia trascorse gli ultimi mesi di guerra nei campi di prigionia italiani.
Dopo la guerra, Maria Sofia andò vivere a Monaco: la vecchia regina aveva solo due servitori che indossavano con estremo decoro la livrea bianco azzurra dei Wittelsbach e che introducevano con dignità in un’anticamera sobria, con poche poltrone in raso giallo, ma senza tutto l’apparato degli appartamenti privati dei re. La sua corte era costituita due vecchi servitori pensionati, due cameriere ed il segretario: il conte de La Tour, il barone Carbonelli, il conte di San Martino, gli ultimi gentiluomini che circondavano la vecchia Maria Sofia erano morti prima della guerra.
Nonostante le sue non floride condizioni economiche ulteriormente aggravate alla fine della guerra perché il suo patrimonio era tutto investito in fondi austriaci Maria Sofia faceva molta beneficenza, pagava delle piccole pensioni. Una la voleva pagare anche al vecchio Giovanni Tagliaferri, di Caserta, che fu con lei a Gaeta: era colui che ricordava più cose di quando la regina era giovane e guidava sei cavalli con mano salda per i viali di Capodimonte.
Maria Sofia, sempre più vecchia e sola, disponeva di mezzi sempre più limitati, morì nel 1925 a Monaco ad 84 anni.
Dal 18 maggio 1984 Francesco II, Maria Sofia e la loro figlia Maria Cristina riposano nella Chiesa di Santa Chiara a Napoli.
L’anziana signora era stata l’ultima regina del Sud, l’ultima testimone del Regno delle due Sicilie.
Maurizio Delle Donne
I soldati italiani erano stupiti davanti a questa misteriosa signora, e cercavano di capire che cosa volesse dire, ma le loro domande non trovavano mai risposta precisa sull’identità di questa signora di una bellezza appena invecchiata dal tempo. Le uniche risposte poteva darle lei, esprimendo in un italiano appena mescolato con un dolce accento tedesco la sua vera identità. E se qualcuno dei giovani soldati appena più intraprendente le chiedeva chi fosse, ella rispondeva semplicemente: ”Sono una signora che conosce bene Napoli“. Oppure: ”Sono una signora che imparò da giovane a parlare italiano”.
Ma chi era quest’anziana signora, stravagante, carica di classe e di ricordi che si aggirava in un campo di prigionia italiano dell’Impero austro-ungarico?
La sua storia comincia da lontano nel tempo, non nello spazio infatti l’anziana signora era nata a Possenhofen un paesino della ridente campagna bavarese nel 1841 da Max, duca di Baviera, e da Ludovica di Wittelsbach, entrambi membri della famiglia reale di Baviera di cui Ludovica era una delle nove figlie del re.
Da piccola la chiamavano affettuosamente Spatz cioè passerotto ed il suo nome era Maria Sofia.
Nota per la sua indole avventurosa e per le sue stravaganze, Maria Sofia aveva trascorso la sua giovinezza in Baviera. Da suo padre aveva ereditato l’amore per la natura, per la caccia, per cavalli, cani e pappagalli. Ella ebbe un’educazione liberale: amava lo sport, l’equitazione, il nuoto, la scherma e il tiro con la carabina. Diversamente dalla sua più celebre sorella Elisabetta d’Austria, Maria Sofia cercava la felicità. In un’intervista dichiarò: “Noi, le cinque figlie del duca Max, ci chiamavano da giovani die Wittelsbacher Schwestern, le sorelle Wittelsbach. Portavamo tutte e cinque le trecce nere, ricondotte a giro appena al di sopra delle orecchie e sulla fronte, al modo delle contadine dello Oberbayern. Poi tutte pigliammo il volo: Elisabetta diventò imperatrice d’Austria, Elena diventò principessa di Thurn und Taxis, Matilde sposò Luigi conte di Trani, Carlotta il duca di Alençon: ma di tutte e cinque, io ero quella più predisposta dalla natura a godersi la vita”. Come sua sorella Elisabetta, Maria Sofia aveva un carattere ribelle: fumava, cosa eccezionale per una donna di quei tempi.
Nel 1858, a 17 anni, fu promessa in sposa a Francesco di Borbone, duca di Calabria ed erede al trono delle Due Sicilie del già sofferente Ferdinando II. Il matrimonio avrebbe dovuto rafforzare i legami con l’impero austriaco. Maria Sofia non conosceva Francesco di persona, aveva avuto solo l’opportunità di vederlo raffigurato in una sua miniatura nella quale appariva d’aspetto gradevole.
Dopo la cerimonia di fidanzamento, avvenuta il 22 dicembre 1858, il matrimonio fu celebrato per procura la sera dell’8 gennaio 1859. Dopo qualche giorno, accompagnata dalla sorella imperatrice d’Austria, Maria Sofia si recò a Trieste, dove la aspettavano i rappresentanti della Real Casa delle Due Sicilie con le fregate Tancredi e Fulminante, su cui il 1° febbraio s'imbarcò per Bari. Nella città, in cui erano stati preparati grandiosi festeggiamenti, l'attendevano Francesco e il re Ferdinando II, sempre più ammalato e sofferente.
