giovedì 10 novembre 2011

Il nuovo protagonismo dei philosophes italiani: dalla collaborazione alla rottura con i principi e l’utopia giacobina. di Massimo Capuozzo

La molteplicità di temi, di orientamenti comuni, di rapporti personali e di gruppo lega la cultura illuminata dei primi decenni del secolo a quella del medio ed anche tardo Settecento.
Il carattere specifico dei diversi momenti, si può ritrovare essenzialmente nel loro rispettivo radicarsi in diverse situazioni socio-storiche nel corso dei vari decenni del secolo e di conseguenza nel rispondere a sollecitazioni diverse ed in particolare, su un piano di rapporti fra le idee, di storia delle idee, nel tener conto di contributi nuovi, spesso di assoluta importanza – si pensi a Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Hume ecc.
Intorno alla metà del secolo e poi in seguito, proprio da quest'ultima circostanza deriva soprattutto una letteratura – sicuramente meno ricca di opere memorabili come la Scienza nuova o il Triregno – aperta piuttosto all'assimilazione critica, al dibattito, alla divulgazione, secondo un'ampiezza di interessi assai più rilevante che non in passato – economia, economia politica, pedagogia ecc. –, e legata strettamente alle esigenze ed alle richieste di una società in attiva espan­sione, specialmente in alcuni importanti nuclei urbani – Venezia, Bologna, Milano, Torino, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e altri minori – dove, nel corso del secolo cominciò a svilupparsi un ceto intermedio, variamente impegnato in attività funzionariali, imprenditoriali, commerciali, finanziarie. Questa classe in formazione – matrice della grande borghesia ottocentesca – si componeva in parte di plebei, di roturiers, in parte di nobili, e un suo tratto comune era appunto la richiesta di cultura non astratta, ma strettamente funzionale ai propri bisogni, di strumenti conoscitivi sia in relazione al suo ruolo sia sul sempre più rapido sviluppo delle scienze e delle tecniche. Si trattava di una «domanda» di cultura sostanzialmente nuova, rispetto ai primi decenni del secolo, e da essa derivarono alcune conseguenze di ampia portata nella letteratura del tempo:
·         In primo luogo il minore credito e spazio, riservati ad esperienze di pura invenzione, di assoluta creatività, esperienze che intorno alla metà del secolo si riducono, di fatto, vistosamente.
·         In secondo luogo, il nascere di nuovi generi, come il saggio di breve respiro, alla maniera di Algarotti, o il romanzo-saggio, alla maniera di Chiari, o il modificarsi di generi tradizionali, come la lirica o il poemetto, su cui per esempio Parini (si pensi al Giorno e alle prime Odi) compie, intorno al 1760, arditi interventi trasformativi.
·         Infine, il configurarsi di un uomo di lettere accentuatamente professional, sempre più libero da dipendenze cortigiane (altra cosa è ora il buon rapporto, spesso disinvolto, con i sovrani illuminati), molto attento all'anda­mento e alle richieste del mercato librario e giornalistico.
Se questi sono alcuni tratti strutturali della letteratura illuminata medio e tardosettecentesca, si può ancora notare come essa presenti un quadro ideologico fonda­mentalmente unitario, al di là delle complesse differenze di ambienti, di anni, di personalità variamente formate, di prospettive spesso divergenti quando non antitetiche. Si tratta di considerare la tensione alla raison come linea di forza dell'intera cultura dei Lumi e del tradursi di tale tensione in proposte e impegni di riforma, che non vale solo per i primi decenni, ma anche per la cultura illuminata del medio e del tardo Settecento, purché però subito si avverta come in quest'ultima si verifichi una «rettifica di tiro», certamente legata ai fenomeni strutturali appena richiamati: si passa in altre parole dall'esigenza di massima, spesso astrattamente speculativa, di investire della luce viva della «ragione» alcuni dati di fondo della realtà dell'uomo (l'e­sperienza storica, l'arte ecc.), alla cura di esplorare nei dettagli, con quella stessa luce, l'accidentato terreno dell'esistenza, sia individuale sia collettiva. Un impe­gno esplorativo che mira ora a tradursi in proposte ed in tentativi di «riforma» delle realtà investigate, nella prospettiva di una dinamica del mondo sociale e storico in atto, nell'idea che la varia realtà dell'esistenza – cose gruppi istituzioni – possa e debba modificarsi in meglio, procedere, «progredire».
