giovedì 10 novembre 2011

Il nuovo protagonismo dei philosophes italiani: dalla collaborazione alla rottura con i principi e l’utopia giacobina. di Massimo Capuozzo

La molteplicità di temi, di orientamenti comuni, di rapporti personali e di gruppo lega la cultura illuminata dei primi decenni del secolo a quella del medio ed anche tardo Settecento.
Il carattere specifico dei diversi momenti, si può ritrovare essenzialmente nel loro rispettivo radicarsi in diverse situazioni socio-storiche nel corso dei vari decenni del secolo e di conseguenza nel rispondere a sollecitazioni diverse ed in particolare, su un piano di rapporti fra le idee, di storia delle idee, nel tener conto di contributi nuovi, spesso di assoluta importanza – si pensi a Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Hume ecc.
Intorno alla metà del secolo e poi in seguito, proprio da quest'ultima circostanza deriva soprattutto una letteratura – sicuramente meno ricca di opere memorabili come la Scienza nuova o il Triregno – aperta piuttosto all'assimilazione critica, al dibattito, alla divulgazione, secondo un'ampiezza di interessi assai più rilevante che non in passato – economia, economia politica, pedagogia ecc. –, e legata strettamente alle esigenze ed alle richieste di una società in attiva espan­sione, specialmente in alcuni importanti nuclei urbani – Venezia, Bologna, Milano, Torino, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e altri minori – dove, nel corso del secolo cominciò a svilupparsi un ceto intermedio, variamente impegnato in attività funzionariali, imprenditoriali, commerciali, finanziarie. Questa classe in formazione – matrice della grande borghesia ottocentesca – si componeva in parte di plebei, di roturiers, in parte di nobili, e un suo tratto comune era appunto la richiesta di cultura non astratta, ma strettamente funzionale ai propri bisogni, di strumenti conoscitivi sia in relazione al suo ruolo sia sul sempre più rapido sviluppo delle scienze e delle tecniche. Si trattava di una «domanda» di cultura sostanzialmente nuova, rispetto ai primi decenni del secolo, e da essa derivarono alcune conseguenze di ampia portata nella letteratura del tempo:
·         In primo luogo il minore credito e spazio, riservati ad esperienze di pura invenzione, di assoluta creatività, esperienze che intorno alla metà del secolo si riducono, di fatto, vistosamente.
·         In secondo luogo, il nascere di nuovi generi, come il saggio di breve respiro, alla maniera di Algarotti, o il romanzo-saggio, alla maniera di Chiari, o il modificarsi di generi tradizionali, come la lirica o il poemetto, su cui per esempio Parini (si pensi al Giorno e alle prime Odi) compie, intorno al 1760, arditi interventi trasformativi.
·         Infine, il configurarsi di un uomo di lettere accentuatamente professional, sempre più libero da dipendenze cortigiane (altra cosa è ora il buon rapporto, spesso disinvolto, con i sovrani illuminati), molto attento all'anda­mento e alle richieste del mercato librario e giornalistico.
Se questi sono alcuni tratti strutturali della letteratura illuminata medio e tardosettecentesca, si può ancora notare come essa presenti un quadro ideologico fonda­mentalmente unitario, al di là delle complesse differenze di ambienti, di anni, di personalità variamente formate, di prospettive spesso divergenti quando non antitetiche. Si tratta di considerare la tensione alla raison come linea di forza dell'intera cultura dei Lumi e del tradursi di tale tensione in proposte e impegni di riforma, che non vale solo per i primi decenni, ma anche per la cultura illuminata del medio e del tardo Settecento, purché però subito si avverta come in quest'ultima si verifichi una «rettifica di tiro», certamente legata ai fenomeni strutturali appena richiamati: si passa in altre parole dall'esigenza di massima, spesso astrattamente speculativa, di investire della luce viva della «ragione» alcuni dati di fondo della realtà dell'uomo (l'e­sperienza storica, l'arte ecc.), alla cura di esplorare nei dettagli, con quella stessa luce, l'accidentato terreno dell'esistenza, sia individuale sia collettiva. Un impe­gno esplorativo che mira ora a tradursi in proposte ed in tentativi di «riforma» delle realtà investigate, nella prospettiva di una dinamica del mondo sociale e storico in atto, nell'idea che la varia realtà dell'esistenza – cose gruppi istituzioni – possa e debba modificarsi in meglio, procedere, «progredire».
Certo oggi sappiamo che la realtà delle cose è ben più complessa e contraddittoria e non ci è difficile renderci conto di come l'articolazione esasperata delle idee di ragione e di progresso rappresenti l'ideologia, mitica copertura concettuale di questo mondo europeo impe­gnato nella vicenda espansiva, e per esempio «di che lacrime grondi e di che sangue», di bianchi e di negri e di «selvaggi», l'affermazione del progresso in termini non solo teorici o verbali. E sappiamo anche riconoscere in che misura quella stessa articolazione abbia finito per produrre quel caratteristico atteggiamento mentale non certo venuto meno con l'età dei Lumi, e che oggi si è soliti appunto definire illuministico.
Tuttavia quelle prospettive medio e tardosettecentesche costituiscono non solo un'acquisi­zione di assoluto rilievo nell'intelligenza occidentale, ma anche un elemento decisamente centrale nella «dinamica di sviluppo» del secolo, a mezzo fra antico e nuovo, e fino all'età rivoluzionaria e poi napoleonica ancora ampiamente e profondamente coinvolto nelle proprie radici feudali.
Dalla seconda metà Settecento, l’intensificarsi delle iniziative riformiste da parte dei sovrani illuminati portò ad una più marcata dislocazione degli intellettuali italiani dai ranghi della Chiesa a quelli degli Stati.
Animati dal rinnovato senti­mento di missione sociale e civile cui adempiere, i letterati diventarono, ad imitazione di quelli francesi, philosophes, cioè cultori enciclopedici di discipline concrete — diritto, economia, amministrazione —, pronti a servire la causa delle riforme, al seguito dei principi illuminati.
Non si trattò ovviamente di un passaggio in massa, perché una parte dei letterati restò attardata su posizioni superficialmente arcadiche e accademiche. L’eccezione anzi riguardò «la grande maggioranza degli intellettuali – scrive Giuseppe Galasso in Potere e istituzioni in Italia del 1974 – legati alla cultura arcadica, alla vita di corte, alle antiche accademie e inaccessibili alla situazione politico-culturale determinata dalla rottura rivoluzionaria». Certamente però la parte migliore dell’intellettualità italiana passò all’Illuminismo.
Fra loro fu diffusa la convinzione della propria indispensabilità, ali­mentata dalla grande considerazione e dal grande favore accordati loro dai responsabili del potere politico. Come ai tempi dell’Umanesimo, infatti, gli uomini di cultura erano ricercati, contesi, adulati: Kaunitz, ministro di Maria Teresa, ad esempio, non nascose al conte Firmian la sua preoccupazione per l’invito rivolto da Caterina di Russia a Cesare Beccaria, lamentando la «penuria in cui siamo in provincia di uomini pensatori e filosofi». Ma più che al tempo dell’Umanesimo, i letterati ebbero la convinzione di contare di fronte ai principi, dando «consigli – scrive ancora Galasso nel citato volume – dei quali un governo avveduto, per il bene dei suddetti e del paese, non può fare a meno, perché sono i consigli della ragione illuminata».
Rispetto agli umanisti, i nuovi intellettuali avevano anche un’idea diversa della cultura, che non si fondava più sul primato petrarchesco della parola fine a se stessa, ma sulla capacità di divenire strumento per trasformare il mondo e quindi non per essere più tanto testo letterario quanto piuttosto saggio, inchiesta, ricerca sulle questioni dell’econo­mia, della legislazione, dell’amministrazione, scritti con intento di conoscenza, di educazione, di propaganda. Questo atteggiamento, del resto, era maturato già nei decenni precedenti e si trova lucidamente affermato da Muratori nel Trattato della pubblica felicità, scritto nel 1749, «un libro – come scrive Cesare De Michelis in Il mercato della letteratura in Con felice esattezza del 1998 – che insegna ad un mercante, ad un marinaio, a un giardiniere o agricoltore, ad uno speziale, ecc. il suo mestiere col meglio di quell’arte che cento libri di secca filosofia, di smilza erudizione e di poesie poc’altro contenenti che infilzate parole».
Ora quest’atteggiamento si accentuò fino a portare ad un autentico disdegno per la cultura fine a se stessa. Bisognava abbandonare «la vanagloria dell’astratta speculazione» scriveva Genovesi, e dedicarsi a fare gli uomini «meno contemplativi e più attivi». «Altra cosa è un uomo altra cosa un letterato», sentenziava senza appello Pietro Verri.
Tutto questo serve a spiegare in parte la relativa modestia, qualitativa e quantitativa della produzione letteraria vera e propria di questo pe­riodo e perché essa sia così spesso intinta di finalità pedagogiche e civili, come in Parini, o quanto meno di un bonario spirito di satira sociale, come in Goldoni, fa eccezione Alfieri, ma egli non era e non voleva essere un illuminista.
Fra i temi concreti agitati dagli intellettuali illuministi si fa largo quello della nazione italiana. Già nel primo Settecento, la parola «nazione» tendeva ad applicarsi prevalentemente all'Italia intera. Per gli intellettuali del primo Settecento si trattava, tuttavia, di una nozione priva di qualsiasi contenuto politico: nazione italiana era per loro l'insieme delle persone colte che intendono e parlano la lingua letteraria nata nel Trecento e codificata nel Cinquecento. In tal modo, comunque, si allargava il concetto di società italiana da quello ristretto di comunità dei letterati, che scrivono nella lingua di Dante, e del ristrettissimo pubblico delle corti a quello, più ampio, di «nuova classe colta nobiliare e borghese».
Ciò avvenne anche sotto lo stimolo del contatto e del confronto con la cultura francese che si dimostrava più compatta di quella italiana, grazie al supporto dell'unità statale.
Con l'Illuminismo l'idea di nazione italiana si evolse ulteriormente. Ora si tendeva a considerare italiani tutti gli abitanti della penisola, anche se non parlavano italiano – sebbene stravagante come concetto, perché non si sa bene in che senso essi fossero italiani – e la parola patria che, ancora all'inizio del secolo, era riferita al luogo d'origine, cominciava ad estendersi all'intera penisola ed acquistava progressivamente una valenza politica. Non siamo d'altra parte, ancora, alla rivendicazione di uno Stato indipendente per la nazione italiana così di recente scoperta. È opportuno, infatti, ricordare che gli illuministi erano strettamente legati ai principi e in generale tutti professavano assoluta lealtà allo Stato particolare cui essi appartenevano e che servivano. Ma quando la collaborazione coi principi venne meno ed i soldati di Napoleone esibirono, armi alla mano, l'esempio trascinatore della «grande nation», l'idea nazionale in senso moderno (patria = nazione = Stato) nacque nella pubblicistica giacobina per poi consegnarla alle generazioni risorgimentali.
Per almeno due o tre decenni la collaborazione fra intellettuali e governi sembrava rafforzare nei secondi il senso della loro importanza ed indispensabilità. Per tutto questo periodo, come funzionari, consulenti, pubblicisti ascoltati, gli intellettuali collaborano attivamente coi governi più dinamicamente impegnati sul terreno delle riforme – cioè quelli di Milano, Parma e Piacenza, Firenze, Napoli – contribuendo agli sforzi intesi a superare le sopravvivenze dello Stato «cittadino» e feudale, a favorire lo sviluppo agricolo e le finanze pubbliche e ad affermare definitivamente il principio della laicità dello Stato contro le pretese della Chiesa. Questa partecipazione diretta degli intellettuali alla politica delle riforme spiega il relativo moderatismo degli illuministi italiani rispetto ai philosophes francesi, i quali, impossibili­tati a partecipare in prima persona alla vita pubblica, erano più facilmente tentati di assumere atteggiamenti estremistici.
Ciò è provato dal fatto che dove quella partecipazione e collaborazione coi governi non era possibile, lì si manifestavano le posizioni illuminate più radicali. È il caso del Piemonte dove «le punte più avanzate di quella cultura, Radicati, Giambattista e Dalmazzo Vasco, a differenza dei Verri e dei Beccaria – scrive Vitilio Masiello in Intellettuali e società nella tradizione culturale nazionale: modelli tipologici e codici assiologici del 1991 – si vedono relegati ai margini della vita associata [...]. E forse è proprio in questa loro posizione di intellettuali "sradicati" ed isolati la condizione dialettica così dell'estremismo e del radicalismo delle loro ideologie come di quella carica di amarezza e di ribellione che li caratterizza»; fin dopo gli anni '20 del secolo, Radicati aveva sottoposto a Vittorio Amedeo II un progetto che prevedeva «l'abolizione di ogni proprietà, le comunità dei beni, l'abbattimento di ogni autorità»; Dalmazzo Vasco, dal canto suo, cercava di realizzare una repubblica semisocialista nella Corsica insorta di Pasquale Paoli; suo fratello Giambattista scriveva un saggio in cui sosteneva calorosamente la necessità di distribuire la terra ai contadini.