Maria Sofia era molto bella: aveva il corpo alto e snello, gli occhi ridenti, i lunghi capelli neri e l'espressione dolce. Partì per Napoli il 7 marzo 1858, mentre le condizioni del Sovrano si aggravavano sempre più e il suo anticonformismo contrastava con il clima tradizionalista della corte borbonica. La sua bellezza e la sua personalità riuscirono però a conquistare il popolo meridionale.
Francesco, di temperamento mistico, era cresciuto nel culto di sua madre, la regina Maria Cristina detta dai napoletani la regina Santa. Il principe aveva studiato diritto ecclesiastico e non era stato educato all’aggressività, non usava armi, non faceva esercizi fisici, non frequentava coetanei, ma non mostrava neppure attenzione ai fermenti politici di quegli anni, perché per lui tutto era rimesso alla volontà di Dio. Magro, alto e con il volto pallido, lo sguardo basso, piuttosto impacciato, non era certo il principe che Maria Sofia avrebbe desiderato sposare.
L’esuberanza di Maria Sofia influì però positivamente sul marito che si affezionò a lei.
Quando Ferdinando II morì il 22 maggio 1859, lasciò al figlio inesperto un trono traballante e circondato da una moltitudine di cortigiani piuttosto incapaci e disonesti.
Maria Sofia, diventata regina di Napoli a soli 18 anni, entrò subito in contrasto con la suocera, alla quale Francesco II invece si mostrava sempre più sottomesso. Maria Sofia non soffrì di questa sua condizione e viveva comunque allegramente: riempiva la casa di animali, faceva il bagno in mare, si faceva fotografare, diventando in breve una delle tre donne più in vista d’Europa e il 7 luglio 1859 dimostrò il suo coraggio, trattando con alcune Guardie Svizzere in rivolta, chiamate dai napoletani Titò.
Dopo la morte di Ferdinando II e l’ascesa al trono di Francesco II, Maria Sofia esercitò su di lui un forte ascendente anche nella gestione degli affari familiari e politici. Fu punto di riferimento del partito costituzionale ed ottenne la nomina a capo del governo per il liberale Carlo Filangieri.
L'aumento di popolarità di Maria Sofia che aveva progettato, in accordo con Filangieri, di instaurare un regime costituzionale su modello bavarese, spinse forse la regina madre Maria Teresa ad ordire un complotto per detronizzare Francesco II a favore di Luigi, conte di Trani. Nonostante il fallimento del complotto, la compattezza della classe dirigente del Regno, quella ancora fedele, si dimostrò incrinata. Anche Filangieri, di età ormai avanzata, rassegnò le dimissioni. A Maria Sofia non restò altro che far rifiorire la vita di Corte, fino a quel momento abbastanza oscura.
Durante la seconda guerra di indipendenza, Maria Sofia avrebbe dunque voluto che si concedesse la costituzione, ma era ostile ad ogni accordo con i Savoia e respingeva ogni ipotesi di guerra con l’Austria di cui sua sorella era imperatrice. Cavour sognava invece nella penisola la creazione di tre stati indipendenti e alleati fra loro: il Regno sabaudo, lo Stato della Chiesa ed il Regno delle due Sicilie.
Mentre Cavour stava conquistando territori nel centro Italia Garibaldi sbarcò in Sicilia e la liberò.
Francesco II concesse la costituzione, ma ormai era troppo tardi perché Garibaldi aveva attraversato lo stretto e si dirigeva verso Napoli.
Per evitare inutili spargimenti di sangue, i sovrani si rifugiarono a Gaeta, dove Francesco II difese, eroicamente quanto inutilmente, la piazzaforte borbonica. Nella sua ritirata a Gaeta il re non portò con sé nessun bene di sua proprietà. Don Giovanni Rossi, impiegato della Real Casa e custode del borderò di quattro milioni di ducati, proprietà privata del Re, fu presentato a Garibaldi, appena costui entrò a Napoli, per farsene merito. I Savoia, dopo che ebbero annesso il regno di Napoli, non usarono alcun riguardo verso i Borbone, sovrani legittimi come loro. Vittorio Emanuele II sapeva che i quattro milioni di ducati venivano dalla dote di Maria Cristina di Savoia, madre di Francesco II, ed erano il frutto della vendita dei beni allodiali del primo ramo dei Savoia in Piemonte, e di palazzo Salviati a Roma e sapeva che la villa di Caposele non aveva nulla a che fare con i beni della corona, come ad esempio i palazzi reali di Portici e di Capodimonte, ma erano stati proprietà personale di re Ferdinando II e da questi era stata lasciata in testamento a suo figlio Francesco II, come bene libero. Ma neppure Vittorio Emanuele II come Garibaldi fece alcuna distinzione. Fu un re che si comportò come un predone e per questo Maria Sofia fu ostile ai Savoia fino alla morte.
