lunedì 30 novembre 2009

L'eta de Totalitarismi di Massimo Capuozzo

9 Tra le due guerre: l’età dei totalitarismi
Nel campo dell’analisi storiografica e politica il ter­mine totalitarismo cominciò a essere applicato al­la fine degli anni venti del Novecento, in Inghilterra, tanto al regime fascista quanto a quello comuni­sta che si era imposto in Russia con la rivoluzione del 1917. Ma questo accostamento incontrò forti resistenze fra gli storici di sinistra che vedevano il modello totalitario compiuta­mente attuato soltanto nei sistemi politici guidati da Mussolini e da Hitler.
Nel 1934 lo storico delle dottrine politiche George H. Sabine ripropose la definizione di regimi totalitari per tutti quelli in cui vi fosse l’assoluto predominio di un partito unico.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale la categoria del totalitarismo entrò completamente nel linguaggio della storiografia politica per descrivere le dittature monopartitiche fasciste e comuniste, o alcune di esse.
Hannah Arendt (1906-75), filosofa tedesca, costretta ad abban­donare la Germania dopo la salita al potere del Nazi­smo, a cui dedicò un ampio saggio pubblicato nel 1951 (Origins of Totalitarianism;. In quest’opera, che si compone di tre parti (l’Antisemitismo, l’Imperia­lismo, il Totalitarismo), l’autrice spiega che i movimenti totalitari trovano le condizioni del loro sviluppo nella moderna società di massa e basano la propria forza su settori di essa solitamente refrattari all’attività politica ed estranei ai partiti e alle organizzazioni tradizionali. Per questa ragione quei movimenti non si trovano nella necessità di spostare consensi verso le proprie posizioni sottraendoli ad altre mediante le forme consuete del confronto politico, della confutazione e della per­suasione: alle masse a cui si rivolgono, digiune di conoscenze politiche ed estranee ad ogni impegno in questioni di interesse pubblico, esse offrono un’i­deologia, ovvero un sistema articolato di credenze, con cui identificarsi fanaticamente. Il partito uni­co, strumento indispensabile per l’esercizio del potere totalitario, controlla ogni aspetto della vita so­ciale mediante una polizia segreta onnipresente che si impone attraverso il terrore.
Terrore e ideo­logia sono dunque, secondo Arendt, i requisiti fon­damentali del totalitarismo e questo trova espres­sione in un capo carismatico che incarna il potere stesso e al quale tutti gli apparati dello Stato fanno riferimento. Egli è il depositario dell’ideologia che da lui soltanto può essere interpretata e corretta ed è lui infine che individua chi debba essere additato come nemico potenziale o oggettivo contro cui at­tivare la macchina del terrore e la polizia segreta.
L’altra teoria classica del totalitarismo fu for­mulata da Carl J. Friedrich e Zbigniew K. Brzezinski, due studiosi statunitensi in un’opera pubblicata nel 1956 (Totalitarian Dictatorship and Autocracy) nella quale sono indicati sei ele­menti caratteristici di questo tipo di regime:
1. un’ideologia che abbraccia tutti gli aspetti della vita degli individui e che è proiettata verso uno stadio finale e perfetto della società;
2. un partito unico di massa, guidato da un solo capo, che riunisca una minoranza (10% circa della popolazione) strutturata in forma rigida­mente gerarchica e raccolta intorno a un forte nucleo di militanti determinati e fanatici e cie­camente consacrati all’ideologia e pronti a con­tribuire in ogni modo al suo trionfo;
3. un sistema di terrore realizzato attraverso il controllo del partito e della polizia segreta ed esercitato sia verso i provati nemici del regi­me, sia verso intere classi della popolazione;
4. il monopolio del partito e del governo, di tutti i mezzi di comunicazione di massa;
5. il monopolio dell’uso effettivo di tutti gli stru­menti di lotta armata;
6. il controllo centralizzato e la guida dell’intera economia attraverso il coordinamento burocra­tico di entità corporative.
Vi sono molte analogie fra il modello descritto dalla Arendt e quello formulato da Friedrich e Brzezin­ski, ed entrambi concordano nel definire il totalita­rismo una forma di dominio politico del tutto nuo­va e senza precedenti nel passato e nell’identificare in esso, come aspetti centrali, l’ideologia, il terrore poliziesco, il partito unico di massa. Ma compaiono anche evidenti differenze, prima di tutto perché, a differenza di Friedrich e Brzezinski che si limitano a descrivere il fenomeno e non lo collegano a un progetto politico con cui esso sia intimamente e necessariamente intrecciato, secondo la Arendt il to­talitarismo si propone sempre un fine strategico che consiste nella trasformazione della natura umana; inoltre, la filosofa tedesca trapiantata negli Usa giudicava che fossero espressioni compiute del totalitarismo soltanto la Germania di Hitler e la Russia di Stalin, mentre gli altri due studiosi inseri­vano fra quelli totalitari anche gli altri regimi comu­nisti e il fascismo italiano.
È stata la ricerca sociologica, più che quella storiografica, a confrontarsi con la modernità dei regimi autoritari e totalitari europei tra le due guerre: da H. Arendt, a R. Bendix, a G.L. Mosse, a Barrington Moore Jr., a Germani. Ciò che accomuna questi studiosi è l'elaborazione della categoria della modernizzazione. Il fascismo rappresenta, secondo questi studiosi, un esempio emblematico di modernizzazione autoritaria, nella quale si realizza una mobilitazione dall'alto delle masse ed una crescita che non danneggia la stabilità dei rapporti di potere. Considerare il fascismo come regime in grado di promuovere un autonomo processo di modernizzazione comporta il taglio di uno dei principi fondamentali delle interpretazioni storiografiche correnti, ovvero l'incompatibilità tra sviluppo e dittatura, tra la modernità, intesa come sviluppo delle forze produttive e come crescita sociale, e l'affermazione di un regime totalitario, come quello imposto da Mussolini.
Due grandi psicologi come E. Fromm e W. Reich, in due opere fondamentali, come Fuga dalla libertà e Psicologia di massa e fascismo, hanno messo in evidenza come nelle società industrializzate si possano creare ampie disponibilità da parte di interi gruppi sociali ad accettare sistemi politici autoritari ed a sottostare al potere assoluto di un capo carismatico.
Il fascismo affonda, quindi, le sue radici in questi atteggiamenti sostanzialmente distruttivi, propri della piccola borghesia: nella paura della libertà e nelle insicurezze delle masse. È in questo intreccio drammatico di stimoli collettivi e di conflitti irrisolti che trova spiegazione il consenso che indubbiamente il regime di Mussolini acquisì negli anni Trenta.
Le tradizionali teorie interpretative della scuola liberale o della scuola marxista sono dunque state messe notevolmente in discussione dalle scienze sociali.
Se il totalitarismo rappre­senta uno sviluppo possibile della società moderna in senso speculare, e quindi opposto, alla democra­zia liberale, è lecito domandarsi che cosa stia all’o­rigine di queste differenti alternative. Una risposta che ha suscitato consensi, ma anche radicali divergenze, è quella formulata da Jacob Talmon nel suo saggio sulle Origini della democrazia totalitaria.
Talmon indivi­dua le cause della separazione fra democrazia libe­rale e democrazia totalitaria nella comparsa di una concezione messianica della politica, in base al­la quale si ritiene possibile la costruzione di una so­cietà perfetta. Un orientamento di questo genere compare nell’opera del filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau (1712-78) e ha trovato applica­zione nel corso della Rivoluzione francese da parte di dirigenti giacobini come Maximilien Robespierre (1758-94) di cui Talmon analizza a lungo il pensiero. La conclusione che lo studioso ricava è che, mentre «l’orientamento liberale so­stiene che la politica procede per tentativi ed erro­ri, e considera i sistemi politici espedienti pragma­tici escogitati dall’ingegno e dalla libertà dell’uo­mo», il pensiero democratico totalitario si basa in­vece «sull’asserzione di una sola e assoluta verità politica. Esso può essere definito messianismo po­litico in quanto postula un insieme di cose preordi­nato, armonioso e perfetto, verso il quale gli uomi­ni sono irresistibilmente spinti e al quale devono necessariamente giungere, e riconosce infine un solo piano di esistenza, la politica».

Il Fascismo – A differenza del Comunismo, applicazione politica dell’idea filosofica di Marx, il Sascismo non è stato preceduto da alcuna filosofia ispiratrice, ma si configura essenzialmente come opera catalizzatrice di un uomo d'azione, Benito Mussolini. Ci fu un filosofo che abbracciò le idee fasciste, Giovanni Gentile, la cui filosofia è stata definita come quella del fascismo, ma ciò che viene prima di tutto è l'opera, l'azione di Mussolini, quella di Gentile fu una teorizzazione successiva.

1 La crisi della democrazia in Europa - Il dopoguerra fu caratterizzato dalla crisi della democrazia, crisi che venne manifestandosi e accentuandosi col procedere degli anni. La conclusione fu il costituirsi di stati autoritari, prima in Italia (fascismo), poi in Germania (nazismo), infine in Spagna (franchismo). Anche in U.R.S.S. il regime dei Soviet, che aveva caratterizzato i primi anni della rivoluzione, trapassa nella gestione totalitaria e dittatoriale di Stalin.
Di questi movimenti ci limiteremo qui ad illustrare i due che più da vicino toccarono la vita del nostro Paese: il fascismo e il nazismo.

2 Crisi sociale dell’Italia dopo la prima guerra mondiale - Nonostante l’esito vittorioso, la prima guerra mondiale lasciò l’Italia in una situazione di gravi disordini connessi con gli avvenimenti sociali e politici verificatisi durante il conflitto.
Da paese prevalentemente agricolo, l’Italia si avviava a diventare, almeno nel Nord un paese altamente industrializzato. Le masse rurali e il proletariato urbano, esclusi dall’effettiva partecipazione alla gestione dello Stato, premevano per modificare tale situazione e migliorare le loro condizioni economiche, sociali e politiche. Esse trovavano coordinamento e guida nel partito socialista, mentre il successo della rivoluzione bolscevica, che in Russia aveva portato il proletariato al potere, serviva da stimolo alla loro azione.
L’avanzata delle classi proletarie era avversata, oltre che dal grande capitale, dalla media e piccola borghesia, che si vedeva minacciata nel suo prestigio sociale. Per gran parte delle masse cattoliche, inoltre, data la componente antireligiosa implicita nell’ideologia marxista, l’avanzata del socialismo costituiva una minaccia per la cristianità.
A queste ragioni di turbamento si aggiungeva l’insoddisfazione di molti giovani reduci, appartenenti agli strati piccolo e medio borghesi, che, durante il conflitto, si erano trovati in posti di comando e di prestigio e ora mal si adattavano a rientrare nella vita normale.

3 I Fasci di combattimento e l’ascesa di Mussolini - Questa complessa situazione, aggravata dall’incerto atteggiamento del partito socialista che intimoriva gli avversari col suo massimalismo, facendo balenare lo spauracchio di una rivoluzione, che non aveva né la capacità né la reale volontà di attuare, favorì lo svilupparsi di movimenti di destra, fra i quali primeggiò quello dei «Fasci di combattimento», fondato da Benito Mussolini il 23 marzo 1919. Esso si affermò grazie all’uso della violenza da parte delle sue squadre armate, che ben presto furono sostenute dagli agrari e, successivamente, dagli industriali e dalla tacita connivenza delle autorità.
Il fallimento della occupazione operaia delle fabbriche rafforzò ulteriormente le destre che riscossero un successo elettorale nel ‘21. Fu questo l’inizio dell’ascesa ufficiale del fascismo, che si affermò poi con la Marcia su Roma (28-10-1922) e la designazione di Mussolini a capo del governo.
Dopo un breve periodo di collaborazione con esponenti di altri partiti, Mussolini, abolite le libertà costituzionali (3-1-1925), instaurò un regime totalitario.
Repubblicano e anticlericale alle sue origini, il fascismo si alleò poi con la monarchia e cercò l’appoggio della Chiesa, presentandosi come il suo salvatore contro il «comunismo ateo»
Per dare un contenuto sociale alla sua «rivoluzione», elaborò la teoria dello Stato corporativo che, sotto l’etichetta di conciliare gli interessi antitetici del capitale e del lavoro, nell’interesse supremo dello Stato, di fatto trasformò lo Stato nel tutore dell’interesse del capitale. L’unico carattere che il fascismo costantemente conservò fu l’esasperato nazionalismo, che ben presto si manifestò come presuntuoso imperialismo.

4 La crisi del fascismo e il suo crollo - La conquista dell’Etiopia (1936) e la proclamazione dell’Impero segnano il culmine del successo fascista e del consenso che il fascismo era riuscito ad ottenere fra il popolo. L’inizio della sua parabola discendente e della frattura con la società italiana si può individuare nel momento in cui Mussolini decise di avvicinarsi alla Germania (1937), per ovviare a quell’isolamento in cui l’Italia si era trovata a seguito della guerra etiopica condannata dagli altri Paesi membri della Società delle Nazioni.
In particolare, gli nocquero le conseguenze di tale avvicinamento: la partecipazione, con reparti di volontari, alla guerra civile di Spagna in appoggio a Franco e a fianco dei «camerati» tedeschi; la promulgazione, ad imitazione di quanto Hitler aveva fatto in Germania di una legislazione antisemita (leggi razziali).
La partecipazione alla seconda guerra mondiale, in qualità di alleato della Germania, e i gravi insuccessi militari determinarono la caduta di Mussolini e il crollo del fascismo (25 luglio 1943).

5 La repubblica sociale di Salò - La liberazione di Mussolini (che era stato relegato sul Gran Sasso) ad opera dei tedeschi portò a una effimera rinascita del regime fascista, che, per l’occasione, richiamandosi alle sue origini repubblicane, proclamò la Repubblica Sociale Italiana, detta Repubblica di Salò dal paese sul lago di Garda dove il governo aveva sede. La sconfitta tedesca in Italia e il successo delle azioni partigiane ne segnarono la fine.

6 Come giudicare il fenomeno fascista - Il fascismo, secondo alcuni, fu soltanto una malattia passeggera nello sviluppo liberale dell’Italia contemporanea. E’ questa la tesi sostenuta, ad esempio, dal filosofo Benedetto Croce. Per altri, rappresentò invece la manifestazione estrema e caratteristica di una permanente tendenza antidemocratica della nostra storia nazionale, che ha tenuto costantemente le masse al di fuori della vita politica.
Spetterà alla Resistenza colmare, almeno in parte, questo divorzio fra Stato e popolo, e di creare così le premesse per una costituzione che prevede la partecipazione attiva delle masse democratiche alla cosa pubblica.

Il Nazismo – Il termine nazismo o nazionalsocialismo definisce l'ideologia e il movimento politico tedesco collegati all'avvento al potere in Germania nel 1933 da parte di Adolf Hitler, conclusosi alla fine della seconda Guerra Mondiale con la conquista di Berlino da parte delle truppe sovietiche nel giugno 1945.
Il nazismo è comunemente associato al Fascismo; benché i nazisti affermassero di sposare una forma nazionalista e totalitaria di socialismo, opposta al socialismo internazionale marxista.
Il nazismo trae origine dal partito politico fondato da Adolf Hitler, l'NSDAP, (Nationalsozialistische deutsche Arbeiterpartei, partito operaio nazionalsocialista tedesco) ed è basato sul programma politico indicato da questo nel libro ‘Mein Kampf’. Una volta raggiunto il potere tramite una regolare elezione si trasformò in dittatura, con un programma di eliminazione anche fisica sia degli avversari politici che di persone appartenenti a categorie ritenute inferiori, quali gli ebrei, i testimoni di Geova, gli zingari, gli omosessuali, i portatori di handicap e i ritardati mentali.
La Germania di questo periodo è generalmente indicata come Germania Nazista. Il Nazismo era anche chiamato Nazionalsocialismo ed i suoi aderenti erano detti Nazisti.

1 Crisi politica ed economica della Repubblica di Weimar - La Repubblica di Weimar, sorta dopo la sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale, ebbe vita difficile, per i tentativi comunisti di instaurare una repubblica dei Soviet e le tendenze nazionalistiche e militariste delle destre. Aggravò la situazione una abnorme e clamorosa svalutazione della moneta. Delle difficoltà economiche e del malcontento per le dure condizioni della pace approfittò Hitler che, nel 1920, fondò il Partito nazionalista dei lavoratori tedeschi, più noto come partito nazista. In politica estera, esso puntava alla revisione del sistema instaurato dal trattato di pace e alla creazione di un grande Reich (= impero) pantedesco e, in politica interna, mirava ad instaurare un governo autoritario.

2 Le cause del successo di Hitler - Fallito il suo primo colpo di stato nel 1923 (putsch di Monaco; Hitler incarcerato scrisse il Mein Kampf = La mia battaglia, in cui espose le sue teorie), Hitler incontrò un successo nelle elezioni del ‘30, grazie alle attività terroristiche delle squadre armate del partito (SA e SS) e all’aumentato malcontento popolare per i crescenti disagi seguiti alla grave crisi mondiale del ‘30 che ebbe anche in Germania dure ripercussioni, soprattutto nel campo della occupazione. Non furono estranei al suo successo gli strumenti della propaganda elettorale, gli slogan, i simboli, i riti fortemente suggestivi che accompagnavano le manifestazioni naziste. Tutto ciò, peraltro, non sarebbe stato sufficiente all’affermazione hitleriana, se militaristi, agrari, industriali e piccoli borghesi non avessero visto, nel movimento nazista, la risposta più soddisfacente ai loro sentimenti nazionalistici e al diffuso timore verso i comunisti.
Il nazismo trovò entusiastici finanziatori nei magnati dell’industria tedesca; e le azioni delle squadre armate del partito conobbero la tolleranza delle autorità, che erano invece pronte a colpire le violazioni della legge compiute dai comunisti.

3 Caratteristiche del fenomeno nazista - Il nazismo si distinse dal fascismo italiano, cui si ispirava, non solo per l’inclusione del mito della razza pura ariana, al quale si accompagnava un violento antisemitismo, ma anche per una concezione complessivamente più fanatica e disumana. L’insediamento del nazismo nel cuore dell’Europa e le mire espansionistiche della politica hitleriana dovevano travolgere nella guerra il nostro continente e il mondo intero.

4 Il crollo del nazismo - L’insuccesso finale cui Hitler andò incontro nella guerra da lui scatenata portò alla fine del nazismo e alla morte tragica e scenografica del suo capo.

La seconda guerra mondiale e la Resistenza
La seconda guerra mondiale (1939-1945)
1 La politica espansionistica di Hitler
- La seconda guerra mondiale fu lo sbocco fatale della politica espansionistica di Hitler, nei cui confronti le potenze occidentali, in particolare Inghilterra e Francia, tennero, per più anni, un comportamento incerto, caratterizzato da un sostanziale cedimento.
Esse non potevano condividere la dottrina nazista e temevano fortemente il riarmo materiale e morale della Germania. Tuttavia, in Hitler, come pure in Mussolini, esse vedevano un fanatico e deciso «alleato» contro il comunismo sovietico e un forte di fensore dei «valori dell’Occidente».
Da tale situazione contraddittoria derivarono i cedimenti di fronte agli atti della politica aggressiva di Hitler: la rimilitarizzazione della Renania (1936), l’intervento nella guerra spagnola a favore di Franco (1936-39), l’occupazione e l’annessione dell’Austria (marzo 1938), l’annessione dei Sudeti (settembre 1938), l’occupazione della Cecoslovacchia (1939).

2 Stalin si accorda con Hitler - Tale atteggiamento della Francia e dell’Inghilterra e il timore di più precisi accordi con la Germania a suo danno, spinsero poi Stalin a stringere un patto di non aggressione con Hitler, che, ormai sicuro sul fronte orientale, decise di attaccare la Polonia (1° settembre 1939).
Le potenze occidentali non potevano accettare questo ulteriore atto dell’imperialismo hitleriano senza esporsi al rischio di dover soccombere.
Scoppiò così la guerra, che insanguinò l’Europa per quasi sei anni (settembre 1939 maggio 1945), distruggendo milioni di vite umane, annientando l’economia europea e lasciando dietro di sé intere città e regioni distrutte.

3 La guerra totale - Il primo conflitto mondiale era già stato una guerra totale, in quanto aveva implicato lo sforzo e l’impegno non solo degli eserciti, ma di tutte le energie materiali e spirituali delle nazioni in guerra.
Tuttavia, anche se le popolazioni avevano dovuto sopportare condizioni di vita a volte durissime, quasi solo le truppe furono esposte ai rischi dei combattimenti.
La seconda guerra, invece, è stata totale in un senso ancora più vasto. I bombardamenti su vasta scala colpirono città inermi, centri produttivi, linee di comunicazione, colonne di profughi; e la caratteristica di guerra di movimento che il conflitto assunse, coinvolgendo nelle operazioni militari quasi tutto il continente, espose i civili a rischi diretti non dissimili da quelli dei combattenti.
Aggravò la spietatezza di questa guerra la politica razziale nazista, che sfociò nella deportazione e nello sterminio in massa degli ebrei nei campi di concentramento. Un numero enorme di prigionieri dei paesi invasi furono trasferiti in Germania. E infine le iniziative di resistenza, che si organizzarono nei paesi occupati, gravarono sulla popolazione civile che subì le conseguenze di imboscate, rastrellamenti e rappresaglie.

4 L’Italia dalla neutralità all’intervento - Quando l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche diede inizio al conflitto, l’Italia proclamò la sua neutralità, anche se aveva stretto, solo pochi mesi prima, un’alleanza militare con la Germania, il cosiddetto «patto d’acciaio», che impegnava le due potenze a prestarsi reciproco aiuto in caso di guerra.
La neutralità italiana era dovuta all’impreparazione dell’esercito e alle insufficienti risorse industriali. La sua giustificazione, nei confronti dell’alleato tedesco, stava invece nel fatto che le due potenze si erano accordate segretamente nel non provocare guerre prima di tre anni, patto che Hitler non aveva rispettato.
Quando però Mussolini vide Hitler spazzar via, apparentemente senza difficoltà, la Polonia, occupare la Norvegia, invadere la Danimarca, l’Olanda e il Belgio, e quindi superare la modernissima linea difensiva francese, la Maginot, e invadere la Francia convinto che l’Inghilterra si sarebbe piegata e il conflitto si sarebbe concluso rapidamente, per non restare escluso dalle trattative di pace, dichiarò guerra alla Francia e all’ Inghilterra.

