giovedì 26 marzo 2015

L'eroe dannunziano: genesi del superuomo di Massimo Capuozzo

Dalfino
·         Il giovane Gabriele D’Annunzio rimase molto colpito dalla lettura delle opere di Giovanni Verga: la raccolta Vita dei campi (1880) lo indusse a cimentarsi nel genere della novella e, in particolare, della novella che delinea ambienti (nel suo caso quelli del nativo Abruzzo). In realtà non vi sono altri punti di contatto con il modello verghiano: D’Annunzio, infatti, ritrae, della sua terra, non la quotidiana lotta per la sopravvivenza, ma la primitività, le passioni forti legate all’istinto, la barbarie, la superstizione, l’irrazionalità, tutti aspetti che risultano particolarmente evidenti nella figura del protagonista, Dalfino, e nel paesaggio in cui egli vive e agisce.
·         Il narratore onnisciente è in grado di cogliere e di tratteggiare i sentimenti e le sensazioni che albergano nel cuore di Dalfino (nel cuore ci aveva la burrasca… era un misto di superstizione, d’odio, d’amore…) che appare, pertanto, un personaggio a tutto tondo, caratterizzato com’è da un animo tormentato e confuso. Dalfino è stato scelto come protagonista proprio per questo suo modo di essere, dovuto al fatto di appartenere a un mondo primitivo, in cui predominano gli istinti e le forze della natura. Il narratore non fa mistero del fascino che questo primitivismo e queste forze esercitano su di lui: commenti espliciti come ‘Oh bella forte audace giovinezza temprata nell’acqua salsa, come una lama d’acciaro!’ lasciano trasparire il culto dannunziano per l’istintività, l’irrazionalità, la forza, la vitalità che si legano alla stagione della giovinezza vissuta a stretto contatto con una natura aspra e selvaggia. Di qui i continui paragoni con gli animali: Dalfino nuota come un delfino, freme come un leopardo in catene, si scaglia contro il rivale come una tigre; Zarra (l’alter ego femminile della vitalità del protagonista) è una fiera superba che ha flessuosità da pantera e denti viperini, come una vera mangiatrice di uomini (un’altra immagine che ben si adatta a una natura primordiale e selvaggia).
·         Anche i paesaggi in cui si muovono e agiscono i personaggi sono caratterizzati da una forte vitalità che si concretizza in colori carichi e sensuali, tra cui predomina il rosso, citato in modo diretto (la vela rossa piena di vento) e indiretto (il cielo a ponente sembrava sangue… avvinazzava… mare paonazzo… color di carmino…). Questa nota di colore non è fine a se stessa: il rosso richiama, infatti, il sangue della passione, che scorre caldo nelle vene dei due innamorati, e quello che sarà versato per mano di Dalfino, in un intreccio di amore e morte che ben illustra le pulsioni naturali della vita dell’uomo, di un eros che si trasforma prima in gelosia e poi in morte proprio perché vissuto in modo primitivo, passionale e totalmente irrazionale.
·         Alcune espressioni popolaresche sparse per la novella (Bisognava vederlo buttarsi giù con un urlo dallo scoglio… bisognava vederlo!; il babbo se l’era mangiato il mare, se l’era mangiato, una sera che il libeccio urlava come cento lupi; un petto che ficcava nel sangue la smania de’ morsi e faceva increspar la pelle delle dita, per San Francesco protettore!; una sera si vide davvero se il sangue era rosso, si vide) non bastano a cancellare lo stile alto della prosa dannunziana, che, sebbene alle prime prove, appare già caratterizzata dai suoi tratti stilistici ricorrenti: paragoni raffinati (il raggio di sole fora la nebbia come una saetta d’oro di un dio, espressione che allude alle saette di Apollo, il dio del sole), costrutti elaborati (il latineggiante con erto il petto e le labbra semichiuse) o inconsueti (somiglian quelle), giochi di suoni (co’l cenerino chiaro… sfiocchi scialbi), vocaboli rari (nuvoli) o pregnanti (avvinazzava)…