Allo stesso terreno culturale appartiene anche l'astigiano Vittorio Alfieri, la cui appassionata ostilità al dispotismo regio però, più che eco dei nuovi tempi, è da considerare un fatto di attardato orgoglio nobiliare: «orgoglio e coscienza aristocratica – continua ancora Masiello –, senso della superiorità sua e della sua classe, classistico dispregio dei valori borghesi del vivere (associato all'indifferenza per i problemi concreti, sociali, economici e giuridici), spasmodica volontà di grandezza sono la base del titanismo alfieriano».
Diversa è la situazione degli illuministi della vicina Lombardia che, dopo «la fase astrattamente polemica e programmatica del Caffè», parteciparono in prima persona alla politica riformatrice dei funzionari asburgici. Se ne trovano i nomi più famosi fra quelli degli alti funzionari dello Stato: Pietro Verri e Cesare Beccaria facevano parte del Supremo consiglio di economia, Gianrinaldo Carli ne era presidente ed, in tale veste, possono mettere in atto e seguire le riforme da loro ideate e propugnate. «Chi lo avrebbe detto mai — commenta con compiacimento sorpreso Verri — che Pietro Verri, capo dell'Accademia dei Pugni [...] doveva essere successore di quei Magnifici to­gati!».
Anche chi come Parini si muoveva su un terreno strettamente letterario non si sottrasse agli impegni pubblici, come fece appunto l'autore del Giorno che, nel 1791, accettò di reggere la sopraintendenza delle scuole pubbliche. Ma anche Parini diede un tono decisamente moderato alla sua battaglia antinobiliare, poiché «il Giorno – dichiara Lanfranco Caretti in Parini e la critica: storia e antologia della critica del 1953 – non volle essere un atto di rottura col mondo aristocratico, con la società nobiliare, a cui in effetti era indirizzato e a cui offriva una terapia di riscatto e di salvazione».
Non meno direttamente impegnato — se non di più — il gruppo degli illuministi della Toscana dove Pietro Leopoldo I (1765-1790) sembrava intenzionato a spingersi fino alle soglie di un vero e proprio governo costituzionale. L'eccezionale buona disposizione del principe fece sì che quello toscano fosse un «illuminismo riformatore – scrive Franco Venturi in Da Muratori a Beccaria. 1730-1764 del 1969, primo volume della sua poderosa opera Settecento riformatore completata nel 1990 – pervaso dalla coscienza e dalla convinzione di avere nelle mani gli strumenti adatti all'opera» e che in Toscana la schiera degli illumi­nisti sia eccezionalmente nutrita. «La Toscana – scrive Guido Quazza in “La decadenza italiana nella storia europea. Saggi sul Sei-Settecento” del 1971 – è indubbiamente il vivaio più ricco fin dall'età precedente le Riforme, di "tecnici" intellettuali-amministratori, capaci di applicare la propria preparazione culturale all'attività quotidiana di governo» rispetto ai quali i letterati veri e propri rappresentano una categoria pressoché inesistente. È l'Illuminismo di Pompeo Neri che, dopo aver attuato a Milano il famoso catasto di Maria Teresa nel 1760, come consigliere di reggenza per le finanze giunge ad attuare la liberalizzazione del commercio dei grani, il censimento generale della popolazione, la legge sulle amministrazioni locali, la soppressione degli asili ecclesia­stici e delle manomorte; di Francesco Gianni, il più influente fra i consiglieri di Pietro Leopoldo che prosegue l'opera di Neri, di altri minori — Fabbroni, Rucellai, Tavanti, Paoletti — tutti più o meno ufficialmente inseriti nelle file dell'amministrazione leopoldina. Man­cano invece nella terra madre della poesia italiana dei letterati stricto sensu, il che denuncia una situazione ormai cronica di «scarsa fertilità della letteratura toscana – come scrive Walter Binni in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento del 1963 –, che rimane anco­rata ad una felicità di buona lingua e buona scrittura ... e resta chiusa a movimenti più forti del nuovo gusto fra Settecento-Ottocento, men­tre invece, con un singolare squilibrio fra cultura e letteratura, la Toscana appare fortemente impegnata nella prassi riformatrice di origine razionalistica e illuministica».
A Napoli la figura centrale della nuova cultura fu Antonio Genovesi che, dalla cattedra universitaria di economia, impartiva agli intel­lettuali meridionali una lezione di concretezza (il «vero fine della filosofia e delle lettere ... è di giovare alle bisogne della vita umana»). Attorno a Genovesi si formò un ampio gruppo di discepoli, il «partito genovesiano», che presentava al suo interno due orientamenti diversi, uno più moderato e direttamente impegnato nell'opera di riforma promosso dai Borbone e dal ministro Tanucci (G. Palmieri, G.M. Galanti, M. Dèlfico), l'altro detto degli utopisti, che nelle sue file ebbe come figure di maggiore spicco Gaetano Filangieri, il più vigoroso e deciso nella polemica antifeudale, convinto assertore della libertà e dell'eguaglianza. Da questo secondo orientamento uscì il generoso manipolo di intellettuali che diede vita alla repubblica partenopea spenta tragicamente nel sangue.
La collaborazione fra principi illuminati e intellettuali durò felicemente una ventina d'anni, poi entrò in crisi. Verso il 1775 i sovrani illuminati mostrarono una maggiore tendenza a fare da sé ed a trascurare la collaborazione degli intellettuali. Ora questi ultimi si accorsero che il loro potere contrattuale era, malgrado le illusioni, assai modesto e che, come sempre, essi sono dei profeti disarmati. Già quando Dalmazzo Vasco era stato arrestato a Roma, nel 1768, Pietro Verri aveva com­mentato amaramente: «La filosofia se non è armata di autorità deve celarsi e, se non lo fa, la persecuzione è sempre pronta». Ora la sensazione della propria impotenza si generalizzava.
In effetti, dietro gli illuministi non c'era il sostegno di una qualunque forza sociale. Essi non erano espressione di una classe – definita da W. Maturi in Interpretazioni del Risorgimento del 1962 «varia la composizione sociale e la maggior parte veniva dal medio ceto, ma vi erano anche nobili, preti, popolani: ciò che li univa era la cultura» – né volevano esserlo, nutrendo piuttosto l'ambizione di porsi come gli interpreti dei più veri interessi di tutte le classi e di tutti gli uomini: «Spogliatevi di ogni idea di ceto — aveva ammonito Verri — ; il ceto d'uomo dabbene è il genere umano». Le classi medie, peraltro le reali beneficiarie delle riforme, erano ancora troppo deboli e troppo poco consapevoli di loro stesse per contare qualcosa come forze sociali unitarie e per difendere l'inizia­tiva dei «filosofi». La nobiltà era ovviamente ostile e la massa anche, per motivi meno ovvi. In definitiva la forza di questi ultimi stava unica­mente nel bon plaisir dei principi e quando questo venne a mancare lo spazio dell'Illuminismo riformista si chiuse.
Del resto anche il successivo abbandono da parte dei principi delle velleità riformiste fu più un effetto della loro sostanziale debolezza sul piano degli equilibri sociali che non di sovrana volubilità. Certamente i sintomi e i presagi della bufera rivoluzionaria, che si preannunciava e si avvicinava dalla Francia, dovettero aver raffreddato più d'un entusiasmo, ma è anche vero che in taluni Stati, come a Napoli, la spinta riformista durò oltre 1’89. La verità è che i principi riformisti avevano preteso di rifondare i loro Stati senza assicurarsi il consenso di alcune forze sociali: avevano dato addosso al privilegio aristocratico, perché gelosi del loro assolutismo, senza stimolare una presa di coscienza e un sostegno consapevole da parte delle classi medie ed avevano finito per avere contro tutti, anche le masse popolari danneggiate dalla spinta capitalistica nelle campagne, dall'abolizione degli usi civici nelle terre ecclesiastiche e comunali e sobillate dalla propaganda reazionaria del clero.
Rimasti privi dell'appoggio dei principi, gli intellettuali si dimostrarono incapaci sia con le loro associazioni, clandestine e no – le accademie, la massoneria – sia con le loro asfittiche riviste a dar vita a un movimento politico in grado di proseguire il programma di ri­forme anche contro la volontà dei principi. Non mancò da parte loro l'appello all'«opinione» attraverso i giornali, e che questa «opinione» ci fosse davvero, che «il pubblico cioè rappresentasse ormai una realtà che era impossibile trascurare o ignorare», è provato dal fatto che i governi si videro costretti a rispondere con le stesse armi. Così «dal 1792 in poi, – come scrive Cesare De Michelis in Il mercato della letteratura in Con felice esattezza del 1998 – superata la sorpresa della rivoluzione, soppresse le voci scopertamente filofrancesi, si diffonde in Italia una vasta pubblicistica controrivoluzionaria, alla quale non manca, in più di qualche occa­sione, l'appoggio di settori più moderati dell'intelligenza illuministica e riformatrice». Così a questo punto l'illuminismo italiano svela la sua duplice anima, quella moderata—riformata e quella utopistica—rivoluzionaria. La prima nei travagliati anni che seguirono assunse una gamma di posizioni che andarono dalle posizioni francamente reazionarie di un Gianrinaldo Carli ad altre cautamente innovatrici, come quelle di Parini e di Verri che sedettero fra i moderati nella futura municipalità milanese. La seconda anima nutrì di sé i numerosi esperimenti giacobini del triennio 1796-99.
La stagione giacobina in Italia fu il frutto di un'illusione disperata: i rivoluzionari italiani pretendevano di vincere la loro rivoluzione «proprio quando la svolta del Direttorio stracciava definitivamente il giacobinismo francese». Ma non era comunque una battaglia assurda. Contrariamente a quanto suggeriva l'accusa autocritica di astratti­smo che Vincenzo Cuoco lanciò in seguito, la parte più intelligente degli intellettuali rivoluzionari comprese la necessità di associare le masse al loro sforzo rivoluzionario. Sul «Termometro politico della Lombardia» un «buon patriotta» ripeterà, con accenti che precor­rono quelli di Pisacane «finché avrà fiato: se volete far dei buoni patriotti nella gente ignorante e povera, adoperate lo specifico dell'interesse, non vi è altro mezzo al presente. Il metodo dell'educazione è eccellente, ma è troppo lungo»; mentre a Napoli Eleonora Fonseca Pimentel afferma la necessità di stabilire un collegamento con le plebi cittadine nella cui incomprensione vedeva «la ragione di nostri ultimi mali»: «la plebe diffida de' patrioti perché non gli intende». Della volontà di «andare verso il popolo» è testimonianza la fioritura del cosiddetto teatro giacobino, promossa da numerosi letterati rivoluzionari fra cui in primo luogo Matteo Galdi e Francesco Saverio Salfi in base alla convinzione, come afferma lo stesso Salfi, che i teatri andavano «considerati come gli organi più efficaci della pubblica istruzione».
È legittimo in definitiva parlare di un giacobinismo italiano che cercò l'alleanza con le classi subalterne e in particolare coi contadini e che «se non fosse stato conculcato dalla Francia direttoriale e napoleonica – scrive Armando Saitta in Ricerche storiografiche su Buonarroti e Babeuf del 1986 – avrebbe potuto realizzare la sua rivoluzione agraria».
Ma i francesi preferirono, appunto, mettersi d'accordo coi moderati; poi la fulminea riconquista austro-russa, sebbene effimera, giunse a fare strage del fior fiore del giacobinismo della penisola, quello napoletano.
Il quindicennio successivo, quello della dominazione napoleonica, fu per i letterati italiani un periodo di incertezza e di dubbio. Privi di autonomia, divisi sul giudizio da dare sul nuovo ordine politico e sull'uomo che lo personifica, sull'opportunità di opporsi o di collaborare, essi persero per alcuni anni la propria capacità di iniziativa. Fra i letterati la figura dominante fu quella di Foscolo che riassunse in sé le incertezze e le contraddizioni di tutti loro. La vita a Milano, centro focale dell'Italia napoleonica, non chi certo facile per chi, come lui, sapeva solo maneggiare la penna e la spada. Sebbene la capitale lombarda fosse una città culturalmente molto vivace l'ingegno letterario non diede da vivere a Foscolo. Perciò egli fu costretto a vivere del mestiere di soldato che lo coinvolse in vari fatti d'arme e lo obbli­gò a spostarsi in Italia e fuori d'Italia, sempre a corto di soldi perché la paga era scarsa, lo stile di vita megalomane e sregolato e, per di più, gravato dalle spese per l'edizione di opere che non si vendevano. Anche in questo la figura di Foscolo è esemplare della condizione del letterato, che comincia ora a liberarsi, ma ci riesce solo in parte, della sua secolare condizione di dipendenza economica. Foscolo potrebbe ingraziarsi il potere dispotico di Napoleone e dei suoi rappresentanti in loco. Il «regime» mostrava un atteggiamento benevolo verso gli intellettuali malleabili. La costituzione della repubblica italiana (poi regno d'Italia) prevedeva perfino che «l'organo primitivo della sovra­nità nazionale sia l'insieme di tre collegi elettorali, uno di "possiden­ti", uno di "commercianti" e uno di "dotti"». Ma Foscolo non era malleabile e nei Sepolcri c'è una trasparente satira contro i tre collegi:
«Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno
nelle adulate regge ha sepoltura
già vivo...»