Certo oggi sappiamo che la realtà delle cose è ben più complessa e contraddittoria e non ci è difficile renderci conto di come l'articolazione esasperata delle idee di ragione e di progresso rappresenti l'ideologia, mitica copertura concettuale di questo mondo europeo impe­gnato nella vicenda espansiva, e per esempio «di che lacrime grondi e di che sangue», di bianchi e di negri e di «selvaggi», l'affermazione del progresso in termini non solo teorici o verbali. E sappiamo anche riconoscere in che misura quella stessa articolazione abbia finito per produrre quel caratteristico atteggiamento mentale non certo venuto meno con l'età dei Lumi, e che oggi si è soliti appunto definire illuministico.
Tuttavia quelle prospettive medio e tardosettecentesche costituiscono non solo un'acquisi­zione di assoluto rilievo nell'intelligenza occidentale, ma anche un elemento decisamente centrale nella «dinamica di sviluppo» del secolo, a mezzo fra antico e nuovo, e fino all'età rivoluzionaria e poi napoleonica ancora ampiamente e profondamente coinvolto nelle proprie radici feudali.
Dalla seconda metà Settecento, l’intensificarsi delle iniziative riformiste da parte dei sovrani illuminati portò ad una più marcata dislocazione degli intellettuali italiani dai ranghi della Chiesa a quelli degli Stati.
Animati dal rinnovato senti­mento di missione sociale e civile cui adempiere, i letterati diventarono, ad imitazione di quelli francesi, philosophes, cioè cultori enciclopedici di discipline concrete — diritto, economia, amministrazione —, pronti a servire la causa delle riforme, al seguito dei principi illuminati.
Non si trattò ovviamente di un passaggio in massa, perché una parte dei letterati restò attardata su posizioni superficialmente arcadiche e accademiche. L’eccezione anzi riguardò «la grande maggioranza degli intellettuali – scrive Giuseppe Galasso in Potere e istituzioni in Italia del 1974 – legati alla cultura arcadica, alla vita di corte, alle antiche accademie e inaccessibili alla situazione politico-culturale determinata dalla rottura rivoluzionaria». Certamente però la parte migliore dell’intellettualità italiana passò all’Illuminismo.
Fra loro fu diffusa la convinzione della propria indispensabilità, ali­mentata dalla grande considerazione e dal grande favore accordati loro dai responsabili del potere politico. Come ai tempi dell’Umanesimo, infatti, gli uomini di cultura erano ricercati, contesi, adulati: Kaunitz, ministro di Maria Teresa, ad esempio, non nascose al conte Firmian la sua preoccupazione per l’invito rivolto da Caterina di Russia a Cesare Beccaria, lamentando la «penuria in cui siamo in provincia di uomini pensatori e filosofi». Ma più che al tempo dell’Umanesimo, i letterati ebbero la convinzione di contare di fronte ai principi, dando «consigli – scrive ancora Galasso nel citato volume – dei quali un governo avveduto, per il bene dei suddetti e del paese, non può fare a meno, perché sono i consigli della ragione illuminata».
Rispetto agli umanisti, i nuovi intellettuali avevano anche un’idea diversa della cultura, che non si fondava più sul primato petrarchesco della parola fine a se stessa, ma sulla capacità di divenire strumento per trasformare il mondo e quindi non per essere più tanto testo letterario quanto piuttosto saggio, inchiesta, ricerca sulle questioni dell’econo­mia, della legislazione, dell’amministrazione, scritti con intento di conoscenza, di educazione, di propaganda. Questo atteggiamento, del resto, era maturato già nei decenni precedenti e si trova lucidamente affermato da Muratori nel Trattato della pubblica felicità, scritto nel 1749, «un libro – come scrive Cesare De Michelis in Il mercato della letteratura in Con felice esattezza del 1998 – che insegna ad un mercante, ad un marinaio, a un giardiniere o agricoltore, ad uno speziale, ecc. il suo mestiere col meglio di quell’arte che cento libri di secca filosofia, di smilza erudizione e di poesie poc’altro contenenti che infilzate parole».