Nella spiaggia lo chiamavano Dalfino; e il nomignolo gli stava a capello, perché dentro l’acqua pareva proprio un delfino, con quella schiena curvata dal remo e annerita dalla canicola, con quella grossa testa lanosa, con quel vigore sovrumano di gambe e di braccia che gli facea far guizzi e salti e tonfi da raccapriccire. Bisognava vederlo buttarsi giù con un urlo dallo scoglio de’ Forroni, come un aquilastro ferito all’ala, e poi ricomparire venti braccia più in là, fuor dell’acqua verde, con tanto d’occhiacci aperti contro il sole: bisognava vederlo! Ma forse era più bello su la paranza, aggrappato all’albero, mentre lo scirocco sibilava a traverso le funi e la vela rossa stava lì lì per stracciarsi e la tempesta mugghiava sotto che pareva se lo volesse ingoiare.
Non aveva né babbo né mamma: la mamma anzi l’aveva ammazzata lui, nascendo, in una notte d’autunno, vent’anni addietro; il babbo se l’era mangiato il mare; se l’era mangiato, una sera che il libeccio urlava come cento lupi e il cielo a ponente sembrava sangue. Da allora quella immensa distesa d’acqua ebbe per lui un fascino strano; ascoltava il fiotto come se c’intendesse qualche cosa, e gli parlava come un giorno parlava al padre, con impeti d’amore, con tenerezze infantili, che si espandevano in canzoni selvagge gridate a squarciagola o in lunghe cantilene piene di malinconia.
Lui è là giù a dormire – disse una volta alla Zarra – e ci vo’ andare anch’io. M’aspetta; lo so che m’aspetta, l’ho visto ieri...
L’hai visto? – disse la Zarra sgranando que’ due occhioni neri come la chiglia della paranza.
– Sì, là dietro la punta delle Seppie, che il mare pareva olio; e m’ha guardato, m’ha.
La ragazza ebbe un brivido di paura giù per le reni.
Ma che superba fiera era quella Zarra! Alta e diritta come un albero di trinchetto, con certe flessuosità da pantera, certi denti viperini, due labbra scarlatte, un petto che ficcava nel sangue la smania de’ morsi e faceva increspar la pelle delle dita, per San Francesco protettore !
Lei e Dalfino s’eran sempre voluti bene, fin da quando giocavan con la rena o davan noia a’ granchi o sguazzavan nell’acqua turchina; s’eran baciati mille volte in faccia al sole e al mare; e al sole e al mare avevan gittata mille volte la canzone della loro giovinezza.... Oh bella forte audace giovinezza temprata nell’acqua salsa, come una lama di acciaro !

La Zarra aspettava lui che tornassse, tutte le sere quando il cielo dietro la Majella si avvinazzava e l’acqua prendeva dei riflesssi violetti qua e là.
Le paranze apparivano a frotte, come uccellacci, alla punta delle Seppie, lontane lontane; ma quella di Dalfino filava innanzi, giù diritta, snella, con la vela rossa piena di vento, ch’era un amore: e Dalfino stava a prua fermo come una colonna di granito.
– Ohe! – gridava la Zarra. – Buona pesca?
Lui le rimandava la voce; i gabbiani si alzavano a stormi su dalle scogliere gridando; e da per tutta la spiaggia si spandeva il rumorio dei pescatori e l’odore del mare.
Ma l’odore del mare li ubriacava quei due. A volte stavano a guardarsi dentro gli occhi lungamente, come ammaliati, lei seduta su l’orlo della barca, lui disteso su le tavole del fondo a’ suoi piedi; mentre il flutto li cullava e cantava per loro, il flutto verde come un immenso prato a maggio mosso dal vento.
– O che ci hai negli occhi, Zarra, stasera? – susurrava Dalfino. – Lo giurerei, guarda; tu devi essere una di quelle maghe che stanno in alto mare, lontano, lontano, e sono metà, femmina e metà pesce, devi essere, che quando cantano si resta lì di sasso, e hanno i capelli vivi come le serpi, hanno.
Qualche giorno tu ridiventi maga, e salti nell’acqua, e mi lasci qui incantato.....
– Pazzo! – diceva lei co’ denti stretti e le labbra aperte, cacciandogli le mani dentro a’ capelli e tenendolo lì prostrato e fremente come un Leopardo in catene.
Il fiotto odorava più. che mai.
* *
Un’alba di giugno ci andò anche la Zarra alla pesca. Nell’aria bianca alitava una freschezza che metteva de’ brividi piacevoli nel sangue; tutta la spiaggia era nascosta da’ vapori. Ad un tratto un raggio forò la nebbia, come una saetta d’oro di un dio, poi altri raggi, un fascio di luce; e là filoni di scarlatto, chiazze di viola, falde tremolanti di roseo, sfiocchi scialbi di arancio, svolazzi di azzurro si fondevano in una stupenda sinfonia di colore. I vapori, come spazzati da una folata di vento, sparirono; e il sole folgorò, pari ad un grande occhio sanguigno, su ‘l mare paonazzo da’ larghi e placidi ondeggiamenti. Folate di gabbiani gittavan gridi che parevano scrosci di risa umane, radendo l’acqua co ‘l cenerino chiaro del loro volo.
La paranza andava bordeggiando, a spina –pesce, con delle guizzate improvvise, come fosse viva; a Levante, verso lo scoglio de’ Forroni, c’erano ancora de’ cirri color di carmino che parevano triglie. – Guarda – disse la Zarra a Dalfino che stava alla manovra con Ciatté guercio e col figliuolo di Pachiò, due ragazzacci neri e forti come il ferro – guarda le case li piccole piccole su lo spiaggione; somiglian quelle del presepio di comare « Gnese » a Natale.
– Già ! – mormorò il guercio ridendo.
Ma lui stette zitto: guardava i sugheri tondi sopra l’acqua turchina: si movevano appena.
– Che bel figliuolo ci ha comare « Gnese » eh? Zarra – disse finalmente con una leggera inflessione ironica nella voce, piantandole in viso que’ due occhiacci da pescecane.
La ragazza sostenne impavidamente lo sguardo arroventato, ma si morse il labbro di sotto.
– Sarà – disse con l’aria sbadata, volgendosi a guardare una frotta di gabbiani in cielo.

