lunedì 29 agosto 2011

Il primo soggiorno di Caravaggio a Napoli di Massimo Capuozzo

Agli inizi del secolo, mentre vigeva ancora il gusto per forme intellettualistiche e idealizzanti care allo spirito della Controriforma, caratteristiche dell'ultimo Manierismo più ritardatario e provinciale ed espresse in una stanca koinè e quasi del tutto priva di voci dominanti – da Francesco Curia a Girolamo Imparato, da Fabrizio Santafede a Belisario Corenzio e Luigi Rodriguez – quasi per incanto, apparve improvvisamente Caravaggio compare e scompare due volte dalla scena napoletana.
Caravaggio, con una modernissima intuizione, aveva cominciato a diffondere nell’arte un nuovo verbo, basato sull'impatto drammatico di una pittura tratta dal naturale, ossia dalla visione in presa diretta della realtà, attraverso il guizzo ora descrittivo, ora violento della luce nell'attimo in cui essa si rivela. Ma il senso della rivoluzione caravaggesco non stava solo nell’aspetto tecnico della camera oscura quanto nel suo particolarissimo ed inusitato modo di narrare: nelle sue opere i popolani, infatti, non sono, come era accaduto in tanta pittura italiana della Controriforma, spettatori che pregano, infelici appestati, accattoni e poveracci, plebe verso la quale la pittura aveva rivolto uno sguardo pietoso, ma diventano i protagonisti. Uomini e donne del popolo sono travolti dall’infinita oscurità dell’universo e della Storia. Caravaggio nella pittura opera una rivoluzione, al pari di quanto fa Galilei nella scienza, attribuendo dignità di cultura al sapere per esperienza sensibile, alla verità affermata in base ai fatti e non in base all'autorità e rapportando i sacri misteri alla realtà dolorosa degli eventi comuni di ogni giorno.
Caravaggio soggiornò solo pochi mesi a Napoli, ma tanti bastarono per lasciare un impatto sconvolgente sulla pittura napoletana, per certi versi stagnante, che, dal tranquillo corso tardo-manierista, fu deviata alle durezze del suo straordinario naturalismo. La sua presenza catalizzò le energie locali impegnate già con gran fervore nell’ammodernamento di tutta la Napoli sacra, costituita da innumerevoli chiese e conventi, che si allargavano e che si innovavano senza sosta alla ricerca di sempre maggiori fasti e onori.
L’arrivo di Caravaggio a Napoli non fu tuttavia fortuito: Caravaggio fuggiva, una fuga che lo accompagnò fino alla morte. Alla fine di maggio del 1606, durante una rissa scoppiata per futili motivi, il maestro era stato ferito, ma aveva ucciso a sua volta uno dei contendenti, Ranuccio Tomassoni. Era passato solo meno di un anno da quando Caravaggio era fuggito a Genova, ma adesso si trovava in una situazione disperata non era la solita zuffa, questa volta l’aveva fatta grossa. Non si trattava di una comune rissa, ma di un omicidio e nemmeno di un omicidio qualunque: Ranuccio, infatti, era il figlio dell'ex colonnello Luca Antonio Tomassoni, una figura di spicco di cui l'aristocrazia filospagnola si ricordava bene per i servizi militari prestati ai Farnese e la morte di un Tomassoni era particolarmente sgradita per il nuovo papa, schierato con gli spagnoli, ed i Tomassoni avevano un'influenza politica. La modalità della morte – «Caduto a terra Ranuccio», racconta Baglione, «Michelagnolo gli tirò una punta, e nel pesce della coscia feritolo, il diede a morte» – contribuì ad indurire il cuore di Paolo V Borghese, un papa moralizzante nei confronti di Caravaggio, ed a rendere implacabile la famiglia Tomassoni nel volere la morte dell'assassino. Giustizia pontificia e vendetta familiare rendevano Caravaggio una presenza compromettente perfino nella casa della persona più potente. Ricercato dalla giustizia pontificia, scappò precipitosamente, trovando protezione presso i principi Colonna, da sempre suoi protettori, nello specifico presso il principe Martino Colonna, che lo aveva accolto dopo essere fuggito da Roma e per il quale dipinse la Cena di Emmaus. Già in questa tela le figure umane, emergendo dall'ombra, mostrano tutto il sofferto carico interiore di passioni e di emozioni, caratteristico del periodo trascorso al Sud, passato sempre in fuga nell'ansia e nella speranza di poter un giorno tornare a Roma.
Caravaggio giunse a Napoli nel settembre 1606, dove rimase per circa un anno, preceduto dal clamore e dallo scandalo sociale e morale delle opere prodotte a Roma. A Napoli la sua fama era già ben nota a tutti: i Colonna lo avevano affidato ad un ramo collaterale della famiglia, i Carafa-Colonna, importanti membri dell'aristocrazia napoletana. Napoli, per un artista famoso, significava committenze, quindi lavoro assicurato. Era la capitale di un regno parte del grande impero spagnolo, in cui si concentrava la ricchezza attraverso i tributi e i redditi dell’aristocrazia feudale ed era la sede privilegiata dei grandi affari.
La Napoli che lo accolse fuggiasco, era una città enorme e babelica. Era la Napoli spagnola e, in quel periodo, governava, con la consueta politica di sfruttamento, il viceré spagnolo Pimentel de Herrera, conte di Benavente: la città contava circa 350.000 abitanti e, dopo Parigi, era la più popolosa d’Europa, una città in evoluzione veloce e violenta, una città militarizzata nei cui Quartieri spagnoli o nel cui porto allignavano la prostituzione e gli altri tipici mondi paralleli a quello delle armate – luoghi in cui il disagio sociale e la povertà si tingono di un colore nuovo, quello della violenza urbana, percepita coscientemente da parte delle istituzioni, che tentavano di dare risposte al malessere della plebe. Nella città dilagavano delinquenza, contrabbando, prostituzione, estorsioni: dai quartieri spagnoli col loro carico di lenoni e di gente di vita, con le risse fra Nazione spagnola e Nazione napoletana, con stranieri che arrivano al porto da tutto il Mediterraneo, provengono i personaggi ed il clima narrativo delle Sette opere di Misericordia e lì possono essere stati visti gli aguzzini della Flagellazione. In questa Napoli il conte di Benavente tirava avanti con tasse e con quella taciturna quanto sorda tolleranza nei confronti dei soprusi dei baroni e dei feudatari, in un clima di religiosità ossessiva, cui però la povera gente le affidava le proprie speranze, proprio così come questa povera gente appare nella Madonna del rosario.