5 Il disastro finale - Ma le previsioni di Mussolini si rivelarono ben presto sbagliate. L’Inghilterra resitette, prima sola, poi sostenuta dagli Stati Uniti d’America intervenuti direttamente nel conflitto. Le strepitose vittorie di Hitler, che lo portarono ad occupare quasi tutta l’Europa penetrando fin nel cuore della Russia, non lo salvarono dal disastro finale.

La Resistenza – La resistenza non comprende solo il movimento dei partigiani, ma anche tutta l’opposizione antifascista anteriore all’8 settembre 1943, e l’azione antitedesca svolta dall’esercito regolare italiano, affiancato alle truppe alleate, dopo l’armistizio, essendo tutti e tre i movimenti accomunati dalla volontà di resistere alla dittatura fascista e di restituire all’Italia la libertà e l’indipendenza dalla Germania.
La resistenza quindi comincia con il delitto Matteotti del 10 giugno 1924, quando i partiti antifascisti col ritiro sull’Aventino denunziano alla nazione l’impossibilità di riconoscere un governo che si serviva di delitti per soffocare la voce accusatrice dell’opposizione; e finisce nel 1945 con l’annientamento del nazifascismo. Fu la resistenza morale e culturale operata da scrittori e uomini di cultura coraggiosi, che tennero viva la libertà di pensiero. Fu resistenza anche quella dei fuoriusciti i quali con conferenze, giornali e libri all’estero tennero aperto il problema italiano e all’interno agirono come fermento di ribellioni alla dittatura. Particolare carattere di vera resistenza armata ebbe l’intervento dei fuoriusciti italiani nella guerra civile di Spagna contro la dittatura di Franco, nella quale si voleva cogliere una grande occasione per organizzare un grande fronte europeo antifascista. Resistenza è pure l’opera svolta da coloro che tentarono di impedire che l’Italia entrasse in guerra accanto ad Hitler, e gli appelli rivolti ai governanti per scongiurare il flagello mondiale.
Allo scoppio della guerra, il conflitto assunse un carattere di lotta non tanto tra due gruppi di stati, ma fra due moralità, e gli uomini della resistenza aumentarono vertiginosamente, si inserirono nella parte di chi combatteva contro la tirannide con la coscienza di contribuire alla salvezza ed alla ricostruzione della patria.

1 Dall’armistizio alla Resistenza - L’8 settembre del 1943, l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati segnò lo sfacelo dell’esercito italiano abbandonato dal re, da Badoglio, in quel momento capo del governo, e dal Comando supremo. Costoro, fuggendo da Roma, si rifugiarono a Brindisi senza lasciare precisi ordini che coordinassero le operazioni militari contro le forze tedesche in Italia.
Tuttavia, mentre i Tedeschi acceleravano l’occupazione della penisola, iniziata dopo il 25 luglio, e deportavano in Germania, in vagoni piombati, i soldati italiani fatti prigionieri nelle caserme, si manifestavano i primi atti di resistenza armata da parte di militari che intendevano manifestare concretamente i loro sentimenti contrari al fascismo e alla guerra da esso voluta.
Ai militari resistenti si affiancarono, a volte, i borghesi, come ad esempio negli scontri di Porta San Paolo a Roma. Rilievo particolare ebbe, per il suo carattere di rivolta di popolo, l’insurrezione antitedesca di Napoli (le «quattro giornate di Napoli»).
Furono questi i primi atti della Resistenza, il vasto movimento di insurrezione popolare che costituì un fenomeno di eccezionale portata nella storia d’Italia, pari al Risorgimento, anche se ben diverso nelle sue modalità e finalità.

2 I protagonisti della Resistenza - E’ difficile stendere la storia di un movimento che si frantumò in molteplici azioni e vicende spesso fra loro indipendenti. Nel prospetto che segue ne sono indicate le fasi e gli episodi salienti. Qui è più interessante ricordare che l’azione politica della Resistenza trovò i suoi organi direttivi nei Comitati di liberazione nazionale (CLN) costituitisi in tutta la penisola dopo l’8 settembre, nei quali erano rappresentati i partiti comunista, socialista, democristiano, liberale, il partito d’azione e il partito democratico del lavoro; e, sul piano militare, nel Corpo Volontari della Libertà, formazione militare, il cui comando - dopo l’accordo intercorso tra gli Alleati, il governo italiano insediatosi a Roma liberata e il CLN Alta Italia - fu assunto dal generale Raffaele Cadorna, mentre vicecomandanti furono Ferruccio Parri del Partito d’azione e il comunista Luigi Longo.
L’attività militare della Resistenza era compito di formazioni partigiane (bande) riunite in brigate, le quali o si ispiravano ai programmi dei ricostituiti partiti politici, come le brigate Garibaldi (partito comunista), le brigate Giustizia e Libertà (partito d’azione), le brigate Matteotti (partito socialista); oppure erano autonome, cioè non si richiamavano ad alcuna precisa ideologia politica e si ponevano come unico compito la liberazione del paese da tedeschi e fascisti.
Le bande partigiane agivano in montagna e nelle zone rurali, mentre, nelle città, si organizzarono i Gruppi di azione patriottica (GAP), impegnati in azioni di guerriglia urbana. Si affiancavano a volte le Squadre di azione patriottica (SAP) che controllavano politicamente le fabbriche e inoltre compivano sabotaggi nelle campagne.
Al costituirsi di queste forze di resistenza e di lotta fu di spinta, nell’Italia centrale e settentrionale, la rinascita del Partito fascista, e, dopo la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, la costituzione della Repubblica Sociale Italiana o Repubblica di Salò. Le formazioni resistenti ebbero allora per nemici non solo gli occupanti tedeschi, ma anche i fascisti loro alleati. Il conflitto, di conseguenza, si allargò e si esasperò.
Le azioni della Resistenza furono influenzate dalle operazioni condotte, sul fronte italiano, dagli Alleati che risalivano la penisola. Con essi la Resistenza stabilì rapporti di cooperazione, che spesso risultarono difficili a causa della diffidenza degli Alleati stessi nei confronti di un movimento che, rifiutandosi di essere puramente militare, manifestava apertamente i suoi scopi e le sue simpatie politiche.
Elemento fondamentale e caratterizzante della Resistenza fu il comportamento della popolazione civile, soprattutto della popolazione rurale e montana, che solidarizzò coi partigiani e li sostenne nonostante i sacrifici e i rischi che tale solidarietà comportava.
Altro elemento che entra a far parte del quadro resistenziale è la solidarietà attiva della popolazione nei confronti dei perseguitati razziali, con l’accettazione dei rischi che tale solidarietà comportava: un atteggiamento determinato in egual misura da naturale pietà e da una più riflessa volontà di ribellione contro la spietata ingiustizia nazifascista.

3 La Resistenza europea - La resistenza antinazista non fu un fenomeno esclusivamente italiano. In tutti gli stati europei occupati sorse un movimento di opposizione ai nazisti, movimento che andò via via ampliandosi col crescere dell’oppressione, delle mortificazioni e dei sacrifici, dell’odio verso lo straniero occupante e i connazionali che con lui collaboravano, e col rafforzarsi della speranza della loro sconfitta finale.
In Cecoslovacchia, in Polonia, in Francia, in Belgio, in Olanda, in Grecia, in Norvegia uomini e donne crearono sui loro territori una rete per sostenere l’azione dei reparti armati, che impegnavano i tedeschi all’interno costringendoli a distogliere truppe dai fronti di guerra, che interrompevano con attentati ai convogli i rifornimenti, che disturbavano e inceppavano le comunicazioni.
Sosteneva i partigiani e la popolazione che li aiutava oltre al tradizionale patriottismo, l’opposizione cosciente ad una ideologia che negava tutta la tradizione culturale europea ed i valori che essa era venuta precisando, primi tra tutti la libertà ed il rifiuto della violenza come strumento di governo e quale base dei rapporti internazionali.
La Resistenza trasformò per i tedeschi l’Europa conquistata in un vasto e infido territorio da presidiare, tenne viva, anche nei momenti più bui della guerra, quando le armate naziste sembravano inarrestabili, la fiducia nella vittoria finale, creò legami di solidarietà che aiutarono gli uomini a vincere l’isolamento in cui l’occupazione li relegava, portò a dibattere sugli errori passati che avevano generato la triste situazione presente e a delineare i tratti della nuova società futura.

4 La Resistenza nella letteratura e nell’arte - La misura dell’intensità con cui l’esperienza resistenziale fu vissuta dal popolo italiano è testimoniata dalla fioritura letteraria e artistica che ad essa si collegò.
Negli anni successivi alla Resistenza, romanzi, liriche, film, opere di pittura e di scultura, trassero da essa ispirazione e ne rievocarono e ne testimoniarono, di volta in volta, i momenti drammatici, dolorosi ed eroici.
Di ispirazione resistenziale è uno dei più importanti filoni della corrente artistica che va sotto il nome di “neorealismo”.

Storia socioculturale di un ventennio - Semplificando molto si può dire che il Fascismo dal punto di vista sociale, più che il braccio armato del grande capitale (inizialmente cauto verso di essi), fu l’espressione dei ceti medi frustrati, ostili sia alle classi popolari, con cui non volevano confondersi, sia alla grande borghesia che li spingeva verso il basso. Dopo aver sperato nella guerra per un rimescolamento delle carte a proprio vantaggio, «ora si vedevano governati da quegli stessi uomini contro cui si erano battuti nelle radiose giornate dell’intervento e pressati e scavalcati al tempo stesso dall’ascesa di quelle forze popolari che della neutralità avevano fatto un punto fondamentale del proprio programma» (A. Asor Rosa). Incapace di comprendere la nozione di lotta di classe, dato il suo viscerale individualismo e il fatto che per lui lo sfrutta­mento «rimane anonimo, inavvertito, celato dietro la cortina delle libere contrattazioni», il piccolo borghese è convinto che «la collabo­razione fra le classi sia possibile e che esista un interesse generale che coincide col suo, intermedio tra quello della borghesia e quello del proletariato». Così i ceti medi «sognano uno stato al di sopra delle classi che non sia controllato né dalla borghesia né dal proletariato, e che di conseguenza sia al loro servizio» (D. Guérin).
Perciò l’obiettivo strategico di Mussolini e del Fascismo sarà la conquista dello Stato, da cui i ceti medi si ripromettono il controllo del potere politico e il godimento della rendita burocratica (impieghi, sovvenzioni ecc.) per reprimere da un lato l’ascesa delle classi subal­terne e negoziare dall’altro un accordo con la grande borghesia detentrice del potere economico. La conquista dello Stato richiederà un’intesa con la corona e gli alti gradi dell’esercito e della burocrazia ad essa collegati, coi quali di fatto il Fascismo dovrà spartire il potere politico durante il ventennio (tale intesa sarà resa possibile dalla ostilità alle istanze popolari e dalla ideologia nazionalista che accomu­nava le due parti).
Fra le truppe dei ceti medi all’assalto dello Stato troviamo larga­mente rappresentati la pletora dei mezzi intellettuali che affollano le scuole e fanno anticamera alle redazioni dei giornali e delle case editrici. Molti di essi si pongono al servizio della macchina propagan­distica del regime ricavando anch’essi dallo Stato etico la loro parcella di rendita. Gli intellettuali di regime furono di due specie: i «puri» e gli opportunisti. I primi «erano per la maggior parte intel­lettuali di mezza tacca... Nessuno li prendeva sul serio, neppure coloro cui fornivano i prodotti delle loro dotte elucubrazioni». Le maggiori figure della cultura del regime e fra loro in particolare il filosofo Giovanni Gentile, il giurista Alfredo Rocco e lo storico Gioacchino Volpe «si erano formati prima del Fascismo... Le loro maggiori opere le avevano ormai alle spalle». Fatto è che il Fascismo non produsse una sua cultura e quanto alla dottrina fascista «non aggiunse nulla a quello che aveva ereditato dal recente passato: mise insieme lo Stato etico dell’idealismo hegeliano con la nazione proleta­ria dei nazionalisti, il dinamismo dei futuristi con l’esaltazione del superuomo. Più propriamente sua fu l’idea, storicamente del tutto inconsistente, adatta soltanto alla retorica celebrativa, della latinità, delle quadrate legioni, dell’Italia del Littorio» (N. Bobbio). La maggior parte degli intellettuali di regime fu comunque costituita da semplici opportunisti, con la fede a comando, come molti dei primi membri dell’Accademia d’Italia (creata nel 1926), quasi tutti i profes­sori di università (dei quali solo 11, su 1200, non giurarono nel 1931 fedeltà al regime), la maggior parte degli insegnanti della scuola primaria e secondaria, gli scrittori e i pubblicisti a disposizione della stampa e della radio di regime che prestarono mano all’attività dell’I­stituto per gli studi del Fascismo universale, fondato nel 1936, all’or­ganizzazione dei Littoriali della cultura, infeconde gare intellettuali bandite annualmente dal 1934 dalle università, o alle imprese propagandistiche e censorie del ministero della cultura popolare, il fa­moso Minculpop.
Oltreché la scuola, fascistizzata già dal 1923 dalla riforma Gentile e poi nel 1930 da una disposizione che stabiliva che rettori e presidi di facoltà universitarie e scuole medie dovessero essere scelti tra professori con almeno cinque anni di tessera fascista, particolar­mente utile al regime fu la collaborazione data dall’intellettualità opportunista allo sviluppo di cinema e radio fascisti, con cui negli anni ‘30 si inaugurò anche in Italia l’era dei mass media e della manipolazione di massa.
Attraverso la radio (entrata nelle case italiane a partire dall’ottobre del 1924) l’Italia fu frastornata dalle «radio cronache delle cerimonie ufficiali e patriottiche, cortei, sfilate, inaugurazioni, saggi ginnici, ecc., dove si venne coniando uno stile che fu detto littorio il quale toccava il suo culmine nelle radiotrasmissioni dei discorsi di Mussolini» (G. Manacorda).
Per quanto riguarda specificatamente la letteratura l’influenza del Fascismo si fece sentire sensibilmente nella marcata tendenza al disim­pegno politico e al rifugio nella torre d’avorio letteraria, manifestata da riviste come la Ronda e Solaria (soppressa quando cominciò a sembrare un punto di riferimento culturale troppo indipendente dal regime), nella prosa d’arte e nella poesia ermetica, che appaiono ambiguamente «una difesa dei valori poetici che certamente si opponeva alle intrusioni della politica fascista, ma nello stesso tempo un’evasione dalla realtà che non consentiva la denunzia della tragica situazione di quegli anni» (G. Petronio). Più direttamente espressione della contraddittoria ideologia fascista furono da un lato Strapaese di Maccari, dall’altro Novecento e il gruppo di Stracittà di Bontempelli. La prima rivista espresse il ruralismo del regime cioè l’esaltazione dei valori e dei modi di vita e di pensiero tradizionali delle campagne italiane, fatta per consolarle del prezzo che esse dovevano pagare ai maldestri sforzi di industrializzazione e di modernizzazione tentati dal Fascismo; mentre la seconda esaltava il preteso rapporto tra Fascismo e modernità, quel rapporto per cui esso si era riconosciuto nel futurismo e questo nel Fascismo e che, nella misura in cui esisté, da ragione a quelle interpretazioni che vedono nel Fascismo il tentativo di risposta di una società arretrata come l’Italia alla crisi dell’industrializzazione in atto: «un’ideologia di emergenza con un programma non d’immobilizzazione e d’ibernazione della società malata (come fanno invece i sistemi di tipo militare) ma di fuga in avanti» (L. Incisa).
Una cultura o, più particolarmente, una letteratura di opposizione non fu tollerata dal regime fascista. L’iniziativa di Gramsci e di Gobetti, espressione l’una di una rilettura originale del marxismo, l’altra di una revisione autocritica dei presupposti dell’ideologia libe­rale, fu presto interrotta o isolata con la violenza, la morte e il carcere. Sopravvisse in solitudine Benedetto Croce che poté continuare a pubblicare la sua rivista La critica, la quale, pur evitando ogni incursione nel terreno specificatamente politico, costituì un punto di riferimento, l’unico non clandestino, per quel poco di opposizione che si manifestò anche nelle file della borghesia italiana nazionale. Sul terreno letterario c’è da ricordare però che è proprio negli anni più fortunati del Fascismo, quelli del consenso, che vedono la luce alcune opere, come Gli indifferenti di Moravia, Il garofano rosso e Conversazione in Sicilia di Vittorini, Paesi tuoi di Pavese, implicita­mente antifasciste, che costituiscono le radici della letteratura impe­gnata del dopoguerra.

Eugenio Montale - È il più importante poeta del nostro Novecento. Con la sua lunga residenza fiorentina e con la sua raccolta del 1939, Le occasioni, Montale, ha rappresentato uno dei punti di riferimento più sicuri per i poeti delle giovani generazioni.
La sua poesia costituisce il polo opposto rispetto alla fede ottimistica e mistica di Ungaretti, disegnando così l’altro confine entro cui si muove l’esperienza ermetica. Anche per Montale i fenomeni sono falsificazione, alienazione mo­rale, anche per Montale occorre il contatto con l’Assoluto attraverso la poesia: ma in Montale la mistica comunione non si realizza mai, appare per un attimo e subito scompare. Le occasioni, allora, sono una lunga lista di occasioni perdute, un colloquio con l’oltre, sempre interrotto dal silenzio, dal vuoto, dall’atroce dimensione della storia (la guerra, il nazismo).

1 La vita - Nato a Genova nel 1896 da una famiglia borghese, Montale trascorse l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza fra Geno­va e la casa delle vacanze estive di Monterosso nelle Cinque Terre, dove imparò ad amare quel paesaggio marino e assolato, ma anche arido e sco­sceso, che sarebbe divenuto una delle presenze costanti della sua poesia. Per ragioni di salu­te, fu avviato agli studi di ragioneria, ma egli si appassionava soprattutto ai libri di poesia e di narrativa suggeritigli dalla sorella Marianna.
La formazione di Montale avvenne al di fuori degli schemi consueti, data l’irregolarità dei suoi studi: alla conoscenza dei poeti italiani accompagnò quella di poeti stranieri, francesi e soprattutto anglosassoni. Cominciò cosi a porre le basi di una vastissima cultu­ra che avrebbe man mano arricchito in modo del tutto autonomo dalle istituzioni scolastiche.
Montale prese anche lezioni di canto (era sua intenzione di diventare baritono), ben presto interrotte per la morte del maestro che lo seguiva. La musica però rimase sempre una delle sue passioni predilette, tanto che, negli anni della maturità, collaborò come critico musicale al Corriere della Sera.
Nel 1917, Montale fu richiamato sotto le armi; congedato nel 1919 ritornò a Genova, dove conobbe alcuni importanti intellettuali del tempo tra i quali il poeta Camillo Sbarbaro e Piero Gobetti, uomo di cultura e prestigioso esponente dell’antifascismo, che nel 1925 curò l’edi­zione della sua prima raccolta di versi, Ossi di seppia.
Nel 1927, Montale si trasferì a Firenze, dove sì impiegò presso la casa editrice Bemporad; l’anno dopo ottenne il posto di direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, prestigioso centro culturale della città.
Nel 1938, Montale fu costretto a dimettersi dall’incarico perché si era rifiutato di prendere la tessera del Partito fascista. Intanto, sempre a Firenze, frequentava poeti e scrittori come Sal­vatore Quasimodo, Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, con i quali si incontrava spesso al caffè Giub­be Rosse. In quegli anni conobbe Drusilla Tanzi, che sarebbe diventata sua moglie e pubblicò il se­condo libro di poesie, Le occasioni nel 1939.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Montale si trasferì a Milano do­ve si dedicò stabilmente all’attività di giornalista presso il Corriere della Sera. Appartiene a questo periodo la terza raccolta, La bufera e altro, pubblicata nel 1956, alla quale seguì un lungo periodo di silenzio poetico: erano gli anni del miracolo economico che favori un processo di massifi­cazione della società, accompagnato dall’estendersi del potere dei mass media e da una certa degra­dazione della cultura. Montale guardava con amarezza e distacco questa realtà nella quale la poesia sembrava aver perso definitivamente il suo ruolo e per un lungo periodo preferì non comporre versi.
Proprio tale degradazione fu il centro dell’ultima maniera del poeta. Nel 1971, Montale ricominciò a scrivere, dando avvio alla sua seconda e ricca stagione poetica che inizia con Satura e prosegue con Diario del ‘71 e del 72, Quaderni dei quattro anni e Altri versi, opere nelle quali la poesia adotta un linguaggio basso e stereotipato, offrendo un’immagine fortemente negativa della società contemporanea; in questo, Montale parla nello stesso tempo con un’incredibile voce postuma e scettica, aldilà di tutte le certezze, come se il poeta avesse quasi rinunciato ad invocare la verità, chiudendosi in una splendida ironia sapienziale.
Divenuto un importante punto di ri­ferimento per la poesia italiana ed europea, nel 1967, Montale fu nominato senatore a vita per i suoi meri­ti letterari e nel 1975 fu insignito del Premio Nobel per la letteratura.
Montale morì a Milano nel 1981.

2 Le opere - La sua ricca produzione poetica, che accompagnò tutto il corso della sua vita, è costituita dalle raccolte
· Ossi di seppia (1925)
· Le occasioni (1939)
· La bufera e altro (1956)
· Satura (1966)
· Diario dei ‘71 e 72 (1972)
Accanto alla produzione poetica ricordiamo le sue opere in prosa: La farfalla di Dinard (1956), Auto da fé (1966); e le sue traduzioni (dalla Dickinson, da Yeats, da T.S. Eliot, da Kavafis).