Maria Sofia insistette con il marito Francesco II per attuare la resistenza ad oltranza.
Dopo la sconfitta dell'esercito borbonico nella battaglia del Volturno ed il trasferimento del 6 settembre della corte a Gaeta, Maria Sofia entrò con decisione ancora maggiore nella dimensione politica e militare. Fece un uso efficace dei simboli e della sua stessa immagine: distribuì ai soldati medaglie con coccarde colorate da lei stessa confezionate, adottò un costume calabrese di taglio maschile, affinché il popolo la sentisse più vicina.
Partecipò personalmente ai combattimenti contro i piemontesi, incoraggiando i soldati e visitando i feriti negli ospedali fin quando, il 13 febbraio 1861, fu firmata la resa. Fu in questo periodo che Maria Sofia conquistò l'attenzione e la simpatia di cronisti e letterati di tutta Europa.
Dopo la caduta della piazzaforte di Gaeta, la Corte Reale si rifugiò a Roma: nel frattempo lo Stato italiano comprendeva l’intera penisola tranne il Veneto e lo stato della Chiesa di cui Francesco II e Maria Sofia erano ospiti in Palazzo Farnese.
Il Palazzo Farnese di Roma era uno dei monumenti più significativi del Rinascimento italiano ed era uno dei più bei Palazzi Romani. Per l'occasione fu necessario realizzare dei lavori di restauro e di abbellimento per rendere degna la residenza dell'esilio degli ex-sovrani. I lavori furono affidati all'architetto Antonio Cipolla che per gli affreschi scelse uno stile retrò che richiamava motivi figurativi rinascimentali con grottesche ed amorini.
Maria Sofia si mise allora a capo di un’imponente organizzazione di anarchici e di terroristi per il ripristino del potere Borbonico: ella voleva radunare gli scontenti di tutta Europa per organizzare un’insurrezione armata contro i Savoia. Organizzò così insurrezioni armate che durarono anni.
Nel 1862 a Roma ci fu un clamoroso processo: erano state distribuite in mezza Europa fotografie che rappresentavano Maria Sofia, in pose scandalose. In quegli anni la fotografia nasceva e non si sapeva che esistessero i fotomontaggi.
Fra tante avventure, Maria Sofia improvvisamente lasciò Roma per andare in Baviera dai genitori: la Regina era rimasta incinta del conte belga Armand de Lawayss. Dopo un breve soggiorno a Possenhofen, fu ospitata in un monastero dove il 24 novembre del 1862 partorì due gemelle, Viola e Daisy. Maria Sofia cadde in uno stato di cupa prostrazione: dal convento scrisse al marito una lettera dove raccontava la verità, anche se diceva, di aver partorito una sola bambina, Daisy. Francesco II fu molto tollerante, così Maria Sofia tornò a corte. La notte di Natale del 1869, Maria Sofia ebbe una bambina, Maria Cristina. Sembrava che un po’ di felicità dovesse allietare la ancor giovane coppia, ma il destino non fu clemente con loro: la piccola morì dopo appena tre mesi, nel marzo del 1870.
Quando le truppe unitarie occuparono Roma, Maria Sofia e Francesco II si trasferirono a Parigi. La coppia non disponeva di grandi mezzi, avendo il governo unitario confiscato i beni dei Borbone, e, quando Vittorio Emanuele offrì a Francesco II la possibilità di rientrarne in possesso purché rinunciasse ad ogni pretesa sulle Due Sicilie, gli rispose: "il mio onore non è in vendita".
Dalla morte della bambina la coppia Reale visse per sempre separata.
A Parigi Maria Sofia allevava cavalli, ma organizzava anche una rete di rapporti con terroristi ed anarchici, fra cui figurava lo stesso Enrico Malatesta, organizzatore dell’assassinio di Umberto I; di questa organizzazione facevano parte anche alti prelati che rifiutavano l’unità d’Italia.
Dagli anni '80 in poi, per Maria Sofia fu un susseguirsi di sciagure familiari, culminate con la morte di Francesco il 31 dicembre del 1894 ad Arco di Trento.
Nonostante le traversie sofferte, dalla sua residenza a Neully-sur-Seine, Maria Sofia continuò a sperare nella restaurazione del Regno, si legò anche ad esponenti dell'estrema sinistra. Accolse socialisti, esuli anarchici e il prete Bruno Tedeschi, condannato da un tribunale italiano.
Nell’1900 con la cattura dell’anarchia Gaetano Bresci che aveva attentato alla vita di Umberto I di Savoia il movimento anarchico subì una dura sconfitta, Maria Sofia aveva 70 anni, ma continuava ad organizzare attività sovversive, continuamente sorvegliata dai servizi segreti. Nel 1904 il governo italiano arrestò ed espulse un suo agente e chiese ai governi d’Austria e di Francia di ammonirla.
Durante la prima guerra mondiale, Maria Sofia trascorse gli ultimi mesi di guerra nei campi di prigionia italiani.