In questa Napoli, caotica e proteiforme, Caravaggio visse un periodo felice e prolifico per quanto riguarda le commissioni, lavorando instancabilmente: i Colonna lo aiutarono, facendogli ottenere contatti e referenze, ma il suo nome e la sua fama erano ben noti anche a Napoli. Presto Caravaggio ricevette commissioni dagli imprenditori lombardi operanti in città, tra cui Fenaroli che gli richiese tre tele destinate alla cappella Fenaroli nella chiesa di S. Anna dei Lombardi, raffiguranti la Resurrezione di Cristo, San Francesco che riceve le stimmate ed un San Giovanni Battista: le opere purtroppo sono andate perdute durante il terremoto del 1805, che distrusse la chiesa e la cappella che le custodiva.
Eseguì la Madonna del rosario, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Controversa è la committenza dell’opera, infatti, secondo alcuni, il committente sarebbe stato Nicola Radulovic, un ricco mercante di Ragusa in Dalmazia, ed all'inizio la composizione avrebbe dovuto comprendere la Madonna in trono con i Santi Nicola e Vito, ma rifiutato dal committente, il quadro sarebbe stato poi modificato nella struttura per espressa volontà dei Domenicani. Secondo altri invece, ed è questa l’ipotesi più percorribile, il quadro fu probabilmente eseguito per decorare la cappella di famiglia nella chiesa napoletana di San Domenico Maggiore, su committenza di Luigi Carafa-Colonna, parente di Martino Colonna. A suffragare questa ipotesi, il rimando alla famiglia Colonna starebbe, appunto, nella grande colonna a sinistra alla quale è legato il grande drappo rosso che sovrasta la scena quasi come un sipario. Il tema trattato nella tela è prettamente domenicano. San Domenico ed i suoi frati avevano diffuso la devozione del rosario e la Madonna, iconograficamente rappresentata come Regina Coeli, indica il santo alla sua destra che tiene fra le dita dei rosari; alla sua sinistra San Pietro Martire domenicano ed accanto a San Pietro Martire, San Tommaso d'Aquino, il più famoso di teologi Domenicani. Madonna, Bambino e santi formano un triangolo sacro celato classicamente dai supplicanti disposti frontalmente inginocchiati in preghiera con le braccia stese verso San Domenico, mentre un gentiluomo, probabilmente il committente, guarda verso l'osservatore.
Sempre in questo periodo realizzò una delle sue opere più importanti, che si rivelò un cardine per la pittura nel sud Italia e per la pittura italiana in genere, la cui composizione, rispetto alle pitture romane, è più drammatica e concitata, non esistendo più un fulcro centrale dell'azione. Proprio quest’opera sarà di grande stimolo per la successiva pittura barocca partenopea: Caravaggio il 9 gennaio 1607 consegnò al Pio Monte le Sette opere di Misericordia, oggi esposto accanto a dipinti di Battistello Caracciolo, Fabrizio Santafede, Luca Giordano.
La Congregazione del Pio Monte della Misericordia comprendeva tra i suoi aderenti anche Luigi Carafa-Colonna ed aveva commissionato al maestro la tela delle Sette opere di Misericordia per l’altare maggiore della Chiesa dell’istituzione caritatevole napoletana. In relazione a quanto richiesto dalla committenza, Caravaggio fece riferimento alle opere di misericordia corporali, interpretando il tema evangelico in maniera personale e realizzando una tela di grandi dimensioni (390×260 cm). Ancora una volta Caravaggio realizza un’opera rivoluzionaria in cui le azioni di misericordia e di solidarietà si attuano simultaneamente nel vicolo: la luce dell’imbrunire mette in movimento e ferma come in un fotogramma una folla gesticolante che rappresenta un'umanità costituita dalle diverse classi sociali in atto in un quadrivio napoletano. La stessa inclusione della Madonna della Misericordia col bambino e gli angeli per volere della committenza non diminuì la capacità del pittore di esprimersi in maniera personalissima e Caravaggio, allontanandosi dall’iconografia tradizionale che voleva la Vergine raffigurata col mantello sotto il quale doveva accogliere l’intera comunità di fedeli, attribuisce alla Madonna le sembianze di una dolcissima popolana, forse ripresa dalla verità nuda di Forcella, come popolani sono quegli angeli lazzari che fanno la voltatella all'altezza dei primi piani e che sorreggono il bambino.
La composizione è scandita in due gruppi, ancora una volta sacro e profano, come nell’immediatamente precedente Madonna del rosario. Nella parte in alto la Vergine col Bambino, che con volto sereno e tranquillo, guarda verso il basso quasi per mostrare materno consenso ed umana simpatia alle figure sottostanti. E poi, anch’essi rivolti alle scene sottostanti, i due angeli, quasi abbracciati, ma è solo uno dei due che sostiene l’altro, circondandolo con le braccia.
Sotto sono rappresentate le sette opere, in una sintesi possente e quasi senza soluzione di continuità. Visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati sono sintetizzate in un’unica immagine, che rappresenta una figlia che, di nascosto, nutre con il suo latte il padre – in riferimento a quanto scrive Valerio Massimo nel De pietate, che il vecchio Cimone era rinchiuso in carcere e che non gli davano da mangiare e sua figlia Pero ottenne di visitarlo e di nascosto dai carcerieri lo nutriva col latte del suo seno. In seppellire i defunti si vedono appena i piedi lividi e le gambe di un cadavere portato a sepoltura: la figura dietro la donna che nutre il padre col suo latte, è un sacerdote che regge una torcia accesa che illumina il viso e la veste bianca della donna, un particolare rilevante perché unico esempio di una sorgente luminosa in un quadro del pittore mentre in tutte le altre opere il fascio di luce viene da una sorgente posta all’esterno della scena. Sulla destra il gruppo gemina dalla figura di San Martino, rappresentato come un giovane gentiluomo che, in vestire gli ignudi, dopo aver diviso in due il suo mantello, ne dà una metà ad un uomo seduto per terra ripreso di spalle in una struttura fisica michelangiolesca; proprio immediatamente dietro il giovane con il mantello, Caravaggio raffigura un signore benvestito indica la sua casa ad un pellegrino che simboleggia ospitare i pellegrini, e sempre a San Martino è collegata la figura in basso dello storpio che rappresenta curare gli infermi. A culmine del gruppo di sinistra dare da bere gli assetati, che parte della critica ravvisa la figura di Sansone nell’uomo che beve dalla mascella di un asino, perché nel deserto bevve l’acqua fatta sgorgare miracolosamente dal Signore: l’eroico Sansone non sta compiendo un atto di misericordia, invece è lui che è salvato dalla grazia di Dio.