– È, via, è. E poi, che bel vestito da finanziere, con le striscie gialle e la penna al cappello e la daga!... Si me....
La Zarra s’era arrovesciata all’indietro voluttuosamente con erto il petto e le labbra semichiuse, mentre i capelli le svolazzavano al maestrale.
– San Francesco protettore! – mormorò fra i denti il povero Dalfino sentendosi rimescolare. – Vira, guercio, vira!

Ma quel finanziere voleva proprio buscarsi una coltellata alla gola. Quando passava la Zarra, le diceva sempre una parolina galante arricciandosi i piccoli baffi biondi e mettendo il pugno su l’elsa della daga. Lei rideva; una volta si rivoltò indietro, anche.
– Il sangue è rosso! – diceva Dalfino con un’aria cupa di mistero, quando il figliolo di comare «Gnese» passeggiava superbamente con lo schioppo dietro la schiena, dinanzi alle paranze ancorate in fila.
E una sera, proprio l’ultima di luglio, una sera si vide davvero se il sangue era rosso, si vide.
Tramontava il sole in un incendio di nuvoli; e l’afa stava sopra alla spiaggia come una cappa di metallo rovente; e venivano buffate di scirocco su ‘l viso a tratti come lingue di foco, mentre la marea picchiava su le scogliere spumeggiando e sonando che pareva bastemmiasse. Lì di faccia alla Dogana spalmavano la barca nova di padrone Cardillo: l’odore del rame si propagava per tutta la sponda.
– L’ho rivisto, sai? Zarra – diceva Dalfino amaramente, sotto sotto il fianco della paranza che giaceva lì in secco come un capodoglio sventrato. – M’ha detto un’altra volta che aspetta; e io ci andrò. Tanto qui che ci faccio?
Contrasse la bocca ad un brutto sorriso; poi si ficcò la mano dentro a’ capelli, e ripetè:
– Tanto qui che ci faccio?
Nel cuore ci aveva la burrasca, povero Dalfino; in quel suo cuore forte come il granito degli scogli e largo quanto il mare. Era un misto di superstizione, d’odio, d’amore; l’onda paonazza l’attirava irresistibilmente, fatalmente, ma gli pareva che anche là sotto non avrebbe avuto pace senza la vendetta.
Oh Zarra, Zarra, anche Zarra gli avevano rubato !...
Stettero in silenzio ad ascoltare il fiotto e a fiutar l’odore del catrame; lei non aveva coraggio di dir una parola: era con l’occhio fosco, avvilita, immobile come una statua.
Povera paranzella mia! – mormorò Dalfino palpando al legno il nero fianco che aveva sfidate con lui cento tempeste senza rompersi mai. E negli occhi gli luccicavano le lacrime come a un bambino.
– Addio, Zarra; vado.
La baciò su la bocca; poi si diede a correre per la rena verso la Dogana, e il sangue gli s’era inferocito. Incontrò il finanziere proprio sotto la lanterna; gli si fece addosso come una tigre e lo sgozzò d’un colpo senza fargli dire neppur Gesummaria.
Poi mentre la gente accorreva, si gittò in mare contro i cavalloni furibondi, sparì, ricomparve lottante con quel suo vigore sovrumano; e lo videro ancora su la cima bianca de’ marosi, come un delfino, ricomparire, sparire, perdersi per sempre nel crepuscolo incerto, tra i fischi dello scirocco e le grida disperate di comare «Gnese »