3 I temi della poesia montaliana - Fra le tre maggiori raccolte poetiche montaliane, Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera, non vi è distinzione di temi così netta come, ad esempio, tra le raccolte di Ungaretti. Ritorna in esse, infatti, sia pure con approfondi­menti e con diversificate angolazioni, la medesima visione della vita. Si indicano perciò complessivamente i temi di tali raccolte, aggiungendo che i componimenti della seconda e della terza raccolta sono di tecnica più ardua ed ermetica, e perciò di più difficile comprensione e interpretazione.
a) «II male di vivere» - Questa espressione, che costituisce il titolo di una lirica degli Ossi di seppia, vuol significare che, per Montale, l’essenza della vita è il male, cui non sfuggono né le cose animate, né quelle che consideriamo inanimate: l’uomo, il cavallo stramazzato, il ruscello senza sbocco, la foglia bruciata dall’arsura.
Il male di vivere peraltro non sempre coincide con la forza distruttrice che si abbatte sulle esistenze. A volte, esso si identifica con l’oppressione che grava sull’uomo, il quale si sente chiuso nella sua vita da una specie di invalicabile muraglia e non riesce a capire il senso della forza che l’imprigiona.
b) «La divina indifferenza» - L’unica salvezza di fronte al male di vivere sta nel resistere all’angoscia, nel guardare al proprio destino con lucido coraggio. Questo stato d’animo, sempre nella lirica, Il male di vivere, è definito da Montale la divina indifferenza, cioè il dignitoso distacco, considerato divino perché con­sente all’uomo, che pure conosce la negatività della vita, la forza quasi sovrumana di accettarla.
c) «Il fantasma che ti salva» - Il pessimismo montaliano è percorso comunque da una ricorrente speranza positiva: che possa esserci qualcosa, che possa avvenire un miracolo che consenta all’uomo di capire il senso della sua esistenza. Tale speranza sì concreta in alcune immagini: il fantasma che ti salva e che forse è possibile incontrare al di là dell’erto muro della vita, solo che riusciamo a valicarlo; la «maglia rotta nella rete / che ti stringe». È tuttavia una salvezza che il poeta, in genere, non spera più per sé, ma la invoca per altri più fortunati.
d) La Liguria montaliana - Nato a Genova, Montale è il cantore di una Liguria assolutamente anticonvenzionale, non fastosa né vistosa: un paese asciutto ed aspro, fatto di stradette che si spingono nell’entroterra, di muri a secco, di terreni bruciati dal salino. Pur suggestivamente evocato e descritto, tale paesaggio non è per lo più fine a se stesso, ma è la proiezione dello stato d’animo del poeta, ne esprime la sensibilità scontrosa e desolata, solo eccezionalmente protesa verso la fiducia e la speranza.

4 Il linguaggio di Montale - La poesia montaliana rifiuta il canto spiegato, l’abbandono sentimentale o, se lo consente così avaramente, che in questi casi esso assume un significato intenso e particolare. Essa è tutta percorsa da sotterranee e complesse suggestioni melodiche, ottenute sapientemente attraverso assonanze, rime interne, pause. Anche il linguaggio è volutamente scabro («qualche storta sillaba e secca come un ramo»), a volte oscuro per collegamenti, allusioni, analogie che non è facile individuare e sciogliere: adeguato anch’esso alla intensa e amara materia poetica.

5 L’ultimo Montale - L’ultima copiosa produzione montaliana, costituita dalle raccolte Satura e Diario del ‘71 e ‘72, è caratterizzata da tono e linguaggio prosastici, del tutto lontani da quelli delle raccolte precedenti: tono e linguaggio di poesia parlata.
I componimenti più ricchi di emozioni poetiche, pur nella pacatezza del discorso, sono quelli che vanno sotto il titolo di Xenia: le liriche fanno parte di una sezione della raccolta Satura, costituita da liriche dai toni semplici e colloquiali dedicate alla moglie Mosca. Xenia erano i brevi componimenti che accompagnavano i doni fatti a un ospite nel momento in cui lasciava la casa che lo aveva accolto.
Questo piccolo canzoniere, che nella sua semplicità costituisce uno degli esiti più alti della poesia montaliana, è appunto il dono che il poeta fa alla moglie nel momento della sua partenza senza ritorno, una testimonianza d’affetto per una donna appartata, apparentemente insignificante, ma in effetti l’unica con la quale egli sia riuscito a realizzare, al di là dell’amore che lo legava a lei, un completo affiatamento. Mosca è fissata in mille semplici episodi della vita quotidiana, nelle piccole avventure di un’esistenza normale e senza pretese che lei ha sa­puto vivere con dignità e con ironica saggezza.

sabato 14 novembre 2009

Steven Pressfield - Le porte di fuoco di Massimo Capuozzo

Steven Pressfield - Le porte di fuoco (Rizzoli) di Massimo Capuozzo
A Paris, il mio spartano

In questo romanzo ho trovato la risposta alla mia ostinazione di vedere Sparta, a costo di smarrirmi nel Peloponneso. Ed alla delusione che provai nel vederne le rovine. Poche mura, grande difficoltà nell’intravederne il tracciato. Polvere dappertutto. Dov’era la grandezza di Sparta? La risposta me l’ha data Pressfield, con le parole semplici e toccanti con cui Leonidas, parla ai duecento rimasti dopo i cinque giorni di assalto delle miriadi di Persiani, della valle dell'Eurota, del Parnone e del Taigeto e di quei cinque vil­laggi senza mura che formavano quella polis, quella comunità che il mondo conosceva come Sparta. “Fra mille anni, disse Leonidas, fra duemila anni, fra tremila anni, forse uo­mini che non sono ancora nati verranno a visitare la nostra città. Saranno studiosi, o viaggiatori provenienti da oltremare, spinti dalla curiosità del passato e dal desiderio di conoscere meglio gli antichi. Percorreranno la nostra valle e frugheranno tra le pietre e le rovine del nostro paese. Che cosa capiranno di noi, di quello che siamo stati? Il piccone non met­terà in luce né palazzi né templi, il dito non indicherà ope­re di architettura e d'arte conservate nel tempo. Che cosa ri­marrà degli spartani? Non monumenti di pietra o marmo, ma questo: quel che avremo ottenuto qui, oggi.”
Era il sacrificio delle Termopili che mi aveva trascinato a Sparta, un evento storico che è diventato mito. Senza una salda cultura classica, mi sarei potuto domandare se tutto ciò che Pressfield racconta sia mai accaduto veramente, con le stesse azioni, spesso quasi inverosimili, e con le stesse persone, che non hanno nulla da invidiare agli eroi dell'Iliade: “Arrendetevi, la moltitudine dei nostri arcieri è tale che le loro frecce oscureranno il cielo”. “Meglio” rispose Dienekes ad un ufficiale persiano “vuol dire che combatteremo all’ombra”. Alla richiesta di Serse di consegnare le armi la risposta di Leonidas fu di tre parole: “Venite a prendervele”. “Fate un'abbondante colazione fratelli miei, poiché questa sera tutti noi divideremo la nostra cena all'Ade” dice Leonidas all'alba dell'ultimo giorno.
Ma tutto questo non è leggenda e su quest’episodio Erodoto scrive una delle sue pagine più commosse che Pressfield trasforma in un’aura di eticità. La vicenda narrata, si respira ad ogni riga, ad ogni frase. Una storia ben intrecciata, dove personaggi fittizi come Gallo, Diomache, Dienece, Polinice e tutti gli altri si calano davvero a pennello. Nel corso della narrazione, ci si sente immersi nel tempo della grande Grecia con le sue divisioni, le sue usanze e i suoi costumi soprattutto nella cultura guerriera della gloriosa e rigida Sparta, si percepisce il contrasto fra la tensione che accompagna l'avvento dell'immenso esercito persiano e la naturalezza con cui i lacedemoni affrontano lo scontro che la storia gli ha riservato. Sembra veramente di essere presenti alle varie vicende che accompagnano i protagonisti di questo romanzo, e viene voglia di impugnare scudo e lancia quando sul muro difensivo del passo si vede giungere il temibile nemico.
La battaglia delle Termopili fu combattuta nel 480 a.C. dagli eserciti ellenici contro i persiani di Serse: perduta ogni possibilità di resistere al nemico, i 300 soldati dell'esercito spartano, comandati dal loro Re, riuscirono a respingere da soli gli attacchi persiani, sacrificando eroicamente le proprie vite, dando così tempo all'esercito ellenico di meglio organizzarsi per respingere il nemico, cosa che avvenne qualche tempo dopo a Salamina e a Platea.
Il libro racconta questa vicenda dagli occhi di un arciere, Xeone, scudiero dell'esercito del re spartano Leonidas, unico sopravvissuto al massacro delle Termopili, le Porte di Fuoco, ferito e fatto prigioniero. In un appassionante viaggio della memoria, Xeone racconta al re Serse il saccheggio della sua città da parte degli Argivi, l'uccisione dei genitori, la fuga con l'amata e il suo apprendistato tra le schiere spartane.
Al di là della storia e del ritmo, quel che lo rende unico è la forza dirompente ed educativa dei valori espressi dai protagonisti.
Il libro, scritto così bene da sembrare di viverci dentro, racconta inoltre la vita e i costumi di Sparta, il ruolo delle donne e la paura del disonore, e in particolare l'addestramento militare di coloro che erano destinati a diventare i migliori combattenti tra i soldati greci.
Questo libro è molto curato nei dettagli sia della vita civile, sia di quella militare, e appassionante, come pochi altri, quando descrive gli addestramenti e le battaglie; è un titolo immancabile per chi si interessa di strategia militare e per chi vuole guardare la Grecia più da vicino di come ci hanno insegnato a guardarla a scuola.
Il monumento antico è una semplice pietra, senza ornamenti con incise le parole del poeta Simonide. Sono versi che costituiscono molto probabilmente l'epitaffio più famoso che sia mai stato scritto per un soldato:

O straniero che passi,
va' e riferisci agli spartani,
che noi giaciamo qui
obbedienti al loro comando.

Spero un giorno di poter visitare il passo delle Termopili per lasciare una preghiera, una lacrima, un pensiero a questi uomini formidabili che, con il sacrificio della loro vita, hanno permesso l'evolversi libero della civiltà moderna...
Con uno straordinario connubio di minuziosa descrizione storica (lungi dall'essere noiosa) e avvincente narrativa, questo romanzo rende onore ad uno dei popoli più fieri e civili, più brutali e passionali dell'antichità: gli Spartani.
Pressfield, rispolverando gli assunti tipici di una certa filosofia tradizionale afferente a personalità come Julius Evola, è riuscito a far vibrare corde ormai recise dalla coeva società, per proporre l'importanza di valori che oggi sono sempre più trascurati.
Nel romanzo è giustamente sublimata la disciplina spartana, che a buon diritto rientra tra queste direttive tradizionali d'ascetismo guerriero: quando un guerriero combatte non solo per se stesso, ma per i propri fratelli, quando il suo obiettivo, la meta a lungo agognata non è né la gloria né salvarsi la vita, ma consumarla per loro, per i propri compagni, non abbandonarli, non rivelarsi indegni di questo, allora veramente trascende se stesso e le sue azioni rasentano il sublime.
Il coraggioso sacrifico degli spartani e dei loro alleati greci, la loro umanità, il loro essere soldati e soprattutto l'amore in tutte le sue forme. Amore per la patria, amore per la famiglia, amore per i propri amici... amore per gli altri.
Questo romanzo dal sapore epico, sicuramente il migliore dell’autore, si legge con grande piacere e sete di conoscenza. Le porte di fuoco ci consegna un episodio emblematico della storia dell’umanità sulla strada verso la cultura e la democrazia.
Pressfield è riuscito a rendere a pieno la mentalità degli Spartani e i motivi che li spinsero all'eroico sacrificio delle Termopili. Accompagnato dal rigore morale del soldato spartano, dal suo senso del dovere e della disciplina, dalla coscienza del suo ruolo umile e subordinato ad un volere superiore, il lettore attinge ad una miniera di esempi virtuosi di morale, etica comportamentale, senso del dovere e coscienza dei propri limiti. E questo è tanto più vero ed interessante se raccordato al valore storico che l’episodio delle Termopili ha avuto per l’umanità intera nelle sue conseguenze più immediate. Le vittorie di Salamina e di Platea, ottenute dalla riorganizzazione delle forze greche come conseguenza diretta del sacrificio di Leonidas e dei suoi Trecento, contribuiranno infatti allo sviluppo della Filosofia e della Democrazia.Ancora molto giovani e fragili, i loro germi, fiorenti nell’Atene di allora, contribuiranno alla nascita più vigorosa di quella cultura che Alessandro Magno consoliderà ulteriormente un secolo dopo ed il cui testimone, attraverso i Romani, gli Indiani e gli Arabi, ritornerà infine ad illuminare la “Latinorum Penuria” medioevale per portarci verso il Rinascimento ed infine ai nostri giorni. E tutto questo, grazie alle gesta di quei Trecento eroi scelti da Leonidas non “per il loro valore, ma per quello delle loro Donne” e grazie a quelle parole che indicano il coraggio, “andreia” e “aphobia”, anch’esse femminili ed indicatrici di grande virtù.

L'invenzione del Risorgimento di Massimo Capuozzo

L’invenzione del Risorgimento di Massimo Capuozzo

Roberto Martucci ricostruisce l’operazione politico-militare, che, nell’arco di soli venti mesi, trasformò una penisola frammentata in più Stati di dimensione regionale o provinciale (divisa linguisticamente in una decina di aree molto disomogenee) nel regno d’Italia. Da questa indagine risulta confermato il ruolo di assoluto protagonista del conte di Cavour in ciascuna delle vicende considerate, compresa la spedizione dei Mille fino alla liquidazione dell’indipendenza napoletana. Tuttavia, dal quadro complessivo emergono gli elementi di fragilità istituzionale e sociale del nuovo Stato.
Dal carteggio di Cavour, riletto cronologicamente emergerebbe chiaramente come l’unificazione della penisola italiana sarebbe stata in realtà una operazione studiata a tavolino da Cavour, né voluta né sentita dalle popolazioni degli stati in cui la penisola era suddivisa, ma solo da un ristretto numero di persone nel Regno di Sardegna e negli altri stati italiani.
Il Risorgimento è stato presentato per decenni come un’epopea eroica che ha unificato popolazioni che “da sempre” sentivano un senso di identità nazionale italiana, e pertanto smitizzare questa costruzione risponde certo alla volontà di cercare la realtà dei fatti.
L’11 Maggio 1860, sbarco dei Mille. Gli uomini (1089 o 1092) erano già sbarcati, quando sopraggiunsero la corvetta Stromboli e i due piroscafi Capri e Partenone comandati da Guglielmo Acton, inglese al servizio del Borbone. Nella rada di Marsala c’erano anche le cannoniere inglesi Argus e Intrepid, inviate da Malta per coprire lo sbarco.
Acton vedeva movimento di uomini in camicie rosse e avendoli scambiati per i Red Coast delle truppe inglesi, con i loro comandanti, si astenne dall’aprire il fuoco.
Allo sbarco seguirono i vari proclami di Garibaldi, l’entrata a Palermo, la battaglia di Milazzo, la capitolazione di Messina. Con la conquista di Palermo gli atti compiuti dai vecchi dominatori erano considerati nulli e i beni si riconsegnavano ai vecchi padroni. Identica cosa sarebbe dovuta avvenire a Bronte con la Ducea Nelson. Garibaldi, invece, di annullare la donazione fatta a Nelson ai danni dei brontesi, preferì adottare il metodo dei due pesi e due misure. Almeno così credevano i brontesi che ignoravano i contenuti dei dispacci segreti inviati dall’Amministrazione della Ducea ai viceconsoli inglesi di Catania (Jeans) e di Messina (Richard) e che questi inoltravano al console Generale di Palermo Goodwin.
Quest’ultimo informava il Ministero degli Esteri Russel che di rimando sommergeva di dispacci sia il Dittatore Garibaldi che il governatore di Catania.
La notte del 5/6 Maggio, navi inglesi e sabaude avevano coperto la partenza di Garibaldi da Quarto e gli inglesi avevano finanziato l’impresa con pubblica sottoscrizione.
A Catania c’era stata un’agitazione il 15 Maggio; il Gen. Clary, in un suo rapporto del 25/5, segnalava l’appartenenza al comitato rivoluzionario del viceconsole Jeans, assieme al Poulet, al Casalotto, al Marletta ed altri.
Il 31 Maggio insorgeva Catania e le squadre al comando del Poulet avevano la meglio sui regi di Clary, ma l’improvviso arrivo delle truppe di Gaetano Afan de Rivera avevano ribaltato nuovamente la situazione.
Ciò malgrado il 3 Giugno arrivò alla guarnigione di Catania l’ordine di ripiegare su Messina.

Se vogliamo che tutto rimanga com’è …
da Il Gattopardo
[1] di Giuseppe Tomasi di Lampedusa di Lampedusa[2].
La vicenda descritta nel Gattopardo può a prima vista far pensare che si tratti di un romanzo storico ma è proprio questo il primo equivoco da eliminare per una comprensione dell’opera. Tomasi di Lampedusa di Lampedusa ha certamente tenuto presente tutta una tradizione narrativa siciliana dalla novella Libertà di Verga a I Viceré di De Roberto, a I vecchi e i giovani di Pirandello ispirata al fallimento risorgimentale che, proprio in Sicilia più drammaticamente era stato avvertito. Ma mentre De Roberto è il più significativo, del fallimento indaga le motivazioni con una complessa rappresentazione dell’opposte forze in giuoco, Tomasi di Lampedusa riduce la vicenda risorgimentale ad una machiavellica operazione della classe dirigente che in estremis si mette all’occhiello la coccarda tricolore convinta che se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi. Rappresentazione meno semplicistica se si pensa che il 1860 vide anche la rivolta dei contadini di Bronte, stroncata nel sangue da Bixio. Da questo punto di vista quindi le forti carenze del Gattopardo come romanzo storico del Risorgimento in Sicilia sono evidentissime.
Il Gattopardo non va visto come un grande affresco storico: anche il modulo narrativo è lontano dai grandi esempi del romanzo storico. Il fallimento risorgimentale descritto è la norma, la costante delle vicende umane che approdano al fallimento: gli uomini sono mosche cocchiere che si possono illudere di influire sul torrente delle sorti che invece fluiva per conto suo, in un’altra vallata. La negazione della storia, la sterilità dell’agire umano: questo uno dei motivi più autentici del libro. In questa prospettiva di remota lontananza dalle storicistiche fiducie il Risorgimento può ben diventare una rumorosa, romantica commedia con qualche macchiolina di sangue sulla veste buffonesca e Marx un ebreuccio tedesco di cui al protagonista sfugge il nome e la Sicilia, più che una realtà può ben diventare un’astratta categoria, immutabile ed eterna una metafisica «sicilianità» che coincide con la sublime indifferenza, col decadente distacco, con la sfiducia dell’autore. La Sicilia di Tomasi di Lampedusa è soltanto una localizzazione geografica del suo sentire.
Correlativo a questo è il tema del fluire del tempo, del decadere, della morte che permea di sé tutta l’opera.
Fra la tradizione del romanzo storico di fine Ottocento e Il Gattopardo è passato il Decadentismo con le sue stanchezze, le sue sfiducie, la sua contemplazione della morte e l’opera di Tomasi di Lampedusa cadeva in un momento di ripiegamento e di crisi sia dei recenti ideali della società italiana, sia di quella letteratura che si era sforzata di dare voce a quegli ideali.
Al Palazzo del principe don Fabrizio di Salina sono giunte le notizie delle battaglie tra garibaldini e borbonici. Il principe non sembra essere interessato a queste notizie, fino al giorno in cui Tancredi, suo nipote prediletto, decide di allearsi con i ‘liberatori’ e di partire per la ‘guerra’. Importante è il discorso tra il Principe e Tancredi, riguardo sulle conseguenze di questa guerra.

La mattina dopo il sole illuminò un Principe rinfrancato. Aveva preso il caffè ed in veste da camera rossa fiorata di nero si faceva la barba dinanzi allo specchietto. Bendicò[3] posava il testone pesante sulla sua pantofola. Mentre si radeva la guancia destra vide nello specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto, un volto magro, distinto, con un’espressione di timorosa beffa. Non si voltò e con­tinuò a radersi. “Tancredi[4], cosa hai combinato la notte scorsa?” “Buon giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli amici. Una notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state a divertirsi a Paler­mo.” Don Fabrizio si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse esser lecito. Si voltò e con l’asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. “E chi erano queste cono­scenze, si può sapere?” “Tu, Zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi mentre par­lavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini!” Era davvero trop­po insolente, credeva di poter permettersi tutto. Attraverso le strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre, i suoi stessi occhi lo fissavano ri­denti. Il Principe si sentì offeso: questo qui veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva l’animo di rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. “Ma perché sei vestito così? Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina?” Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. “Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti.” Il povero Salina si senti stringere il cuore. “Un duello?” “Un grande duello, zio. Contro Franceschiello[5] Dio Guardi[6]. Vado nelle monta­gne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo[7]. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi.” Il Principe ebbe una delle sue vi­sioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schiop­pettate nei boschi, ed il suo[8] Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. “Sei pazzo, figlio mio! An­dare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e im­broglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re[9].” Gli occhi ripresero a sorridere. “Per il Re, certo, ma per quale Re?” Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la Repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi[10]. Mi sono spiegato?” Abbracciò Io zio un po’ commosso. “Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore.” La retorica degli amici aveva spinto un po’ anche su suo nipote; eppure no. Nella voce nasale vi era un accento che smentiva l’enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo il diniego delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo momento stava certo a sorvegliare la digestione di “Guiscardo!” Que­sto era il figlio suo vero. Don Fabrizio si alzò in fretta, si strappò l’asciugamani dal collo, frugò in un cassetto. “Tan­credi, Tancredi, aspetta,” corse dietro al nipote, gli mise in tasca un rosolino di “onze” d’oro, gli premette la spalla. Quello rideva: “Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, Zione, a presto; e tanti abbracci alla zia.” E si precipitò giù per le scale. Venne richiamato Bendicò che inseguiva l’amico riem­piendo la villa di urla gioiose, la rasatura fu completata, il viso lavato. Il cameriere venne a vestire e calzare il Prin­cipe. “Il tricolore! Bravo, il tricolore! Si riempiono la bocca con questa parola, i bricconi. E che cosa significa questo segnacolo geometrico, questa scimmiottatura dei francesi, cosi brutta in confronto alla nostra bandiera candida con l’oro gigliato dello stemma? E che cosa può far loro spe­rare quest’accozzaglia di colori stridenti?” Era il momento di avvolgere attorno al collo il monumentale cravattone di raso nero. Operazione difficile durante la quale i pensieri politici era bene venissero sospesi. Un giro, due giri, tre giri. Le grosse dita delicate componevano le pieghe, spia­navano gli sbuffi, appuntavano sulla seta la testina di Me­dusa con gli occhi dì rubino. “Un gilet pulito. Non vedi che questo è macchiato?” Il cameriere si sollevò sulla punta dei piedi per infilargli la redingote di panno marrone; gli porse il fazzoletto con le tre gocce di bergamotto. Le chiavi, l’orologio con catena, il portamonete se li mise in tasca da sé. Si guardò allo specchio: non c’era da dire era ancora un bell’uomo, ‘“Rudere libertino!’ Scherza pesante quella canaglia! Vorrei vederlo alla mia età, quattro ossa inca­tenate come è lui.”
Il passo vigoroso faceva tinnire i vetri dei saloni che attraversava. La casa era serena, luminosa e ornata; so­prattutto era sua. Scendendo le scale, capì. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è...” Tancredi era un grande uomo: lo aveva sempre pensato.