Ora quest’atteggiamento si accentuò fino a portare ad un autentico disdegno per la cultura fine a se stessa. Bisognava abbandonare «la vanagloria dell’astratta speculazione» scriveva Genovesi, e dedicarsi a fare gli uomini «meno contemplativi e più attivi». «Altra cosa è un uomo altra cosa un letterato», sentenziava senza appello Pietro Verri.
Tutto questo serve a spiegare in parte la relativa modestia, qualitativa e quantitativa della produzione letteraria vera e propria di questo pe­riodo e perché essa sia così spesso intinta di finalità pedagogiche e civili, come in Parini, o quanto meno di un bonario spirito di satira sociale, come in Goldoni, fa eccezione Alfieri, ma egli non era e non voleva essere un illuminista.
Fra i temi concreti agitati dagli intellettuali illuministi si fa largo quello della nazione italiana. Già nel primo Settecento, la parola «nazione» tendeva ad applicarsi prevalentemente all'Italia intera. Per gli intellettuali del primo Settecento si trattava, tuttavia, di una nozione priva di qualsiasi contenuto politico: nazione italiana era per loro l'insieme delle persone colte che intendono e parlano la lingua letteraria nata nel Trecento e codificata nel Cinquecento. In tal modo, comunque, si allargava il concetto di società italiana da quello ristretto di comunità dei letterati, che scrivono nella lingua di Dante, e del ristrettissimo pubblico delle corti a quello, più ampio, di «nuova classe colta nobiliare e borghese».
Ciò avvenne anche sotto lo stimolo del contatto e del confronto con la cultura francese che si dimostrava più compatta di quella italiana, grazie al supporto dell'unità statale.
Con l'Illuminismo l'idea di nazione italiana si evolse ulteriormente. Ora si tendeva a considerare italiani tutti gli abitanti della penisola, anche se non parlavano italiano – sebbene stravagante come concetto, perché non si sa bene in che senso essi fossero italiani – e la parola patria che, ancora all'inizio del secolo, era riferita al luogo d'origine, cominciava ad estendersi all'intera penisola ed acquistava progressivamente una valenza politica. Non siamo d'altra parte, ancora, alla rivendicazione di uno Stato indipendente per la nazione italiana così di recente scoperta. È opportuno, infatti, ricordare che gli illuministi erano strettamente legati ai principi e in generale tutti professavano assoluta lealtà allo Stato particolare cui essi appartenevano e che servivano. Ma quando la collaborazione coi principi venne meno ed i soldati di Napoleone esibirono, armi alla mano, l'esempio trascinatore della «grande nation», l'idea nazionale in senso moderno (patria = nazione = Stato) nacque nella pubblicistica giacobina per poi consegnarla alle generazioni risorgimentali.
Per almeno due o tre decenni la collaborazione fra intellettuali e governi sembrava rafforzare nei secondi il senso della loro importanza ed indispensabilità. Per tutto questo periodo, come funzionari, consulenti, pubblicisti ascoltati, gli intellettuali collaborano attivamente coi governi più dinamicamente impegnati sul terreno delle riforme – cioè quelli di Milano, Parma e Piacenza, Firenze, Napoli – contribuendo agli sforzi intesi a superare le sopravvivenze dello Stato «cittadino» e feudale, a favorire lo sviluppo agricolo e le finanze pubbliche e ad affermare definitivamente il principio della laicità dello Stato contro le pretese della Chiesa. Questa partecipazione diretta degli intellettuali alla politica delle riforme spiega il relativo moderatismo degli illuministi italiani rispetto ai philosophes francesi, i quali, impossibili­tati a partecipare in prima persona alla vita pubblica, erano più facilmente tentati di assumere atteggiamenti estremistici.