e, già in sospetto per le sue idee radicali, continuò a rendersi sgradito per il suo spirito indipendente e per i suoi atteggiamenti di dissenso più o meno palese. In realtà le sue vedute politiche erano venute cambiando con gli anni e se in gioventù aveva nutrito idee democratiche ed ugualitarie, ora esse erano dileguate e, sebbene egli restasse convinto che le società siano sempre divise fra «gli oppressori e gli oppressi», fra «un aggregato di pochi che comandano per mezzo della spada e delle opinioni e di molti che servono», egli rinunciò a prendere le difese dei deboli ed affidò al letterato il compito di «dire il vero» perché ciò giova a rappacificare gli interessi degli individui (quindi, in definitiva, il letterato fa opera utile per il potere). L'ideale politico cui Foscolo restò più tenacemente affezionato fu quello della patria italiana, una e indipendente, sicché, a giusto titolo, la successiva generazione risorgi­mentale guardò a lui e ad Alfieri come ai propri precursori e padri spirituali.

domenica 23 ottobre 2011

Il ‘700: secolo della Ragione, della Tolleranza, delle Libertà di pensiero si chiude con la Rivoluzione francese di Massimo Capuozzo

Il Settecento, per tanti aspetti, segnò la nascita del mondo moderno, infatti, alcuni eventi aprirono nuove prospettive storiche e culturali: la rivoluzione industriale, il trionfo della ragione illuminista, la crescita della borghesia, la rivoluzione francese. Le grandi conquiste del pensiero scientifico e filosofico, rimasti nel Seicento fenomeni d'elite, ora rompono le barriere ideologiche e le diffidenze e divengono un patrimonio culturale comune.
L'opera di Newton fu decisiva: la sua formulazione della legge di gravitazione universale fu la base per un'idea che dominò nel Settecento, quella dell'universo-macchina, nel quale ogni elemento, fenomeno, fatto è un ingranaggio che è mosso e fa muovere altri ingranaggi. Il pensie­ro di Newton si diffuse rapidamente in Europa, anche attraverso opere divulgative indirizzate al pubblico più largo. Altre idee nuove nacquero dalle tesi del filosofo inglese John Locke, dal dibattito sulla tolleranza e dal pensiero politico di Montesquieu. Questi rielaborò la teoria contrattualistica – secondo la quale lo Stato traeva il potere da un contratto stipulato fra gli individui che ne fanno parte – e affermò il principio dell'indipendenza dei poteri legislativo, esecutivo, giudiziario.
Progressivamente, nel corso del secolo si diffuse un atteggiamento razionalisti­co nell'affrontare ogni problema che coinvolse strati rilevanti della borghesia europea e determinò il «tono» generale di tutta la cultura: nacque così l'illuminismo, il movimento europeo che co­nobbe il massimo sviluppo nei decenni tra il 1750 e il 1780. Esso trasse il nome dal compito chia­rificatore affidato all'uso critico della ragione: la ragione, patrimonio di tutti gli uomini, è in grado di sottoporre la realtà a un'analisi libera dai condizionamenti della religione, dell'autorità attribuita agli antichi o della tradizione, e può avviare un'azione di progresso per assicurare la «felicità pubblica». L'Illuminismo operò una rifondazione del sapere: le scienze che studiano la società, l'uomo, la natura e la tecnica conquistarono il centro dell'interesse. In nome di questi convincimenti gli illuministi lottarono per le riforme, la diffusione del sapere, il miglioramento delle condizioni di vita e per l'emancipazione da ogni atteggiamento dogmatico, dalla superstizione, dal fanatismo, dal pregiudizio. Essi portarono a compimento il processo di laicizzazione della cultura iniziato nel Rinascimento.
Su queste nuove basi teoriche si studiarono sia il corpo che le facoltà dell'uomo, le passioni, la vi­ta psichica; si «scoprì» l'infanzia, nel senso che si riconobbe il bambino come possessore di una propria personalità, con esigenze, bisogni, diritti diversi da quelli dell'adulto. Di qui l'ampio di­battito sul problema dell'educazione, nel quale emerse il pensiero pedagogico di Jean-Jacques Rousseau.
Protagonista dell'Illuminismo fu una nuova figura di intellettuale, il «philosophe» (semplice­mente «filosofi» vollero chiamarsi i pensatori illuministi), che riassume in sé gli elementi del nuo­vo ideale umano, le qualità morali, le virtù civili, la curiosità e la disposizione ad esplorare nuo­vi campi del sapere, l'indipendenza di giudizio.
Al centro dell'esperienza illuminista c'è la grande impresa dell'Enciclopedia di d'Alembert e Diderot, l'opera che illustra e riassume le nuove idee, alla cui realizzazione collaborarono tutti i maggiori intellettuali francesi dell'epoca.
La diffusione dell'Illuminismo va messa in relazione con la parallela crescita della classe borghese in Europa, divenuta nel corso del secolo protagonista del progresso economico, ma anche punto di riferimento nella progettazione di una nuova società.
Dal 1780 la forza innovativa dell'Illuminismo cominciò ad esaurirsi; la crisi si manife­stò con gli sviluppi della rivoluzione francese: mentre la «Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino» del 1789 riprende idee già diffuse dagli illuministi, gli eventi successivi metto­no in crisi l'ideologia delle riforme.