Dopo la guerra, Maria Sofia andò vivere a Monaco: la vecchia regina aveva solo due servitori che indossavano con estremo decoro la livrea bianco azzurra dei Wittelsbach e che introducevano con dignità in un’anticamera sobria, con poche poltrone in raso giallo, ma senza tutto l’apparato degli appartamenti privati dei re. La sua corte era costituita due vecchi servitori pensionati, due cameriere ed il segretario: il conte de La Tour, il barone Carbonelli, il conte di San Martino, gli ultimi gentiluomini che circondavano la vecchia Maria Sofia erano morti prima della guerra.
Nonostante le sue non floride condizioni economiche ulteriormente aggravate alla fine della guerra perché il suo patrimonio era tutto investito in fondi austriaci Maria Sofia faceva molta beneficenza, pagava delle piccole pensioni. Una la voleva pagare anche al vecchio Giovanni Tagliaferri, di Caserta, che fu con lei a Gaeta: era colui che ricordava più cose di quando la regina era giovane e guidava sei cavalli con mano salda per i viali di Capodimonte.
Maria Sofia, sempre più vecchia e sola, disponeva di mezzi sempre più limitati, morì nel 1925 a Monaco ad 84 anni.
Dal 18 maggio 1984 Francesco II, Maria Sofia e la loro figlia Maria Cristina riposano nella Chiesa di Santa Chiara a Napoli.
L’anziana signora era stata l’ultima regina del Sud, l’ultima testimone del Regno delle due Sicilie.
Maurizio Delle Donne
domenica 26 luglio 2009
Sabbia, sale, mare: il destino di Cartagine di Massimo Capuozzo
Cartagine, un po’ di sabbia in una bottiglietta che gelosamente conservo nella mia libreria e che mi ricorda un viaggio in Tunisia che avrei sempre voluto fare, ma che non ho mai fatto, un romanzo, cruento e decadente, Salambò, letto nella mia giovinezza e tanti ricordi di battaglie delle scuole elementari, delle medie, del liceo, dell’università. Un Livio glorificante e martellante l’idea di impero, Cartagine la nemica, l’elmo di Scipio, di cui il nostro inno nazionale fa cingere la testa ad un’Italia personificata come schiava di Roma secondo una presunta volontà di Dio… Poi un corso di Storia antica ed una studentessa cui assegno un libro da leggere, un romanzo storico su Annibale.
Riaffiorano le memorie flaubertiane, ma il libro è diverso, anche perché la vicenda non viene vista dall’ottica romana. Lo scrittore Haefs è un tedesco ed i tedeschi, si sa, da Winckelmann a Willamowitz, non sono stati mai così teneri con Roma, e neppure io, anche se oggi con motivazioni diverse. Perché vedo in essa la prima grande globalizzatrice.
Strano a dirsi ed anche a credersi, ma io ho imparato più cose insegnando che studiando, perché quando si studia da studenti, si imparano tante cose, talvolta acriticamente, talvolta senza riflettere. È solo la maturità che permette di fermarsi su dettagli che da studente, preso dal macinare pagine su pagine, passano inosservati. Le ultime pagine della letteratura latina. Ricordo le parole accorate di Rutilio a proposito di Roma “tu che facesti di tante genti un popolo solo” e le declamazioni di mia madre, studentessa nell’età fascista, della traccia di un tema che le era stato dato da svolgere che, riprendendo dei versi dell’Eneide “Abbin sì gli altri delle altre arti il vanto…, ma voi Romani miei reggete il mondo con la spada e con l’armi, e l’arti vostre sian l’esser giusti in pace e invitti in guerra”, le chiedeva di confrontare la Roma fascista con quella presagita da Virgilio per bocca di Anchise ed oggi mi rendo conto, forse solo per assecondare Augusto che poi mi è stato sempre antipatico ed ora so perché. Mi sono reso conto che su Cartagine so molto poco, imperdonabilmente poco per uno che insegna storia antica. So qualcosa di Annibale, conosco poco della sua famiglia, un dubbio irrisolto, di un condottiero ormai trionfatore che può marciare su Roma, cambiando il corso della storia ed invece si ferma a Capua a godersi i suoi ozi. Strano come una volta i sussidiari delle scuole elementari facessero veicolare il messaggio della grande storiografia latina: colpa di Carducci, del sostrato culturale fascista ancora presente nei libri della mia scuola elementare? Non lo so. Riaffiora nella mia memoria di adulto un brandello di quel libro, in cui sulla distruzione di Cartagine il racconto diceva pressappoco che il Senato romano ne aveva ordinato la distruzione dalle fondamenta, che sulla terra erano stati tracciati solchi con l'aratro e poi, con un sottile compiacimento, il libro raccontava che i Romani gettarono il sale perché su quel luogo non crescesse più neppure l’erba. Mica male, in fatto di meticolosità, i Romani “giusti in pace e invitti in guerra”. E poi, questa storia del sale mi ricorda un altro episodio raccontato da quel libro, forse nel volume successivo, e riguarda Attila che si serviva della stessa tecnica e dove passava, diceva il libro, in tal caso con sottile sgomento, non cresceva più l’erba. Ma Attila era un barbaro e, come tale, non poteva consentirsi il deprecabile uso del sale.