Ciò è provato dal fatto che dove quella partecipazione e collaborazione coi governi non era possibile, lì si manifestavano le posizioni illuminate più radicali. È il caso del Piemonte dove «le punte più avanzate di quella cultura, Radicati, Giambattista e Dalmazzo Vasco, a differenza dei Verri e dei Beccaria – scrive Vitilio Masiello in Intellettuali e società nella tradizione culturale nazionale: modelli tipologici e codici assiologici del 1991 – si vedono relegati ai margini della vita associata [...]. E forse è proprio in questa loro posizione di intellettuali "sradicati" ed isolati la condizione dialettica così dell'estremismo e del radicalismo delle loro ideologie come di quella carica di amarezza e di ribellione che li caratterizza»; fin dopo gli anni '20 del secolo, Radicati aveva sottoposto a Vittorio Amedeo II un progetto che prevedeva «l'abolizione di ogni proprietà, le comunità dei beni, l'abbattimento di ogni autorità»; Dalmazzo Vasco, dal canto suo, cercava di realizzare una repubblica semisocialista nella Corsica insorta di Pasquale Paoli; suo fratello Giambattista scriveva un saggio in cui sosteneva calorosamente la necessità di distribuire la terra ai contadini.
Allo stesso terreno culturale appartiene anche l'astigiano Vittorio Alfieri, la cui appassionata ostilità al dispotismo regio però, più che eco dei nuovi tempi, è da considerare un fatto di attardato orgoglio nobiliare: «orgoglio e coscienza aristocratica – continua ancora Masiello –, senso della superiorità sua e della sua classe, classistico dispregio dei valori borghesi del vivere (associato all'indifferenza per i problemi concreti, sociali, economici e giuridici), spasmodica volontà di grandezza sono la base del titanismo alfieriano».
Diversa è la situazione degli illuministi della vicina Lombardia che, dopo «la fase astrattamente polemica e programmatica del Caffè», parteciparono in prima persona alla politica riformatrice dei funzionari asburgici. Se ne trovano i nomi più famosi fra quelli degli alti funzionari dello Stato: Pietro Verri e Cesare Beccaria facevano parte del Supremo consiglio di economia, Gianrinaldo Carli ne era presidente ed, in tale veste, possono mettere in atto e seguire le riforme da loro ideate e propugnate. «Chi lo avrebbe detto mai — commenta con compiacimento sorpreso Verri — che Pietro Verri, capo dell'Accademia dei Pugni [...] doveva essere successore di quei Magnifici to­gati!».
Anche chi come Parini si muoveva su un terreno strettamente letterario non si sottrasse agli impegni pubblici, come fece appunto l'autore del Giorno che, nel 1791, accettò di reggere la sopraintendenza delle scuole pubbliche. Ma anche Parini diede un tono decisamente moderato alla sua battaglia antinobiliare, poiché «il Giorno – dichiara Lanfranco Caretti in Parini e la critica: storia e antologia della critica del 1953 – non volle essere un atto di rottura col mondo aristocratico, con la società nobiliare, a cui in effetti era indirizzato e a cui offriva una terapia di riscatto e di salvazione».