lunedì 29 agosto 2011

Il primo soggiorno di Caravaggio a Napoli di Massimo Capuozzo

Agli inizi del secolo, mentre vigeva ancora il gusto per forme intellettualistiche e idealizzanti care allo spirito della Controriforma, caratteristiche dell'ultimo Manierismo più ritardatario e provinciale ed espresse in una stanca koinè e quasi del tutto priva di voci dominanti – da Francesco Curia a Girolamo Imparato, da Fabrizio Santafede a Belisario Corenzio e Luigi Rodriguez – quasi per incanto, apparve improvvisamente Caravaggio compare e scompare due volte dalla scena napoletana.
Caravaggio, con una modernissima intuizione, aveva cominciato a diffondere nell’arte un nuovo verbo, basato sull'impatto drammatico di una pittura tratta dal naturale, ossia dalla visione in presa diretta della realtà, attraverso il guizzo ora descrittivo, ora violento della luce nell'attimo in cui essa si rivela. Ma il senso della rivoluzione caravaggesco non stava solo nell’aspetto tecnico della camera oscura quanto nel suo particolarissimo ed inusitato modo di narrare: nelle sue opere i popolani, infatti, non sono, come era accaduto in tanta pittura italiana della Controriforma, spettatori che pregano, infelici appestati, accattoni e poveracci, plebe verso la quale la pittura aveva rivolto uno sguardo pietoso, ma diventano i protagonisti. Uomini e donne del popolo sono travolti dall’infinita oscurità dell’universo e della Storia. Caravaggio nella pittura opera una rivoluzione, al pari di quanto fa Galilei nella scienza, attribuendo dignità di cultura al sapere per esperienza sensibile, alla verità affermata in base ai fatti e non in base all'autorità e rapportando i sacri misteri alla realtà dolorosa degli eventi comuni di ogni giorno.
Caravaggio soggiornò solo pochi mesi a Napoli, ma tanti bastarono per lasciare un impatto sconvolgente sulla pittura napoletana, per certi versi stagnante, che, dal tranquillo corso tardo-manierista, fu deviata alle durezze del suo straordinario naturalismo. La sua presenza catalizzò le energie locali impegnate già con gran fervore nell’ammodernamento di tutta la Napoli sacra, costituita da innumerevoli chiese e conventi, che si allargavano e che si innovavano senza sosta alla ricerca di sempre maggiori fasti e onori.
L’arrivo di Caravaggio a Napoli non fu tuttavia fortuito: Caravaggio fuggiva, una fuga che lo accompagnò fino alla morte. Alla fine di maggio del 1606, durante una rissa scoppiata per futili motivi, il maestro era stato ferito, ma aveva ucciso a sua volta uno dei contendenti, Ranuccio Tomassoni. Era passato solo meno di un anno da quando Caravaggio era fuggito a Genova, ma adesso si trovava in una situazione disperata non era la solita zuffa, questa volta l’aveva fatta grossa. Non si trattava di una comune rissa, ma di un omicidio e nemmeno di un omicidio qualunque: Ranuccio, infatti, era il figlio dell'ex colonnello Luca Antonio Tomassoni, una figura di spicco di cui l'aristocrazia filospagnola si ricordava bene per i servizi militari prestati ai Farnese e la morte di un Tomassoni era particolarmente sgradita per il nuovo papa, schierato con gli spagnoli, ed i Tomassoni avevano un'influenza politica. La modalità della morte – «Caduto a terra Ranuccio», racconta Baglione, «Michelagnolo gli tirò una punta, e nel pesce della coscia feritolo, il diede a morte» – contribuì ad indurire il cuore di Paolo V Borghese, un papa moralizzante nei confronti di Caravaggio, ed a rendere implacabile la famiglia Tomassoni nel volere la morte dell'assassino. Giustizia pontificia e vendetta familiare rendevano Caravaggio una presenza compromettente perfino nella casa della persona più potente. Ricercato dalla giustizia pontificia, scappò precipitosamente, trovando protezione presso i principi Colonna, da sempre suoi protettori, nello specifico presso il principe Martino Colonna, che lo aveva accolto dopo essere fuggito da Roma e per il quale dipinse la Cena di Emmaus. Già in questa tela le figure umane, emergendo dall'ombra, mostrano tutto il sofferto carico interiore di passioni e di emozioni, caratteristico del periodo trascorso al Sud, passato sempre in fuga nell'ansia e nella speranza di poter un giorno tornare a Roma.
Caravaggio giunse a Napoli nel settembre 1606, dove rimase per circa un anno, preceduto dal clamore e dallo scandalo sociale e morale delle opere prodotte a Roma. A Napoli la sua fama era già ben nota a tutti: i Colonna lo avevano affidato ad un ramo collaterale della famiglia, i Carafa-Colonna, importanti membri dell'aristocrazia napoletana. Napoli, per un artista famoso, significava committenze, quindi lavoro assicurato. Era la capitale di un regno parte del grande impero spagnolo, in cui si concentrava la ricchezza attraverso i tributi e i redditi dell’aristocrazia feudale ed era la sede privilegiata dei grandi affari.
La Napoli che lo accolse fuggiasco, era una città enorme e babelica. Era la Napoli spagnola e, in quel periodo, governava, con la consueta politica di sfruttamento, il viceré spagnolo Pimentel de Herrera, conte di Benavente: la città contava circa 350.000 abitanti e, dopo Parigi, era la più popolosa d’Europa, una città in evoluzione veloce e violenta, una città militarizzata nei cui Quartieri spagnoli o nel cui porto allignavano la prostituzione e gli altri tipici mondi paralleli a quello delle armate – luoghi in cui il disagio sociale e la povertà si tingono di un colore nuovo, quello della violenza urbana, percepita coscientemente da parte delle istituzioni, che tentavano di dare risposte al malessere della plebe. Nella città dilagavano delinquenza, contrabbando, prostituzione, estorsioni: dai quartieri spagnoli col loro carico di lenoni e di gente di vita, con le risse fra Nazione spagnola e Nazione napoletana, con stranieri che arrivano al porto da tutto il Mediterraneo, provengono i personaggi ed il clima narrativo delle Sette opere di Misericordia e lì possono essere stati visti gli aguzzini della Flagellazione. In questa Napoli il conte di Benavente tirava avanti con tasse e con quella taciturna quanto sorda tolleranza nei confronti dei soprusi dei baroni e dei feudatari, in un clima di religiosità ossessiva, cui però la povera gente le affidava le proprie speranze, proprio così come questa povera gente appare nella Madonna del rosario.
In questa Napoli, caotica e proteiforme, Caravaggio visse un periodo felice e prolifico per quanto riguarda le commissioni, lavorando instancabilmente: i Colonna lo aiutarono, facendogli ottenere contatti e referenze, ma il suo nome e la sua fama erano ben noti anche a Napoli. Presto Caravaggio ricevette commissioni dagli imprenditori lombardi operanti in città, tra cui Fenaroli che gli richiese tre tele destinate alla cappella Fenaroli nella chiesa di S. Anna dei Lombardi, raffiguranti la Resurrezione di Cristo, San Francesco che riceve le stimmate ed un San Giovanni Battista: le opere purtroppo sono andate perdute durante il terremoto del 1805, che distrusse la chiesa e la cappella che le custodiva.
Eseguì la Madonna del rosario, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Controversa è la committenza dell’opera, infatti, secondo alcuni, il committente sarebbe stato Nicola Radulovic, un ricco mercante di Ragusa in Dalmazia, ed all'inizio la composizione avrebbe dovuto comprendere la Madonna in trono con i Santi Nicola e Vito, ma rifiutato dal committente, il quadro sarebbe stato poi modificato nella struttura per espressa volontà dei Domenicani. Secondo altri invece, ed è questa l’ipotesi più percorribile, il quadro fu probabilmente eseguito per decorare la cappella di famiglia nella chiesa napoletana di San Domenico Maggiore, su committenza di Luigi Carafa-Colonna, parente di Martino Colonna. A suffragare questa ipotesi, il rimando alla famiglia Colonna starebbe, appunto, nella grande colonna a sinistra alla quale è legato il grande drappo rosso che sovrasta la scena quasi come un sipario. Il tema trattato nella tela è prettamente domenicano. San Domenico ed i suoi frati avevano diffuso la devozione del rosario e la Madonna, iconograficamente rappresentata come Regina Coeli, indica il santo alla sua destra che tiene fra le dita dei rosari; alla sua sinistra San Pietro Martire domenicano ed accanto a San Pietro Martire, San Tommaso d'Aquino, il più famoso di teologi Domenicani. Madonna, Bambino e santi formano un triangolo sacro celato classicamente dai supplicanti disposti frontalmente inginocchiati in preghiera con le braccia stese verso San Domenico, mentre un gentiluomo, probabilmente il committente, guarda verso l'osservatore.
Sempre in questo periodo realizzò una delle sue opere più importanti, che si rivelò un cardine per la pittura nel sud Italia e per la pittura italiana in genere, la cui composizione, rispetto alle pitture romane, è più drammatica e concitata, non esistendo più un fulcro centrale dell'azione. Proprio quest’opera sarà di grande stimolo per la successiva pittura barocca partenopea: Caravaggio il 9 gennaio 1607 consegnò al Pio Monte le Sette opere di Misericordia, oggi esposto accanto a dipinti di Battistello Caracciolo, Fabrizio Santafede, Luca Giordano.