E in questa novella del 1882, si comincia a delineare la figura dell’uomo eccezionale come un primo embrione dell’evoluzione dell’eroe dannunziano.
L'eroe dannunziano nasce in seguito alla consapevolezza della crisi del Decadentismo. D'Annunzio, attraverso le sue opere, cerca di creare un modello ideologico di eroe che riesca a superare la crisi dei valori della sua epoca. Durante la formazione letteraria del poeta pescarese, questa figura muta, cerca di perfezionarsi e segue un percorso e dunque un viaggio, per diventare qualcosa di diverso, proponendo nuovi ideali, ben lontani dai valori messi in crisi dal Decadentismo.
Il primo tentativo in questo senso e il conseguente inizio del viaggio dell'eroe dannunziano sono evidenti nel primo romanzo di D'Annunzio, "Il piacere", pubblicato nel 1889.
Influenzato da Wilde e da Huysmans, D'Annunzio vede nell'estetismo una prima risposta possibile alla crisi. Il protagonista del romanzo è Andrea Sperelli, che è concepito da D'Annunzio come eroe dell'estetismo. Secondo Andrea la vita stessa è concepita come arte, e l'arte per l'arte non è solo un programma estetico, ma anche uno stile di vita. Di conseguenza, la vita diviene funzione dell'arte e subordinata a essa abbraccia nuovi ideali; la raffinatezza e la bellezza sono considerate come doni preziosi e aristocratici che devono essere raggiunti attraverso un processo sociale d'innalzamento sopra gli altri e un processo psicologico di affinamento del gusto e delle sensazioni. La stessa corruzione può diventare strumento di questo innalzamento e di quest’affinamento. Ma la vicenda di Andrea finisce tragicamente, segnando il fallimento dell'eroe estetista dannunziano.
Accanto a questo fallimento vi è anche il disfacimento del piano storico cui appartiene il protagonista, ultimo rampollo di una famiglia aristocratica, che è lentamente distrutto dal nuovo mondo borghese sempre più dominante rispetto agli altri ceti sociali. La vicenda vede coinvolto Andrea in numerose relazioni amorose. Egli inizialmente insegue il suo progetto di esteta traendo piacere e godimento dalla relazione intensa con Elena Muti, donna molto bella e sensuale, attraverso la quale Andrea può appagare il suo desiderio di voluttà e piacere. La relazione però è bruscamente interrotta con la fuga di Elena da Roma. Andrea continua la sua vita mondana e dopo una ferita subita in un duello, passa la sua convalescenza in una villa in campagna, ospite della cugina. Qui conosce Maria Ferres, donna caratterizzata da una femminilità ben diversa da quella di Elena: delicata, spirituale e sensibile. Tra i due si instaura un vero rapporto d'amore che porta in un primo tempo Andrea a rifiutare la sua precedente vita, caratterizzata dalla corruzione morale e dalla mondanità, e ad abbracciare il mondo dell'arte e della purezza spirituale.
In seguito Andrea fa ritorno a Roma e qui incontra di nuovo Elena, sposata con un vecchio e perverso marchese. L'incontro con Elena risveglia in Andrea il turbamento provato appena dopo la sua fuga e il desiderio di piacere e voluttà che l'affascinante donna ha sempre provocato in Andrea. A questo punto, il protagonista si trova a vivere una doppia vita, legato all'amore sacro con Maria e all'attrazione erotica nei confronti di Elena. La vicenda si conclude quando Andrea non riesce a controllare la tensione erotica provata per Elena e grida il nome di lei mentre è abbracciato a Maria. La Ferres tradita fugge e l'eroe dannunziano fallisce il suo progetto d'esteta. Andrea non riesce a controllare la voluttà, il desiderio di piacere (provato per Elena) e dall'altra parte non riesce a rispettare l'arte e l'amore puro (provato per Maria), segnando il fallimento dell'estetismo e della propria realizzazione.

Il ritratto di Andrea Sperelli
·        Nel secondo capitolo del romanzo Il piacere, dopo avere presentato la storia della famiglia Sperelli e di alcuni dei suoi avi, appartenenti a una «special classe di antica nobiltà» e di «eletta cultura», l’autore avvia il celebre ritratto dell’ultimo discendente, il protagonista Andrea Sperelli.
·         Nel celebre ritratto di Andrea Sperelli l’autore sviluppa i princìpi di una visione del mondo “estrema”, improntata al culto del piacere, della bellezza, del senso di superiorità estetica. Ma il profilo del personaggio è ben lontano dall’essere monolitico: i caratteri della superiorità contengono in se stessi un germe di estrema debolezza. Il superomismo è infatti contaminato da un’ottica decadente, e l’estetismo che rende Sperelli “superiore” agli uomini comuni è anche una “malattia” che instilla il dubbio, la debolezza, la scarsa solidità morale. Se al centro dell’idea dell’uomo sta infatti la volontà di potenza di stampo nietszchiano, ecco emergere nella descrizione del padre di Andrea il seme opposto, la «natura involontaria»: l’avere, cioè, volontà debolissima. Questo difetto sarà determinante nella conclusione del romanzo, quando il protagonista – senza volere – pronuncerà, nell’abbraccio con Maria, il nome di Elena. Proprio nel momento del “possesso” di una donna, Sperelli dimostrerà la sua mancanza di controllo, che suonerà allora come un rovesciamento tragicamente ironico del motto paterno «habere, non haberi».
·         Completa la visione superomistica-decadente un interessante accenno al rapporto fra parola e menzogna. La parola è infatti allo stesso tempo «profonda» e menzognera: «Acuire e moltiplicare i sofismi equivale […] ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore». La parola amplificata ha una diretta influenza sulla sensibilità dell’uomo: questo sarà il motivo che porterà d’Annunzio, per esempio, a scegliere uno stile “oratorio” per il romanzo Le vergini delle rocce, ancora più estetizzante del Piacere. Il «sofisma» dunque è un’espressione delle possibilità della parola come l’estetismo lo è della bellezza: entrambi, culto della parola e culto della bellezza, sono sempre al confine fra positività e negatività, benefici e pericolosi insieme. Si legge poco dopo: «La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Ma codesto senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio; così che si poteva dire che la sua vita fosse una continua lotta di forze contrarie chiusa ne’ limiti d’un certo equilibrio. Gli uomini d’intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezione della Bellezza è, dirò così, l’asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le passioni gravitano». L’estetismo può essere, pertanto, regola e al contempo deriva dell’esistenza. Ancora, torna a legarsi alla personalità di Andrea Sperelli la Roma che aveva aperto il romanzo: la città dello sfarzo e dell’eleganza, che ha in sé un germe di decadenza e si pone, pertanto, come emblema del protagonista.