Con quest’opera dalla composizione serrata, che concentra in una visione d'insieme diversi personaggi, Caravaggio abbandona ogni schema tradizionale ed attua una vera e propria rivoluzione, rappresentando con estremo realismo e con perfetto sincretismo talune scene bibliche, storiche ed altre di tipo quotidiano con alcuni rinvii mitologici. Il naturalismo caravaggesco trova qui il suo compimento: sebbene stilisticamente il dipinto si avvicini alle ultime pitture di Caravaggio a Roma, in particolare al Martirio di San Matteo per la soluzione compositiva di un gruppo di figure variamente atteggiate che si dispongono lungo delle direttrici a raggiera, esso se ne differenzia per l'utilizzazione di una luce che scolpisce le forme attraverso un chiaroscuro più netto e frantumato in cui la scelta di soggetti reali e l'alto livello di simbolismo sono condensati in un'unica scena. Il significato morale di fondo è il rapporto tra le opere misericordiose che uomini compiono come avvicinamento a Dio e la misericordia della Grazia che Dio rende agli uomini, un tema inevitabile in una pala destinata ad una congregazione dedita a questo tipo di attività caritativa.
L'artista lavorò poi alla Flagellazione di Cristo per la cappella de Franchis in San Domenico Maggiore: la lavorazione, realizzata fra il 1606 ed il 1607, fu abbastanza travagliata infatti nella parte inferiore, soprattutto all'altezza del perizoma del torturatore di destra sono evidenti segni di pentimenti e rimaneggiamenti, rivelati dagli esami radiografici che hanno rivelato una testa d'uomo, probabilmente il committente, successivamente cancellata, in obbedienza alle precise ragioni della committenza che volevano evidenziare la crudeltà degli aguzzini, profondamente diversi da quelli raffigurati come uomini semplici costretti ad un lavoro faticoso nella Crocifissione di San Pietro della chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.
Il quadro (286 x 213) mostra il luminoso torso di Cristo, legato alla colonna, con intorno tre aguzzini, che sembrano scaricatori del porto, che affiorano e, immergendosi a turno nell'ombra, organizzano una girandola di tormenti che sembra non poter avere fine. Al centro della composizione campeggia la figura di Gesù, legato a una colonna: è un corpo bellissimo, tornito classicamente dalla luce, anatomicamente perfetto, in torsione, un corpo muscoloso che contrasta col volto rassegnato, dolente, malinconico sembra fluttuare in un movimento danzante di memoria manierista.
Tuttavia la violenza espressa dai carnefici, è sapientemente inquadrata in un contesto pittorico caratterizzato dalla consueta razionalità dello spazio e della luce. Staccati dalla colonna centrale i personaggi si distribuiscono in maniera sintetica ad eccezione del più lontano, chino e quasi completamente immerso nell’ombra. Lo sfondo è nero o scurissimo e le espressioni di malvagità sono appena visibili, ma eloquenti sui volti degli aguzzini nerboruti, intenti a procurare martirio sulla carne di Cristo, così debole eppure sensuale nella rappresentazione di un corpo magnifico ed illuminato.
La bellezza di Cristo appare esaltata, anziché impoverita, dalle violenze patite, secondo una descrizione non nuova per Caravaggio: abituato a proporre il paradosso a lui molto caro, accentua i movimenti rozzi e brutali dei modelli tratti dal popolo per dare maggiore risalto al candore protagonista, a sua volta sconcertante per la capacità di comunicare un impulso di carnalità profana.
Qui Caravaggio continua il suo percorso di approfondimento nella rappresentazione del pathos: il dolore non esplode violentemente, non è gridato, è dominato, è contenuto, e perciò è tanto più intenso, sentito e comunicato allo spettatore. L’immagine coglie l’attimo che precede il culmine del dramma, quando il corpo di Cristo cede spossato alla forza bruta dei due carnefici che lo stanno legando. Gli aguzzini si accaniscono violentemente nei confronti del corpo inerme di Cristo. La luce investe e modella il corpo di Gesù, svelandone la perfezione e l’eroica purezza, in contrasto con la sudicia e scarna anatomia dei torturatori. Il pittore propone in Cristo una fisicità atletica che però è mortificata dall’atteggiamento di umiltà del capo reclino e delle gambe leggermente piegate, ad indicare l’atteggiamento psicologico e spirituale di volontaria sottomissione alla Passione. Gesù è immerso nell’atmosfera buia, interrotta solo dall’intenso bagliore della luce riverberata sulla sua figura. L’immagine torturata sembra così emergere dalla cortina di buio, suggestiva come un’apparizione, favorendo la concentrazione e la commozione del fedele inginocchiato e in preghiera. Il modellato delle anatomie è robusto e corposo come in tutte le opere meridionali del maestro.
Tuttavia sembra che Caravaggio non riesca a trovar pace neppure a Napoli. Bellori narra che sia stato il desiderio «di ricevere la Croce di Malta solita darsi per gratia ad huomini riguardevoli per merito e per virtù» a spingere Caravaggio ad imbarcarsi per Malta ed è probabile che l’artista, entrando a far parte del Sacro Ordine Gerosolimitano, sperasse di potersi mettere al sicuro dal “bando capitale” emesso dal tribunale pontificio. Sempre per intercessione dei Colonna, si trasferì a Malta: a condurlo sull’isola potrebbe essere stato un altro esponente della famiglia che lo protegge, quel Fabrizio Sforza Colonna – figlio della marchesa di Caravaggio e generale della flotta maltese – che proprio nell’estate del 1607 fece scalo a Napoli proveniente da Marsiglia.
Massimo Capuozzo