Le suggestioni che mi evocano il libro di Haefs mi portano ad aprire la bottiglietta, faccio cadere un po’ di sabbia della spiaggia di Cartagine sul palmo della mano. È chiara, sottile, vellutata. Mille volte battuta dalle onde del Mediterraneo. Sono solo, la assaggio con la punta della lingua, sento un sapore salmastro, poi inizio il mio viaggio virtuale, raccogliendo da internet tutti i documenti che mi possono essere utili per sentire il sapore di quella città, di quello che è sopravvissuto, prima di quel giorno fatidico del 146 che diede finalmente pace a quell’uggioso Catone che nutriva una tale ossessione nei confronti di Cartagine, da cadere nel ridicolo, concludendo ogni sua orazione, pronunciata in un latino brutto ed agreste, con quella specie di ritornello del “Ceterum censeo”.
Sabbia, sale, mare. Questo il destino di Cartagine, dominatrice dei mari. Cartagine per secoli la città più ricca e più ambita al mondo, Cartagine che Roma coprì d’odio e d’ammirazione, Cartagine che passò alla leggenda per i suoi momenti di gloria e per la tragica sorte riservatale dal destino. Dopo un assedio di quasi tre anni, l'assalto finale alla Byrsa si svolse tra feroci combattimenti per le strade dove i soldati romani, di casa in casa, trucidarono sistematicamente i Cartaginesi e resero schiavi i sopravissuti: la città fu rasa al suolo ed un terribile incendio di cui Appiano ha lasciato una descrizione drammatica determinò la distruzione sistematica della città e, con essa, la distruzione dell’immenso patrimonio della sua cultura.
Il sito era però troppo ben scelto perché rimanesse disabitato e, un secolo dopo la distruzione, Cesare ordinò la ricostruzione di Cartagine con lo status giuridico di colonia di Roma e Cartagine crebbe, crebbe tanto da diventare la seconda città della parte occidentale dell'Impero Romano e la città principale della Provincia romana d’Africa. Ma non era più la Cartagine fenicia era la Cartagine romana.
Nel 1979 l’UNESCO ha dichiarato il Parco archeologico di Cartagine patrimonio mondiale dell’umanità.
Massimo Capuozzo
Riaffiorano le memorie flaubertiane, ma il libro è diverso, anche perché la vicenda non viene vista dall’ottica romana. Lo scrittore Haefs è un tedesco ed i tedeschi, si sa, da Winckelmann a Willamowitz, non sono stati mai così teneri con Roma, e neppure io, anche se oggi con motivazioni diverse. Perché vedo in essa la prima grande globalizzatrice.
Strano a dirsi ed anche a credersi, ma io ho imparato più cose insegnando che studiando, perché quando si studia da studenti, si imparano tante cose, talvolta acriticamente, talvolta senza riflettere. È solo la maturità che permette di fermarsi su dettagli che da studente, preso dal macinare pagine su pagine, passano inosservati. Le ultime pagine della letteratura latina. Ricordo le parole accorate di Rutilio a proposito di Roma “tu che facesti di tante genti un popolo solo” e le declamazioni di mia madre, studentessa nell’età fascista, della traccia di un tema che le era stato dato da svolgere che, riprendendo dei versi dell’Eneide “Abbin sì gli altri delle altre arti il vanto…, ma voi Romani miei reggete il mondo con la spada e con l’armi, e l’arti vostre sian l’esser giusti in pace e invitti in guerra”, le chiedeva di confrontare la Roma fascista con quella presagita da Virgilio per bocca di Anchise ed oggi mi rendo conto, forse solo per assecondare Augusto che poi mi è stato sempre antipatico ed ora so perché. Mi sono reso conto che su Cartagine so molto poco, imperdonabilmente poco per uno che insegna storia antica. So qualcosa di Annibale, conosco poco della sua famiglia, un dubbio irrisolto, di un condottiero ormai trionfatore che può marciare su Roma, cambiando il corso della storia ed invece si ferma a Capua a godersi i suoi ozi. Strano come una volta i sussidiari delle scuole elementari facessero veicolare il messaggio della grande storiografia latina: colpa di Carducci, del sostrato culturale fascista ancora presente nei libri della mia scuola elementare? Non lo so. Riaffiora nella mia memoria di adulto un brandello di quel libro, in cui sulla distruzione di Cartagine il racconto diceva pressappoco che il Senato romano ne aveva ordinato la distruzione dalle fondamenta, che sulla terra erano stati tracciati solchi con l'aratro e poi, con un sottile compiacimento, il libro raccontava che i Romani gettarono il sale perché su quel luogo non crescesse più neppure l’erba. Mica male, in fatto di meticolosità, i Romani “giusti in pace e invitti in guerra”. E poi, questa storia del sale mi ricorda un altro episodio raccontato da quel libro, forse nel volume successivo, e riguarda Attila che si serviva della stessa tecnica e dove passava, diceva il libro, in tal caso con sottile sgomento, non cresceva più l’erba. Ma Attila era un barbaro e, come tale, non poteva consentirsi il deprecabile uso del sale.