Libertà
da Novelle rusticane
[11] (1883) di Giovanni Verga
Una rivolta di contadini siciliani inizia e finisce nel sangue.
‘Libertà’ è una parola affascinante, ma ingannevole che crea illusioni e fa nascere speranze presto distrutte dalla brutalità dell’esercito garibaldino.
Alla fine pagano come al solito i più deboli.
La novella prende spunto da un fatto storico e rievoca la sanguinosa rivolta di Bronte, un paese vicino a Catania, seguita da un’altrettanto san­guinosa repressione da parte dei garibal­dini, guidati da Nino Bixio (luglio-agosto 1860). A Bronte nei giorni dal 2 al 5 agosto 1860 la popolazione, formata in gran parte da poveri contadini, si sollevò contro i locali proprietari terrieri. Dopo la caduta del governo borbonico, c’erano stati vari proclami rivoluzionari, secondo i quali la terra, già di proprietà di pochi galantuomini, come erano detti i proprietari terrieri, doveva essere distribuita ai capifamiglia contadini.
Queste le ragioni della rivolta: le condizioni miserevoli dei contadini, la fame, il desiderio di «libertà» dalla schiavitù e dalla miseria. La popolazione siciliana, in gran parte, aiutò Garibaldi ed i Mille nella vittoriosa guerra contro i Borbone, perché vedeva in questa la possibilità di un miglioramento della sua condizione di vita.
La rivolta di Bronte fu sanguinosa, e si risolse in un eccidio spaventoso. Fu repressa personalmente da Nino Bixio, che fece fucilare alcuni dei rivoltosi, prendendo quasi a caso quelli che dovevano essere giustiziati. Gli altri furono condannati ed imprigionati a vita.
Verga riferisce con esattezza la storia con il suo contenuto drammatico. Descrive le uccisioni, la psicologia della folla impazzita, i drammi. Notevole è l’uso l’uso di paragoni tratti dalla natura: i rivoltosi sono come un «torrente», come la «piena del fiume», e travolgono tutto senza ormai rendersi conto di ciò che fanno. Passata la follia e finito l’eccidio, il giorno che sorge porta una calma strana e piena di paure; i soldati che arrivano e fucilano sono accolti quasi con un senso di liberazione; la tragedia che si è consumata ha lasciato tutti stravolti ed esterrefatti.
Alla fine, tutto torna come prima: i «signori» al loro posto, i poveri contadini sempre più poveri. La tragedia si è chiusa, e non è servita a niente. Solo i condannati continueranno a chiedersi il perché, gridando che loro volevano solo «la libertà». E un mondo senza speranza, che neppure la vittoria garibaldina ed il cambio di Re riescono a mutare.
I contadini siciliani di Bronte ave­vano occupato abusivamente le terre che nel 1799 il re Ferdinando IV di Borbone aveva donato all’ammiraglio inglese Nelson. Garibaldi non esitò a domare con la vio­lenza una rivolta che minacciava di incri­nare m modo grave un ordine faticosamente conquistato. La narrazione dei fatti segue la successione logico-cronologica, in cui fabula e intreccio coinci­dono, dallo scoppio dell’insurrezione all’intervento dell’esercito e al successivo processo ai responsabili.
Il sistema dei personaggi appare nettamente diviso in due gruppi: da un lato la folla impazzita, ubriaca di sangue; dall’altro le vittime, i cappelli.
I protago­nisti sono colti nel loro ruolo rispettivamente di persecutori e di perseguitati, colpiti, questi ultimi, da una vendetta che non risparmia neppure i più deboli o indifesi.
I contadini, in genere salariati a giornata chiamati coppole per i caratteristici berretti rotondi, non hanno un’identità precisa: sono soprattutto voci furibonde, prima ancora che volti, e ver­ranno indicati con un nome o un riferi­mento al mestiere solo dopo la tragedia, quando diventeranno vittime a loro vol­ta e subiranno l’arresto e la prigione.
I galantuomini sono invece meglio deli­neati e rappresentano una classe sociale più differenziata rispetto a quella dei contadini: sono, infatti, esponenti della borghesia (il notaio, lo speziale), del clero (il prete) e dell’aristocrazia (il barone, la baronessa), ma il denaro che possiedono o il potere che esercitano non li salvano dalla furia omicida degli oppressi.
Il narratore esterno e oggettivo, come esige la poetica del Verismo, mani­festa m questa novella un punto di vista complesso. Egli, infatti, non divide i per­sonaggi semplicemente m «buoni» e «cattivi», ma coglie ed esprime le sfuma­ture del loro comportamento. Così nel giorno della strage i contadini sono de­scritti come lupi feroci a caccia della pre­da, ma nel racconto dei mesi successivi se ne sottolinea la miseria e la sofferen­za, un calvario che si conclude con un processo-farsa. Allo stesso modo i signori appaiono vittime della crudeltà e della follia dei braccianti, ma non sono esenti da colpe, la cui denuncia è messa dal narratore in bocca ai persecu­tori (A te prima, barone) che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!’).

Sciorinarono[12] dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: - Viva la libertà! –
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini[13], davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche[14]; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe[15] in una stradicciuola.
- A te prima, barone! che hai fatto nerbare[16] la gente dai tuoi campieri[17]! - Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! - A te, ricco epulone[18], che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì[19] al giorno!
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai galantuomini! Ai cappelli![20] Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! -Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. - Perché? perché mi ammazzate? - Anche tu! al diavolo! - Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. - Abbasso i cappelli! Viva la libertà! - Te’! tu pure! - Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché[21] sono in peccato mortale! - La gnà[22] Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e rimpieva la Ruota[23] e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. - Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse - lo speziale[24], nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. - Paolo! Paolo! - Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello[25].
Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. - Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere[26] di cinquant’anni - e tremava come una foglia. - Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!
Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! - Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto[27], colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. - Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! - Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! - Te’! Te’! - Nelle case, su per le scale, dentro le alcove[28], lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate[29], perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. - Viva la libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - I campieri dopo! - Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata - e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: - Mamà! mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo[30] del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi[31] della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio[32], fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi[33]. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
Aggiornava[34]; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello[35] sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. - Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! - Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino.
- Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! - Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo[36], avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! - Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa![37] - E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? - Ladro tu e ladro io -. Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! - Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale[38], quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna[39], e dicendo - ahi! - ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade[40] color d’oro, trafelate[41], zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo[42] costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie[43], e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: - Sta tranquilla che non ne esce più -. Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci[44].
Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia[45] - ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui![46]
Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano[47] fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: - Sul mio onore e sulla mia coscienza!...
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In galera? - O perché? Non mi è toccato neppure un palmo[48] di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!...

L’eccidio di Bronte
da Da Quarto al Volturno: Noterelle di uno dei mille di Giuseppe Cesare Abba

L’eccidio di Bronte raccontato dal garibaldino Giuseppe Cesare Abba nel suo libro “Da Quarto al Volturno: Noterelle di uno dei Mille”. L’opera (la più nota di Abba), redatta in forma di diario, rievoca la vicenda garibaldina in toni quasi celebrativi; il tempo intercorso tra i fatti e la stesura (fu scritta “dopo vent’anni”) contribuisce a dare un tono idealizzato e rievocativo alla storia.

“15 agosto… Bixio in pochi giorni ha lasciato mezzo il suo cuore a brani, su per i villaggi dell’Etna scoppiati a tumulti scellerati.
Fu visto qua e là, apparizione terribile. A Bronte, divisione di beni, incendi, vendette, orgie da oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi.
Bixio piglia con sé un battaglione, due; a cavallo, in carrozza, su carri, arrivi chi arriverà lassù, ma via.
Camminando era un incontro continuo di gente scampata alle stragi.
Supplicavano, tendevano le mani a lui, agli ufficiali, qualcuno gridando:
- Oh non andate, ammazzeranno anche voi!
Ma Bixio avanti per due giorni, coprendo la via de’ suoi che non ne potevano più, arriva con pochi: bastano alla vista di cose da cavarsi gli occhi per l’orrore! Case incendiate coi padroni dentro; gente sgozzata per le vie; nei seminari i giovanetti trucidati a pié del vecchio Rettore.
- Caricateli alla baionetta!.
Quei feroci sono presi, legati, tanti che bisogna faticare per ridursi a sceglier i più tristi, un centinaio.
Poi un proclama di Bixio è lanciato come lingua di fuoco: “Bronte colpevole di lesa umanità è dichiarato in istato d’assedio: consegna delle armi o morte: disciolti Municipio, Guardia Nazionale, tutto: imposta una tassa di guerra per ogni ora sin che l’ordine sia ristabilito”.
E i rei sono giudicati da un Consiglio di guerra. Sei vanno a morte, fucilati nel dorso con l’avvocato Lombardi, un vecchio di sessant’anni, capo della tregenda infame. Fra gli esecutori della sentenza v’erano dei giovani dolci e gentili, medici, artisti in camicia rossa.
Che dolore! Bixio assisteva cogli occhi pieni di lagrime.
Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! ma niuno osò più muoversi. Sia pur lontano quanto ci porterà la guerra, il terrore di rivederlo nella sua collera, che quando si desta prorompe da lui come un uragano, basterà a tenere quieta la gente dell’Etna. Se no, ecco quello che ha scritto: “Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi, in nome della giustizia e della patria nostra, vi struggiamo come nemici dell’umanità”.
Vive chi ricorda d’una sommossa avvenuta per quei paesi lassù, sono quarant’anni. Un generale Costa v’andò con tremila soldati e quattro cannoni, ma dové dare di volta senza aver fatto nulla.
E sul finire del secolo passato, il titolo di duca di Bronte, fu dato a Nelson. Bixio che titolo gli daremo? Non questo che fu di chi strozzò Caracciolo!”

Grazie, ma la Sicilia non ha la forza.
da Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa di Lampedusa

Avvenuta l’annessione della Sicilia al nuovo Regno di Italia, anche attraverso brogli elettorali (la notte dell’addomesticato plebiscito), da Torino giunge a Donnafugata l’emissario piemontese Chevalley per proporre al Principe la nomina a senatore.
L’operazione di ‘investitura’ sembrava essere un’azione di routine, ma si trasforma in un atto insolito che racchiude la chiave di lettura di tutto il romanzo. Giuseppe Tomasi di Lampedusa di Lampedusa mostra, in questo brano, la reazione di una parte dell’aristocrazia meridionale, all’Unione del Regno d’Italia, diagnosticando la causa di questa reazione, ad una questione generazionale.
Il brano inizia con il rifiuto del Principe alla proposta di Chevalley di entrare a far parte del Senato del nuovo Regno d’Italia.
Più che un dialogo, il brano è un lungo monologo, in cui la voce di Chevalley si fa sentire solo per brevi tratti, mentre prevale quella del Principe don Fabrizio di Salina, protagonista del romanzo.
Don Fabrizio si mostra come il rappresentante di una classe sociale vecchia di secoli in una Sicilia da tempo sotto­posta alle dominazioni straniere e incapace di considerare lo Stato come promotore di un onesto vivere civile.
Attraverso uno stile ampio, dai periodi ben costruiti e riccamente articolati, il princi­pe si rivela una persona di vasto respiro culturale, che sa giungere a sintesi geografiche, storiche e sociali notevoli, in cui mostra un grande attaccamento alla sua terra, un amore per la sua gente, ma anche la consapevolezza di essere ad una svolta storica importante, che non tutti sono in grado di comprendere e di saper interpretare.
Il principe rifiuta, sentendosi troppo legato al vecchio mondo siciliano, e dichiara la sua inadeguatezza e indi­ca una persona certo meglio ‘degna’ di lui: don Calogero Sedàra, di origine borghese. Egli si pone come antagoni­sta nei suoi confronti, in quanto ad origine risulta sicuramente più idoneo a comprendere la nuova situazione. Si nota una vena di amarezza nelle parole dal tono pro­fetico del protagonista, quasi un’ombra di morte si stendesse sulla sua casata e insieme sulla Sicilia aristocratica che perde terreno, dopo l’avvento dei garibaldini, visti quasi come bravi ragazzi un po’ monelli.
Nel dialogo con Chevalley, il principe di Salina spiega ampiamente il suo spirito di sicilianità con un misto di cinica realtà e rassegnazione. Spiega che i cambiamenti avvenuti nell’isola più volte nel corso della storia, hanno adattato il popolo siciliano ad altri ‘invasori’, senza tuttavia modificare dentro l’essenza e il carattere dei siciliani stessi. Così il presunto miglioramento apportato dal nuovo Regno d’Italia, appare al principe di Salina come un ennesimo mutamento senza contenuti, poiché ciò che non muta è l’orgoglio del siciliano stesso. Egli infatti vuole esprimere l’incoerente adattamento al nuovo, ma nel contempo l’incapacità vera di modificare sé stessi, e quindi l’orgoglio innato dei siciliani.
E cercando di raccontare al suo ospite la capacità di adattamento che i siciliani, sottoposti nel corso della storia all’amministrazione di molti governanti stranieri, hanno dovuto giocoforza sviluppare. E anche la risposta di Don Fabrizio è emblematica: “...E dopo sarà diverso, ma peggiore.”

Alle quattro del pomeriggio il Principe fece dire a Chevalley[49] che lo aspettava nello studio. Era questo una piccola stanza con ai muri sotto vetro alcune pernici imbalsamate, di quelle grigie a zampette rosse stimate rare, trofei di cacce passate; una parete era nobilitata da una libreria alta e stretta colma di annate di riviste matematiche; al di sopra della grande poltrona destinata ai visitatori, una costellazione di miniature di famiglia: il padre di Don Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carnagione e sensuale di labbra quanto un Saraceno, con la nera uniforme di Corte tagliata a sghembo dal cordone di S. Gennaro; la principessa Carolina, già vedova, i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura a torre ed i severi occhi azzurri; la sorella del Principe, Giulia, la principessa di Falconeri seduta su una panca da giardino, con alla destra la macchia amaranto di un piccolo parasole poggiato aperto per terra ed alla sinistra quella gialla di un Tancredi di tre anni che reca dei fiori di campo (questa miniatura Don Fabrizio se l’era cacciata in tasca di nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa Falconeri). Poi più sotto, Paolo il primogenito, in attillati calzoni da cavalcare, in atto di salire su un cavallo focoso dal collo arcuato e dagli occhi sfavillanti; zii e zie varie non meglio identificati, ostentavano gioielloni o indicavano, dolenti, il busto di un caro estinto. Al sommo della costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura più grande: Don Fabrizio stesso, poco più che ventenne con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nell’uniforme azzurra e argentea delle Guardie del Corpo del Re[50] sorrideva compiaciuto col volto incorniciato dalle basette biondissime di primo pelo.
Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: “Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna[51], è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali sono state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all’esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e, come è ovvio, a Girgenti[52] si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l’attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti.” Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino[53] che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo. Immobile la zampaccia dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo.
Ormai avvezzo alla sornioneria[54] dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa, Chevalley non si lasciò smontare: “Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superiori hanno creduto dover informare lei stesso, e farle chiedere se questa proposta sarebbe di Suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale le autorità sperano molto è stato l’oggetto della mia missione qui, missione che per altro mi ha valso l’onore e il piacere di conoscere Lei ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto pittoresca.”
Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l’acqua dalle foglie delle ninfee[55]: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono allo stesso tempo orgogliosi ed abituati ad esserlo. “Adesso questo qui s’immagina di venire a farmi un grande onore” pensava “a me, che sono quel che sono, fra l’altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev’essere press’a poco come essere senatore. È vero che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi dà il suo pezzo di pecorino mi fa un regalo più grande di Giulio Làscari quando m’invita a pranzo. Il guaio è che il pecorino mi dà la nausea; e così non resta che la gratitudine che non si vede e il naso arricciato dal disgusto che si vede fin troppo.” Le idee sue in fatto di Senato erano del resto vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato Romano al senatore Papirio che aveva spezzato una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore questo che soltanto suo figlio Paolo non avrebbe trovato eccessivo; lo infastidiva anche il riaffacciarsi insistente di una frase detta talvolta da Padre Pirrone: “Senatores boni viri, senatus autem mala bestia.” Adesso vi era anche il Senato dell’Impero di Parigi, ma non era che una assemblea di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi era stato un Senato anche a Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civici, e di quali amministratori! Robetta per un Salina. Volle sincerarsi: “Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po’ che cosa è veramente essere senatori. La stampa della passata monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e un soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente a illuminarmi. Cosa è? un semplice appellativo onorifico, una specie di decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative? [56]
Il Piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano, s’inalberò[57]: “Ma, Principe, il Senato è la Camera Alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostro paese prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi che il Governo o essi stessi propongono per il progresso del paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia[58], incita al ben fare, impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei rappresenterà la Sicilia alla pari dei deputati eletti, farà udire la voce di questa bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudire.”
Chevalley avrebbe forse continuato a lungo su questo tono se Bendicò[59] non avesse da dietro la porta chiesto alla “saggezza del Sovrano” di essere ammesso; Don Fabrizio fece l’atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tanta mollezza da dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui; Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley; dopo, persuaso di aver da fare con un buon uomo si accovacciò sotto la finestra e dormì.
“Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l’impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono[60].”
“Ma allora, principe, perché non accettare?”
“Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia[61] di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli[62]. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto ‘adesione’ non ‘partecipazione’. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala[63], troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene; il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate[64], nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.”
Adesso Chevalley era turbato. “Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato”.
“L’intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra[65], che non comprende nulla, che s’impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester[66], e che agogna[67] soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale[68] sotto il letto[69].”
Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l’indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagagliaio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche[70], anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera[71] o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana[72]. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto[73].”
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati[74] e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici[75], ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: “Ma non le sembra di esagerare un po’, principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi[76] per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni.”
Il Principe si seccò: “Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio[77]. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri[78] hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo[79] e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia[80]; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche[81] e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità[82] di animo.”
L’inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina[83]. Volle dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo.
“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dell’isola possano riuscire a smagarsi[84]: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. Ma mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è venuto sin qui per udire Ezechiele[85] deprecare le sventure d’Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento. Sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere a chi di dovere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza[86] in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due[87]. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà d’ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco[88]. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al ‘come’ più che al ‘perché’ e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche.” Tacque, lasciò in pace San Pietro. Continuò: “Posso dare a Lei un consiglio da trasmettere ai suoi superiori?”
“Va da sé, principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare che invece di un consiglio vorrà darci un assenso.”
“C’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedàra; egli ha più meriti di me per sedervi; il casato[89], mi è stato detto, è antico o finirà con esserlo; più che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi del Maggio[90] scorso più che ineccepibile è stata utilissima; illusioni non credo che ne abbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. È l’individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perché ho inteso dire che vuol porre la propria candidatura alla camera dei deputati.” Di Sedàra si era molto parlato in Prefettura, le attività di lui quale sindaco e quale privato erano note; Chevalley sussultò: era un onest’uomo e la propria stima delle camere legislative era pari alla purità delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece bene a non compromettersi perché, infatti, dieci anni più tardi, l’ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio[91]. Benché onesto, però, Chevalley non era stupido; mancava sì di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma si rendeva conto delle cose con lenta solidità, e poi non aveva l’impenetrabilità meridionale agli affanni altrui[92]. Comprese l’amarezza e lo sconforto di Don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo di miseria, di abiezione[93], di nera indifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato l’opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignicciuola[94], il suo Monterzuolo vicino a Casale[95], brutto, mediocre, ma sereno e vivente; ebbe pietà tanto del principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime[96] i cui elenchi giungevano così spesso al suo ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo.
Volle fare un ultimo sforzo: si alzò e l’emozione conferiva pathos alla sua voce: “Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedàra; e tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori.”
Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: “Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; Lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: ‘i Siciliani vorranno migliorare.’ Le racconterò un aneddoto personale. Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi non si erano fatti una idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni[97] rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall’altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. ‘They are coming to teach us good manners’ risposi ‘but wont succeed, because we are gods.’ ‘Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.’ Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero[98], quanti scribi degli Svevi[99], quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico[100] hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III[101]; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?
“Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon[102] e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome[103], che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è il feudalesimo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalesimo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires[104] inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve ritrovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia[105] in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male.
“È tardi. Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per qualche ora la parte di un uomo civile.”