giovedì 25 agosto 2011

Chiesa e Reale Monastero di San Bartolomeo a Castellammare di Stabia

Secondo la tradizione, ai tempi di Carlo I d'Angiò fu fondato presso l'attuale chiesa della Madonna della Sanità, una chiesa ed un monastero, ma a tutt’oggi è ignoto l'anno preciso della fondazione.
Questo monastero era esposto a continue incursioni di fuorilegge, perché situato fuori della città e, in seguito alle disposizioni del concilio di Trento, il vescovo Maiorana decise di costruire un nuovo complesso entro le mura cittadine; per questo nel 1576 furono comprate la casa di Roberto de Marchese alla Dohana vecchia e quella di Nicola Vaccaro a Campo di Mola ed iniziarono i lavori e s'innalzò dalle fondamenta una nuova chiesa nella strada Dogana, poi detta S. Bartolomeo. Il 18 luglio 1583 le suore accompagnate dal vescovo si trasferirono dall'antico nel nuovo monastero, con disappunto degli abitanti del sito dove esse abitavano che, rivoltandosi, ostacolarono la levata delle campane della antica chiesa. La nuova chiesa fu benedetta il 21 agosto 1673 dal vescovo Pietro Gambacorta.
Il monastero fu sempre governato dai Frati Minori Riformati da un guardiano e da un procuratore secolare. Anticamente in questo monastero si potevano monacare solo fanciulle nobili e la più antica Badessa di cui si ha memoria è la nobile Chiara Cannavacciuolo sul finire del secolo XV. Quando il vescovo andava in visita al monastero, era consentito solo al sindaco dei nobili entrare col vescovo nella clausura; essi erano attesi dalle suore all'ingresso della clausura, dove veniva intonato il Te Deum e poi processionalmente, preceduti dalla croce, si portavano nel coro dove, dopo l'orazione allo Spirito Santo, la Badessa, la Vicaria e le suore prestavano la prescritta obbedienza al vescovo, leggevano le regole del monastero e la funzione terminava con la visita alle reliquie di S. Bartolomeo e di S. Gennaro.
Nel 1684 oltre l'altare maggiore sono annotati i seguenti altari: Altare di S. Bartolomeo, di S. Maria del Soccorso, di S. Tommaso, del Crocifisso, di S. Michele Arcangelo.
Nella seconda metà del sec. XVIII la chiesa fu rimaneggiata: nel 1780 furono costruiti gli otto coretti e nel 1792 l'atrio ed il cancello di ferro avanti la chiesa.
La chiesa si presenta oggi a navata unica ed è preceduta all'esterno da atrio chiuso da cancelli di ferro, affidati a pilastri di pietra piperno.
Presenta sull'altare l'altare maggiore di marmo, con ciborio una tela del 1700 raffigurante Il martirio di S. Bartolomeo, opera di Francesco Landini, donato nel 1782 alle suore dalla regina Maria Carolina di Napoli. Davanti all'altare maggiore è una balaustra di marmo con portelli di ottone; all'interno, ai lati dell'opera del Landini, sono conservati due grandi quadri ad olio dedicati al santo.
Le quattro cappelle laterali con altari di marmo, sono dedicate, a sinistra, al S. Crocifisso, con crocifisso bizantino ligneo del 1111 restaurato nel 1836 e alla Vergine Immacolata; a destra a S. Francesco d'Assisi e a S. Ludovico. Ciascuna cappella è dotata di quadro ad olio con raffigurazione del santo cui è dedicata.
Presso l'altare di S. Francesco è esposta una copia dell'Immagine di Maria S.S. della Speranza. Presso l'altare di S. Ludovico si trova la statua della vergine di Fatima; presso quella di S. Francesco è una statua di S. Catello e presso l'altare del crocifisso una di S. Giuseppe.
Lo splendore e le ricchezze di questo monastero terminarono alla soppressione degli ordini religiosi ed il monastero passò in proprietà del Comune di Castellammare.
Nel 1924, l'amministratore Apostolico Luigi Lavitrano, arcivescovo di Benevento affidò alle suore adoratrici della provincia napoletana. Il 14 settembre 1924 si riaprì questo monastero.
Sul lato destro c'è il campanile, accessibile dal monastero, dotato di tre piccole campane.
Sempre sul lato destro è la sacrestia, di regolare ampiezza, illuminata da due vani di finestrini con cancelli fissi di ferro, rete e telaio di lastra sulla Strada S. Bartolomeo.
Presso la porta maggiore della chiesa vi sono due lapidi in marmo: quella a destra ricorda la consacrazione della chiesa nel 1821, quella a sinistra si riferisce al trasferimento del monastero dalle alture della città e ricorda le reliquie di S. Bartolomeo e S. Gennaro, conservate nel monastero stesso.

mercoledì 24 agosto 2011

Il vero Cristo sepolto dalla chiesa: lo Gnosticismo. Di Massimo Capuozzo

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Sono esistiti, all'inizio, non uno ma diversi cristianesimi.
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Una delle sue versioni ha successivamente preso il sopravvento sulle altre: ha stabilito, secondo il proprio punto di vista, il canone delle Sacre Scritture e si è imposta come ortodossia, relegando le altre al rango di eresie e cancellandone il ricordo. Noi possiamo però oggi, grazie a nuove scoperte di testi e a una rigorosa applicazione del metodo storico, ristabilire la verità e presentare finalmente Gesù di Nazareth per quello che fu veramente e che egli stesso intese essere, cioè una cosa totalmente diversa da quello che le varie Chiese cristiane hanno finora preteso che fosse.
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Nuove scoperte di nuovi testi hanno modificato il quadro storico sulle origini cristiane.
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Gesù non ha mai voluto fondare alcuna religione.
Gesù è l'Uomo che ha coscienza e conoscenza di sé e che, con il solo atto di volontà cambia la realtà, ossia il miracolo.
Gesù è venuto a portare la conoscenza che ci hanno sempre nascosto sulla natura dell'uomo che è ANIMA. Egli è venuto a dire che possiamo essere come lui, vero Uomo e vero Dio.
La religione fu voluta da forze che non sono solo di questa Terra, per dividere le genti e assoggettare la volontà umana nascondendoci la nostra stessa natura.
Gesù non è religione, è Vita.
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Nel dicembre del 1945, a Nag Hammadi, nell'Alto Egitto, furono scoperti decine di manoscritti di sconvolgente importanza perché rivelarono un cristianesimo profondamente diverso da quello che conosciamo.
Oggi, a più di sessant'anni di distanza e dopo un lavoro di decifrazione e di studio durato decenni, è possibile avere un'idea più precisa di Gesù, che cosa ha detto veramente, chi erano gli apostoli, qual era il ruolo di Maria di Magdala.
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Diversamente da quello che si crede la chiesa è un gruppo di uomini che portano avanti, quanto deciso nei secoli, le parole di uomini che intesero e diffusero il messaggio di Gesù in funzione dei loro fini.
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Questo video introduce la scoperta di fondamentali rivelazioni di un cristianesimo primitivo, rimasto nascosto per duemila anni, dove la conoscenza di Sé, la Gnosi, è il tema centrale ed è la via che conduce all'unità.
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Quella conoscenza che la chiesa ha definitivamente sepolto attraverso i due consigli ecumenici svolti nella città di Nicea dove definirono chi aveva ragione e chi era eretico all'interno della stessa chiesa. Uomini che decisero chi fosse Gesù e quale messaggio avesse portato. Uomini che decisero quali testi erano giusti e quali errati. Anche i 4 vangeli canonici del nuovo testamento servono a questo.
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Uomini che non sono Dio, sono uomini! Come può, quel Dio che è libertà e che desidera che ogni uomo lo cerchi liberamente, affermare che lo si faccia attraverso chi si assume il diritto di insegnare quanto è stato definito da un gruppo di uomini?
Occorre riflettere, occorre assumersi la responsabilità verso ciò che si crede.
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Occorre sostituire il credere con in capire!
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L'amore è relazione e solo amando si è vivi.
Per te che mi stai ancora leggendo metto in relazione le parole seguenti: La religione è diventata superstizione ed idolatria, credenza, rituale!
La bellezza della verità e le sue sottigliezze non sono nella fede e nel dogma, non sono mai dove l'uomo le può trovare perché non esiste nessuna via che conduce a quella bellezza. Non è un punto fisso o un porto di salvezza. Ha la sua propria dolcezza e il cui amore è incommensurabile, non puoi trattenerlo o farne esperienza, non ha un valore di mercato da usare o mettere da parte.
C'è solo quando la mente ed il cuore sono vuoti, liberi da ogni pensiero.
Tutte le ricerche e le scoperte non hanno alcun significato a meno che la mente non sia libera dal suo condizionamento.
Quella liberà è il primo e ultimo gradino!
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Non c'è alcuna via verso la verità sia essa storica o religiosa, non è da esperire o da trovare nella dialettica, ne da vedere in opinioni mutevoli e credenze. Ti imbatti in essa quando la mente è libera da tutte le cose che ha messo insieme. La mente deve essere libera da qualsiasi autorità. Non devono esserci ne seguaci, ne discepoli, ne metodi.
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Non appartenete a niente, non legatevi ad istituzioni e non siate discepoli di nessuno. Dubitate di tutto quello che dicono i guru o i sacerdoti orientali ed occidentali che siano e a maggior ragione dubitate di quello che vi dice chi vi parla.
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Massimo Capuozzo