Le suggestioni che mi evocano il libro di Haefs mi portano ad aprire la bottiglietta, faccio cadere un po’ di sabbia della spiaggia di Cartagine sul palmo della mano. È chiara, sottile, vellutata. Mille volte battuta dalle onde del Mediterraneo. Sono solo, la assaggio con la punta della lingua, sento un sapore salmastro, poi inizio il mio viaggio virtuale, raccogliendo da internet tutti i documenti che mi possono essere utili per sentire il sapore di quella città, di quello che è sopravvissuto, prima di quel giorno fatidico del 146 che diede finalmente pace a quell’uggioso Catone che nutriva una tale ossessione nei confronti di Cartagine, da cadere nel ridicolo, concludendo ogni sua orazione, pronunciata in un latino brutto ed agreste, con quella specie di ritornello del “Ceterum censeo”.
Sabbia, sale, mare. Questo il destino di Cartagine, dominatrice dei mari. Cartagine per secoli la città più ricca e più ambita al mondo, Cartagine che Roma coprì d’odio e d’ammirazione, Cartagine che passò alla leggenda per i suoi momenti di gloria e per la tragica sorte riservatale dal destino. Dopo un assedio di quasi tre anni, l'assalto finale alla Byrsa si svolse tra feroci combattimenti per le strade dove i soldati romani, di casa in casa, trucidarono sistematicamente i Cartaginesi e resero schiavi i sopravissuti: la città fu rasa al suolo ed un terribile incendio di cui Appiano ha lasciato una descrizione drammatica determinò la distruzione sistematica della città e, con essa, la distruzione dell’immenso patrimonio della sua cultura.
Il sito era però troppo ben scelto perché rimanesse disabitato e, un secolo dopo la distruzione, Cesare ordinò la ricostruzione di Cartagine con lo status giuridico di colonia di Roma e Cartagine crebbe, crebbe tanto da diventare la seconda città della parte occidentale dell'Impero Romano e la città principale della Provincia romana d’Africa. Ma non era più la Cartagine fenicia era la Cartagine romana.
Nel 1979 l’UNESCO ha dichiarato il Parco archeologico di Cartagine patrimonio mondiale dell’umanità.
Massimo Capuozzo
Esistenzialismo e dolore nella pittura di Mario Sironi di Massimo Capuozzo
Mario Sironi, aedo del mondo moderno, capace di conferire un simbolismo solenne ai paesaggi più desolati e di avvolgere in un’atmosfera eroica i suoi personaggi, è una delle figure più rappresentative ed originali della pittura del Novecento di cui è stato senza dubbio pietra angolare.
La sua arte, il suo messaggio, sono quelli di una delle anime più belle, mature e determinanti del nostro Novecento.
L’intero percorso di Sironi, pressoché completo anche dal punto di vista strettamente estetico, svariando dalla formazione realista nel divisionismo, trascolorando dal futurismo nella breve esperienza metafisica e nel ritorno all'ordine della pittura murale, sboccando infine agli esiti informali, ha mostrato di essere un artista capace di penetrare il suo tempo con capacità di osservazione impareggiabile, con violenza di verità, uno strumento difficile da usare anche nel nostro tempo che sembra approvare tutto.
Quando osserviamo le opere di Sironi palpiamo la trasformazione delle ragioni esistenziali e morali dell’estetica in sostanze che attengono all’esistenza nella quale si scatenano violente contese tra le forze della natura e quelle dell’umana ossessione: pare che nelle sue opere Sironi dia tutto per varcare le porte di un aldilà, intravisto dalla frontiere della vita. Anche quest’uso di elementi e repertori figurali che connettono presenze e assenze, senso del terreno e del divino, induce rispetto e fascino nel lavoro di Sironi: il genio dell’artista teso a scoprire l’uomo nella sua essenza, nella sua caducità, senza timore di essere travolto dalla disperazione, anzi sfidando l’onda nera di tragedia che aleggia nelle vicende di tutto il Novecento, con rivelazioni che, da Kafka a Pound a Céline, hanno un cupo volo premonitore sprigionato appunto nelle figurazioni di Picasso, di Rouault, di Munch, di Sironi.
Sironi, nel primo dopoguerra, fu uno dei più convinti fautori del Partito fascista e della tradizione italiana, e, attraverso un linguaggio arcaizzante, caratterizzato dalla semplificazione geometrica delle forme e dalla vigorosa costruzione plastica, ha proposto il suo ritorno all'antico, anche tramite il recupero di tecniche classiche, come l'affresco, il mosaico, il bassorilievo monumentale.
Le sue opere di decorazione furono realizzate dal 1928 al 1942, quando l’artista toccò l’acme della sua popolarità, era il più amato ed il più protetto da Mussolini e da Margherita Sarfatti e il più odiato da Farinacci e dall’ala oltranzista del Fascismo.