La Congregazione del Pio Monte della Misericordia comprendeva tra i suoi aderenti anche Luigi Carafa-Colonna ed aveva commissionato al maestro la tela delle Sette opere di Misericordia per l’altare maggiore della Chiesa dell’istituzione caritatevole napoletana. In relazione a quanto richiesto dalla committenza, Caravaggio fece riferimento alle opere di misericordia corporali, interpretando il tema evangelico in maniera personale e realizzando una tela di grandi dimensioni (390×260 cm). Ancora una volta Caravaggio realizza un’opera rivoluzionaria in cui le azioni di misericordia e di solidarietà si attuano simultaneamente nel vicolo: la luce dell’imbrunire mette in movimento e ferma come in un fotogramma una folla gesticolante che rappresenta un'umanità costituita dalle diverse classi sociali in atto in un quadrivio napoletano. La stessa inclusione della Madonna della Misericordia col bambino e gli angeli per volere della committenza non diminuì la capacità del pittore di esprimersi in maniera personalissima e Caravaggio, allontanandosi dall’iconografia tradizionale che voleva la Vergine raffigurata col mantello sotto il quale doveva accogliere l’intera comunità di fedeli, attribuisce alla Madonna le sembianze di una dolcissima popolana, forse ripresa dalla verità nuda di Forcella, come popolani sono quegli angeli lazzari che fanno la voltatella all'altezza dei primi piani e che sorreggono il bambino.
La composizione è scandita in due gruppi, ancora una volta sacro e profano, come nell’immediatamente precedente Madonna del rosario. Nella parte in alto la Vergine col Bambino, che con volto sereno e tranquillo, guarda verso il basso quasi per mostrare materno consenso ed umana simpatia alle figure sottostanti. E poi, anch’essi rivolti alle scene sottostanti, i due angeli, quasi abbracciati, ma è solo uno dei due che sostiene l’altro, circondandolo con le braccia.
Sotto sono rappresentate le sette opere, in una sintesi possente e quasi senza soluzione di continuità. Visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati sono sintetizzate in un’unica immagine, che rappresenta una figlia che, di nascosto, nutre con il suo latte il padre – in riferimento a quanto scrive Valerio Massimo nel De pietate, che il vecchio Cimone era rinchiuso in carcere e che non gli davano da mangiare e sua figlia Pero ottenne di visitarlo e di nascosto dai carcerieri lo nutriva col latte del suo seno. In seppellire i defunti si vedono appena i piedi lividi e le gambe di un cadavere portato a sepoltura: la figura dietro la donna che nutre il padre col suo latte, è un sacerdote che regge una torcia accesa che illumina il viso e la veste bianca della donna, un particolare rilevante perché unico esempio di una sorgente luminosa in un quadro del pittore mentre in tutte le altre opere il fascio di luce viene da una sorgente posta all’esterno della scena. Sulla destra il gruppo gemina dalla figura di San Martino, rappresentato come un giovane gentiluomo che, in vestire gli ignudi, dopo aver diviso in due il suo mantello, ne dà una metà ad un uomo seduto per terra ripreso di spalle in una struttura fisica michelangiolesca; proprio immediatamente dietro il giovane con il mantello, Caravaggio raffigura un signore benvestito indica la sua casa ad un pellegrino che simboleggia ospitare i pellegrini, e sempre a San Martino è collegata la figura in basso dello storpio che rappresenta curare gli infermi. A culmine del gruppo di sinistra dare da bere gli assetati, che parte della critica ravvisa la figura di Sansone nell’uomo che beve dalla mascella di un asino, perché nel deserto bevve l’acqua fatta sgorgare miracolosamente dal Signore: l’eroico Sansone non sta compiendo un atto di misericordia, invece è lui che è salvato dalla grazia di Dio.
Con quest’opera dalla composizione serrata, che concentra in una visione d'insieme diversi personaggi, Caravaggio abbandona ogni schema tradizionale ed attua una vera e propria rivoluzione, rappresentando con estremo realismo e con perfetto sincretismo talune scene bibliche, storiche ed altre di tipo quotidiano con alcuni rinvii mitologici. Il naturalismo caravaggesco trova qui il suo compimento: sebbene stilisticamente il dipinto si avvicini alle ultime pitture di Caravaggio a Roma, in particolare al Martirio di San Matteo per la soluzione compositiva di un gruppo di figure variamente atteggiate che si dispongono lungo delle direttrici a raggiera, esso se ne differenzia per l'utilizzazione di una luce che scolpisce le forme attraverso un chiaroscuro più netto e frantumato in cui la scelta di soggetti reali e l'alto livello di simbolismo sono condensati in un'unica scena. Il significato morale di fondo è il rapporto tra le opere misericordiose che uomini compiono come avvicinamento a Dio e la misericordia della Grazia che Dio rende agli uomini, un tema inevitabile in una pala destinata ad una congregazione dedita a questo tipo di attività caritativa.
L'artista lavorò poi alla Flagellazione di Cristo per la cappella de Franchis in San Domenico Maggiore: la lavorazione, realizzata fra il 1606 ed il 1607, fu abbastanza travagliata infatti nella parte inferiore, soprattutto all'altezza del perizoma del torturatore di destra sono evidenti segni di pentimenti e rimaneggiamenti, rivelati dagli esami radiografici che hanno rivelato una testa d'uomo, probabilmente il committente, successivamente cancellata, in obbedienza alle precise ragioni della committenza che volevano evidenziare la crudeltà degli aguzzini, profondamente diversi da quelli raffigurati come uomini semplici costretti ad un lavoro faticoso nella Crocifissione di San Pietro della chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.
Il quadro (286 x 213) mostra il luminoso torso di Cristo, legato alla colonna, con intorno tre aguzzini, che sembrano scaricatori del porto, che affiorano e, immergendosi a turno nell'ombra, organizzano una girandola di tormenti che sembra non poter avere fine. Al centro della composizione campeggia la figura di Gesù, legato a una colonna: è un corpo bellissimo, tornito classicamente dalla luce, anatomicamente perfetto, in torsione, un corpo muscoloso che contrasta col volto rassegnato, dolente, malinconico sembra fluttuare in un movimento danzante di memoria manierista.
Tuttavia la violenza espressa dai carnefici, è sapientemente inquadrata in un contesto pittorico caratterizzato dalla consueta razionalità dello spazio e della luce. Staccati dalla colonna centrale i personaggi si distribuiscono in maniera sintetica ad eccezione del più lontano, chino e quasi completamente immerso nell’ombra. Lo sfondo è nero o scurissimo e le espressioni di malvagità sono appena visibili, ma eloquenti sui volti degli aguzzini nerboruti, intenti a procurare martirio sulla carne di Cristo, così debole eppure sensuale nella rappresentazione di un corpo magnifico ed illuminato.
La bellezza di Cristo appare esaltata, anziché impoverita, dalle violenze patite, secondo una descrizione non nuova per Caravaggio: abituato a proporre il paradosso a lui molto caro, accentua i movimenti rozzi e brutali dei modelli tratti dal popolo per dare maggiore risalto al candore protagonista, a sua volta sconcertante per la capacità di comunicare un impulso di carnalità profana.
Qui Caravaggio continua il suo percorso di approfondimento nella rappresentazione del pathos: il dolore non esplode violentemente, non è gridato, è dominato, è contenuto, e perciò è tanto più intenso, sentito e comunicato allo spettatore. L’immagine coglie l’attimo che precede il culmine del dramma, quando il corpo di Cristo cede spossato alla forza bruta dei due carnefici che lo stanno legando. Gli aguzzini si accaniscono violentemente nei confronti del corpo inerme di Cristo. La luce investe e modella il corpo di Gesù, svelandone la perfezione e l’eroica purezza, in contrasto con la sudicia e scarna anatomia dei torturatori. Il pittore propone in Cristo una fisicità atletica che però è mortificata dall’atteggiamento di umiltà del capo reclino e delle gambe leggermente piegate, ad indicare l’atteggiamento psicologico e spirituale di volontaria sottomissione alla Passione. Gesù è immerso nell’atmosfera buia, interrotta solo dall’intenso bagliore della luce riverberata sulla sua figura. L’immagine torturata sembra così emergere dalla cortina di buio, suggestiva come un’apparizione, favorendo la concentrazione e la commozione del fedele inginocchiato e in preghiera. Il modellato delle anatomie è robusto e corposo come in tutte le opere meridionali del maestro.
Tuttavia sembra che Caravaggio non riesca a trovar pace neppure a Napoli. Bellori narra che sia stato il desiderio «di ricevere la Croce di Malta solita darsi per gratia ad huomini riguardevoli per merito e per virtù» a spingere Caravaggio ad imbarcarsi per Malta ed è probabile che l’artista, entrando a far parte del Sacro Ordine Gerosolimitano, sperasse di potersi mettere al sicuro dal “bando capitale” emesso dal tribunale pontificio. Sempre per intercessione dei Colonna, si trasferì a Malta: a condurlo sull’isola potrebbe essere stato un altro esponente della famiglia che lo protegge, quel Fabrizio Sforza Colonna – figlio della marchesa di Caravaggio e generale della flotta maltese – che proprio nell’estate del 1607 fece scalo a Napoli proveniente da Marsiglia.
Massimo Capuozzo