Il conte Andrea Sperelli – Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, l’ultimo discendente d’una razza intellettuale. Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a’ vent’anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il delle d’arte, il culto passionato[1] della bellezza, il paradossale de’ pregiudizii, l’avidità del piacere. Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica[2], sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria[3] e insieme una certa inclinazione byroniana[4] al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l’Europa. L’educazione di Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto sui libri quanto in cospetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento[5]: e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva[6], ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un’altra forza, della forza morale[7], che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzione progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente sebben con lentezza. Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.» Anche[8] il padre, ammoniva: «Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebbrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: – Habere, non haberi»[9]. Anche, diceva: «Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni». Ma queste massime volontarie, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima. Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma[10]. «Il sofisma» diceva quell’incauto educatore «è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo di intelletto sono nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofisti fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle[11], al secolo gaudioso.» Un tal seme trovò nell’ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea, la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso divenne un abito[12] così aderente alla conscienza ch’egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio. Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d’una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de’ suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione. Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese.

Questa la prima tappa del percorso dell'eroe dannunziano. In seguito, nei romanzi "Giovanni Episcopo" e "L'Innocente" vi è un altro tentativo di indagine, basato sull'etica della bontà  che tende ugualmente a fallire.
Con l'influenza del filosofo tedesco Nietzsche, la figura dell'eroe dannunziano si trasforma e introduce il concetto di superuomo. D'Annunzio però è costretto a ridimensionare la filosofia utopistica di Nietzsche e ipotizza un modello di superuomo che si possa affermare nella storia in una dimensione estetica e politica. Tale ridimensionamento segna un altro fallimento dell'eroe dannunziano che non può concretizzarsi nella società borghese.
Il romanzo, scritto subito dopo l'incontro con Nietzsche, si intitola "Il Trionfo della Morte, pubblicato nel 1894. In esso il protagonista, Giorgio Aurispa, incarna il nuovo modello di eroe dannunziano trasformato in superuomo.
La vicenda inizia con una passeggiata tra Giorgio e l'amante Ippolita Sanzio a Roma, che è segnata dal suicidio di un passante che si getta nel vuoto. I due amanti si ritirano in un albergo, dove iniziano la lettura delle lettere che Giorgio aveva scritto precedentemente a Ippolita. Dalla lettura emergono la personalità gelosa e la passionalità torbida dell'uomo nei confronti di Ippolita. Segue una separazione tra i due amanti e Giorgio si ritira nella sua terra natale a casa della madre. Qui vive le condizioni drammatiche della sua famiglia segnate dal tradimento del padre e dal suicidio di uno zio. Giorgio, segnato profondamente, decide di lasciare la propria famiglia, e va a vivere con Ippolita. Purtroppo la situazione della coppia diventa insostenibile e Giorgio si uccide gettandosi da una scogliera e portando con sé Ippolita, tenuta stretta tra le braccia. La morte del protagonista segna il fallimento del superuomo. Giorgio si reca a Roma per trovare nel mondo lussuoso la realizzazione della propria arte. La sua ricerca è vana a causa della degradazione sociale, rappresentata dalla figura femminile di Ippolita, che corrisponde all'impossibilità di produrre arte. Il nuovo superuomo si trova così incapacitato di affermarsi. Da ciò deriva la decisione di Giorgio di compiere un viaggio a ritroso, cercando rifugio nella propria famiglia. Purtroppo l'immagine della morte è sempre presente nel romanzo e la violenza e la dissipazione familiare porteranno Giorgio a fare un altro passo indietro, ritirandosi a vivere con Ippolita. Ma l'insoddisfazione del rapporto è dovuta all'impossibilità di opporsi alla lussuria con la quale Ippolita riesce a subordinare Giorgio. Egli difatti riconosce nella donna, la nemica, e riconosce che la lussuria è come un limite e un ostacolo alla volontà di assoluto dominio sull'altro. Nasce così l'aggressività (altra caratteristica che si aggiunge al superuomo dannunziano, con il culto della forza) e la necessità di eliminare la donna che si realizza con il suicidio-omicidio di Giorgio che tiene abbracciata l'impotente Ippolita. Tale mancata affermazione del superuomo, che si riflette anche nella società borghese, è il fallimento del superuomo dannunziano.