Le verità nascoste dai piemontesi e gli attentati dei briganti.
da L’eredità della Priora
[106] di Carlo Alianello[107]
Alianello non è scrittore omologato e polemizza con gli stereotipi che la storia tradizionalmente fornisce. Questo romanzo può essere accostato a quello di Tomasi di Lampedusa creando un topos letterario: il Gattopardo.
Il Gattopardo è un aristocratico che prende le distanze dalla liberazione del Sud da parte dei Piemontesi. Quindi, Alianello e Tomasi di Lampedusa hanno in comune la distanza dai Piemontesi e dall’idea che essi hanno avuto della Storia. Tanto per il distaccato Tomasi di Lampedusa quanto per l’appassionato Alianello, la storia è fatta dai vincitori, ma deve essere ampliata anche con il punto di vista dei vinti, per rendere chiari gli eventi.
Esistono molte opere che possono essere messe a confronto con l’opera di Alianello: egli stesso ha pubblicato opere con caratteristiche simili, come ‘L’alfiere’ e ‘La conquista del Sud’. Inoltre, questo romanzo e quello di Tomasi di Lampedusa hanno molti punti in comune: entrambi cercano di far chiarezza sul periodo post-unitario italiano, fornendo il punto di vista della parte vinta. I due romanzi esprimono le stesse tesi, come quella dell’importanza della ‘controstoria’ come approfondimento sugli avvenimenti citati dai libri di storia ed entrambi si servono di personaggi comuni e di nobili per facilitare il lettore ad inserirsi nella società del tempo e per cercare di mostrargli le varie sfaccettature di quella società.
L’eredità della Priora è un romanzo che va controvento, poiché cerca di mostrare un volto diverso di una parte della storia che a noi è mostrato in maniera parziale e troppo oleografica.
Questo è un romanzo al quale non manca nulla: contiene valori forti come la fede e sentimenti forti come l’amore per la patria e l’amore per una donna.
Alianello riesce a magnetizzare l’attenzione del lettore, inserendo, in un contesto storico-politico molto teso, sentimenti come l’amore e riflessioni sulla fede religiosa che aggiungono quel pò di sale, tanto da creare un romanzo avvincente e ricco di contenuti.
Questo romanzo non è stato molto recensito, forse perché non ha mai avuto un grande successo o forse perché Alianello era considerato un autore scomodo, per la sua visione controtendenza dell’Unità d’Italia: essa, infatti, non fu appoggiata da tutti mentre gli unitaristi volevano lasciar credere che l’unità d’Italia fosse avvenuta in un’aureola di eroismo.
Giovanni Caserta descrive il libro di Alianello come un romanzo figlio del Gattopardo, con la differenza che Alianello prova astio per i Piemontesi e, forse, proprio quest’astio porta l’autore ad esagerare in alcuni aspetti che, comunque, il critico considera veritieri. Caserta lascia intendere come Alianello non fosse visto di buon occhio dai patriottici che lo considerarono scomodo per le sue idee.
Un romanzo che contiene storie intriganti ed interessanti e che riesce anche a dare un insegnamento o, quanto meno, ad indurre ad una profonda riflessione. Questo romanzo è un’opera che risponde a tutte le caratteristiche del best seller e può essere considerato tale.
Nel 1963, quando l’Italia viveva uno dei suoi periodi più floridi dal punto di vista economico e sociale, quando l’Italia del miracolo economico si identificava con Torino capitale dell’industria italiana, quando Luigi Firpo dalla televisione di stato denigrava gli immigrati del Sud che piantavano basilico nelle vasche da bagno, l’autore decise di avvalorare la sua tesi, mettendo in discussione l’impresa fatta 100 anni prima dal Regno di Sardegna, in particolare quella attuata da Garibaldi nell’unificazione della penisola.
Il Regno d’Italia è stato Unificato. Tutta la città si trova ad una festa per ricordare i caduti di Belfiore e Mantova. Mentre il sindaco ricorda le vittime di quei paesi, esplode don Rocco Brienza, che comincia una forte critica al popolo e alla politica piemontese. Dopo questa accesa discussione, gli invitati alla festa assistettero ad una triste scena: un omicidio commesso dai briganti.
Bàrberi Squarotti ha scritto di Carlo Alianello: «ciò che mi ha sempre interessato e piaciuto in Carlo Alianello è stato il carattere non conformista. Di Garibaldi, Alianello parlò male tante volte, e anche delle rivoluzioni dei democratici, del Risorgimento e di tanti altri mostri sacri. Il parlar male del Risorgimento avrebbe potuto, sì, ottenergli anche approvazioni e consensi, soprattutto da quando è diventato di moda trattarlo come un errore o, addirittura, un sopruso, che avrebbe fatto di uno Stato avanzatissimo, prospero, sereno, come il regno del Sud, un paese coloniale, oggetto di feroce sfruttamento: ma Alianello aggiungeva alla condanna del Risorgimento sabaudo la simpatia per i Borboni, la celebrazione della fedeltà militare al giuramento al re, un cattolicesimo tradizionale con il rifiuto pressoché totale del mondo moderno».
E se andava bene il parteggiare dello scrittore per i briganti filoborbonici, anch’essi oggetto di lodi e inni postumi da parte della pubblicistica ‘di sinistra’ in questi anni, ecco che poi Alianello impostava la sua rappresentazione del brigantaggio in termini di nobile lotta per il trono e l’altare, che veniva a piacere molto meno. Questa coincidenza delle posizioni ideologiche di Alianello con le mode culturali spiega come i suoi due romanzi più filoborbonici, “L’alfiere” del 1943 e “L’eredità della priora” del 1963 siano stati pubblicati rispettivamente da Einaudi e da Feltrinelli; e l’immagine dello scrittore ha finito per esserne un poco distorto.
Alianello sceglie la struttura del romanzo storico in funzione del punto di vista e delle idee con cui affronta non soltanto aspetti e situazioni del Risorgimento, ma più ampie questioni storiche, umane, religiose.
La fedeltà al trono, nella narrazione della fine del regno borbonico ne “L’alfiere”, nella rappresentazione del brigantaggio ne “L’eredità della priora”, nella celebrazione della repressione borbonico del maggio 1848 contro i liberali e i fautori della costituzione in “Soldati del re”, del 1953, è immagine della fedeltà a Dio e alla Chiesa.
Al di là degli schemi fissi, al di là della fortuna e decadenza delle istituzioni, bisogna saper vedere gli uomini e la loro vita concreta, che spesso è anche una vita talmente condizionata da non permettergli di esprimere quello che avevano dentro. Com’erano italiani anche i borbonici sconfitti, così bisogna sempre diffidare di chi vince e impone la sua storia.
Emblematico è il discorso fatto da don Rocco il giorno della presentazione degli ufficiali piemontesi. In quel giorno fu fatta una festa ed il sindaco presentò gli ufficiali come fossero eroi, ricordando i morti delle popolazioni del Nord per ottenere quest’Unità. Questo discorso presentò la popolazione del Sud come privilegiata e don Rocco si alzò esausto dalla sedia ed evidenziò con toni forti che il Sud non aveva nulla da rendere al Re, poiché anch’essi avevano i loro eroi, facendo notare che erano più i cadaveri meridionali degli eroi settentrionali. Don Rocco aggiunse che la conquista del Sud fu anche un vantaggio per i Piemontesi. Fu grazie all’unione col Sud che si poterono pagare le spese di guerra, prosciugando le casse della banca di Napoli, una delle banche più ricche d’Europa. Queste azioni predatorie attuate dai Piemontesi avevano creato un malcontento comune nel popolo, dovuto ad un aumento della disoccupazione ed al conseguente impoverimento del Sud.