giovedì 25 agosto 2011

Chiesa e Reale Monastero di San Bartolomeo a Castellammare di Stabia

Secondo la tradizione, ai tempi di Carlo I d'Angiò fu fondato presso l'attuale chiesa della Madonna della Sanità, una chiesa ed un monastero, ma a tutt’oggi è ignoto l'anno preciso della fondazione.
Questo monastero era esposto a continue incursioni di fuorilegge, perché situato fuori della città e, in seguito alle disposizioni del concilio di Trento, il vescovo Maiorana decise di costruire un nuovo complesso entro le mura cittadine; per questo nel 1576 furono comprate la casa di Roberto de Marchese alla Dohana vecchia e quella di Nicola Vaccaro a Campo di Mola ed iniziarono i lavori e s'innalzò dalle fondamenta una nuova chiesa nella strada Dogana, poi detta S. Bartolomeo. Il 18 luglio 1583 le suore accompagnate dal vescovo si trasferirono dall'antico nel nuovo monastero, con disappunto degli abitanti del sito dove esse abitavano che, rivoltandosi, ostacolarono la levata delle campane della antica chiesa. La nuova chiesa fu benedetta il 21 agosto 1673 dal vescovo Pietro Gambacorta.
Il monastero fu sempre governato dai Frati Minori Riformati da un guardiano e da un procuratore secolare. Anticamente in questo monastero si potevano monacare solo fanciulle nobili e la più antica Badessa di cui si ha memoria è la nobile Chiara Cannavacciuolo sul finire del secolo XV. Quando il vescovo andava in visita al monastero, era consentito solo al sindaco dei nobili entrare col vescovo nella clausura; essi erano attesi dalle suore all'ingresso della clausura, dove veniva intonato il Te Deum e poi processionalmente, preceduti dalla croce, si portavano nel coro dove, dopo l'orazione allo Spirito Santo, la Badessa, la Vicaria e le suore prestavano la prescritta obbedienza al vescovo, leggevano le regole del monastero e la funzione terminava con la visita alle reliquie di S. Bartolomeo e di S. Gennaro.
Nel 1684 oltre l'altare maggiore sono annotati i seguenti altari: Altare di S. Bartolomeo, di S. Maria del Soccorso, di S. Tommaso, del Crocifisso, di S. Michele Arcangelo.
Nella seconda metà del sec. XVIII la chiesa fu rimaneggiata: nel 1780 furono costruiti gli otto coretti e nel 1792 l'atrio ed il cancello di ferro avanti la chiesa.
La chiesa si presenta oggi a navata unica ed è preceduta all'esterno da atrio chiuso da cancelli di ferro, affidati a pilastri di pietra piperno.
Presenta sull'altare l'altare maggiore di marmo, con ciborio una tela del 1700 raffigurante Il martirio di S. Bartolomeo, opera di Francesco Landini, donato nel 1782 alle suore dalla regina Maria Carolina di Napoli. Davanti all'altare maggiore è una balaustra di marmo con portelli di ottone; all'interno, ai lati dell'opera del Landini, sono conservati due grandi quadri ad olio dedicati al santo.
Le quattro cappelle laterali con altari di marmo, sono dedicate, a sinistra, al S. Crocifisso, con crocifisso bizantino ligneo del 1111 restaurato nel 1836 e alla Vergine Immacolata; a destra a S. Francesco d'Assisi e a S. Ludovico. Ciascuna cappella è dotata di quadro ad olio con raffigurazione del santo cui è dedicata.
Presso l'altare di S. Francesco è esposta una copia dell'Immagine di Maria S.S. della Speranza. Presso l'altare di S. Ludovico si trova la statua della vergine di Fatima; presso quella di S. Francesco è una statua di S. Catello e presso l'altare del crocifisso una di S. Giuseppe.
Lo splendore e le ricchezze di questo monastero terminarono alla soppressione degli ordini religiosi ed il monastero passò in proprietà del Comune di Castellammare.
Nel 1924, l'amministratore Apostolico Luigi Lavitrano, arcivescovo di Benevento affidò alle suore adoratrici della provincia napoletana. Il 14 settembre 1924 si riaprì questo monastero.
Sul lato destro c'è il campanile, accessibile dal monastero, dotato di tre piccole campane.
Sempre sul lato destro è la sacrestia, di regolare ampiezza, illuminata da due vani di finestrini con cancelli fissi di ferro, rete e telaio di lastra sulla Strada S. Bartolomeo.
Presso la porta maggiore della chiesa vi sono due lapidi in marmo: quella a destra ricorda la consacrazione della chiesa nel 1821, quella a sinistra si riferisce al trasferimento del monastero dalle alture della città e ricorda le reliquie di S. Bartolomeo e S. Gennaro, conservate nel monastero stesso.

mercoledì 24 agosto 2011

Il vero Cristo sepolto dalla chiesa: lo Gnosticismo. Di Massimo Capuozzo

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Sono esistiti, all'inizio, non uno ma diversi cristianesimi.
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Una delle sue versioni ha successivamente preso il sopravvento sulle altre: ha stabilito, secondo il proprio punto di vista, il canone delle Sacre Scritture e si è imposta come ortodossia, relegando le altre al rango di eresie e cancellandone il ricordo. Noi possiamo però oggi, grazie a nuove scoperte di testi e a una rigorosa applicazione del metodo storico, ristabilire la verità e presentare finalmente Gesù di Nazareth per quello che fu veramente e che egli stesso intese essere, cioè una cosa totalmente diversa da quello che le varie Chiese cristiane hanno finora preteso che fosse.
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Nuove scoperte di nuovi testi hanno modificato il quadro storico sulle origini cristiane.
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Gesù non ha mai voluto fondare alcuna religione.
Gesù è l'Uomo che ha coscienza e conoscenza di sé e che, con il solo atto di volontà cambia la realtà, ossia il miracolo.
Gesù è venuto a portare la conoscenza che ci hanno sempre nascosto sulla natura dell'uomo che è ANIMA. Egli è venuto a dire che possiamo essere come lui, vero Uomo e vero Dio.
La religione fu voluta da forze che non sono solo di questa Terra, per dividere le genti e assoggettare la volontà umana nascondendoci la nostra stessa natura.
Gesù non è religione, è Vita.
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Nel dicembre del 1945, a Nag Hammadi, nell'Alto Egitto, furono scoperti decine di manoscritti di sconvolgente importanza perché rivelarono un cristianesimo profondamente diverso da quello che conosciamo.
Oggi, a più di sessant'anni di distanza e dopo un lavoro di decifrazione e di studio durato decenni, è possibile avere un'idea più precisa di Gesù, che cosa ha detto veramente, chi erano gli apostoli, qual era il ruolo di Maria di Magdala.
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Diversamente da quello che si crede la chiesa è un gruppo di uomini che portano avanti, quanto deciso nei secoli, le parole di uomini che intesero e diffusero il messaggio di Gesù in funzione dei loro fini.
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Questo video introduce la scoperta di fondamentali rivelazioni di un cristianesimo primitivo, rimasto nascosto per duemila anni, dove la conoscenza di Sé, la Gnosi, è il tema centrale ed è la via che conduce all'unità.
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Quella conoscenza che la chiesa ha definitivamente sepolto attraverso i due consigli ecumenici svolti nella città di Nicea dove definirono chi aveva ragione e chi era eretico all'interno della stessa chiesa. Uomini che decisero chi fosse Gesù e quale messaggio avesse portato. Uomini che decisero quali testi erano giusti e quali errati. Anche i 4 vangeli canonici del nuovo testamento servono a questo.
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Uomini che non sono Dio, sono uomini! Come può, quel Dio che è libertà e che desidera che ogni uomo lo cerchi liberamente, affermare che lo si faccia attraverso chi si assume il diritto di insegnare quanto è stato definito da un gruppo di uomini?
Occorre riflettere, occorre assumersi la responsabilità verso ciò che si crede.
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Occorre sostituire il credere con in capire!
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L'amore è relazione e solo amando si è vivi.
Per te che mi stai ancora leggendo metto in relazione le parole seguenti: La religione è diventata superstizione ed idolatria, credenza, rituale!
La bellezza della verità e le sue sottigliezze non sono nella fede e nel dogma, non sono mai dove l'uomo le può trovare perché non esiste nessuna via che conduce a quella bellezza. Non è un punto fisso o un porto di salvezza. Ha la sua propria dolcezza e il cui amore è incommensurabile, non puoi trattenerlo o farne esperienza, non ha un valore di mercato da usare o mettere da parte.
C'è solo quando la mente ed il cuore sono vuoti, liberi da ogni pensiero.
Tutte le ricerche e le scoperte non hanno alcun significato a meno che la mente non sia libera dal suo condizionamento.
Quella liberà è il primo e ultimo gradino!
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Non c'è alcuna via verso la verità sia essa storica o religiosa, non è da esperire o da trovare nella dialettica, ne da vedere in opinioni mutevoli e credenze. Ti imbatti in essa quando la mente è libera da tutte le cose che ha messo insieme. La mente deve essere libera da qualsiasi autorità. Non devono esserci ne seguaci, ne discepoli, ne metodi.
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Non appartenete a niente, non legatevi ad istituzioni e non siate discepoli di nessuno. Dubitate di tutto quello che dicono i guru o i sacerdoti orientali ed occidentali che siano e a maggior ragione dubitate di quello che vi dice chi vi parla.
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Massimo Capuozzo