Storia della chiesa e dei suoi crimini: i Catari. Di Massimo Capuozzo

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Nel sud della Francia viveva un popolo la cui religione per certe specificità fu concorrenziale alla Chiesa Cattolica d'Occidente.
L'eresia dei Catari o Puri fu l'incubo del papato agli albori del secondo millennio. La repressione della Chiesa fu commisurata alla paura che i Catari potessero, con il loro credo, mettere in crisi l'intero fondamento della chiesa cristiana.
Il catarismo era un movimento cristiano con alcune particolarità che lo distinguono dal Cristianesimo. Per i Catari esistono un Dio malvagio, falso e crudele (Satana) e un altro Dio, buono, santo e giusto. Il mondo materiale è opera del Dio malvagio, mentre il creatore di ciò che rimane in eterno è il Dio Buono. I Catari erano convinti che Satana avesse scritto il Vecchio Testamento. Per loro Abramo non era altro che una figura diabolica. Tutte le cose materiali che si vedono sulla terra sono vane e vengono da Satana. La terra è un luogo malvagio e tornerà nel nulla da dove è venuta. Satana ha modellato tutto dalla materia preesistente, il Dio Buono crea dal nulla. L'uomo è fatto di corpo, anima e spirito. Il corpo è stato modellato dal Dio malvagio, mentre l'anima e lo spirito sono creati dal Dio Buono. L'anima si trova nel corpo, mentre lo spirito è al di fuori e sorveglia l'anima. Gesù Cristo è la salvezza, Egli rivela la verità, libera gli spiriti imprigionati ed indica la via che porta al Dio Buono.
Per i Catari il battesimo non è quello d'acqua, ma è un battesimo spirituale, che gli uomini ricevono da adulti. Con il battesimo l'anima si riunisce con lo spirito. Solo chi ha ricevuto il questo battesimo faceva parte della Chiesa di Dio, e questi erano chiamati Parfaits, mentre gli altri erano i Credenti. L'unione per eccellenza di anima e spirito è quella tra Maria Maddalena e il Cristo. Per i Catari esisteva la reincarnazione. Le persone che non avevano ricevuto il battesimo spirituale si sarebbero reincarnate da una a nove volte. "Ogni creatura fatta dal Padre celeste sarà salvata, e nessuno di loro perirà... essi andranno di corpo in corpo, finché non giungano in un corpo nel quale pervengano allo stato di verità e di giustizia e vi diventino buoni cristiani" dicevano Giacomo Antier e Guglielmo Balbaria.
I Catari criticavano la Chiesa Cattolica. A questa era contrapposta la loro Chiesa, una Chiesa interiore. Non ammettevano il battesimo dell'acqua né l'eucarestia, non esisteva alcun edificio sacro, la loro Chiesa erano i fedeli in mezzo ai quali stava Gesù e vi sarebbe rimasto fino alla fine del mondo. Una loro preghiera recita: "Padre santo, Dio legittimo degli spiriti buoni, che non hai mai ingannato né mentito né errato, né esitato per paura della morte a discendere nel mondo del Dio straniero - perché noi non siamo del mondo né il mondo è nostro - concedi a noi di conoscere ciò che tu conosci - e di amare ciò che tu ami. Farisei ingannatori, che state alla porta del regno e impedite di entrare a coloro che lo vorrebbero, mentre voi non volete! Per questo prego il Padre santo degli spiriti buoni, che ha il potere di salvare le anime, e fa germogliare e fiorire per gli spiriti buoni, e per causa dei buoni dà vita ai malvagi e lo farà finché essi vadano nel mondo dei buoni".
I Catari erano buoni cristiani, non sono da considerare eretici, tanto che San Bernardi di Chiaravalle diceva di loro: "Nessun sermone è più cristiano dei loro e la loro morale è pura".
I Catari avevano qualcosa che poteva mettere in discussione il cattolicesimo? Come poteva la Chiesa Cattolica rimanere insensibile? Anzi doveva fare di tutto per impossessarsene. Bisognava prendere una decisione, l'unica possibile era il loro sterminio. C'è da aggiungere che in quel periodo il movimento cataro era molto radicato nella Linguadoca ed era diventato ormai alternativo al cattolicesimo.
La risoluzione nell'occultare il Sapere (Sophia), che fosse religioso, filosofico, scientifico, portò a sterminare chiunque si opponesse al suo progetto: non si trattava, infatti, di singoli eretici da punire, ma di un fenomeno di vasta portata, cui l'Europa dell'epoca non era abituata, e che ricordava i grandi movimenti religiosi scismatici che avevano afflitto l'impero romano d'oriente. È difficile spiegare altrimenti la creazione di un potentissimo mezzo di soppressione come l'inquisizione, la costituzione dell’ordine domenicano, preposti a controbattere le dottrine catare, e all'organizzazione di una crociata, cristiani contro cristiani, con connessa licenza di massacro.
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Nel 1209, l'esercito crociato condotto da Arnaud-Amaury, abate di Citeaux, massacra la quasi totalità della popolazione di Béziers, senza distinzione d'età o di sesso. Circa 25000 furono i morti, tra cui donne e bambini che si erano rifugiati nella chiesa San Nazaire: gli abitanti rigettarono la richiesta di consegnare i catari ed in quella circostanza, ad Arnaud-Amaury, fu attribuita la frase "uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi".
Che cosa giustificò una così efferata crociata fu l'uccisione?
Il 14 gennaio del 1208 presso Arles, di Pierre de Castelnau legato di Papa Innocenzo III dei Conti di Segni, fu ucciso per mano di sconosciuti, ma artatamente circolò la voce che incolpava i Catari come esecutori. Il grave fatto di sangue permise al papa di suonare subito le trombe di guerra. Inoltre uno stato sovrano, come la Francia, dilaniata dalla guerra dei cent'anni, sarebbe potuto essere messo in discussione da questa setta e dal suo alleato laico, il potente conte di Tolosa, essa quindi fu schiacciata dall'azione combinata tra Stato e Chiesa.
Nel 1244 cadde l'ultima fortezza, Montségur, a 40 Km da Rennes-le-Château. I Catari si erano stabiliti nella fortezza nel 1208, due anni dopo che Raymond de Péreille, signore di Montségur, la aveva ristrutturata. L'architettura della fortezza di Montségur ha una particolarità: durante il solstizio d'estate, i primi raggi del sole attraversano il loggione da parte a parte, per alcuni è un caso, per altri è la prova di un culto solare.
Era il desiderio di essere in armonia con la natura. Comandante della difesa era Pierre-Roger di Mirepoix, e il Conte di Tolosa Raymond VII li aiutava inviando loro viveri e acqua. Nel mese di gennaio del 1244 due catari lasciarono la fortezza per nascondere in una grotta il loro tesoro. Il 13 marzo dello stesso anno, tre Perfetti e un credente, lasciarono la fortezza, durante una tregua, portando via qualcosa di molto prezioso per loro e legato alla "loro religione", un tesoro spirituale.
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Il segreto di un nascondiglio di un tesoro più che materiale?
Pierre Roger di Mirepoix dichiarò agli inquisitori che i tre Parfaits erano fuggiti, affinché la Chiesa Catara non perdesse il suo tesoro e non restasse privo del suo tesoro nascosto, nella foresta di cui solo i tre "parfait" ne conoscevano il nascondiglio. Essi si erano congiunti con il loro spirito celeste.
Pierre-Roger Mirepoix era discendente di Mérovèe Levi, signore di Mirepoix, il quale, su ordine di Bera II, aveva salvato Sigiberto IV portandolo a Rennes Le Château, quando Pipino II fece assassinare Dagoberto II. Pierre Roger di Mirepoix era molto legato alla sovranità merovingia. I Crociati dovevano recuperare qualcosa a Montségur, ma non la trovarono mai, perché era stata portata via la notte di quel famoso 13 marzo 1244. Il loro segreto lo conoscevano anche i Templari, che nella notte di venerdì 13 ottobre 1307 vennero messi al rogo.
Nei paesi catari, non solo non era concepita l'idea della violenza, ma convivevano in perfetta armonia, catari, cristiani, mussulmani ed ebrei. Essi intendevano tornare al modello ideale di chiesa descritto nei vangeli e negli atti degli apostoli.
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Un'isola felice dell'anno 1000 è definitivamente morta.
Massimo Capuozzo