“Cittadini!”
“L’Italia, questa classica terra, oramai non è più la terra delle rimembranze e dei rimpianti. Noi cittadini di essa, non più piangeremo sulle perdute grandezze degli avi! Pur noi vediamo le mura e gli archi e le colonne e i simulacri e l’erme torri, ma, più fortunati incomparabilmente del poeta, abbiamo potuto mirar con le pupille nostre la gloria e il lauro e il ferro. Goito, Palestro, San Martino, Gaeta[108]... Ferro e sangue, ferro e gloria... Però, non vi stupite, signori, se io ho l’ardimento di svelarvi un mio riposto pensiero: forse queste fronde d’allo­ro sarebbero ancor poche, ancor modesta gloria al confronto delle corone dei padri antichi, se non le indorasse una fiaccola che essi non conobbero mai: voglio dire la libertà! Ora Monarchia e Libertà si hanno dato l’amplesso di virtù e questo amplesso si chiama Statuto[109].
“La nostra terra lucana, oggi negletta e devastata da pochi perfidi, fu un tempo gloriosa, quando la reggeva dai suoi castelli dì Lagopesole e di Melfi il grande Federico[110], antesi­gnano dei tempi novelli, amico del popolo, aquila eletta d’im­periale grandezza, nemico dei papi, come quello che non teme sfidare la scomunica, oggi fulmine imbelle, ma allora, in tempi barbari, poderoso strumento di guerra, per amore dell’intatta e intangibile libertà del pensiero. Ma, dopo quei dì felici, parve che il sole non sorgesse più sui nostri monti e fu eterna notte! “
Qui il sindaco fece una pausa; sbuffò e s’asciugò il sudore. Andrea guardò il prete liberale che, tutto spaparanzato sulla poltrona, si grattava un ginocchio e faceva di sì con la testa, serio serio.
Nel silenzio s’intese ancora lontano un brontolare di tuo­no, sordo e continuo.
“Oggi il sole, affé[111] di Dio, è tornato tra noi,” riprese il sin­daco, ma il rombo d’un tuono, uno schianto vicino e perentorio, gli troncò la parola; qualche signora lanciò un gridolino, qual­che uomo impallidì. Il sindaco sorrise sdegnoso: “Sprechi pure tutti i suoi fulmini Giove, io inneggio al sole. Quel sole che nessuna nuvola può velare, che nessun moto del nostro globo, vuoi di rotazione, vuoi di rivoluzione, può nasconder­ci! Quel sole, che io mi onoro di mentovare, si chiama: Vittorio Emanuele!”
Scoppiò un forte applauso.
“Signori,” riprese il sindaco, “cos’è lo statuto? È arra, ga­ranzia di libertà, libertà esso medesimo. La libertà invocata da mille martiri, conseguita con sudore, con sangue, con languo­re di italiani infiniti ha un nome: Statuto.
“O i martiri di Belfiore[112]! O le fosse di Mantova...”
Ma s’interruppe bruscamente perché in piedi su una seg­giola contro la parete della sala si dimenava freneticamente un uomo piccolo, nero e secco, con una faccia spiritata di prete spretato, ma scattante, sfrontato, che faceva di no con il brac­cio, che no, che non è vero.
“Eh?” fece il sindaco sbalordito. “Che vuole don Rocco Brienza?” E spiegò: “Eccellenza, signor governatore, quello è un martire che ha provato la galera borbonica.,. Neh, tu che vuoi don Ro’?”
“Ma che Belfiore e Mantova mi vai contando?” urlò quello. “Solo loro si credono che hanno fatto l’Italia! E noi? Io ri­spetto quei morti, i morti degli altri, ma vanto i miei. Questo è il bis del fatto di Curtatone e Montanara[113], dove hanno com­battuto i napoletani, ricacciando il nemico, e il vanto se lo so’ pigliato i toscani fuienno fuienno...
“In questa provincia... duecentomila anime... che so’? Man­co na città...” disse solenne, ma con una voce aguzza, più che stridula, don Rocco Brienza, ex curato, “dal 1799 a tutt’oggi, sono morti impiccati, assassinati, fucilati, condannati a carcere a vita, più di tremila persone, e io tengo i nomi segnati uno per uno, tutti per amore di libertà... E nessun re gli ha teso la mano, nessun patto tra tiranno e popolo, statuto nessuno. E, se questi signori che vengono dal Piemonte, dalla Lombar­dia, dalla Toscana, possono provare che a casa loro, in una città sola, in una provincia sola, i martiri del nostro risorgi­mento sono stati tanti o più... ebbene, allora noi ci leveremo il cappello e parleremo parole d’umiltà; ma fino allora, no. Ognuno si tenga i martiri suoi e vanti quelli.[114]
Saltò giù dalla sedia e si rimise a sedere. Un alto brusio riempì subito la sala. La gente parlava ad alta voce, rideva l’uno chiamava l’altro: “Ha ditto buono... Che buono e buo­no... siamo fratelli o no? Neh, Vide, io ci mettessi ‘a firma... Ma non qua, non in questa occasione, avanti alle autorità... E tu quanno caspeta glielo vuò fa senti? Educazione, educazione... E dobbiamo essere fatti fessi per omnia saecula saeculorum? Viva l’Italia!”
Il giudice già si tirava su dalla poltrona, don Ciccio correva dall’uno all’altro supplichevole, mentre il governatore allun­gava il collo magrissimo verso don Rocco Brienza, per veder­selo meglio, e il generale comandante il presidio si tirava furio­samente un baffo, quando il sindaco salvò la situazione.
Si volse al capobanda che gli stava al fianco nella tenuta di sotto luogotenente della guardia nazionale e gli soffiò: “Guagliò, ‘a marcia rriala!”
Quello sorrise e fece un cenno. Il tamburo rullò e tutti si azzittirono stupefatti. Ma era solo un preludio; subito sbot­tarono e svolazzarono per la sala le note fracassone e frivole della Marcia Reale.
Quando l’inno fu terminato con uno zum! perentorio, in­cominciarono le danze.
Anche Andrea ballò con Isabellina la quale non volle accet­tare inviti da nessun altro, quasi fosse già la sua fidanzata. Andrea era in uno di quei momenti non rari in lui in cui la giovinezza gli risaliva d’improvviso a galla, impetuosa e gaia. Miracolosamente e spesso senza una ragione che apparisse, la tensione continua di stare all’erta e sulla difesa non c’era più, dimenticata, e lui tornava ad essere l’uomo dì prima, anzi il ragazzo d’un tempo. Assommava da acque profonde per guar­dare ancora all’avvenire ridendo. Tutto lo eccitava: la musica languida dove è facile abbandonarsi al ritmo, i visi gai delle donne, le facce accaldate e quasi truci degli uomini tutti presi nell’impegno inconsueto di tenersi in braccio una donna che non è loro e portarla debitamente, come delicatissima porcella­na, dentro quei ghirigori di passi e di note” di cui non avevano l’abitudine, i tremila martiri di don Rocco Brienza e la co­mica esultanza, se questa parola vien dal verbo saltare o saltellare, del generale Chabet che aveva imbracciato la moglie del sindaco, un cosino minuscolo, magra magra e svelta svelta, e la costringeva a un ballonzolo meditato e sempre il mede­simo, tre passi avanti, tre di lato e una piroetta.
Lo rallegrava soprattutto quella mescolanza confusa, tra­scinata, saltellante, franta che il valzer faceva vorticare in giro, mentre i flautisti e i sonatori di cornetta dondolavano la testa qua e là a seguire il ritmo, come marionette impassibili.
Il sentirsi poi tra le braccia il corpo fragile e morbido d’Isabellina che gli pareva la più bella della festa, lo trasportava fuori di ogni realtà. Solo questo è verità, il resto è sogno. Domani questi uomini, queste uniformi, queste facce, non saranno più qui o non saranno più[115].
Altra gente, altre divise, altra allegria... domani.
E lui è lì a preparare questo domani, ma loro non lo san­no; come se il suo io vero fosse invisibile. Ci aveva pensato tante volte da ragazzo: che avrebbe fatto se avesse avuto l’anello di Gige[116], quello che ti nasconde agli occhi di tutti?
Cercò con lo sguardo Gerardo e lo vide subito nel folto della mischia, abbracciato senza tante delicatezze a una bruna giunonica che rideva forte, mentre ballava come se andasse alla carica, con giri vorticosi e imprevedibili passi; pareva si divertisse, ma il viso l’aveva assorto, anzi cupo.
C’era un gruppo di galantuomini in marsina che faceva­no circolo attorno a un capitano piemontese e parlavano forte, gesticolando.
Il capitano aveva afferrato per un bottone della sciammeriga[117] don Rocco Brienza e scrollava il capo, non per sdegno, ma per rimproverarlo bonariamente, con una voce pastosa, tutta di petto:
“Ch’ai scusà... che mi scusi... Va bene che il primo uomo che disse la verità l’impiccarono, ma... ma ma. Quel che lei ha detto l’è mica una cosa patriottica. Che si metta bene in mente che siamo tutti fratelli... anche se c’è qualche differenza tra noi e voi. Ma i martiri di Belfiore, boia d’un mondo, non si toccano! Italianissimi quelli, italiani noi, e an­che voi.”
“Non è ‘o vero,” disse don Rocco. “Noi siamo italiani, di razza, voi no. Però mi dovete fare la finezza di credere che io non parlo di Napoli città o di quelli della pianura. Parlo dei montanari dell’Appennino, dagli Abruzzi in giù fino alla Calabria. Diciamo: dall’Aquila a Lagonegro.”
“Come? Come?”
“Noi siamo italici e voi... nu poco ‘e tutte cose[118]... francesi tedeschi, alpini, magari svizzeri, ma italici no[119]. Abbiamo dor­mito, e ‘o vero, quanto tempo? Mille anni e più. Embè, ci siamo riposati. La fatica di Roma fu fatica nostra... e mò priate ‘o Pataterno che nun ce vulimmo sveglià n’ata vota.”
“Zitto, zitto, don Ro’,” intervenne il sindaco. “Lassammo sta e ccose defunte. Come dice il poeta? ‘Una d’arme, di lin­gua, d’altare, di memorie, di sangue e di cuor...’ L’Italia, l’Italia nuosta, unita!” E alzò gli occhi al soffitto.
“Quando mai?’ ribattè violento don Rocco. “Tu... qual arme, quale sangue, quali memorie? Forse intendevi tornare addietro, ai tempi di Roma repubblicana e della lega italica? Perché sulamente tanno... allora... Ma questi signori neppure esistevano a chelli tiempe...”
“Ma cosa mi va dicendo di lega italica, lei?” protestò il capitano piemontese che viceversa fino a un paio d’anni prima era stato suddito del Papa. “Mi dica bene...”
“Dico bene, dico bene... che? devo dire male? E perché?”
‘E io,” disse il capitano, “che sarei? Io son di Bologna, ad Buleigna.”
“Voi siete un gallo,” rispose serio serio don Rocco.
“E mia moglie una gallina... Ah, ah ah!” E il capitano scoppiò a ridere. “Mò Té bein una gallina, la mia signora, col suo bravo cocodè! Lei la dovrebbe vedere quando che la porto a passeggio, che la scodinsola col suo crinoline[120]! “
“Il fatto è”, disse don Enrico Maffei, “che sotto i Borboni, noi vi credevamo davvero fratelli. E per questa fratellanza abbiamo rischiato la forca, l’ergastolo, le galere. Non vi sape­vamo ancora e non potevamo supporre, neanche io lo pensavo, che una monarchia ne valesse un’altra... Poesia, poesia. ‘A verità, l’Italia unita l’hanno voluta i letterati. Libertà, egua­glianza, fraternità. Guardatevi attorno e ditemi dove stanno. Voi siete venuti qua come dentro l’Africa selvaggia senza sa­pere niente e ancora v’ostinate a non voler sapere niente. E avete stabilito che siamo inferiori a voi, soltanto perché siamo differenti. Nego. Ma a qualcuno può fare comodo pensarlo, a qualcuno dei nostri persino. Embè... il fratello che fa? Sten­de la mano al fratello. Avreste dovuto venire qua a portarci lavoro, istruzione, il progresso... Non siete quelli che ci hanno redenti dalla barbarie borbonica? Almeno aveste portato la giustizia! E invece ve la siete sbrigata con quattro gendarmi e quattro avventurieri. In questo campo i Borboni sapevano fare meglio. Diamo merito al merito. Il guaio è che adesso la frittata è fatta e come si rimedia più? Ci avete fatti fessi... e così sia. Ma, se si potesse tornare indietro e ricominciare da capo... patti chiarì, amicizia lunga... Altrimenti non entre­reste più con tanta facilità nel Regno di Napoli. E questo tenetevelo bene a mente. Ora, come ora, vi dobbiamo chiamare fratelli a forza e... se no, cosa saremmo noi? Noi, galantuomi­ni liberali?”
“Ma se qui... se il Regno delle Due Sicilie, boia d’un mon­do...” strillò il capitano, “non l’era mica la negassione di Dio?”
Don Enrico alzò le spalle. Era piccolo, sottile, vecchio di suo, ma invecchiato ancor più da molti anni di galera. Portava la capelliera tutta candida fin sul collo, alla trovatore, ed era sbarbato, fuorché due mostaccini lunghi ed esili, bianchi an­ch’essi, che dal labbro gli scendevano a incorniciargli il mento. In ogni sua cosa era netto e asciutto come un grillo.
“Tempo di guerra, caro capitano,” disse don Enrico, “più bugie che terra... e si capisce, quelle che fanno comodo al vin­citore rimangono; le altre cadono... E questa è stata una delle più grosse, un’arma potente. Gladstone[121] che ce l’aveva con i Borboni per la ragione degli zolfi di Sicilia[122] e pure perché... Mbè, tutti sanno perché e non sta a me dirlo; Gladstone cacciò fuori sta frase. E ste parole sono rimaste verità assoluta, indiscutibile, che non falla... E perché? Perché il grande uomo inglese aveva visto da lungi una prigione... che dico? un’isola, dove gli hanno detto che dentro ci stava una prigione... Nisida precisamente. Ma nessuno s’è accorto mai che quello parlava nell’interesse suo o del suo paese. Nisciuno gli ha chiesto: neh, voi che vi scandalizzate tanto... voi che ne fate degli irlandesi? Quanti ne fucilate, quanti ne impiccate, quanti ne bru­ciate con le case e tutto? Ci volete fare la finezza di mostrarci le prigioni irlandesi? O di carceri state nu poco scarsi perché i vostri ribelli ve li cucinate uno per uno con le mani del boia? Subito subito? A l’ampressa? Io sono stato a Londra, esule, e non m’hanno trattato male... Però... non ho mai visto tanto ghiaccio tra uomo e uomo. E chella terra fredda, ambiziosa, spietata, dovrebbe essere l’affermazione di Dio? ‘A verità, da­vanti a un poverello londinese, ogni lazzaro napoletano è nu re! E la prigione dei debitori? Na cosa puzzolente. Da noi erano anni che ce n’eravamo scordati. Gladstone ha fatto il dovere suo d’inglese e di protestante; la bugia però resta bugia.”
Ma come?” chiese sbalordito il capitano che aveva sentito spesso vantare il Maffei per il nemico più acre in Potenza del passato regno. “Lei parla cosi? Lei che è stato tanti anni legato con la catena infame del galeotto?”
Don Enrico si tirò uno dei mustacchi e crollò la testa. Lui era un mazziniano di stretta osservanza, un misto di soldato, di monaco e di cospiratore. Ma era anche un uomo giusto. Due anni più tardi il generale Bixio avrebbe voluto trapassarlo con la sciabola da parte a parte, se non lo avessero trattenuto, per avergli sentito dire qualche verità spicciola, ma spiacevole.
“Io,” disse, “ho pagato quanto dovevo e forse meno di quanto mi spettava. Sapevo quello che costava il cospirare: tanto di forca, tanto d’ergastolo, tanto di catena. Mi sono fatti i conti prima, da me, dentro le tasche mie, e ho detto: si può sopportare la spesa. E m’è andata bene. M’è andata bene, perché sono nato qui. Se Ferdinando II avesse avuto il cuore piissimo di Carlo Alberto, nel ‘36, quando atterrito dall’eco lontana di Mazzini, faceva fucilare i repubblicani a dozzine, a quest’ora io ero bell’e morto, sepolto o gettato in chissà che fossa con svariate pallottole nella schiena. Non avete letto Mazzini? Non lo sapete che ai prigionieri si negava il sonno e il cibo? Ch’erano tenuti a catena con collari di ferro in antri fetidi? E noi quando l’abbiamo sapute mai ste fetenzie? Eppure chello, crudelissimo, traditore, bombardatore, nisciuno l’ha chiamato Bomba. Mò ‘o stanno facienno pure santo...” “A proposito di Bomba,” aggiunse poi, “voi, noi, tutti, ab­biamo chiamato così quel povero Ferdinando perché ha fatto sparare una mezza dozzina di obici[123] su Napoli ribelle... E sta bene. Ma il vostro re, allora?
“Nel ‘49, questo re, questo Vittorio Emanuele che si fe­steggia qua, adesso, per due giorni ha fatto bombardare Genova dal generale La Marmora[124], accussì, alla brigantesca, dove coglie coglie, chi piglia piglia, per due lunghi giorni, mannaggia! E chi gli può dicere Bomba, Bombette o Bombina? Galantuomo era e galantuomo è rimasto.
“E notate bene che Napoli s’era ribellata al re per cacciar via i Borboni; ma Genova no. Genova voleva soltanto che non la consegnassero agli Austriaci, in pegno dell’armistizio. Ita­liana voleva restare, non tedesca: il che è sommamente pa­triottico, leale, lodevole, ma... a un Savoia tutto è permesso. E... allora come la mettiamo co’ stu re Bomba?”
“Ch’ai scusa...” sbraitò il capitano esterrefatto. “Ma qui, mi dica bene, io sto tra amici o nemici?”
“Tra amici,” lo assicurò una voce sonora, autorevole. “Ma dove è scritto che l’amicizia ha da campare solo di bugie...? Anche quelle ci vogliono, si capisce, ma... guardiamoci negli occhi finalmente.”
Era entrato a parlare un altro galantuomo, alto, smilzo, con un pizzetto grigiastro sul viso bruno. Doveva essere una per­sona d’importanza, distinta, che vestiva con eleganza dignitosa e aveva le mani lunghe, affilate, da artista. Il sindaco lo pre­sentò al capitano: “Questo è don Raffaele Silva. Il nostro mi­gliore chirurgo... Nu spirito, come dire? a modo suo. Com­pone poesie per le signore, suona divinamente il violino...”
Intanto era giunto il momento culminante della festa con la distribuzione dei gelati e dei pasticcini, mentre l’orchestra riposava. Perciò intorno ai galantuomini che discutevano s’era raccolta una piccola folla e quelle voci, vibrando a volta, si levavano sopra il confuso chiacchierio della gente che parlava sottovoce, perché è il parlare basso quello che fa il signore.
“Que dit on là?” aveva chiesto il generale de Rolland. “Que... avviene?” E don Ciccio, il commendatore, che gli stava accanto, s’era affrettato a rassicurarlo: “Niente, niente... È una usanza di qui. I signori che nun vonno ballà, discutono un poco... Come si dice? Fanno nu...”
“Un ludo,” gli suggerì don Totonno Spera, serio serio.
“Come?” chiese sottovoce don Ciccio. “Avvucà, nun me facite dicere fesserie.”
“Il ludo polemico,” ribattè freddamente don Totonno che era infarinato di lettere. E il commendatore ripetè paro paro: “lì ludo polemico, signor generale.”
“Ah!” fece il prefetto. “Très interessant”
“Ma mò finiscono,” lo rassicurò don Ciccio, “quando si riprende il ballo. Intanto pigliateve o gelato. Pure il signor generale don Chabbé...”
Infatti veniva trionfante verso di loro il sindaco, che aveva lasciata a mezzo la discussione, scortando un valletto in polpe e una guantiera o, diremo meglio, un vassoio, colmo di pezzi duri, spropositati, montagnole di gelo addirittura.
“Vedete,” diceva il dottor Silva al capitano. “Voi avete sentito le vanterie dei Settembrini, dei Poerio, dei Nisco[125] che, grazie a Dio, sono usciti dalle galere floridi, polputi e pieni di... beh, diremo: pieni di belle speranze. Letterati sono e ‘a forza hann’a fa chiacchiere. Ma io ho letto il libro d’uno dei vostri: Le mie prigioni di Silvio Pellico. Un bellissimo libro. Embè, quello era un uomo e quelle erano prigioni. Chiuso in una cella, con aria poca, cibo scarso e cattivo, che bastava solo a non farlo morire di fame, lui e i compagni, senza nu libro, na parola d’amico, con quelle cotali facce di sbirri at­torno, stranieri, ca si se metteva a fa o capuzziello, voglio dire, se si fosse mostrato indisciplinato, superbo, gli facevano passare i guai suoi... e non dice una parola che non sia digni­tosa, cristiana. E quelli tedeschi erano i suoi oppressori, non italiani. Invece, che ne sapete voi di questi signori eroi napo­letani? Graziati due o tre volte della vita, accrescono l’odio che tenevano in corpo, ricominciano a rifriggere congiure inette, risibili, e tornano carcerati... Embè, lo Stato, qualunque stato si deve difendere, si vò campa, a ragione o a torto, e voi ce ne state dando la prova, per la sua eticità medesima... come ha sottinteso benissimo il mio amico don Enrico Maffei che non s’è vantato mai della sua lunga prigionia. Il Piemonte, sotto Carlo Alberto, s’è difeso. E perché il Piemonte sì e Napoli no? Dal ‘48, il tiranno Ferdinando non ha mandato al pati­bolo nessuno, avete capito? nessuno... e perciò l’hanno fottuto... soltanto uno, per la ragione ch’era un soldato. Il militale, se s’addormenta quando sta in sentinella tu l’uccidi, se scappa in combattimento tu l’uccidi, ma viceversa, se vuole dare na botta ‘e curtiello, un colpo di baionetta al suo generale in capo, al suo Re, no? Quel calabrese, sissignore, che gli menò una baionettata alla rivista... lassammo sta ‘o nomme; nun me piace. Un traditore, comunque sia, è un traditore...”
“Caro signore,” ghignò il capitano, “quando c’è di mezzo l’unità d’Italia! L’è un’idea ben grande sa! E quell’uomo s’è sacrificato... un eroe.”
“Un eroe, sissignore. Però mi faccio lecito di dirvi che non c’è nessuna idea umana che valga più dell’uomo; la parte più del tutto. Un eroe? Soltanto, se quel re invece di chiamarsi Ferdinando, si chiamava Vittorio Emanuele, e quel soldato invece d’essere un Cacciatore a piedi, fosse stato un bersagliere che voleva scannare il suo Re per un’idea anche più grande... mettiamo l’unità dell’Europa, quel mio signore... e dimmelo pure stu nomme! quell’Agesilao Milano[126], non l’avreste messo al muro e fucilato come traditore e carogna fetente? È ‘o vero? Lo vedete che il poeta si sbaglia e noi non siamo eguali né di lingua né di cuore[127]?”
“Ma... ma...” barbugliò il capitano, “l’è una cosa tutta dif­ferente...”
“Nossignore,” ribattè don Raffaele. “Per noi ogni uomo è un mondo, tutto il mondo intiero, e ogni uomo è pure un figlio di mamma che n’è costato lacreme! Non c’è differenza. Ha pianto e ha fatto piangere, anche se è re; una cosa tremen­da e santa, l’uomo. Ci ammazziamo anche tra noi, è vero, ma i nostri uccisi non sono mai numeri, morti in astratto... d’ognu­no ci rimane almeno un gemito nel cuore, perché ogni uomo è lui, unicamente lui, e non può essere un altro, e soltanto per questo l’abbiamo ucciso. ‘E capite ste ccose? Ogni tradimento è eguale a ogni tradimento, ogni delitto a ogni altro delitto, perché nun ci sta nessuna verità che lo cancella, siccome la verità è una cosa astratta e l’uomo, mannaggia! è carne e sangue. Il bene e il male nessuno li può cambia, manco Iddio Si­gnore. E vedete che forse non siamo neppure eguali d’altare,” Tacque un istante, mentre il capitano sbuffava. “Sono curiosi, veh! questi meridionali! Il paese l’è pieno di briganti e ladri e lor signori ci voglian fare lessione di morale?”
Ma don Raffaele non lo stava a sentire; “Lassammo sta stu fatto... e torniamo a Napoli, negazione di Dio, e ai nostri celeberrimi carcerati. Recidivi tutti, hanno celle in comune o almeno celle comunicanti da cui vanno e vengono liberamente. Si fanno da mangiare come gli piace, perché quello che passa il convento non è di loro gusto. Il Settembrini si leva lo sfizio di tradurre Luciano dal greco... E visite alla signora del coman­dante, carezze ai piccirilli, e confetti e tarallucci e vino... Eppoi bigliettini e denari che entrano e escono. Voi sapete cos’è Montefusco? La peggiore carcere del Reame, una cloaca, di­cono. Ci sta pure il proverbio: ‘Chi trase a Montefusco e po’ se n’esce - pò di’ ca ‘n terra n’ata vota nasce.’ E sapete di che si lagnavano i detenuti politici di Montefusco? Mò ve lo voglio far sentire; ecco là uno dei martiri.”
E chiamò: “Peppì, don Peppino!” e siccome pareva che il chiamato non sentisse, alzò la voce; “Onorevole!”
Finalmente l’uomo che se ne stava in un angolo ad assa­porare golosamente il suo gelato si scosse e si voltò a guar­dare. Era bassotto, grassoccio, con un faccione d’un bianco terreo, sotto la capigliatura nera, ricciuta e tutta fitta: “Vulite me?” chiese.
“Si; nu momento. Siente... E che? Da che t’hanno man­dato a Torino, ti fossi fatto forestiero?”
Dubitoso e crucciato, forse per non avere potuto terminare il suo pezzo duro[128] in pace, don Peppino s’accostò al gruppo: “In che vi possiamo servire, dottò?”
“Capitano,” disse don Raffaele Silva, “vi presento uno dei martiri dell’unità d’Italia, l’onorevole don Peppino Tiengo, deputato del collegio di Anzi al parlamento di Torino, che fu a Montefusco, col duca di Caballino, Sigismondo Castromediano, patriotta insigne di cui avrete inteso parlare, col Poerio, col Nisco, col Braico eccetera eccetera... Dincello nu poco al capitano, Peppì, il fatto dei polli e dei piccioni e come voi, degnamente, protestaste.”
Il viso pallido dell’onorevole s’illuminò d’un sorriso, men­tre gli brillavano gli occhi: “E si capisce,” disse. “Quelli, il capociurma e gli altri comiti, ci volevano fare fessi... Nce jevano a accattà...”
“Ci andavano a comprare...” tradusse il dottore.
L’altro spinse le labbra, anzi i labbroni in avanti, a suc­chiello: “Quanto vi prego, don Rafaele, pure io so parlare...” e subito riprese: “Capita, cierte pullanche che manco erano pulecini... Polli, sì, pollastri, come dite voi in taliano, e i pic­cioni, comme ve vuoglio di’?, tale e quale ai... ai passeri, piccirilli, teseche... e ce li volevano fare pagare come qual­mente fossero buoni e grassi... Camorristi, si capisce... ‘a ca­morra s’è magnata Napule. Qui ci abbisogna una scopa, spaz­zare e spazzare buono, capita, si vulimmo n’Italia bella, un’Italia nuova, degna del re nuovo di casa Savoia!”
“L’avete sentito?” chiese don Raffaele, “nel loro martirio, modestamente, i polli che mandavano a comprare gli pare­vano poco teneri e magrucci... E mò ditemi : quando mai Silvio Pellico ha mangiato piccioni e galletti nelle carceri sue?” e scoppiò a ridere.
Don Peppino Tiengo alzò la testa e corrugò le sopracci­glia; gli pareva che quell’altro se lo volesse ripassare, ovverosia uccellare, sbertare o berteggiare, ma queste parole lui non le sapeva, Insomma, che lo volesse fare fesso. Intanto il gelato si stava squagliando e dal piattino gli gocciolavano tra le dita stille biancastre e brune. Anche il capitano sorrideva con bonomia.
L’onorevole raccapezzò quel po’ di gelato che gli rima­neva e con una cucchiaiata sola se lo ficcò in bocca. Ma la mole del malloppo e il gelo lo fecero restare con le fauci spalancate, mezzo affogato, finché potè chiudere le labbra e poi sbuffare : “ Don Rafaé,” disse, “ non pazziamo troppo quando io stavo con la giacca rossa da galeotto, incatenato a un camorrista per sette anni... lunghi quanto la miseria, voi ve ne siete restato a Potenza a fa o’ miedico, il bell’uomo, il giocatore di zecchinetta[129], il violinista e il poeta...”.
“E così sono rimasto,” rispose calmo don Raffaele, “tale e quale: medico, bell’uomo, giocatore e il resto; non ci ho rimesso né guadagnato niente. Tu invece tanno... allora, quan­do ti mettesti a fare ammuina nel ‘48, per pura guapperia d’uomo.,, che uomo? di guagliuncello vanitosetto, che facevi? Chi eri? ‘O zi’ nisciuno; nu povero suonatore di trombone o di flauto che sia, povero in canna e mezz’analfabeta. E adesso chi sei? L’uomo grande, il pezzo grosso, che t’hanno fatto pure deputato per Torino, perché hanno bisogno d’uno che dice sempre di sì e nun capisce niente. Chi ci ha guadagnato? Io o tu[130]?”
“Don Rafaé... don Rafaé! “ il neo deputato farfugliava. Quella parola “analfabeta” l’aveva intesa dire altre volte, soprattutto in parlamento, a Torino, ma il suo significato gli rimaneva ancora arcano; e, benché non avesse mai voluto chiederne la spiegazione per il timore che aveva in corpo d’essere preso per ignorante, gli dava l’impressione d’essere un’ingiuria grande, forse sanguinosa. Finalmente sbottò: “Voi non potete parlare, che siete stato sempre un borbonico sporco.”
Don Raffaele l’afferrò per il bavero della marsina: “Ripeti, farabutto! Ripeti, ca te scass’a faccia! Cafone e figlio di ca­fone... così si parla a un signore?”
L’altro si dibatteva debolmente e il piattino del gelato gli cadde di mano. Din! fece il piattino rotolando, mentre l’uomo si guardava desolato i calzoni buoni e le scarpe lucide bruttati da quella sporcizia liquida ch’era già stata cioccolata e cre­ma: “Don Rafaé... voi m’avete offeso!”
Il prefetto de Rolland aveva allungato il collo. “Que c’est que ? Ces-sa è ce diable de ludi?”
“Niente, niente,” lo rassicurò don Ciccio, “fa parte del giuoco.”
Ma intanto ci s’erano messi di mezzo il capitano bologne­se, gli altri amici e gli animi s’acquietavano.
Allora disse don Totonno Spera che parlava piano piano, tomo tomo: “Questo, signor generale, è il vertice supremo, il motore, l’essenza medesima dell’animo meridionale: l’invi­dia. La gente dice: neh, perché quello sì e io no? Fossi più fesso io? Impossibile; neanche pensarlo... siccome l’invidia si sposa con la vanità. E non pensano al lavoro, al sacrificio, ma­gari alla fortuna. Nossignore: chiunque si alzi li fa fessi e quindi deve essere abbassato. Ferdinando II, che era Re, quando per via del progresso l’hanno pensato come uomo, non semidio, uno dei loro, come tutti quanti, essendo re, faceva fessi tutti. Quindi fu necessario sbatterlo giù. E pure lui. Quello s’era napolitanizzato ‘o veramente. E perciò invidiò il Filangeri che gli aveva salvato la Sicilia ed era uomo di sal­vargli anche mò tutto il Regno, e lo mise da parte umilian­dolo... Questo re nuovo, Vittorio Emanuele, forestiero è, non è di casa nostra, e perciò non se ne sentono offesi... ancora. Perché, se il forestiero fatica e guadagna, non porta colpa. La mamma e la natura l’hanno fatto per questo; è un fati­cante nato, magari in veste di re o di gran signore. Condan­nato al lavoro; che se poi gli vada bene o male sono affari suoi. Ma un napoletano fortunato è un oltraggio patente, in­sopportabile. Epperciò Napoli non ha mai avuto un re di razza napoletana.”
Il prefetto lo guardò sbalordito, spalancando la bocca.
Fu a quel punto che entrò trafelato un ufficiale dei cara­binieri. Era in tenuta di marcia con gli stivali bianchi di polvere. Cercò attorno con gli occhi e già s’incamminava verso il colonnello dell’Arma, quando un gesto di quello lo mandò a salutare prima, come di dovere, Sua Eccellenza il Governatore. Questi se ne stava lungo disteso a suo grande agio, tenendosi sulle ginocchia un piattino e nel piattino un gelato, un pezzo duro di formidabile aspetto, quasi una torre di cioccolato, che lui tentava di scalfire pazientemente col cuc­chiaino. Affondato com’era nel collettone luccicante di ricami d’argento, pareva che si divertisse a seguir con attenzione la filastrocca di sciocche galanterie con cui il generale Chabet tentava d’incantare la maliziosa sindachessa. Sul suo viso glabro, anzi legnoso, passavano di tanto in tanto rapide con­trazioni d’ilare malizia.
L’ufficiale, quando gli fu di fronte, salutò battendo i talloni; il governatore alzò la testa e gli chiese qualcosa che, per il frastuono delle conversazioni e il fragore della banda, non s’intese. E neppure s’udì la risposta dell’ufficiale; ma si vide d’un tratto il governatore balzar su dalla poltrona rabbuiato, allungando il collo, col naso e il pizzo all’aria, nell’atto del cane che punta.
La torre di cioccolato gli schizzò e andò a spiaccicarsi in terra ai piedi della sindachessa che dette un gridolino, ma il governatore parve non farcì caso; chiamò a sé con un cenno il colonnello dei carabinieri, poi un ufficiale superiore, poi il suo ufficiale d’ordinanza e si isolò con quelli in un angolo della sala.
Il generale Chabet, che non era stato chiamato, rimase a sedere; ma il bel filo del discorso gli s’era spezzato e ora tutta la sua attenzione stava addosso al governatore. S’era girato a metà per coglierne se non le parole che non gli potevano giungere, almeno l’espressione del viso, una smorfia, un gesto, che gli permettesse d’intendere quel che c’era per aria e di che peso fosse. Intanto rispondeva distratto e con monosillabi alle domande premurose della sindachessa.
La musica aveva ripreso a suonare, una mazurca vivace e saltellante, e le coppie ricominciarono a volteggiare; ma i ballerini andavano su e giù, avanti e indietro, piroettando senza brio. Si sentiva che c’era qualcosa in giro, qualcosa di grave forse. Il governatore fece un gesto d’impazienza perché quella musica gli impediva di parlottar sottovoce intendendo e facendosi intendere, e il sindaco che lo stava a spiare coll’occhio teso, puntualmente, mise le due mani alla bocca e gridò al capomusica: “Basta!” E, siccome quello, o non avesse sentito o gli premesse di terminare almeno il ritornello, non accennava a smettere, corse al palco agitando le braccia: “No! No!”
All’istante si troncò il suono e fu come se col silenzio cadesse qualcosa nella sala, un disagio o una punta d’angoscia. L’ufficiale d’ordinanza corse a prendere la feluca e la sciabola del governatore che subito s’avviò all’uscita. Sull’uscio si volse, accennò a un leggero inchino col capo e disse: “Do­mando scusa, mais je dois... devo andare... Je suis faché... do­lente...”.
In quel momento si senti dalla piazza un rumore di ruote e uno scalpitio di cavalli. Il governatore chiese qualcosa al­l’ufficiale che aveva al fianco; quello si strinse nelle spalle.
“Mais non! Mais non! C’est ridicule! Facheux!” gridò il generale e varcò la soglia.
Allora anche il generale Chabet, senza essere chiamato, prese feluca e sciabola, lasciò soletta la bella e gli scappò dietro. Appresso a lui si vuotò tutta la sala.
Andrea e Gerardo uscirono subito e Isabellina pure. C’era in piazza una diligenza, dì quelle che servono per il servizio di posta, ferma, e un carabiniere teneva i cavalli per le briglie. C’era anche un garzone del servizio dei Procacci, trafelato e ansante che si strascinava zoppicando attorno alla diligenza e gridava a tratti, anzi a scatti, come se gli avessero dato la carica: “Madonna, Gesù! Madonna, Gesù!” Però quando vide gli ufficiali che s’avvicinavano, stette zitto. Un capitano dei carabinieri l’afferrò per il petto: “Tu, birichino... come ha fatto questa carrozza ad arrivare fino a qui?”
“M’hanno pigliato la mano i cavalli, capita... quelli erano spaventati. L’agge visti arrivà cuoncio cuoncio alla posta “Neh, che è successo? Che d’è? M’ha’itto ‘o maste; saglie a cassetta... Comm’infatti... ma chelli so’ fuìuti... e a me m’han­no jettato a cap’in terra e n’atu po’... o mamma mia! sì nun me tenevano forte l’anime sante d’o Priatorio... E che? mò stavo parlanno a vuie? Ah, ah! Ahi! m’hanno scassato ‘o ddenucchio... Ahi!”
“Stai zitto, idiota!” gli gridò il carabiniere. Isabella con i due amici s’erano avvicinati alla diligenza e udirono chiaramente il generale Chabet chiedere ad un brigadiere: “Che è successo?”
“Signor generale,” rispose il milite. “Una compagnia di renitenti alla leva, che veniva da San Fele[131], scortata da una squadra di carabinieri è capitata in un agguato... I reazionari hanno massacrata la scorta e han liberato ì prigionieri... Eppoi hanno assalito la diligenza postale, proprio qui sotto le mura, a Monte Reale... Non sappiamo ancora quante persone ci fossero dentro, perché non è discesa nessuna... Probabil­mente il postiglione era già d’accordo coi briganti...”
Una piccola folla s’era serrata attorno alla carrozza e premeva; a un tratto un grido acutissimo fece trasalire tutti. Una donna balbettava indicando lo sportello della carrozza: “Lì lì, guardate li...”
La curiosità femminile l’aveva tratta a scrutare nell’in­terno della diligenza e con raccapriccio le era parso di vedere qualcosa informe, simile a un uomo. Infatti era il postiglione. Lo calarono giù e apparve tutto alla luce scialba del fanale a petrolio. Un faccione bianco, con gli occhi spalancati, un buco in fronte e un rivolo sottile che gli s’era incrostato sul naso. Dal collo gli pendeva un cartello. Lo volsero per il lato buono e lesserò compitando ad alta voce, sotto quel po’ di lume. C’era scritto: spia.
E sotto: Ricalo per la festa del Ceneraio piemonteso fesso.
Isabellina sbiancò tutta e già vacillava. Subito Andrea stese il braccio a sostenerla, ma lei si vinse e si trasse indietro quasi con uno scatto.
In quella cominciò a piovere. Grosse gocce batterono sul terreno come schiocchi di frusta, radi dapprima e poi nutriti, e d’un tratto l’acqua venne giù tutta insieme, come un tessuto solo che si spiegasse battendo al vento.
Sentirono dietro di loro la voce di don Matteo che di­ceva: “Oh! Bene mio! Meno male, rinfresca.”