Storia della chiesa e dei suoi crimini: i Catari. Di Massimo Capuozzo

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Nel sud della Francia viveva un popolo la cui religione per certe specificità fu concorrenziale alla Chiesa Cattolica d'Occidente.
L'eresia dei Catari o Puri fu l'incubo del papato agli albori del secondo millennio. La repressione della Chiesa fu commisurata alla paura che i Catari potessero, con il loro credo, mettere in crisi l'intero fondamento della chiesa cristiana.
Il catarismo era un movimento cristiano con alcune particolarità che lo distinguono dal Cristianesimo. Per i Catari esistono un Dio malvagio, falso e crudele (Satana) e un altro Dio, buono, santo e giusto. Il mondo materiale è opera del Dio malvagio, mentre il creatore di ciò che rimane in eterno è il Dio Buono. I Catari erano convinti che Satana avesse scritto il Vecchio Testamento. Per loro Abramo non era altro che una figura diabolica. Tutte le cose materiali che si vedono sulla terra sono vane e vengono da Satana. La terra è un luogo malvagio e tornerà nel nulla da dove è venuta. Satana ha modellato tutto dalla materia preesistente, il Dio Buono crea dal nulla. L'uomo è fatto di corpo, anima e spirito. Il corpo è stato modellato dal Dio malvagio, mentre l'anima e lo spirito sono creati dal Dio Buono. L'anima si trova nel corpo, mentre lo spirito è al di fuori e sorveglia l'anima. Gesù Cristo è la salvezza, Egli rivela la verità, libera gli spiriti imprigionati ed indica la via che porta al Dio Buono.
Per i Catari il battesimo non è quello d'acqua, ma è un battesimo spirituale, che gli uomini ricevono da adulti. Con il battesimo l'anima si riunisce con lo spirito. Solo chi ha ricevuto il questo battesimo faceva parte della Chiesa di Dio, e questi erano chiamati Parfaits, mentre gli altri erano i Credenti. L'unione per eccellenza di anima e spirito è quella tra Maria Maddalena e il Cristo. Per i Catari esisteva la reincarnazione. Le persone che non avevano ricevuto il battesimo spirituale si sarebbero reincarnate da una a nove volte. "Ogni creatura fatta dal Padre celeste sarà salvata, e nessuno di loro perirà... essi andranno di corpo in corpo, finché non giungano in un corpo nel quale pervengano allo stato di verità e di giustizia e vi diventino buoni cristiani" dicevano Giacomo Antier e Guglielmo Balbaria.
I Catari criticavano la Chiesa Cattolica. A questa era contrapposta la loro Chiesa, una Chiesa interiore. Non ammettevano il battesimo dell'acqua né l'eucarestia, non esisteva alcun edificio sacro, la loro Chiesa erano i fedeli in mezzo ai quali stava Gesù e vi sarebbe rimasto fino alla fine del mondo. Una loro preghiera recita: "Padre santo, Dio legittimo degli spiriti buoni, che non hai mai ingannato né mentito né errato, né esitato per paura della morte a discendere nel mondo del Dio straniero - perché noi non siamo del mondo né il mondo è nostro - concedi a noi di conoscere ciò che tu conosci - e di amare ciò che tu ami. Farisei ingannatori, che state alla porta del regno e impedite di entrare a coloro che lo vorrebbero, mentre voi non volete! Per questo prego il Padre santo degli spiriti buoni, che ha il potere di salvare le anime, e fa germogliare e fiorire per gli spiriti buoni, e per causa dei buoni dà vita ai malvagi e lo farà finché essi vadano nel mondo dei buoni".
I Catari erano buoni cristiani, non sono da considerare eretici, tanto che San Bernardi di Chiaravalle diceva di loro: "Nessun sermone è più cristiano dei loro e la loro morale è pura".
I Catari avevano qualcosa che poteva mettere in discussione il cattolicesimo? Come poteva la Chiesa Cattolica rimanere insensibile? Anzi doveva fare di tutto per impossessarsene. Bisognava prendere una decisione, l'unica possibile era il loro sterminio. C'è da aggiungere che in quel periodo il movimento cataro era molto radicato nella Linguadoca ed era diventato ormai alternativo al cattolicesimo.
La risoluzione nell'occultare il Sapere (Sophia), che fosse religioso, filosofico, scientifico, portò a sterminare chiunque si opponesse al suo progetto: non si trattava, infatti, di singoli eretici da punire, ma di un fenomeno di vasta portata, cui l'Europa dell'epoca non era abituata, e che ricordava i grandi movimenti religiosi scismatici che avevano afflitto l'impero romano d'oriente. È difficile spiegare altrimenti la creazione di un potentissimo mezzo di soppressione come l'inquisizione, la costituzione dell’ordine domenicano, preposti a controbattere le dottrine catare, e all'organizzazione di una crociata, cristiani contro cristiani, con connessa licenza di massacro.
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Nel 1209, l'esercito crociato condotto da Arnaud-Amaury, abate di Citeaux, massacra la quasi totalità della popolazione di Béziers, senza distinzione d'età o di sesso. Circa 25000 furono i morti, tra cui donne e bambini che si erano rifugiati nella chiesa San Nazaire: gli abitanti rigettarono la richiesta di consegnare i catari ed in quella circostanza, ad Arnaud-Amaury, fu attribuita la frase "uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi".
Che cosa giustificò una così efferata crociata fu l'uccisione?
Il 14 gennaio del 1208 presso Arles, di Pierre de Castelnau legato di Papa Innocenzo III dei Conti di Segni, fu ucciso per mano di sconosciuti, ma artatamente circolò la voce che incolpava i Catari come esecutori. Il grave fatto di sangue permise al papa di suonare subito le trombe di guerra. Inoltre uno stato sovrano, come la Francia, dilaniata dalla guerra dei cent'anni, sarebbe potuto essere messo in discussione da questa setta e dal suo alleato laico, il potente conte di Tolosa, essa quindi fu schiacciata dall'azione combinata tra Stato e Chiesa.
Nel 1244 cadde l'ultima fortezza, Montségur, a 40 Km da Rennes-le-Château. I Catari si erano stabiliti nella fortezza nel 1208, due anni dopo che Raymond de Péreille, signore di Montségur, la aveva ristrutturata. L'architettura della fortezza di Montségur ha una particolarità: durante il solstizio d'estate, i primi raggi del sole attraversano il loggione da parte a parte, per alcuni è un caso, per altri è la prova di un culto solare.
Era il desiderio di essere in armonia con la natura. Comandante della difesa era Pierre-Roger di Mirepoix, e il Conte di Tolosa Raymond VII li aiutava inviando loro viveri e acqua. Nel mese di gennaio del 1244 due catari lasciarono la fortezza per nascondere in una grotta il loro tesoro. Il 13 marzo dello stesso anno, tre Perfetti e un credente, lasciarono la fortezza, durante una tregua, portando via qualcosa di molto prezioso per loro e legato alla "loro religione", un tesoro spirituale.
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Il segreto di un nascondiglio di un tesoro più che materiale?
Pierre Roger di Mirepoix dichiarò agli inquisitori che i tre Parfaits erano fuggiti, affinché la Chiesa Catara non perdesse il suo tesoro e non restasse privo del suo tesoro nascosto, nella foresta di cui solo i tre "parfait" ne conoscevano il nascondiglio. Essi si erano congiunti con il loro spirito celeste.
Pierre-Roger Mirepoix era discendente di Mérovèe Levi, signore di Mirepoix, il quale, su ordine di Bera II, aveva salvato Sigiberto IV portandolo a Rennes Le Château, quando Pipino II fece assassinare Dagoberto II. Pierre Roger di Mirepoix era molto legato alla sovranità merovingia. I Crociati dovevano recuperare qualcosa a Montségur, ma non la trovarono mai, perché era stata portata via la notte di quel famoso 13 marzo 1244. Il loro segreto lo conoscevano anche i Templari, che nella notte di venerdì 13 ottobre 1307 vennero messi al rogo.
Nei paesi catari, non solo non era concepita l'idea della violenza, ma convivevano in perfetta armonia, catari, cristiani, mussulmani ed ebrei. Essi intendevano tornare al modello ideale di chiesa descritto nei vangeli e negli atti degli apostoli.
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Un'isola felice dell'anno 1000 è definitivamente morta.
Massimo Capuozzo

Una morte sospetta: i 33 giorni di Giovanni Paolo I

I video contenuti in questo articolo forse saranno rimossi perché sono video scomodi. Perché la verità è scomoda sempre e l'ignoranza da sempre riempie il tempio di Dio.