Furono questi gli anni delle grandi commissioni pubbliche, realizzate come strumento di propaganda del regime, una propaganda che raggiunse il suo fine, perché, per quanto impossibile possa apparire oggi alla luce della brutalità del regime, molti intellettuali rimasero particolarmente sedotti dalla retorica dell'umanesimo fascista.
Occorre tener presente che il Fascismo fu la scelta ideale ed dottrinale più indicativa che stette all'origine della storia dell'arte di Sironi e contestare questo dato storico o prescindere dal fatto che Sironi fu fascista della prima ora ed un mussoliniano convinto, pur non crescendo sotto le ali protettive del Duce, di cui fu ammiratore convinto, ma non servile, che rimase fedele al Fascismo fino all’epilogo, escluse le leggi razziali che non approvò mai, e che ci rimise di persona nell'ultima parte della sua vita, significherebbe da un lato precludersi la possibilità di comprenderne l'opera, prefigurando un giudizio critico negativo sull'artista e sulla sua pittura, dall’altro ignorare un momento indicativo della storia della cultura, oggettivamente e criticamente, lontano sia da celebrazioni sia da polemiche.
Occorre inoltre aggiungere che dovunque nel mondo, negli anni Venti e Trenta del Novecento, una domanda tormentò gli artisti sul proprio ruolo e su quello dell'arte nel mondo moderno. La crisi della pittura da cavalletto era drammaticamente sentita da tutti e si sperimentavano nuove strade del rapporto artista-pubblico. Allo stesso modo l'idea di Sironi della grande decorazione fu una delle risposte, intellettualmente più dotate e feconde, in quella travagliata riflessione sulla destinazione dell'arte moderna.
Nella sua opera e nei suoi scritti sull'arte, Sironi suggerì, infatti, la necessità del ritorno alla decorazione di grandi superfici murarie, già gloria e vanto dei precedenti dell'arte figurativa italiana, non per tornare al passato, ma per realizzarvi un’arte moderna, nuova. Decorazione, grande decorazione, come sosteneva Sironi, furono le tombe tebane, gli affreschi di Masaccio e di Piero della Francesca, e quelli michelangioleschi della Cappella Sistina.
Sironi era persuaso di quest’idea ed impostò il suo linguaggio figurativo in modo monumentale e povero, anche nella sua pittura da cavalletto dove fermò, in un silenzio allucinato paesaggi angosciosi, sotto cupi cieli incombenti, dove l’uomo scompare inghiottito da quelle fabbriche o da quelle case impersonali e dove solo rari veicoli procedono stanchi, lungo strade di solito angosciosamente vuote: immagini prospettiche di pura invenzione, libere da schemi precostituiti, ma organizzate da una chiara volontà di ordine metodico.
Tra i suoi soggetti preferiti nella pittura da cavalletto figurano il nudo, il paesaggio alpino ed il ritratto. Splendidi per potenza evocativa sono anche i suoi monumentali nudi di donna, che paiono incarnare il senso atavico della dea madre. Il muralismo ha rappresentato una profonda rivoluzione nel celebrativismo e fino all'intervento di Sironi ed al suo simbolismo era rimasto fermo all'Ottocento.
Ed anche se in parte mal tollerata, per un periodo della sua vita, la pittura da cavalletto è stata un’eccellente ricerca dell'uomo moderno, delle sue riflessioni, delle sue evoluzioni.
Le ultime mostre ed il loro successo hanno mostrato chiaramente l’ascesa di Sironi verso le vette della gloria. Margherita Sarfatti aveva ragione ed hanno avuto torto quei critici che hanno ignorato un artista solo per il suo credo politico, facendo emergere pittori meno capaci, ma legati alla cultura marxista e lontani dal dare agli uomini un motivo in più per sentirsi orgogliosi.
Galleria:
L'Italia fra le Arti
Tre Totem
Uomo Seduto
Venere dei Porti
La sua arte, il suo messaggio, sono quelli di una delle anime più belle, mature e determinanti del nostro Novecento.
L’intero percorso di Sironi, pressoché completo anche dal punto di vista strettamente estetico, svariando dalla formazione realista nel divisionismo, trascolorando dal futurismo nella breve esperienza metafisica e nel ritorno all'ordine della pittura murale, sboccando infine agli esiti informali, ha mostrato di essere un artista capace di penetrare il suo tempo con capacità di osservazione impareggiabile, con violenza di verità, uno strumento difficile da usare anche nel nostro tempo che sembra approvare tutto.
Quando osserviamo le opere di Sironi palpiamo la trasformazione delle ragioni esistenziali e morali dell’estetica in sostanze che attengono all’esistenza nella quale si scatenano violente contese tra le forze della natura e quelle dell’umana ossessione: pare che nelle sue opere Sironi dia tutto per varcare le porte di un aldilà, intravisto dalla frontiere della vita. Anche quest’uso di elementi e repertori figurali che connettono presenze e assenze, senso del terreno e del divino, induce rispetto e fascino nel lavoro di Sironi: il genio dell’artista teso a scoprire l’uomo nella sua essenza, nella sua caducità, senza timore di essere travolto dalla disperazione, anzi sfidando l’onda nera di tragedia che aleggia nelle vicende di tutto il Novecento, con rivelazioni che, da Kafka a Pound a Céline, hanno un cupo volo premonitore sprigionato appunto nelle figurazioni di Picasso, di Rouault, di Munch, di Sironi.