[1] Il Gattopardo – Nella composizione del romanzo, l’autore trasse ispirazione da vicende familiari in particolare del suo bisnonno, vissuto negli anni cruciali del Risorgimento e noto anche per le sue ricerche astronomiche e per l’osservatorio astronomico da lui realizzato.
Il titolo del romanzo ha origine nello stemma di famiglia dei Tomasi di Lampedusa. All’inizio del primo capitolo si parla di un cadavere rinvenuto nel giardino di Casa Salina. Nel maggio 1860, dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, Don Fabrizio assiste con distacco e con malinconia alla fine del suo ceto. La classe aristocratica capisce che ormai è prossima la fine: della nuova situazione politica infatti approfitta la nuova classe sociale in ascesa. Don Fabrizio è rassicurato dal nipote Tancredi, che, pur combattendo nelle file garibaldine, cerca di far volgere gli eventi a proprio vantaggio. Quando il principe si reca nella residenza estiva di Donnafugata, trova come sindaco del paese Calogero Sedara, un borghese di umili origini, rozzo, che si è arricchito ed ha fatto carriera in campo politico. Tancredi, che aveva manifestato simpatia per Concetta, la figlia maggiore del principe, si innamora di Angelica, figlia di don Calogero, che infine sposerà, abbagliato dalla sua bellezza, ma attratto anche dal suo patrimonio.
Un episodio significativo è l’arrivo a Donnafugata di un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, che offre a Don Fabrizio la nomina a senatore del nuovo Regno d’Italia.
La vita del principe da allora prosegue in modo monotono e sconsolato, fino alla sua morte che lo coglie in una stanza di albergo nel 1883, mentre tornava da Napoli, per sottoporsi a visite mediche. Nella sua casa rimarranno le tre figlie nubili, chiuse in una vita solitaria.
La figura di Concetta ha un’importanza notevole. Nell’ultimo capitolo, quando il senatore Tassoni ricorda a Concetta l’affetto di Tancredi per lei, ricordando l’episodio sull’assalto al convento di clausura, inventato dal giovane per far colpo su Angelica appena conosciuta, Concetta collega quell’episodio alle suppliche di Tancredi, il giorno seguente perché lo zio gli permettesse di accompagnarlo nel convento della Beata Corbera. Concetta capisce cinquant’anni dopo che quelle suppliche del cugino erano state" parole d’amore verso di lei... parole non comprese" e che nel suo amore verso Tancredi "non vi erano stati nemici, ma una sola avversaria, essa stessa; il suo avvenire era stato ucciso dalla propria imprudenza".
[2] Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Giuseppe Tomasi di Lampedusa nacque a Palermo il 23 dicembre 1896, da famiglia aristocratica (quella dei principi di Lampedusa, duchi di Palma e Montechiaro).
Nel 1915 si iscrisse presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, ma nel novembre dello stesso anno fu chiamato alle armi: partecipò alla Prima Guerra Mondiale, è fatto prigioniero nel novembre del 1917 e solo dodici mesi dopo - fuggito dal campo di reclusione - riuscì a rientrare in patria.
Nel 1920 fu congedato dall’esercito con il grado di tenente e ritornò a Palermo.
Nel corso del decennio seguente, effettuò numerosi viaggi in Italia ed all’estero, da solo o più spesso in compagnia di sua madre.
Nel 1925, durante uno di questi viaggi conobbe a Londra la principessa Licy Wolff Stomersee, studiosa di psicanalisi, che sposò sette anni più tardi in una chiesa ortodossa, a Riga.
Dopo aver dato il proprio contributo anche al secondo conflitto mondiale e veduto la casa avita devastata dai bombardamenti, Giuseppe e sua moglie si trasferirono in Via Butera, a Palermo.
Negli anni ‘50, egli strinse amicizia con i frequentatori della casa del barone Sgadari di Lo Monaco: Francesco Agnello, Francesco Orlando, Antonio Pasqualino e soprattutto Gioacchino Lanza Tomasi.
Alla fine del ‘54, cominciò a scrivere Il Gattopardo.
A giugno del ‘55, interruppe la stesura del romanzo per dedicarsi a quella dei Ricordi d’infanzia, riprendendola infine a novembre. Successivamente, lavorò ad altri testi (La gioia e la legge, La sirena, il primo capitolo del nuovo romanzo I gattini ciechi).
Nell’aprile del 1957 gli fu diagnosticato un carcinoma al polmone destro, che ne causò la morte il 23 luglio dello stesso anno (la salma sarà inumata, il 28 del mese, nella tomba di famiglia al cimitero dei Cappuccini).
Rifiutato prima dalla Einaudi, poi dalla Mondadori, Il Gattopardo fu pubblicato nel 1958, presso Feltrinelli, grazie all’interessamento ed alla cura di Giorgio Bassani. Accolto da un enorme successo, il libro vinse il Premio Strega nel ‘59.
[3] Bendicò: Alano del principe Don Fabrizio.
[4] Tancredi di Falconeri: Giovane principe di Falconeri, nipote prediletto di don Fabrizio. Orfano di entrambi i genitori, Tancredi era stato allevato nella casa del principe anche perché il suo cospicuo patrimonio era stato dilapidato nel gioco, da suo padre. Il suo carattere fresco e brillante affascinava don Fabrizio al punto di ammirarne perfino la spregiudicatezza.
[5] Franceschiello: Esercito di Francesco II, Re del Regno delle due Sicilie. L’esercito fu soprannominato così data la giovane età del Re, ripreso, come aggettivo dispregiativo, dopo la nascita del Regno d’Italia per indicare l’inefficacia dell’esercito.
[6] Dio Guardi: è l’espressione che l’aristocrazia borbonica adoperava ogni volta che veniva nominato il Re.
[7] Paolo: Figlio del principe di Salina. Cresciuto insieme a Tancredi, non godeva della stima di suo padre, che vedeva in lui i segni della decadenza dell’aristocrazia meridionale, priva di ideali e legata solo agli sciocchi privilegi di casta.
[8]Suo: Si mette in evidenza l’affetto ed il senso di protezione nei confronti di Tancredi.
[9] Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re: il principe mostra di esser legato all’aristocrazia e al Re borbonico, “se non per vincolo d’affetto, ma per vincolo di decenza”, inoltre, mette in evidenza l’essere un Falconeri, di antica nobiltà normanna e contrappone lo Status sociale di Tancredi a quello dei garibaldini e dei rivoltosi, che il principe definisce come “quei mafiosi”.
[10] Se vogliamo… tutto cambi: Lucida la visione dell’evento da parte di Tancredi, che vuole essere partecipe di quella guerra e dell’unificazione nazionale, affinché gli ideali repubblicani, mazziniani e garibaldini non si riescano ad affermare e quindi il trapasso del Regno delle due Sicilie al Regno d’Italia sia il più indolore possibile. In tal modo prevale la visione cinica della soluzione politica dell’unificazione nazionale, nel senso più cavourriano del termine.
[11] Novelle rusticane - Le Novelle rusticane furono pubblicate nel 1883 e segnano un inasprimento del Verismo verghiano, che diventa più tagliente. Nella società che l’autore delinea ogni valore è tramontato, i sentimenti e gli affetti non hanno più spazio, tutto si riduce, nell’ambito della lotta per la sopravvivenza, a pura economicità.
[12] Sciorinarono: sventola­rono.
[13] Casino dei galantuo­mini: il luogo di ritrovo e svago dei proprietari terrieri.
[14] berette bianche: i ber­retti bianchi che distingue­vano i contadini dai padro­ni, che portavano invece il cappello.
[15] irruppe: all’improvviso occupò a forza.
[16] nerbare: frustare.
[17] campieri: guardiani che sorvegliavano il lavoro dei contadini.
[18] epulone: ghiottone.
[19] tari: moneta d’oro di origine araba.
[20] cappelli: sinonimo di galantuomini, vedi nota 3.
[21] ché: perché.
[22] gna’: signora (deriva dallo spagnolo dona).
[23] Ruota: si usava la ruota girevole dei conventi (col­locata in un’apertura del muro, serviva a far passare oggetti o cibo), per deporvi neonati abbandonati.
[24] speziale: farmacista.
[25] martello: battente della porta.
[26] un rovere: una quercia.
[27] in falsetto: con le voci alterate, più acute del normale.
[28] alcove: al singolare alcova. Era il luogo in cui si trovava il letto, separato da resto della camera per mezzo di tende.
[29] Schioppettate: fucilate
[30] quel carnevale furibondo: il termine indica che la rivolta aveva messo il paese sottosopra, come durante il carnevale, in cui sono ammesse tutte le violazioni delle norme morali e sociali. Ma, mentre la festa è tradizionalmente allegra, qui si tratta di una tragedia.
[31] briachi: ubriachi, nel senso dì storditi dall’eccitazione, da quel delirio collettivo.
[32] suonare a stormo li campana di Dio: suonare a martello (con colpi rapidi e regolari) la campana della chiesa; in genere lo si fa in occasione di una festa e per dare un allarme.
[33] turchi: infedeli, miscre­denti.
[34] Aggiornava: stava fa­cendo giorno.
[35] far capannello: riunirsi in gruppetti.
[36] Nino Bestia... Ramurazzo: i due più violenti capi popolo
[37] avrebbe fatto a riffa e a raffa: avrebbe preso a suo piacimento.
[38] Il generale: Nino Bixio, mandato da Garibaldi a do­mare la ribellione.
[39] Scranna: sedia con schie­nale e braccioli molto alti.
[40] Biade: le piante dei ce­reali.
[41] Trafelate: in preda all’af­fanno.
[42] stallazzo: alloggio per animali annesso ad alberghi, osterie, locande.
[43] ubbìe: paure.
[44] all’aria ci vanno i cenci: chi ci rimette è sempre la povera gente.
[45] stipati nella capponaia: ammassati nella gabbia, come tanti capponi.
[46] doveva vedersi... con lui: doveva stare faccia (mo­staccio) a faccia con l’uomo che gli aveva portato via la moglie.
[47] ciangottavano: chiac­chieravano a bassa voce.
[48] palmo: antica misura che corrisponde a circa 25 cm.
[49] Chevalley: Aimone Chevalley di Monterzuolo è un funzionari del nuovo Regno d’Italia. Piemontese di origini e di cultura, viene inviato in Sicilia, per assegnare cariche parlamentari ai nobili del Regno.
[50] Uniforme… guardie del corpo del Re: Si lascia notare come il Principe sosteneva il vecchio Regno e di come, anche dopo l’Unificazione, egli sia ancora legato ad esso.
[51] … al Regno di Sardegna: La Storia scritta dai vincitori. Chevalley sostiene che l’Unificazione sia stata felice e serena.
[52] Girgenti: nome ottocentesco di Agrigento
[53] Calepino: Brogliaccio
[54] Sornioneria: atteggiamento che manifesta indifferenza, ma che nasconde scaltrezza e accortezza.
[55] Ninfee: piante acquatiche coltivate come ornamento in stagni e laghetti, con larghe foglie carnose e grandi fiori bianchi.
[56] … deliberative: Il Principe ironizza molto sul ruolo del Senatore, visto quasi come un semplice incarico onorifico, dato che tutto sarebbe rimasto com’è.
[57] S’inalberò: andò bruscamente in collera
[58] da sprone e da redina: da incitamento e da freno.
[59] Bendicò: l’alano del principe
[60] Stia a sentirmi… esistono: Il Principe cerca di dare la giusta importanza al ruolo del Senatore, cioè pone il Senatore in un ruolo decisivo, per il futuro dello Stato italiano.
[61] egemonia: dominio
[62] esattori... spagnoli: il riferimento e alle tasse gravose e allo stretto controllo dei dominatori bizantini, arabi (emiri sta per governatori), berberi e spagnoli.
[63] il vostro... Marsala: la spedizione dei Mille guidata da Garibaldi sbarcò a Marsala l’11 maggio 1860.
[64]Perfezionate: Comincia la tesi di Tomasi di Lampedusa, riguardante la crisi generazionale dei siciliani.
[65] Esposizione... Londra: una delle più famose esposi­zioni che nell’Ottocento venivano tenute per presentare al pubblico le scoperte e le invenzioni tecnico-scientifiche più importanti.
[66] Sheffield... Manchester: città inglesi molto industria­lizzate.
[67] agogna: desidera intensamente.
[68] orinale: recipiente in cui si orina.
[69] il letto: Con questo esempio, Tomasi Di Lampedusa chiarisce la visione della maggioranza della popolazione siciliana, riguardo l’Unificazione del Regno d’Italia. I siciliani infatti, non si sentivano italiani, come del resto non si sentivano borbonici, al tempo del Regno delle due Sicilie.
[70] oniriche: provenienti dai sogni.
[71] sorbetti... cannella: gelati a base di scorzonera (pian-i dalla radice amara) e di cannella (spezia tratta dalla corteccia di una pianta). La Scorsonera: o scorzonera ortaggio da radici
[72] nirvana: secondo il buddismo, consiste in uno stato di pace spirituale, simile all’annullamento, che compor­ta il distacco totale dalle cose terrene
[73] … è morto: Distinzione, fatta dal principe, della popolazione sicula, nei confronti di tutto il resto del mondo. Il principe differenzia la Sicilia dal resto del mondo, ponendola quasi in una posizione di superiorità rispetto a tutto.
[74] impennacchiati: ornati di pennacchi.
[75] teatro... eroici: è il famoso teatro "dei Pupi" sicilia­ni, incentrato sulle gesta di eroi cavaliereschi.
[76] Francesco Crispi - (Ribera 1818 - Napoli 1901). Partecipò alla rivoluzione palermitana del 1848 su posizioni democratiche e autonomiste.
Nel 1860, dopo aver preparato la spedizione dei Mille, fu la mente politica della dittatura garibaldina nel meridione.
Deputato della sinistra dal 1861, andò progressivamente distaccandosi dal mazzinianesimo fino a divenire convinto monarchico; nel 1877 divenne ministro degli Interni con Depretis (1877-1878), ma fu costretto a dimettersi nel 1878 perché processato per bigamia.
Dal 1887 al 1891 diresse il suo primo governo durante il quale fu ispiratore dell’ammodernamento dello stato tramite una direzione più energica ed efficiente della cosa pubblica (rafforzamento delle competenze del presidente del consiglio; codice sanitario e riforma dell’ordinamento degli enti locali, 1888; legge sulle opere pie e nuovo codice penale, 1890).
Nel suo secondo ministero (1893-1896) represse duramente i Fasci siciliani e colpì l’opposizione di sinistra con le leggi antianarchiche (luglio 1894). Fedele alla Triplice alleanza, fu assertore di una politica estera energica, in grado di far valere nel mondo il prestigio dell’Italia; nel 1889 iniziò quindi l’occupazione dell’Eritrea, prima colonia italiana, ma la disfatta delle truppe italiane contro le forze eritree presso Adua (1896) lo costrinse ad abbandonare la vita politica.
[77] il paesaggio: Il principe lega al fattore genetico, anche quello territoriale, incolpando la Sicilia ed il suo clima di questo vaneggiare dei siciliani
[78] incongrui stupri: inutili violenze, sopraffazioni.
[79] Randazzo: cittadina situata alle pendici dell’Etna.
[80] città... Bibbia: Sodoma e Gomorra, antiche città distrutte da Dio con una pioggia di fuoco per punire l’immoralità degli abitanti.
[81] enigmatiche: oscure
[82] insularità: tendenza ad isolarsi.
[83] rassegna... mattina: nella mattinata, in compagnia del nipote del Principe, Tancredi, Chevalley aveva fatto il giro per il paese, ascoltando storie e vicende di omicidi e di sequestri avvenuti nel passato.
[84] Smagarsi: disincantarsi, disilludersi. : liberarsi dalla tendenza all’isolamento.
[85] Ezechiele: uno dei profeti biblici, che lamenta le sventure del popolo di Israele dopo la deportazione in Babilonia.
[86] vincoli della decenza: legami di correttezza e senso dell’onore.
[87] … e due: Tomasi di Lampedusa inquadra con precisione la situazione psicologica di quella classe aristocratica borbonica che, trovatasi a cavallo tra i due Regni, si trova in uno stadio di piena confusione. Per evitare errori di scelta, in qualsiasi campo, decidono di spogliarsi da ogni responsabilità.
[88] catafalco: carro funebre, che il principe paragona alla politica.
[89] casato: stirpe nobiliare: infatti Sedérà stava preparando le pratiche per ottenere un titolo nobiliare.
[90] la crisi di maggio: la crisi politica che seguì allo sbar­co dei Mille in Sicilia.
[91] Laticlavio: : la nomina a senatore (il laticlavis era la veste bianca indossata dai senatori romani).dignità e carica di senatore; in Roma antica, tunica bianca ornata da una larga striscia di porpora, indossata dai senatori e successivamente dai membri delle loro famiglie.
[92] impenetrabilità... altrui: ossia l’indifferenza, l’incapacità dei siciliani a capire le preoccupazioni degli altri.
[93] abiezione: degradazione.
[94] vignicciuola: piccolo vigneto
[95] Casale: città del Piemonte, nel Monferrato.
[96] Non innocenti vittime: rivoltosi uccisi dalle forze dell’ordine e perciò "non innocenti", ma comunque vittime.
[97] scopettoni: lunghe basette.
[98] Re Ruggero: Ruggero d’Altavilla: si allude alla dominazione normanna.
[99] Svevi: casata germanica che subentrò ai Normanni nel dominio dell’isola.
[100] Cattolico: Ferdinando il Cattolico il re di Spagna
[101] Carlo III: re borbone
[102] Proudhon: (1809 - 1865). Politico e pensatore francese.
Nel 1848 fu eletto all’Assemblea nazionale; oppositore di Luigi Napoleone, scontò tre anni di carcere e più tardi fu costretto all’esilio.
Riformatore sociale, rappresentò all’interno dell’Internazionale una linea antimarxista favorevole a un socialismo libertario, pluralistico, federalista e contrario a ogni disposizione.
Fu uno dei maggiori esponenti del socialismo utopistico.
[103] Ebreuccio… nome: Marx
[104] Squires: signorotti
[105] Barbaglia: splende di luce intensa e abbagliante
[106] L’eredità della Priora - La storia è quella di Gerardo Satriano, ex ufficiale dell’esercito borbonico, dopo la caduta di Gaeta e la sconfitta del Regno delle due Sicilie. Gerardo incontrò un giorno per strada un suo vecchio amico, Max Schaub che gli offrì un modo di guadagnare, cospirando contro il nuovo Stato. Gerardo seguì Schaub a casa di Katia. Lasciatosi persuadere dall’affascinante polacca, partì per la Basilicata. Nel frattempo il barone Andrea Guarna giunse a Melfi per far visita a sua zia, la duchessa donna Maria Carolina Guarna, madre priora di un Carmelo. Il giovane barone Guarna cercava protezione dalla zia che trovò quella visita molto interessante. Con la creazione del nuovo Regno d’Italia furono abolite tutte le proprietà ecclesiastiche e, quindi, anche quelle del convento delle suore di clausura, dove era priora Maria Carolina. I funzionari piemontesi ed i militari erano giunti per espropriare anche il convento della priora che non si arrese facilmente e fece faticare non poco gli ufficiali, affinché non si procedesse secondo la loro fredda e burocratica volontà. Se i Piemontesi volevano applicare la loro legge le monache preferirono uscire dal loro mondo secondo la regola del Carmelo. La priora, unica legittima erede del patrimonio dei duchi Guarna, era proprietaria di un ingente patrimonio, per cui andò a vivere nel suo palazzo di Potenza nel quale abitava anche l’avvocato don Matteo Guarna. Don Matteo, fratellastro della Priora, nato da un matrimonio morganatico del duca Guarna, era un liberale, che aveva voluto sempre l’Unità: amava l’unificazione, ma anche denaro e potere. Con l’avvocato viveva sua figlia Isabella, cresciuta nei migliori collegi svizzeri fino alla maggiore età. La priora portò con sé anche Andrea e lo presentò come suo nipote e come suo legittimo erede e ciò fece nascere un diverbio, perché l’avvocato aveva messo gli occhi sul patrimonio Guarna di cui dopo la Priora si sentiva legittimo erede. La Priora propose un matrimonio tra Andrea e Isabellina, ma i due declinarono subito l’offerta. L’idea di questo matrimonio causò ostilità tra Andrea e Isabellina. Intanto, all’ultimo piano del palazzo, la Priora formò un nuovo convento in segreto e lì si trasferì insieme alle sue consorelle. Nel frattempo, Gerardo arrivò a Rionero. Durante la notte fu la presa di Barile e Rionero attaccata dall’esercito reazionario di Carmine Crocco. Nel racconto di alcuni scontri tra i reazionari ed i Piemontesi, si inserisce la storia di Ugo Navarra. Gerardo ed Andrea si conobbero grazie alle riunioni segrete fatte dai reazionari e divennero amici. Isabellina cominciò ad amare Andrea fino al giorno in cui vide di che cosa potesse essere capace un uomo: un membro dell’esercito piemontese era stato sparato in fronte ed il cadavere, con un biglietto su cui c’era scritto traditore, era stato lasciato sul portone di un palazzo dove si teneva una festa. Isabellina ebbe paura di amare un cospiratore che poteva essere capace di un gesto così brutale e decise di porre fine a questo suo sentimento. Nel frattempo, Gerardo voleva agire, ma Andrea gli disse di fidarsi dell’organizzazione e di attendere ancora un po’, ma non poteva più attendere perché trovò dei carabinieri alla porta e fu costretto a sparare e a fuggire. Gerardo entrò a far parte dell’esercito di Crocco. Una sera, la Priora fece preparare una grande cena ed ammise pubblicamente i suoi peccati, ma dopo poco fu costretta ad andare a letto, perché non riusciva più a reggersi in piedi. Nel palazzo Guarna c’era grande agitazione, perché la madre priora stava per morire. Andrea e Isabellina furono molto vicini alla zia in quei difficili momenti. Il notaio salì in convento per scrivere le ultime volontà della priora. L’avvocato, alla lettura del testamento della priora, sbiancò, perché la monaca donò tutto al Re e non lasciò nulla a Don Matteo; infine, ella lasciò un crocifisso ad Isabellina che vide quel regalo come un segno. Nel frattempo, l’esercito di Crocco fu sconfitto. Andrea si sposò e fuggì a Roma con Isabellina, inseguendo l’amore e più che gli ideali patriottici. Gerardo, scampato alla morte, non sapeva che cosa fare: senza soldi, né lavoro, né patria se fosse tornato a Napoli sarebbe stato ammazzato al primo passo. A Livorno, Gerardo incontrò un altro amico che gli propose un affare simile a quello proposto da Schaub e capì che, alla fine, un ideale non sempre può trionfare.