Il 26 agosto 1978 Albino Luciani è eletto Papa con il nome di Giovanni Paolo I. È trascorso appena un mese quando, il 29 settembre 1978, tutta la Chiesa Cattolica, da Roma al Sudamerica, è scossa dalla triste e inaspettata notizia: il Papa è morto. I fedeli, che in appena trentatré giorni di pontificato sono stati conquistati dalla semplicità, dall'animo gentile, ma determinato di Giovanni Paolo I devono già rassegnarsi a piangerlo.
Da Cardinale di Venezia, Albino Luciani era salito al soglio di Pietro dopo un rapidissimo conclave, nel quale fu eletto grandissima maggioranza come successore di Paolo VI. Nonostante avesse scelto, come mai prima era accaduto, un doppio nome in ossequio ai suoi predecessori, alcuni gesti innovatori avevano inaugurato il suo pontificato rompendo la continuità con alcune tradizioni ecclesiastiche, ad esempio con l'abolizione del plurale maiestatis e della tiara papale.
In realtà, facendo proprio a suo modo lo spirito del Concilio Vaticano Secondo, Giovanni Paolo I si proponeva come un riformatore, sostenendo ogni misura che potesse ricondurre la Chiesa all'umiltà, alla povertà delle prime comunità cristiane. Proprio mentre il suo messaggio comincia a farsi chiaro, ad essere accolto, il Papa del sorriso se ne va, in silenzio e nell'arco di una sola notte, lasciando i credenti impreparati alla sua precoce dipartita, turbati ed amareggiati per aver perso un pastore caritatevole e carismatico che tanto avrebbe potuto ancora far per la Chiesa.
Questa perdita appare ancora più difficile da accettare anche perché, fin dal primo momento, molti nodi oscuri avvolgono le circostanze della morte, e il confronto tra le versioni ufficiali del Vaticano e le notizie trapelate anziché fare chiarezza una volta per tutte, ha contribuito negli anni ad alimentare le contraddizioni.

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Alcune incongruenze sorgono proprio dal documento ufficiale emesso dal Vaticano il giorno seguente per informare il mondo, cattolico e non, della scomparsa di Giovanni Paolo I; la stessa Curia ha ammesso poi che questo comunicato stampa si è rivelato fonte di inesattezze, ma il Sacro Collegio non ha mai smentito la dichiarazione né, viceversa, confermato in via formale il referto medico redatto dal dottor Buzzonetti.
Il documento fissa il decesso intorno alle ore 23 del 28 settembre e ne attribuisce la causa ad un infarto acuto del miocardio, ma entrambe le attestazioni saranno oggetto di controversia, così come sarà contestato il fatto che la triste scoperta sia opera del segretario personale del Papa. Buona parte delle imprecisioni nasce probabilmente da una generale disorganizzazione dell'apparato che si trova a gestire una situazione così insolita.
Come i fedeli, anche il Vaticano non può aspettarsi il trapasso di un pontefice eletto appena un mese prima, ed oltretutto proprio perché il recente conclave ha concesso licenza a molti cardinali: la loro temporanea assenza da Roma concorre a complicare l'amministrazione responsabile della crisi.
Le incertezze nel dare il resoconto ufficiale degli eventi hanno quindi fornito argomenti a quanti ne metteranno in discussione l'attendibilità per elaborare delle spiegazioni alternative: le ipotesi si moltiplicano con il passare del tempo, anche se alla luce dei fatti nessuna può essere provata o confermata.
In primo luogo sembra mancare chiarezza anche su quali fossero le condizioni di salute di Papa Luciani al momento del suo arrivo a Roma. Se da una parte un pregresso di otto interventi chirurgici, sommati ad una generale cagionevolezza, il precedente di un'embolia all'occhio durante un viaggio in aereo e una probabile predisposizione genetica ad improvvisi malori (che portarono al prematuro decesso molti altri membri della famiglia Luciani), favoriscono una convergenza sulle cause naturali, non tutti si mostrano d'accordo con questa spiegazione: le notizie continuano ad uscire con il contagocce, e nonostante le richieste provenienti da ogni parte la Chiesa non autorizza il ricorso all'autopsia.
La mancanza di un riscontro che possa comprovare una versione definitiva, correggendo o contrastando l'iniziale comunicato-stampa, è interpretata da più parti come il tentativo di nascondere la verità, di insabbiare la reale dinamica degli avvenimenti.
In particolare le rimostranze, da parte anche di prelati, riguardano il rifiuto del Vaticano nell'autorizzare un esame autoptico sul corpo del Papa, che forse le circostanze eccezionali avrebbero potuto giustificare e le illazioni rendevano opportuno.
Si parla dunque di embolia, crisi per il troppo stress, un attacco di tisi polmonare ma è ipotizzato anche un errore nell'assumere calmanti, o addirittura l’omicidio. La tesi dell'assassinio elaborata dal giornalista inglese David Yallop non trova in effetti motivi lampanti per essere smentita (insiste tra l'altro sull'avvelenamento da digitalina, che nemmeno un'autopsia riuscirebbe a trovare), garantisce celebrità al suo assertore e riapre il dibattito intorno ad un mistero ancora apparentemente irrisolto.
Se i parenti più stretti del Papa, cioè il fratello Edoardo e la sorella Nina, sconfessano l'idea di complotto dipingendola come una sciocchezza, solo Don Diego Lorenzi parla di dolori al petto che il Papa avrebbe accusato il giorno della sua morte, mentre da altre fonti si stima che le sue condizioni di salute fossero perfette. Tutte queste congetture però non possono essere dimostrate, mancando qualsiasi tipo di prova certa ed inconfutabile.

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Proprio come permangono dubbi sulle cause della morte di Papa Luciani, che sono il punto cruciale della vicenda, le diverse ricostruzioni non si trovano in accordo nemmeno su alcuni importanti dettagli.
Il referto medico indica nelle 23 l'orario in cui presumibilmente il pontefice sarebbe venuto a mancare, e pure l'esperto inglese John Cornwell, al quale la Chiesa affiderà nel 1987 delle indagini sul caso, conferma questa collocazione nella tarda serata. Però, secondo il racconto di Suor Vincenza, incaricata di servire Papa Giovanni Paolo I e solita servirgli la colazione, il corpo risultava ancora caldo in mattinata. Gli stessi fratelli Signoracci, che si sono occupati della sistemazione della salma, sostengono di aver ravvisato solamente lo stadio iniziale dei processi di ipostasia e irrigidimento, come tracce di una morte sopraggiunta soltanto poche ore prima del loro arrivo il mattino del 29 settembre 1978.
Inoltre, un'ulteriore incongruenza emerge confrontando la versione ufficiale, che vede nel segretario personale Don Lorenzi il primo ad accorgersi dell'accaduto, con la traduzione informale e probabilmente più attendibile che vorrebbe invece attribuito quest'onere proprio a Suor Vincenza. In questo caso un’intransigente moralità dei costumi in uso in Vaticano, tentando di nascondere l'episodio nel timore forse eccessivo di poter disonorare la memoria del Santo Padre, avrebbe finito con l'aggrovigliare i fili della matassa.
Ancor più confusione circonda la descrizione delle letture che avrebbero accompagnato il Papa al sonno, dato che le dichiarazioni ufficiali sono state nuovamente smentite: secondo il racconto di Monsignor Farusi (gesuita, giornalista per Radio Vaticana) non si sarebbe trattato de L'imitazione di Cristo, perché proprio nel pomeriggio del 29 settembre dalla segreteria sarebbe trapelato che il Papa stava tenendo in mano degli appunti. Se per Mons. Farusi il contenuto di questi fogli è destinato a rimanere nel mistero, il vaticanista Gennari e soprattutto Yallop sono convinti che Giovanni Paolo I stesse preparando un progetto di ristrutturazione delle gerarchie ecclesiastiche, che prevedeva la sostituzione di personaggi-chiave, come il segretario di Stato Cardinale Villot, e un rinnovamento dei vertici della banca vaticana. L'interpretazione del giornalista Andrea Tornielli, più recente e più “morbida”, propende comunque per descriverli come semplici appunti di un'omelia.
Le opinioni sembrano però convergere almeno su un punto: Giovanni Paolo I era un innovatore. Sebbene si concordi nel ritenere Luciani, prima parroco e poi vescovo e cardinale, un teologo conservatore e inflessibile davanti alle questioni fondamentali della fede, e per altri aspetti in qualche modo erede di una cultura concreta e sanguigna, genuina come quella delle montagne bellunesi, è fuor di dubbio che la sua attività pastorale fu contraddistinta da un’eccezionale apertura al rinnovamento.

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Questa, unita alla straordinaria capacità di farsi ascoltare e capire da tutti, lo rendeva un personaggio carismatico ed amatissimo dai suoi fedeli. L'elezione al conclave aveva consegnato ad Albino Luciani il difficile compito di introdurre a Roma la semplicità, l'umiltà che gli appartenevano e di riportare la Chiesa alla sua originale austerità.
Erano anni costellati di eventi oscuri e situazioni poco trasparenti: Luciani conosceva già dal suo patriarcato a Venezia l'operato dello IOR e non approvava il legame tra Chiesa, economia ed ambienti massonici istituito dal Cardinale Marcinkus (ed è proprio questo il filo tematico che sostiene l'impianto delle ipotesi cospirative di Yallop).
L'impronta riformatrice di Papa Giovanni Paolo I, però, non si limita solo a questo: anche l'abolizione di rituali vetusti e di simboli superati, come la tiara e la sedia, sono sintomo di una tendenza al cambiamento, nella prospettiva di traghettare la Chiesa al nuovo secolo senza timore per le contestazioni (egli era rafforzato da un conclave estremamente compatto al momento dell'elezione).
I pochi discorsi che Luciani ha avuto il tempo di lasciare nelle vesti di Papa sono impregnati di un tale carisma che indicano chiaramente come sarebbe potuto proseguire il suo pontificato e continuano a trasmettere ai credenti un forte messaggio d'umiltà e di speranza. Sono proprio le petizioni dei fedeli ad aver spinto all'avvio della causa di beatificazione promossa dal vescovo di Belluno e sostenuta dal clero brasiliano. E, forse più importante delle stesse parole, il ricordo di Papa Luciani regala ancora quel sorriso capace di conquistare tutti.

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