Sironi, nel primo dopoguerra, fu uno dei più convinti fautori del Partito fascista e della tradizione italiana, e, attraverso un linguaggio arcaizzante, caratterizzato dalla semplificazione geometrica delle forme e dalla vigorosa costruzione plastica, ha proposto il suo ritorno all'antico, anche tramite il recupero di tecniche classiche, come l'affresco, il mosaico, il bassorilievo monumentale.
Le sue opere di decorazione furono realizzate dal 1928 al 1942, quando l’artista toccò l’acme della sua popolarità, era il più amato ed il più protetto da Mussolini e da Margherita Sarfatti e il più odiato da Farinacci e dall’ala oltranzista del Fascismo.
Furono questi gli anni delle grandi commissioni pubbliche, realizzate come strumento di propaganda del regime, una propaganda che raggiunse il suo fine, perché, per quanto impossibile possa apparire oggi alla luce della brutalità del regime, molti intellettuali rimasero particolarmente sedotti dalla retorica dell'umanesimo fascista.
Occorre tener presente che il Fascismo fu la scelta ideale ed dottrinale più indicativa che stette all'origine della storia dell'arte di Sironi e contestare questo dato storico o prescindere dal fatto che Sironi fu fascista della prima ora ed un mussoliniano convinto, pur non crescendo sotto le ali protettive del Duce, di cui fu ammiratore convinto, ma non servile, che rimase fedele al Fascismo fino all’epilogo, escluse le leggi razziali che non approvò mai, e che ci rimise di persona nell'ultima parte della sua vita, significherebbe da un lato precludersi la possibilità di comprenderne l'opera, prefigurando un giudizio critico negativo sull'artista e sulla sua pittura, dall’altro ignorare un momento indicativo della storia della cultura, oggettivamente e criticamente, lontano sia da celebrazioni sia da polemiche.
Occorre inoltre aggiungere che dovunque nel mondo, negli anni Venti e Trenta del Novecento, una domanda tormentò gli artisti sul proprio ruolo e su quello dell'arte nel mondo moderno. La crisi della pittura da cavalletto era drammaticamente sentita da tutti e si sperimentavano nuove strade del rapporto artista-pubblico. Allo stesso modo l'idea di Sironi della grande decorazione fu una delle risposte, intellettualmente più dotate e feconde, in quella travagliata riflessione sulla destinazione dell'arte moderna.
Nella sua opera e nei suoi scritti sull'arte, Sironi suggerì, infatti, la necessità del ritorno alla decorazione di grandi superfici murarie, già gloria e vanto dei precedenti dell'arte figurativa italiana, non per tornare al passato, ma per realizzarvi un’arte moderna, nuova. Decorazione, grande decorazione, come sosteneva Sironi, furono le tombe tebane, gli affreschi di Masaccio e di Piero della Francesca, e quelli michelangioleschi della Cappella Sistina.
Sironi era persuaso di quest’idea ed impostò il suo linguaggio figurativo in modo monumentale e povero, anche nella sua pittura da cavalletto dove fermò, in un silenzio allucinato paesaggi angosciosi, sotto cupi cieli incombenti, dove l’uomo scompare inghiottito da quelle fabbriche o da quelle case impersonali e dove solo rari veicoli procedono stanchi, lungo strade di solito angosciosamente vuote: immagini prospettiche di pura invenzione, libere da schemi precostituiti, ma organizzate da una chiara volontà di ordine metodico.
Tra i suoi soggetti preferiti nella pittura da cavalletto figurano il nudo, il paesaggio alpino ed il ritratto. Splendidi per potenza evocativa sono anche i suoi monumentali nudi di donna, che paiono incarnare il senso atavico della dea madre. Il muralismo ha rappresentato una profonda rivoluzione nel celebrativismo e fino all'intervento di Sironi ed al suo simbolismo era rimasto fermo all'Ottocento.
Ed anche se in parte mal tollerata, per un periodo della sua vita, la pittura da cavalletto è stata un’eccellente ricerca dell'uomo moderno, delle sue riflessioni, delle sue evoluzioni.
Le ultime mostre ed il loro successo hanno mostrato chiaramente l’ascesa di Sironi verso le vette della gloria. Margherita Sarfatti aveva ragione ed hanno avuto torto quei critici che hanno ignorato un artista solo per il suo credo politico, facendo emergere pittori meno capaci, ma legati alla cultura marxista e lontani dal dare agli uomini un motivo in più per sentirsi orgogliosi.
Galleria:
L'Italia fra le Arti
Tre Totem
Uomo Seduto
Venere dei Porti
Il Ciclista
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