Non meno direttamente impegnato — se non di più — il gruppo degli illuministi della Toscana dove Pietro Leopoldo I (1765-1790) sembrava intenzionato a spingersi fino alle soglie di un vero e proprio governo costituzionale. L'eccezionale buona disposizione del principe fece sì che quello toscano fosse un «illuminismo riformatore – scrive Franco Venturi in Da Muratori a Beccaria. 1730-1764 del 1969, primo volume della sua poderosa opera Settecento riformatore completata nel 1990 – pervaso dalla coscienza e dalla convinzione di avere nelle mani gli strumenti adatti all'opera» e che in Toscana la schiera degli illumi­nisti sia eccezionalmente nutrita. «La Toscana – scrive Guido Quazza in “La decadenza italiana nella storia europea. Saggi sul Sei-Settecento” del 1971 – è indubbiamente il vivaio più ricco fin dall'età precedente le Riforme, di "tecnici" intellettuali-amministratori, capaci di applicare la propria preparazione culturale all'attività quotidiana di governo» rispetto ai quali i letterati veri e propri rappresentano una categoria pressoché inesistente. È l'Illuminismo di Pompeo Neri che, dopo aver attuato a Milano il famoso catasto di Maria Teresa nel 1760, come consigliere di reggenza per le finanze giunge ad attuare la liberalizzazione del commercio dei grani, il censimento generale della popolazione, la legge sulle amministrazioni locali, la soppressione degli asili ecclesia­stici e delle manomorte; di Francesco Gianni, il più influente fra i consiglieri di Pietro Leopoldo che prosegue l'opera di Neri, di altri minori — Fabbroni, Rucellai, Tavanti, Paoletti — tutti più o meno ufficialmente inseriti nelle file dell'amministrazione leopoldina. Man­cano invece nella terra madre della poesia italiana dei letterati stricto sensu, il che denuncia una situazione ormai cronica di «scarsa fertilità della letteratura toscana – come scrive Walter Binni in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento del 1963 –, che rimane anco­rata ad una felicità di buona lingua e buona scrittura ... e resta chiusa a movimenti più forti del nuovo gusto fra Settecento-Ottocento, men­tre invece, con un singolare squilibrio fra cultura e letteratura, la Toscana appare fortemente impegnata nella prassi riformatrice di origine razionalistica e illuministica».
A Napoli la figura centrale della nuova cultura fu Antonio Genovesi che, dalla cattedra universitaria di economia, impartiva agli intel­lettuali meridionali una lezione di concretezza (il «vero fine della filosofia e delle lettere ... è di giovare alle bisogne della vita umana»). Attorno a Genovesi si formò un ampio gruppo di discepoli, il «partito genovesiano», che presentava al suo interno due orientamenti diversi, uno più moderato e direttamente impegnato nell'opera di riforma promosso dai Borbone e dal ministro Tanucci (G. Palmieri, G.M. Galanti, M. Dèlfico), l'altro detto degli utopisti, che nelle sue file ebbe come figure di maggiore spicco Gaetano Filangieri, il più vigoroso e deciso nella polemica antifeudale, convinto assertore della libertà e dell'eguaglianza. Da questo secondo orientamento uscì il generoso manipolo di intellettuali che diede vita alla repubblica partenopea spenta tragicamente nel sangue.
La collaborazione fra principi illuminati e intellettuali durò felicemente una ventina d'anni, poi entrò in crisi. Verso il 1775 i sovrani illuminati mostrarono una maggiore tendenza a fare da sé ed a trascurare la collaborazione degli intellettuali. Ora questi ultimi si accorsero che il loro potere contrattuale era, malgrado le illusioni, assai modesto e che, come sempre, essi sono dei profeti disarmati. Già quando Dalmazzo Vasco era stato arrestato a Roma, nel 1768, Pietro Verri aveva com­mentato amaramente: «La filosofia se non è armata di autorità deve celarsi e, se non lo fa, la persecuzione è sempre pronta». Ora la sensazione della propria impotenza si generalizzava.
In effetti, dietro gli illuministi non c'era il sostegno di una qualunque forza sociale. Essi non erano espressione di una classe – definita da W. Maturi in Interpretazioni del Risorgimento del 1962 «varia la composizione sociale e la maggior parte veniva dal medio ceto, ma vi erano anche nobili, preti, popolani: ciò che li univa era la cultura» – né volevano esserlo, nutrendo piuttosto l'ambizione di porsi come gli interpreti dei più veri interessi di tutte le classi e di tutti gli uomini: «Spogliatevi di ogni idea di ceto — aveva ammonito Verri — ; il ceto d'uomo dabbene è il genere umano». Le classi medie, peraltro le reali beneficiarie delle riforme, erano ancora troppo deboli e troppo poco consapevoli di loro stesse per contare qualcosa come forze sociali unitarie e per difendere l'inizia­tiva dei «filosofi». La nobiltà era ovviamente ostile e la massa anche, per motivi meno ovvi. In definitiva la forza di questi ultimi stava unica­mente nel bon plaisir dei principi e quando questo venne a mancare lo spazio dell'Illuminismo riformista si chiuse.