La nemica
·         Nella solitudine di San Vito, il paese delle ginestre, Giorgio sente acuirsi la fascinazione sensuale che esercita su di lui l’amata, ma anche il sentimento di rancore: la «Nemica», con la sua opera distruttiva, lo ostacola nella ricerca della propria realizzazione esistenziale e intellettuale.
·         Giorgio Aurispa, discendente da un’antica famiglia abruzzese, esteta raffinato e dalla personalità inquieta, è da due anni l’amante di Ippolita Sanzio. La vicenda si apre su un’immagine di morte: mentre i due, a Roma, passeggiano lungo i viali del Pincio, sono richiamati dall’accorrere di gente per il suicidio di una persona lanciatasi nel vuoto. In un albergo di Albano, dove si ritirano per un periodo di tempo, rileggono le lettere scritte da Giorgio a Ippolita, da cui emerge il passato della donna: un matrimonio fallito, le sue crisi di epilessia, la sua prepotente sensualità che fiacca il bisogno di spiritualità di Giorgio. Durante una breve separazione dall’amante, Giorgio va a trovare la propria famiglia a Guardiagrele, dove viene assalito con sempre più insistenza dall’idea della morte, cui non sono estranee le vicende familiari, che acuiscono la sua nevrosi (il conflitto con il padre, figura dominatrice e abietta che tradisce la moglie e sperpera le sostanze delle amanti; il fallimento del matrimonio della sorella; il suicidio dello zio Demetrio nel quale Giorgio si identificava, perché a lui simile nella sensibilità). Di nuovo con Ippolita, Giorgio va a trascorrere con lei il periodo estivo in una piccola casa solitaria a San Vito, sull’Adriatico. Qui di nuovo avverte l’ambivalenza del suo legame con la donna che lo attrae sensualmente ma nello stesso tempo lo respinge. La risposta alla sua ricerca esistenziale gli viene offerta dalla musica di Wagner (in particolare dal Tristano e Isotta) e dall’ideale superomistico di Nietzsche. L’identificazione nel superuomo, però, non fa prevalere in lui il messaggio dionisiaco dell’aspirazione alla vita ma piuttosto le forze distruttive della morte: trascina con sé Ippolita sul bordo di una scogliera e si precipita con lei nel vuoto.
·         Ippolita viene definita «...una bella donna voluttuaria, terribilis ut castrorum acies ordinata, alta su un mistero di grandi acque glauche sparse di vele rosse, morde e assapora con lentezza la polpa d'un frutto maturo mentre dagli angoli della bocca vorace le cola giù pel mento il succo simile a un miele liquido». Ippolita incarna perfettamente la figura della Ninfa già incontrata nei precedenti romanzi dannunziani. La descrizione che Giorgio dà del suo corpo nudo disteso sul letto ne è la prova: «Ella posava il fianco destro sul lenzuolo, in un'attitudine composta. La sua forma era snella e lunga, d'una lunghezza forse soverchia ma piena di serpentine eleganze. L'esiguità dell'anca la faceva somigliare a un giovinetto. Il ventre sterile aveva conservata la primitiva purità verginale. Il seno era piccolo e rigido, come scolpito in un alabastro delicatissimo, soffuso d' una tinta tra rosea e violacea...». Alla femme fatale fa da contrappeso un personaggio maschile - Giorgio Aurispa, maniaco e suicida, innamorato e possessivo - che tormenta Ippolita con una gelosia senza tregua e che preferisce uccidere e uccidersi pur di non avere un possesso soltanto illusorio. 
·         Il significato dell’episodio è nell’ambivalenza tra vita e morte, attrazione e ostilità, che anticipano la conclusione tragica del romanzo. I due amanti, dopo il bagno sulla spiaggia soleggiata nell’ora del mezzogiorno, non comunicano una sensazione di vitalità, ma piuttosto di vuoto, di malessere e sgomento. La figura di Ippolita non è presentata oggettivamente, ma come una creazione mentale del protagonista (Io non potrò se non sovrapporre alla realità della sua persona le figure mutevoli dei miei sogni): la donna ai suoi occhi appare animata da un misterioso potere, che lo domina sessualmente (ossessione carnale), ma nel contempo rappresenta la malattia, la volgarità che si contrappone alla bellezza (egli sentiva d’esser legato appunto alla qualità reale di quella carne e non solo a quanto eravi di più bello, ma specialmente a quanto eravi di men bello in lei... I lineamenti più volgari esercitavano su di lui un’attrazione irritante). Giorgio sente di odiarla perché è la personificazione della «Nemica», di una forza malefica che svela la sua debolezza interiore e il suo fallimento esistenziale.
·         L’ambivalenza di Giorgio Aurispa e il suo rapporto problematico con la donna-nemica, alibi per mascherare la sua incapacità di dare un senso più pieno alla sua vita, traduce la crisi dell’artista nella moderna società borghese e anticipa un tema che sarà poi tipico della letteratura del Novecento: quello dell’inettitudine. Nel contempo, la lettura di Nietzsche apre a D’Annunzio la strada per creare una nuova figura di intellettuale, più adatto ai tempi: con il suicidio del protagonista muore simbolicamente la parte malata dello scrittore, e nasce il superuomo.
·         La narrazione in terza persona è filtrata attraverso il punto di vista di Giorgio (il suo sguardo fissa la figura di Ippolita sulla riva del mare), i suoi pensieri e stati d’animo (Egli comprendeva la superstizione pagana...; In fondo a quel suo vago sgomento si moveva qualche cosa di simile all’ansietà...) Pareva egli a sé stesso quasi debole e trepido, come diminuito d’animo e di forze dopo una prova sfavorevole). Il discorso indiretto libero (– Ella si temprava, si fortificava...) e il monologo interiore in forma diretta e in prima persona («Quante cose impure fermentano nel suo sangue...!») accentuano la dimensione soggettiva del racconto. Il lessico è aulico e prezioso, tipico dello stile dannunziano.