Una morte sospetta: i 33 giorni di Giovanni Paolo I

I video contenuti in questo articolo forse saranno rimossi perché sono video scomodi. Perché la verità è scomoda sempre e l'ignoranza da sempre riempie il tempio di Dio.

Il 26 agosto 1978 Albino Luciani è eletto Papa con il nome di Giovanni Paolo I. È trascorso appena un mese quando, il 29 settembre 1978, tutta la Chiesa Cattolica, da Roma al Sudamerica, è scossa dalla triste e inaspettata notizia: il Papa è morto. I fedeli, che in appena trentatré giorni di pontificato sono stati conquistati dalla semplicità, dall'animo gentile, ma determinato di Giovanni Paolo I devono già rassegnarsi a piangerlo.
Da Cardinale di Venezia, Albino Luciani era salito al soglio di Pietro dopo un rapidissimo conclave, nel quale fu eletto grandissima maggioranza come successore di Paolo VI. Nonostante avesse scelto, come mai prima era accaduto, un doppio nome in ossequio ai suoi predecessori, alcuni gesti innovatori avevano inaugurato il suo pontificato rompendo la continuità con alcune tradizioni ecclesiastiche, ad esempio con l'abolizione del plurale maiestatis e della tiara papale.
In realtà, facendo proprio a suo modo lo spirito del Concilio Vaticano Secondo, Giovanni Paolo I si proponeva come un riformatore, sostenendo ogni misura che potesse ricondurre la Chiesa all'umiltà, alla povertà delle prime comunità cristiane. Proprio mentre il suo messaggio comincia a farsi chiaro, ad essere accolto, il Papa del sorriso se ne va, in silenzio e nell'arco di una sola notte, lasciando i credenti impreparati alla sua precoce dipartita, turbati ed amareggiati per aver perso un pastore caritatevole e carismatico che tanto avrebbe potuto ancora far per la Chiesa.
Questa perdita appare ancora più difficile da accettare anche perché, fin dal primo momento, molti nodi oscuri avvolgono le circostanze della morte, e il confronto tra le versioni ufficiali del Vaticano e le notizie trapelate anziché fare chiarezza una volta per tutte, ha contribuito negli anni ad alimentare le contraddizioni.