Del resto anche il successivo abbandono da parte dei principi delle velleità riformiste fu più un effetto della loro sostanziale debolezza sul piano degli equilibri sociali che non di sovrana volubilità. Certamente i sintomi e i presagi della bufera rivoluzionaria, che si preannunciava e si avvicinava dalla Francia, dovettero aver raffreddato più d'un entusiasmo, ma è anche vero che in taluni Stati, come a Napoli, la spinta riformista durò oltre 1’89. La verità è che i principi riformisti avevano preteso di rifondare i loro Stati senza assicurarsi il consenso di alcune forze sociali: avevano dato addosso al privilegio aristocratico, perché gelosi del loro assolutismo, senza stimolare una presa di coscienza e un sostegno consapevole da parte delle classi medie ed avevano finito per avere contro tutti, anche le masse popolari danneggiate dalla spinta capitalistica nelle campagne, dall'abolizione degli usi civici nelle terre ecclesiastiche e comunali e sobillate dalla propaganda reazionaria del clero.
Rimasti privi dell'appoggio dei principi, gli intellettuali si dimostrarono incapaci sia con le loro associazioni, clandestine e no – le accademie, la massoneria – sia con le loro asfittiche riviste a dar vita a un movimento politico in grado di proseguire il programma di ri­forme anche contro la volontà dei principi. Non mancò da parte loro l'appello all'«opinione» attraverso i giornali, e che questa «opinione» ci fosse davvero, che «il pubblico cioè rappresentasse ormai una realtà che era impossibile trascurare o ignorare», è provato dal fatto che i governi si videro costretti a rispondere con le stesse armi. Così «dal 1792 in poi, – come scrive Cesare De Michelis in Il mercato della letteratura in Con felice esattezza del 1998 – superata la sorpresa della rivoluzione, soppresse le voci scopertamente filofrancesi, si diffonde in Italia una vasta pubblicistica controrivoluzionaria, alla quale non manca, in più di qualche occa­sione, l'appoggio di settori più moderati dell'intelligenza illuministica e riformatrice». Così a questo punto l'illuminismo italiano svela la sua duplice anima, quella moderata—riformata e quella utopistica—rivoluzionaria. La prima nei travagliati anni che seguirono assunse una gamma di posizioni che andarono dalle posizioni francamente reazionarie di un Gianrinaldo Carli ad altre cautamente innovatrici, come quelle di Parini e di Verri che sedettero fra i moderati nella futura municipalità milanese. La seconda anima nutrì di sé i numerosi esperimenti giacobini del triennio 1796-99.
La stagione giacobina in Italia fu il frutto di un'illusione disperata: i rivoluzionari italiani pretendevano di vincere la loro rivoluzione «proprio quando la svolta del Direttorio stracciava definitivamente il giacobinismo francese». Ma non era comunque una battaglia assurda. Contrariamente a quanto suggeriva l'accusa autocritica di astratti­smo che Vincenzo Cuoco lanciò in seguito, la parte più intelligente degli intellettuali rivoluzionari comprese la necessità di associare le masse al loro sforzo rivoluzionario. Sul «Termometro politico della Lombardia» un «buon patriotta» ripeterà, con accenti che precor­rono quelli di Pisacane «finché avrà fiato: se volete far dei buoni patriotti nella gente ignorante e povera, adoperate lo specifico dell'interesse, non vi è altro mezzo al presente. Il metodo dell'educazione è eccellente, ma è troppo lungo»; mentre a Napoli Eleonora Fonseca Pimentel afferma la necessità di stabilire un collegamento con le plebi cittadine nella cui incomprensione vedeva «la ragione di nostri ultimi mali»: «la plebe diffida de' patrioti perché non gli intende». Della volontà di «andare verso il popolo» è testimonianza la fioritura del cosiddetto teatro giacobino, promossa da numerosi letterati rivoluzionari fra cui in primo luogo Matteo Galdi e Francesco Saverio Salfi in base alla convinzione, come afferma lo stesso Salfi, che i teatri andavano «considerati come gli organi più efficaci della pubblica istruzione».