Di sotto alla tenda piantata su la ghiaia, ancóra seminudo dopo il bagno egli[13] guardava Ippolita ch'era rimasta al sole presso le acque avvolta nell'accappatoio bianco.  Guardando, egli aveva negli occhi a tratti scintillazioni quasi dolorose; e la gran luce meridiana[14] gli dava un senso nuovo di malessere fisico misto a una specie di vago sgomento. Era l'ora terribile, l'ora pànica[15], l'ora suprema della luce e del silenzio, imminente su la vacuità della vita[16]. Egli comprendeva la superstizione pagana: l'orrore sacro dei meriggi canicolari[17] su la plaga abitata da un dio immite ed occulto[18]. In fondo a quel suo vago sgomento si moveva qualche cosa di simile all'ansietà di chi sia nell'attesa di un'apparizione repentina e formidabile[19]. Pareva egli a sé stesso quasi puerilmente debole e trepido, come diminuito d'animo e di forze dopo una prova sfavorevole.  Immergendo, il suo corpo sul mare, dando la fronte al sole pieno, percorrendo a nuoto una breve distanza, esperimentandosi nell'esercizio già prediletto, misurando il suo respiro sul soffio dello spazio illimitato, egli aveva sentito per indizii indubitabili l'impoverimento del suo vigore, la declinazione  della sua giovinezza, tutta l'opera distruttiva della Nemica; aveva sentito ancóra una volta il ferreo cerchio restringersi intorno alla sua attività vitale e ridurne ancóra una zona all'inerzia e all'impotenza. Il senso di quel languore muscolare gli diveniva più profondo come più egli guardava la figura della donna alzata nella luce del giorno.
Ella aveva disciolti i suoi capelli perché si asciugassero; e le ciocche ammassate dall'umidità le cadevano su gli omeri[20] così cupe che sembravano quasi di viola.  Il suo corpo svelto ed eretto, come avvolto nelle pieghe di un peplo[21] si disegnava metà sul campo glauco  del mare e metà su la chiarissima trasparenza celeste[22].  Appena si scorgeva fuor della capellatura[23] il profilo della faccia reclinata e intenta[24].  Ella era tutta assorta in un suo piacere alterno: - metteva i piedi nudi su la ghiaia scottante, mantenendoveli sin che fosse per lei sostenibile l'ardore; e poi cosi caldi li tuffava nell'acqua blanda[25] che lambiva la ghiaia.  E in quella duplice sensazione ella pareva gustare una voluttà infinita, obliosamente[26]. - Ella si temprava. si fortificava, comunicando con le cose libere e sane[27], lasciandosi penetrare dalla salsedine e dal raggio.  Come mai poteva ella essere, nel tempo medesimo, così inferma e così valida?  Come mai poteva ella conciliare nella sua sostanza tante contrarietà e assumere tanti diversi aspetti in un giorno, in un'ora sola?  La donna taciturna e triste che covava dentro di sé il male sacro, il morbo astrale[28]; l'amante cupida e convulsa[29] il cui ardore[30] era talvolta quasi spaventevole, la cui lussuria aveva talvolta apparenze quasi lugubri d'agonia; quella stessa creatura, alzata[31] sul lido del mare, poteva raccogliere e sostenere ne' suoi sensi tutta la naturale delizia sparsa nelle cose che la circondavano, apparire simile ai simulacri della Bellezza antica inchinati sul cristallo armonioso di un Ellesponto[32].
La superiorità di quella resistenza era palese. Giorgio la considerava con un rammarico che a poco a poco addensandosi assumeva la gravità di un rancore. Il sentimento della sua debolezza s'intorbidiva di odio, mentre la sua perspicacia[33] si faceva sempre più lucida e quasi vendicativa.
Non erano belli i piedi nudi ch'ella a volta a volta scaldava su la ghiaia e rinfrescava nell'acqua; erano anzi difformati nelle dita, plebei, senz'alcuna finezza; avevano l'impronta manifesta della bassa stirpe[34].  Egli li guardava intentamente[35]; non guardava se non quelli, con uno straordinario acume di percezione e di esame, come se le particolarità della forma dovessero rivelargli un segreto.  E pensava: «Quante cose impure fermentano nel suo sangue! Tutti gli istinti ereditaria della sua razza sono in lei, indistruttibili, pronti a svilupparsi e ad insorgere contro qualunque constrizione.  Io non potrò mai far nulla per purificarla.  Io non potrò se non sovrapporre alla realità della sua persona le figure mutevoli dei miei sogni, ed ella non potrà se non offrire alla mia ebrezza solitaria i suoi indispensabili organi ... » Ma, mentre il suo pensiero riduceva la donna a un semplice motivo d'imaginazioni e toglieva ogni valore alla forma palpabile, per la stessa acutezza della percezione particolare egli sentiva d'esser legato appunto alla qualità reale di quella carne e non solo a quanto eravi[36] di più bello, ma specialmente a quanto eravi di men bello in lei.  La scoperta d'una bruttura non rallentava il vincolo[37], non diminuiva il fascino. I lineamenti più volgari esercitavano su di lui un'attrazione irritante.  Egli conosceva bene questo fenomeno che s'era più volte ripetuto.  I suoi occhi più volte avevano visto con estrema chiarezza nella persona d'Ippolita emergere i difetti anche men notevoli; e n'eran rimasti attratti per lungo tempo, quasi forzati a fissarli, a considerarli, ad esagerarli.  Ed egli aveva provato nei suoi sensi e nel suo spirito un turbamento indefinibile, seguito quasi sempre dall'insorgere subitaneo d'un desiderio impetuoso.  Era ben questo il più fiero segno della grande ossessione carnale operata da una creatura umana su un'altra creatura umana.