[107] Carlo Alianello – Di origine lucana, Carlo Alianello nacque il 20 marzo 1901 a Roma e qui morì il 1° aprile 1981. Dopo aver trascorso la fanciullezza in Sardegna e a Firenze la gioventù, ritornò a Roma per laurearsi in Lettere e dedicarsi alle sue passioni: l’insegnamento e il giornalismo.
Nel 1952 ricevette il Premio Valdagno-Marzotto per I Soldati del Re e nel 1963 il Premio Campiello per L’Eredità della Priora. Gli storiografi di professione ritenevano poco salutare occuparsi di questi argomenti e l’operazione culturale di Alianello fu quella di recuperare una tradizione, scritta e orale, meridionale: ogni sogno di rivincita borbonica era tramontato, pochi mesi dopo l’uscita de L’Alfiere, l’ultimo Savoia chiudeva ignominiosamente il suo regno effettivo con la fuga di Pescara. Alianello non dava la sensazione di parlar male di Garibaldi, anzi sembrava che gli desse un nuovo valore: un povero idealista in mezzo a un mare di fetenti. Ma la scoperta era che non si poteva fare un taglio netto tra buoni e cattivi, tra eroici patrioti e luridi borbonici.
Quindici anni circa dopo L’alfiere, il Gattopardo avrebbe consolidato l’operazione tentata da Alianello. Alianello riscrisse più volte quel suo primo libro fortunato.
I soldati del re e L’eredità della priora completarono un trittico sul crollo del Regno del Sud.
Successivamente Alianello tentò di riprendere in forma saggistica tutto l’argomento: l’unità d’Italia era divenuta l’invasione piemontese.
Nel 1972 Alianello pubblica La conquista del Sud in cui si verificò una strana consonanza tra il cattolico e conservatore Alianello e gli ultrarivoluzionari arrabbiati. La conquista del Sud è il meno riuscito dei libri di Alianello: la questione meridionale, centro di tanti interessi politici e storiografici anche se non era stata risolta almeno la verità storica era stata in gran parte ristabilita.
[108] Goito… Gaeta - Furono luoghi di battaglia delle prime due guerre di indipendenza, combattute contro l’impero asburgico.
Alla prima, avviata dal re di Sardegna Carlo Alberto il 23 marzo 1848 in seguito alle insurrezioni di Milano e Venezia, parteciparono anche truppe provenienti dallo Stato della chiesa, dal Granducato di Toscana e dal Regno delle Due Sicilie (poi ritirate fra l’aprile e il maggio). Con le prime vittorie di Pastrengo e di Goito, gli italiani avevano costretto il maresciallo Radetzky ad una ritirata strategica nelle fortezze del quadrilatero, una delle quali, Peschiera, cadde il 30 maggio. Alla fine di maggio, rinforzato dalle truppe fresche di Nugent, Radetzky passò alla controffensiva, sbaragliando a Custoza (23-25 luglio) l’esercito sardo. Il 5 agosto, Carlo Alberto si ritirò oltre il Ticino e il 9 il generale Salasco firmò l’armistizio. Riprese le ostilità il 20 marzo 1849 dietro le forti pressioni del ministero Chiodo-Rattazzi, i piemontesi, comandati dal generale polacco W. Chrzanowski, subivano una pesante sconfitta a Novara (23 marzo), che imponeva un nuovo armistizio (24 marzo) e spingeva il re ad abdicare in favore di Vittorio Emanuele II.
La seconda guerra d’indipendenza ebbe per protagonista l’alleanza franco-piemontese, concertata da Cavour a Plombières nel 1858. In base alle clausole dell’accordo, la Francia s’impegnava a scendere in campo a fianco dello stato sardo in presenza di precise provocazioni austriache. Nel 1859, al crescente attivismo filoitaliano del Piemonte, rifugio dei patrioti braccati dall’Austria, il governo di Vienna rispose con un ultimatum, respinto da Cavour (26 aprile). Scattata l’alleanza, Vittorio Emanuele II e Napoleone III batterono gli imperiali a Magenta il 4 giugno, entrarono a Milano l’8 giugno e infine, il 24 giugno, trionfarono definitivamente a Solferino e a San Martino. Le sollevazioni della Toscana e delle legazioni spinsero però l’imperatore francese, timoroso per lo stato pontificio di cui si professava protettore, a non procedere sulla via di Venezia e a firmare l’armistizio con Vienna (Villafranca, 11 luglio). Le sue condizioni, che violavano in parte gli impegni francesi, furono ratificate nella pace di Zurigo, con cui il Regno di Sardegna annetteva la Lombardia, consegnatagli da Napoleone III al quale l’Austria l’aveva ceduta.
[109] Statuto: Lo Statuto Albertino: Carta costituzionale concessa dal re Carlo Alberto di Savoia-Carignano ai sudditi del Regno di Sardegna. Con l’Unificazione del Regno d’Italia, lo Statuto fu allargato a tutto il popolo italiano. Riguardo l’estensione dello Statuto, in tutta l’Italia, molti intellettuali posero il problema della Piemontesizzazione della Penisola.
[110] Lagopesole… Federico - Federico II frequentò spesso queste terre, specie Melfi e Lagopesole, luoghi adatti alla caccia, freschi nei periodi estivi e facilmente raggiungibile da Foggia.
[111] Affé: in fede
[112] Martiri … Belfiore: L’episodio risorgimentale noto come Martiri di Belfiore (dalla valletta di Belfiore situata all’ingresso sud di Mantova ove furono eseguite le sentenze di morte) riguarda la prima di una lunga serie di condanne a morte per impiccagione irrogate dal governatore generale del Lombardo-Veneto, feldmaresciallo Radetzky. Esse rappresentarono il culmine della repressione seguita alla prima guerra d’indipendenza e segnarono il fallimento di ogni politica di riappacificazione.
[113] Curtatone e Montanara - Battaglia combattuta il 29 maggio 1848 tra Curtatone e Montanara, nei pressi di Mantova, nel corso della prima guerra d’indipendenza. Mentre le truppe piemontesi prendevano d’assedio Peschiera nel tentativo di sfondare il Quadrilatero, le forze austriache al comando del maresciallo Radetzky sferravano un attacco alle spalle del nemico, incontrando però la resistenza di una legione di volontari toscani che uscì travolta dallo scontro. L’azione permise tuttavia all’esercito piemontese di riorganizzarsi, riportando il giorno dopo una vittoria sugli austriaci a Goito.
[114] Ognuno … e vanti quelli - Don Rocco sottolinea la differenza che c’è stata tra nord e sud, per le battaglie dell’Unificazione. Mentre nel Nord molti Stati decisero di annettersi al Regno, al Sud nessuno era disposto a cambiare. La resistenza della popolazione meridionale portò a maggiori battaglie e, quindi, a più morti.
[115] Domani … non saranno più: Andrea pensa all’imminente attacco dell’esercito di Crocco, per prendere il possesso di Potenza. Potenza, secondo Crocco e i suoi seguaci, doveva essere la capitale della reazione dei briganti.
Il fallimento della presa di Potenza, fu un grave colpo per i briganti, tale da far ritirare le loro bande da ogni città e di sciogliere l’esercito di Crocco definitivamente.
[116] Anello … Gige: citato nel II libro della Repubblica di Platone, Gige era un pastore della Lidia, una regione dell’Asia minore, che lavorava alle dipendenze del sovrano locale. Un giorno, un nubifragio accompagnato da un terremoto aprì un voragine nel terreno dove pascolava il suo gregge. In questa voragine, Gige trovò un cadavere di enormi proporzioni, con un anello al dito. Impadronitosi dell’anello, Gige si rese conto per caso che, se ne girava il castone dalla parte interna della mano, diventava invisibile, e tornava visibile girandolo di nuovo verso l’esterno. Si fece allora mandare dal re per il rapporto mensile dei pastori sui greggi; sfruttando l’invisibilità garantitagli dall’anello, gli sedusse la moglie e col suo aiuto lo assalì, lo uccise, e si impadronì del potere al suo posto.
Platone usa il mito per dimostrare che nessun uomo è così virtuoso da poter resistere alla tentazione di fare azioni anche terribili, se gli altri non lo possono vedere. Partendo da questo arriva a dire che la moralità è solo una costruzione della società, che l’uomo rispetta per paura delle conseguenze e delle sanzioni. Una volta che queste sono eliminate, quando nessuno può vedere ciò che fai, la morale viene meno, e l’uomo si rivela per quello che è in realtà. Secondo lui, infatti, se questo anello venisse dato a due uomini, uno giustissimo e l’altro empio, questi si comporterebbero alla stessa maniera, liberi dal peso di dover render conto a qualcuno delle loro azioni. Si è giusti solamente sotto costrizione, poiché l’ingiustizia e il non rispetto delle leggi è più utile e vantaggioso, singolarmente parlando.
[117] Scaimmeriga: in napoletano sciammeria indica una lunga giacca con coda, un gentiluomo, oppure l’atto sessuale. Deriva dallo spagnolo chamberga poiché durante il Risorgimento a Benevento il partito della giamberga era quello degli aristocratici mentre quelli della giacchetta erano i rivoluzionari. Quindi da allora per indicare coloro che si atteggiano da signori si dice che indossano una sciammeria. La connessine con l’atto sessuale la si può trovare, appunto, nella baldanza e nel vanto di una sciammeria che alcuni uomini si fanno.
[118] Nu … cose: un po’ di tutto.
[119] Noi…ma italici no: Don Rocco aggiunge come argomentazione, per la sua tesi, il fattore generazionale. Don Rocco tiene a ricordare che la popolazione meridionale è di stirpe italica, mentre quella settentrionale è stata un melting pot razziale.
[120] Crinoline – Dalla metà degli anni cinquanta le gonne si allargano a dismisura, arrivando a raggiungere anche i sette metri di circonferenza. Per permettere di sostenere un tale volume le sottogonne rigide del periodo precedente vengono sostituite da gabbie di fili metallici leggere e pratiche che permettono una maggiore agilità di movimento nonostante il volume degli abiti. Le gabbie sono poi ricoperte ancora da una o più sottogonne di tessuto per ammorbidirne le forme e dare una migliore silhouette all’abito.
Per lasciar spazio al volume delle gonne, la vita degli abiti si sposta leggermente in alto. Il corpetto è comunque ancora aderente e le maniche più comuni sono a pagoda, ampie dal gomito in giù e indossate su sottomaniche in battista spesso ricamate.
I decori più comuni sono geometrici con abbondanti applicazioni di passamanerie alle maniche e in fondo alla gonna.
La sera, per il ballo, le scollature sono ampie e a cuore con maniche cortissime spesso accompagnate da guanti altrettanto corti che quindi lasciano le braccia nude.
La grande quantità di tessuto necessario a confezionare le amplissime gonne fa sì che spesso per un’unica gonna vengano confezionati due corpetti, uno da giorno e uno da sera da usare alternativamente.
Dopo il 1860 il volume della gonna non è più perfettamente circolare attorno al corpo ma si sposta sul dietro, sbilanciamento accentuato da un piccolo strascico, e in molti casi l’orlo non tocca più terra rivelando le scarpe. Questo e’ ottenuto anche grazie ai raccogligonna, dei particolari fermagli spesso in argento appesi alla cintura tramite un cordino e che servivano a sollevare la gonna per poter camminare più agilmente, per esempio in caso di pozzanghere.
[121] Gladstone - William Ewart Gladstone (Liverpool, 29 dicembre 1809 – Castello di Hawarden, 19 maggio 1898) è stato un politico inglese, Primo Ministro quattro volte.
Iniziò la sua vita politica nelle file dei conservatori: membro del parlamento dal 1833, entrò nel gabinetto di Peel come lord del Tesoro e poi sottosegretario delle Colonie.
Ritornò al governo nel 1841, come vice presidente del Board of Trade collaborando alla riforma doganale.
Nel governo conservatore di Aberdeen ricoprì la carica di cancelliere dello scacchiere riesaminando l’intero sistema dell’income tax: Per la sua ostilità verso il coinvolgimento britannico nella guerra di Crimea, si dimise dal governo.
Dopo le elezioni del 1859, Gladstone passò al partito Liberale di Palmerston che gli offrì di nuovo la direzione del cancellierato dello scacchiere.
Nel 1867 conquistò la leadership del partito Liberale e nel 1868 divenne per la prima volta primo ministro.
Il primo governo Gladstone avviò delle profonde riforme tra le quali la separazione tra Stato e Chiesa in Irlanda e la riforma agraria.
Battuto dai Conservatori di Disraeli nelle elezioni del 1874 guidò l’opposizione sino al 1880, anno in cui formò il suo secondo governo che fu turbato da varie crisi internazionali tra le quali la prima guerra Boera.
Il tentativo di concedere una larga autonomia all’Irlanda decretò la caduta del suo terzo governo che durò meno di sei mesi, dal 1 febbraio al 25 luglio del 1886.
Quando nel 1892 tornò al governo ripresentò il suo progetto di autonomia irlandese e questa volta riuscì a farlo approvare dal parlamento, ma la Camera dei Lord successivamente bocciò definitivamente la sua legge.
Nel 1893 si dimise da primo ministro per motivi di salute, ma rimase deputato sino al 1895.
[122] Ragione … zolfi di Sicilia: Tutto nacque da un conflitto tra il Regno di Napoli e Lord Gladstone, e da una lettera di quest’ultimo, nel 1851, fortemente pubblicizzata da carbonari, piemontesi e murattiani, in cui il Regno delle Due Sicilie era definito “la negazione di Dio, la sovversione d’ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo”.
In verità tutto traeva origine da un contrasto tra i due paesi, perché il re di Napoli non voleva concedere all’Inghilterra “il monopolio degli zolfi di Sicilia, industria che allora fruttava molto, essendo la Sicilia l’unica (o quasi) terra conosciuta che giacesse su quella maleodorante coltre, della quale il progresso, allora ai primi passi, voleva e doveva giovarsi”.
Della definizione di Gladstone si servirono i Piemontesi, una volta al sud, come alibi per mettere le mani su ogni cosa, per bruciare senza scrupoli interi villaggi, e per poter classificare come briganti, da fucilare senza pietà, tutti coloro che si ribellavano alle nuove tasse, alla leva obbligatoria, al Dittatore perpetuo Garibaldi, e ai redentori garibaldini dai cognomi un po’ strani, per un siciliano.
[123] Obici: L’obice è un’arma da fuoco di grosso calibro, impiegata prevalentemente per il tiro indiretto sui bersagli.
Nel tiro di artiglieria le parabole descritte dai proiettili (prendono il nome di proiettili quelli di obici e cannoni, che ruotano su se stessi durante il loro percorso, mentre si dicono bombe quelle da mortaio, che non ruotano) si distinguono in primo e secondo arco. Il primo arco parte dalla linea retta teorica che si otterrebbe per il tiro ad alzo zero, fino alla parabola che consente al proiettile di raggiungere la distanza (gittata) maggiore. Alzi (e quindi angoli di tiro rispetto al terreno) superiori accorciano la gittata ma consentono di superare ostacoli più elevati. Il tiro col secondo arco è di norma meno preciso rispetto a quello con il primo arco. Caratteristica distintiva dell’obice rispetto al cannone è la capacità di effettuare tiri sia con il primo arco che con il secondo. Il mortaio di norma spara solo con il secondo arco.
[124] Vittorio Emanuele … La Marmora: L’episodi è passato alla storia come il Sacco di Genova: Genova s’era ribellata al Regno di Sardegna e fu per questo assediata e pesantemente bombardata (incluso l’ospedale) ed infine abbandonata al saccheggio dei bersaglieri del generale Alfonso La Marmora, appena sconfitti dagli austriaci ed inviati dal giovane Re a riprendere il controllo della città, ove la soldataglia piemontese si abbandonò a indicibili atti di ferocia ai danni della popolazione civile.
Vittorio Emanuele scrisse in francese una lettera d’elogio al La Marmora (aprile 1849), definendo il popolo genovese in lotta per riconquistare la propria antica indipendenza "vile e infetta razza di canaglie" (vile et infecte race de canailles).
[125] Settembrini…Poerio - Luigi Settembrini soggiornò per circa otto anni nel penitenziario borbonico dell’isola di S. Stefano. Quando nel 1851 la Gran Corte Speciale di Napoli lo condannava a morte assieme a Filippo Agresti e a Salvatore Faucitano (pena commutata in ergastolo), a seguito del processo celebratosi a carico di 42 imputati politici appartenenti alla setta L’Unità Italiana, fu imbarcato su una nave con destinazione diretta per l’isola di S. Stefano.
Durante il processo, Settembrini e gli altri patrioti erano rinchiusi nel carcere della Vicaria. La Corte li condannò il 1 febbraio 1851. Nei due giorni successivi ci fu la commutazione della pena di morte in ergastolo. Il giorno 4 i condannati furono condotti in catene sul porto di Napoli dove furono imbarcati sulla nave Nettuno. La mattina del 5 un gruppo di 18 condannati fu fatto scendere dalla nave e condotto nel carcere di Nisida, da dove, nei giorni successivi, ciascuno fu avviato alle destinazioni definitive (Carlo Poerio, Michele Pironti, Cesare Braico, Vincenzo Dono, Gaetano Errichiello e Nicola Nisco nel penitenziario del Castello d’Ischia).
Settembrini restò in permanenza nel penitenziario di Santo Stefano fino al 17 gennaio 1859, data in cui fu imbarcato assieme ad altri sul vapore Stromboli per essere condotto in esilio perpetuo a seguito di commutazione della pena in tal senso.
Il viaggio per l’esilio americano fu interrotto dal figlio Raffaele che con un colpo di mano liberò il padre e gli altri deportati, dirottando la nave per l’Inghilterra, dove Settembrini soggiornò fino al marzo 1860, per poi trasferirsi a Parigi, quindi in Italia: Torino, Livorno, Firenze. Già quattro anni prima c’era stato un tentativo, da parte di fuorusciti italiani residenti in Inghilterra, di liberare, con la nave Isle of Thanet, Settembrini e gli altri detenuti politici dal penitenziario di Santo Stefano. Il comando della spedizione era stato affidato a Garibaldi che aveva accettato con entusiasmo. Ma l’affondamento della nave a causa di una tempesta, prima che iniziasse il viaggio, nell’ottobre del 1855, fece fallire la spedizione in partenza.
[126] Agesilao Milano (S. Benedetto Ullano 1830 - Napoli 1856) - Un breve cenno alla questione relativa all’esistenza o meno di una cospirazione. Lo storico Raffaele De Cesare sostiene la mancanza di "seri elementi cospiratori", le posizioni degli amici del Milano, e soprattutto la ricostruzione del processo fatta dallo storico Michelangelo Mendella fanno protendere per l’esistenza di un piano che prevedeva l’attentato, frutto di una vera cospirazione che si andava definendo nella casa di Antonio Nociti a Napoli dove partecipavano, oltre naturalmente ad Agesilao Milano, gli amici Attanasio Dramis di S. Giorgio Albanese, Giambattista Falcone di Acri, Giuseppe Mendicini di S. Giorgio Albanese, Sergente del III Reggimento Cacciatori, lo stesso in cui militava il Milano, Orazio Rinaldi ed altri. La cospirazione prende consistenza nel quadro della politica del murattismo, fortemente sostenuta dalla Francia.
L’attentato di Agesilao Milano non fu dunque l’opera di un isolato; ma fu l’atto terminale cui tendeva una vera e propria cospirazione politica contro lo Stato borbonico. Cospirazione chiaramente ispirata dal murattismo, dilagante nelle regioni meridionali fra il 1850 ed il 1860.
[127] uguali né di lingua né di cuore: La tesi esposta da Alianello è molto importante, perché presenta l’arma principale della Controstoria, cioè la rielaborazione di ogni possibile fatto storico, facendo passare i vincitori per vinti e viceversa. Alianello mostra infatti la differenza tra ‘Eroe nazionale’ e ‘brigante guastafeste’. Il primo si batte per l’ideale coincidente a quello dei vincitori, l’altro va in contrasto con esso e si trova quindi dalla parte dei vinti.
[128] pezzo duro: gelato
[129] zecchinetta: gioco d’azzardo con le carte in cui, chi tiene il banco distribuisce a se stesso e agli altri giocatori una carta, poi scopre via via le altre carte del mazzo fino a trovarne una identica a quella in possesso di un giocatore che sarà dichiarato vincitore
[130] chi … io o tu?: Don Raffaele, parlando della vita del Sindaco, ricorda di tutta quella povera gente che, per acquistare prestigio e ricchezza, hanno appoggiato i piemontesi, senza pensare ad eventuali conseguenze negative.
[131] San Fele - San Fele è un comune situato nella zona del Vulture.

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