È legittimo in definitiva parlare di un giacobinismo italiano che cercò l'alleanza con le classi subalterne e in particolare coi contadini e che «se non fosse stato conculcato dalla Francia direttoriale e napoleonica – scrive Armando Saitta in Ricerche storiografiche su Buonarroti e Babeuf del 1986 – avrebbe potuto realizzare la sua rivoluzione agraria».
Ma i francesi preferirono, appunto, mettersi d'accordo coi moderati; poi la fulminea riconquista austro-russa, sebbene effimera, giunse a fare strage del fior fiore del giacobinismo della penisola, quello napoletano.
Il quindicennio successivo, quello della dominazione napoleonica, fu per i letterati italiani un periodo di incertezza e di dubbio. Privi di autonomia, divisi sul giudizio da dare sul nuovo ordine politico e sull'uomo che lo personifica, sull'opportunità di opporsi o di collaborare, essi persero per alcuni anni la propria capacità di iniziativa. Fra i letterati la figura dominante fu quella di Foscolo che riassunse in sé le incertezze e le contraddizioni di tutti loro. La vita a Milano, centro focale dell'Italia napoleonica, non chi certo facile per chi, come lui, sapeva solo maneggiare la penna e la spada. Sebbene la capitale lombarda fosse una città culturalmente molto vivace l'ingegno letterario non diede da vivere a Foscolo. Perciò egli fu costretto a vivere del mestiere di soldato che lo coinvolse in vari fatti d'arme e lo obbli­gò a spostarsi in Italia e fuori d'Italia, sempre a corto di soldi perché la paga era scarsa, lo stile di vita megalomane e sregolato e, per di più, gravato dalle spese per l'edizione di opere che non si vendevano. Anche in questo la figura di Foscolo è esemplare della condizione del letterato, che comincia ora a liberarsi, ma ci riesce solo in parte, della sua secolare condizione di dipendenza economica. Foscolo potrebbe ingraziarsi il potere dispotico di Napoleone e dei suoi rappresentanti in loco. Il «regime» mostrava un atteggiamento benevolo verso gli intellettuali malleabili. La costituzione della repubblica italiana (poi regno d'Italia) prevedeva perfino che «l'organo primitivo della sovra­nità nazionale sia l'insieme di tre collegi elettorali, uno di "possiden­ti", uno di "commercianti" e uno di "dotti"». Ma Foscolo non era malleabile e nei Sepolcri c'è una trasparente satira contro i tre collegi:
«Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno
nelle adulate regge ha sepoltura
già vivo...»

e, già in sospetto per le sue idee radicali, continuò a rendersi sgradito per il suo spirito indipendente e per i suoi atteggiamenti di dissenso più o meno palese. In realtà le sue vedute politiche erano venute cambiando con gli anni e se in gioventù aveva nutrito idee democratiche ed ugualitarie, ora esse erano dileguate e, sebbene egli restasse convinto che le società siano sempre divise fra «gli oppressori e gli oppressi», fra «un aggregato di pochi che comandano per mezzo della spada e delle opinioni e di molti che servono», egli rinunciò a prendere le difese dei deboli ed affidò al letterato il compito di «dire il vero» perché ciò giova a rappacificare gli interessi degli individui (quindi, in definitiva, il letterato fa opera utile per il potere). L'ideale politico cui Foscolo restò più tenacemente affezionato fu quello della patria italiana, una e indipendente, sicché, a giusto titolo, la successiva generazione risorgi­mentale guardò a lui e ad Alfieri come ai propri precursori e padri spirituali.