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Alcune incongruenze sorgono proprio dal documento ufficiale emesso dal Vaticano il giorno seguente per informare il mondo, cattolico e non, della scomparsa di Giovanni Paolo I; la stessa Curia ha ammesso poi che questo comunicato stampa si è rivelato fonte di inesattezze, ma il Sacro Collegio non ha mai smentito la dichiarazione né, viceversa, confermato in via formale il referto medico redatto dal dottor Buzzonetti.
Il documento fissa il decesso intorno alle ore 23 del 28 settembre e ne attribuisce la causa ad un infarto acuto del miocardio, ma entrambe le attestazioni saranno oggetto di controversia, così come sarà contestato il fatto che la triste scoperta sia opera del segretario personale del Papa. Buona parte delle imprecisioni nasce probabilmente da una generale disorganizzazione dell'apparato che si trova a gestire una situazione così insolita.
Come i fedeli, anche il Vaticano non può aspettarsi il trapasso di un pontefice eletto appena un mese prima, ed oltretutto proprio perché il recente conclave ha concesso licenza a molti cardinali: la loro temporanea assenza da Roma concorre a complicare l'amministrazione responsabile della crisi.
Le incertezze nel dare il resoconto ufficiale degli eventi hanno quindi fornito argomenti a quanti ne metteranno in discussione l'attendibilità per elaborare delle spiegazioni alternative: le ipotesi si moltiplicano con il passare del tempo, anche se alla luce dei fatti nessuna può essere provata o confermata.
In primo luogo sembra mancare chiarezza anche su quali fossero le condizioni di salute di Papa Luciani al momento del suo arrivo a Roma. Se da una parte un pregresso di otto interventi chirurgici, sommati ad una generale cagionevolezza, il precedente di un'embolia all'occhio durante un viaggio in aereo e una probabile predisposizione genetica ad improvvisi malori (che portarono al prematuro decesso molti altri membri della famiglia Luciani), favoriscono una convergenza sulle cause naturali, non tutti si mostrano d'accordo con questa spiegazione: le notizie continuano ad uscire con il contagocce, e nonostante le richieste provenienti da ogni parte la Chiesa non autorizza il ricorso all'autopsia.
La mancanza di un riscontro che possa comprovare una versione definitiva, correggendo o contrastando l'iniziale comunicato-stampa, è interpretata da più parti come il tentativo di nascondere la verità, di insabbiare la reale dinamica degli avvenimenti.
In particolare le rimostranze, da parte anche di prelati, riguardano il rifiuto del Vaticano nell'autorizzare un esame autoptico sul corpo del Papa, che forse le circostanze eccezionali avrebbero potuto giustificare e le illazioni rendevano opportuno.
Si parla dunque di embolia, crisi per il troppo stress, un attacco di tisi polmonare ma è ipotizzato anche un errore nell'assumere calmanti, o addirittura l’omicidio. La tesi dell'assassinio elaborata dal giornalista inglese David Yallop non trova in effetti motivi lampanti per essere smentita (insiste tra l'altro sull'avvelenamento da digitalina, che nemmeno un'autopsia riuscirebbe a trovare), garantisce celebrità al suo assertore e riapre il dibattito intorno ad un mistero ancora apparentemente irrisolto.
Se i parenti più stretti del Papa, cioè il fratello Edoardo e la sorella Nina, sconfessano l'idea di complotto dipingendola come una sciocchezza, solo Don Diego Lorenzi parla di dolori al petto che il Papa avrebbe accusato il giorno della sua morte, mentre da altre fonti si stima che le sue condizioni di salute fossero perfette. Tutte queste congetture però non possono essere dimostrate, mancando qualsiasi tipo di prova certa ed inconfutabile.

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Proprio come permangono dubbi sulle cause della morte di Papa Luciani, che sono il punto cruciale della vicenda, le diverse ricostruzioni non si trovano in accordo nemmeno su alcuni importanti dettagli.
Il referto medico indica nelle 23 l'orario in cui presumibilmente il pontefice sarebbe venuto a mancare, e pure l'esperto inglese John Cornwell, al quale la Chiesa affiderà nel 1987 delle indagini sul caso, conferma questa collocazione nella tarda serata. Però, secondo il racconto di Suor Vincenza, incaricata di servire Papa Giovanni Paolo I e solita servirgli la colazione, il corpo risultava ancora caldo in mattinata. Gli stessi fratelli Signoracci, che si sono occupati della sistemazione della salma, sostengono di aver ravvisato solamente lo stadio iniziale dei processi di ipostasia e irrigidimento, come tracce di una morte sopraggiunta soltanto poche ore prima del loro arrivo il mattino del 29 settembre 1978.
Inoltre, un'ulteriore incongruenza emerge confrontando la versione ufficiale, che vede nel segretario personale Don Lorenzi il primo ad accorgersi dell'accaduto, con la traduzione informale e probabilmente più attendibile che vorrebbe invece attribuito quest'onere proprio a Suor Vincenza. In questo caso un’intransigente moralità dei costumi in uso in Vaticano, tentando di nascondere l'episodio nel timore forse eccessivo di poter disonorare la memoria del Santo Padre, avrebbe finito con l'aggrovigliare i fili della matassa.
Ancor più confusione circonda la descrizione delle letture che avrebbero accompagnato il Papa al sonno, dato che le dichiarazioni ufficiali sono state nuovamente smentite: secondo il racconto di Monsignor Farusi (gesuita, giornalista per Radio Vaticana) non si sarebbe trattato de L'imitazione di Cristo, perché proprio nel pomeriggio del 29 settembre dalla segreteria sarebbe trapelato che il Papa stava tenendo in mano degli appunti. Se per Mons. Farusi il contenuto di questi fogli è destinato a rimanere nel mistero, il vaticanista Gennari e soprattutto Yallop sono convinti che Giovanni Paolo I stesse preparando un progetto di ristrutturazione delle gerarchie ecclesiastiche, che prevedeva la sostituzione di personaggi-chiave, come il segretario di Stato Cardinale Villot, e un rinnovamento dei vertici della banca vaticana. L'interpretazione del giornalista Andrea Tornielli, più recente e più “morbida”, propende comunque per descriverli come semplici appunti di un'omelia.
Le opinioni sembrano però convergere almeno su un punto: Giovanni Paolo I era un innovatore. Sebbene si concordi nel ritenere Luciani, prima parroco e poi vescovo e cardinale, un teologo conservatore e inflessibile davanti alle questioni fondamentali della fede, e per altri aspetti in qualche modo erede di una cultura concreta e sanguigna, genuina come quella delle montagne bellunesi, è fuor di dubbio che la sua attività pastorale fu contraddistinta da un’eccezionale apertura al rinnovamento.

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Questa, unita alla straordinaria capacità di farsi ascoltare e capire da tutti, lo rendeva un personaggio carismatico ed amatissimo dai suoi fedeli. L'elezione al conclave aveva consegnato ad Albino Luciani il difficile compito di introdurre a Roma la semplicità, l'umiltà che gli appartenevano e di riportare la Chiesa alla sua originale austerità.
Erano anni costellati di eventi oscuri e situazioni poco trasparenti: Luciani conosceva già dal suo patriarcato a Venezia l'operato dello IOR e non approvava il legame tra Chiesa, economia ed ambienti massonici istituito dal Cardinale Marcinkus (ed è proprio questo il filo tematico che sostiene l'impianto delle ipotesi cospirative di Yallop).
L'impronta riformatrice di Papa Giovanni Paolo I, però, non si limita solo a questo: anche l'abolizione di rituali vetusti e di simboli superati, come la tiara e la sedia, sono sintomo di una tendenza al cambiamento, nella prospettiva di traghettare la Chiesa al nuovo secolo senza timore per le contestazioni (egli era rafforzato da un conclave estremamente compatto al momento dell'elezione).
I pochi discorsi che Luciani ha avuto il tempo di lasciare nelle vesti di Papa sono impregnati di un tale carisma che indicano chiaramente come sarebbe potuto proseguire il suo pontificato e continuano a trasmettere ai credenti un forte messaggio d'umiltà e di speranza. Sono proprio le petizioni dei fedeli ad aver spinto all'avvio della causa di beatificazione promossa dal vescovo di Belluno e sostenuta dal clero brasiliano. E, forse più importante delle stesse parole, il ricordo di Papa Luciani regala ancora quel sorriso capace di conquistare tutti.

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I banchieri di Dio. Recensione e film

Considerato l'attuale gravissimo stato di censura e di manipolazione delle informazioni da parte dei media, si invita alla massima pubblicazione e diffusione.

Un chiodo fisso quello di Giuseppe Ferrara che si è tolto dopo 15 anni, riuscendo finalmente a far uscire il suo film nelle sale, dopo bocciature e polemiche. Sette anni dopo "Segreto di Stato" in cui denunciava i guasti dei servizi segreti italiani, Ferrara ritorna sulla storia politica d'Italia degli anni '80, tra bancarottieri, monsignori e faccendieri, e racconta la storia di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano dal 1975, arrestato nell''81 per il fallimento del Banco, condannato a 4 anni di reclusione e 15 miliardi di multa, fuggito all'estero e infine trovato impiccato il 18 giugno del 1982 sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra. Dopo aver raccolto un'enorme mole di dati ed informazioni non solo su Calvi ma anche sul Banco Ambrosiano, lo IOR, l'Opus Dei e la Massoneria, Ferrara sí inerpica per le ripide pendici di un caso sul quale la giustizia italiana non ha fatto ancora oggi piena luce, nelle cui maglie era rimasto, sebbene per poco, intrappolato persino il Vaticano. Un film nel quale c'è tutto: dalla P2, all'attentato al Papa, alla guerra delle Falklands. Tra comparsate e camei passano sullo schermo personaggi politici come Andreotti, Craxi, o bancarottieri come Michele Sindona e la vicenda di Calvi si dipana, o sarebbe meglio dire si complica, tra agenti segreti tuttofare come Francesco Pazienza e ambigui faccendieri come Flavio Carboni, mentre i responsabili della banca vaticana Paul Marcinkus e il suo braccio destro Mennini si assicurano la salvezza con giochi di firme e di potere. Come fu per "Il caso Moro" Ferrara svolge indagini con il suo film e tira le proprie conclusioni.
Chi ha assassinato Roberto Calvi? Chi ha dato l'ordine di farlo fuori? Cosa conteneva la famosa valigetta nelle mani del faccendiere Carboni? Misteri inghiottiti dalle acque del Tamigi, a partire da quel 17 giugno dell' 82 quando il cadavare del presidente del Banco Ambrosiano venne trovato sotto il ponte dei Frati Neri, a metà strada tra il Parlamento e la Torre di Londra. Oggi, a vent'anni dall'accaduto, il film di Giuseppe Ferrara ci riporta a quel periodo tra i più intricati e misteriosi della nostra storia recente. Non c'è un caso da riaprire, due sentenze hanno già detto quasi tutto, semmai è una vicenda "esemplare" che aiuterà a capire meglio anche la realtà di oggi. Una storia che aspetta da tredici anni di sbarcare al cinema, perchè il progetto di Ferrara è in cantiere da tempo e per varie ragioni è stato sempre bloccato. E' il bravissimo e anche molto somigliante Omero Antonutti a restituire un Calvi sconfitto abbandonato dagli altri, altri che sono Ortolani, Gelli e Sindona. Dal carcere di Lodi dove finisce nel maggio dell'81 le sue dichiarazioni tirano in ballo politici di governo ed ecco che nel film vediamo comparire sosia di Craxi, Andreotti, Piccoli e Forlani e nemmeno il Pci esce indenne dalla vicenda, al partito sono andati "in prestito" 35 miliardi di cui quattordici mai restituiti. La messa in scena del finto suicidio non risparmia a Calvi la condanna a quattro anni per esportazione illegale di capitali. In libertà provvisoria il banchiere sente che tutto sta per crollare da un momento all'altro e il buco dell'Ambrosiano ammonta ormai a 1.400 milioni di dollari. I faccendieri Francesco Pazienza (Alessandro Gassman) e Flavio Carboni (Giancarlo Giannini), chiedono denaro a tamburo battente per corrompere la magistratura, mentre l'eminenza grigia, il vescovo Marcinkus (Rutger Hauer), ricambia antichi e cospicui favori - i famosi 900 milioni di dollari a sostegno di Solidarnosc - emettendo dallo Ior lettere di garanzia che sedano temporaneamente il mercato azionario. Dopo la morte di Calvi lo Ior dovrà tirar fuori altri 240 milioni di dollari. Ma il film non è solo uno spaccato dell'Italia in affari a cavallo tra gli anni 70 e 80, che mette a nudo le stupefacenti manovre finanziarie, da far girare la testa, tra Vaticano, massoneria, mafia, etc.. Al centro del film non ci sono solo i poteri forti, più o meno occulti, ma la vicenda dell'uomo Calvi, l'uomo che credeva di dominare il potere, ma alla fine è stato il potere a travolgerlo.
Il produttore - "Fare un film su Calvi è da sempre un tabù - spiega il produttore Enzo Gallo - perchè tocca uno dei tanti misteri irrisolti della cronaca e coinvolge molti grandi poteri italiani rimasti gli stessi di allora. Dopo 13 anni oggi finalmente riusciamo a fare il film pur tra tante difficoltà, il Vaticano ad esempio continua ad essere off limts per noi. Fare questo film è stato un atto di coraggio, chiedere alle banche un prestito per metterlo in cantiere significa farsi guardare in cagnesco".

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