[Ippolita raggiunge Giorgio sotto la tenda, esercitando su di lui la sua seduzione irresistibile].

Un mondo si dissolveva in lui mentre ella gli si appressava, serpentina e insidiosa, allungandoglisi al fianco su la stuoia di giunchi.  Ancóra una volta la realtà si convertiva confusamente in una favola piena d'imagini allucinanti.  Il riverbero del mare empiva d'un tremolio d'oro la tenda, mescolava mille pagliuzze d'oro ai fili del tessuto.  Appariva per l'apertura l'immensità della calma, la grande immobilità delle acque sotto il quasi lugubre fulgore.  E a poco a poco anche quelle apparenze vanirono.  Nel silenzio egli non udì se non il ritmo del suo proprio sangue; nell'ombra egli non vide se non i due grandi occhi fissi sopra di lui con una specie di furia.  Ella lo avviluppava intero, con un contatto molteplice, quasi ch'ella partecipasse della qualità d'una nube.  Ed egli respirò, da tutti i pori di quella pelle ardente, la fragranza marina: come la sublimazione  d'un sale a traverso una fiamma.  E nel folto di quella capellatura ancóra umida trovò il mistero delle foreste di alghe più remote.  E, nello smarrimento finale della conoscenza, credette di toccare il fondo di un abisso battendo l'occipite su la roccia...
Udi, poi, come di lontano, tra un fruscìo di vesti, la voce d'Ippolita che diceva:
- Vuoi rimanere ancóra qui un poco?  Dormi?
Aprì gli occhi; mormorò, trasognato:
- No, non dormo...
- Che hai?
- Muoio.
Egli tentò di sorridere.  Travide la bianchezza dei denti nel sorriso di lei.
- Vuoi che ti aiuti a vestirti?
- Ora mi vesto.  Va, va... Ora ti raggiungo - egli mormorò, come sonnacchioso.
- Allora io vado su.  Ho troppa fame.  Vèstiti e vieni.
Sì, ecco...
Egli sussultò forte, sentendo all'improvviso le labbra di lei su le sue labbra.  Aprì di nuovo gli occhi; tentò di sorridere.
- Pietà! [...]

[Ippolita si allontana risalendo verso la casa.  Giorgio, prostrato, angosciato dal pensiero di ritrovarsi con la donna, è invaso dal desiderio di morire].

Una sensazione intraducibile gli diede lo spettacolo delle cose intorno, quando egli riaprì gli occhi. Gli parve 'come s'egli rivedesse quelle cose in una esistenza diversa, dopo un tempo indefinito. La ghiaia sotto la sferza del sole aveva la bianchezza della calce.  Su l'immenso lugubre specchio delle acque il cielo incandescente sembrava d'attimo in attimo abbassarsi aggravato da uno di quei cupi silenzi che accompagnano l'aspettazione d'una catastrofe ignota.  I promontorii arenarii, con i loro gironi deserti, su da le scogliere nerastre levavano a guisa di torri i culmini arborati ove gli, olivi “stavano contro il fuoco in attitudini d'ira e di follia".  Proteso dagli scogli, simile a un mostro in agguato, con i suoi cento arti il Trabocco" aveva un aspetto formidabile.  Per mezzo all'intrico' delle travi e dei cordami apparivano i pescatori chini verso le acque, fissi, immobili come bronzi.  E pesava su le loro tragiche vite l'incanto mortale.
 D'improvviso, nell'ardore e nel silenzio, giunse agli orecchi del giovine la voce della donna che dall'alto dell'Eremo chiamava.
Egli si scosse e si volse, con una palpitazione soffocante.  La voce ripeté il richiamo, limpida e forte, quasi che volesse affermare il suo potere.
- Vieni!
Com'egli saliva su per la costa, dalla bocca fumida d'una delle gallerie si propagò per l'aria un rombo ripercotendosi nell'insenatura.  Egli s'arrestò presso il binario, di nuovo provando una leggera vertigine, mentre gli balenava nel cervello vanito un pensiero folle. “Coricarsi ora a traverso le rotaie... La fine di tutto in un attimo!” Fragoroso, veloce e sinistro, il treno passò gittandogli in faccia il vento della corsa; e fischiando e rombando scomparve nella bocca della galleria opposta, che fumigò nera nel sole.

Infine, l'aspetto dell'affermazione politica del superuomo, come nuovo tentativo di risolvere la crisi dei valori, è presente nel romanzo "Le vergini delle Rocce", del 1895. L'opera si presenta come una sorta di manifesto politico, dove l'arte è espressa come uno strumento di intervento sulla realtà e di dominio ideologico sulle masse. Si delinea dunque un nuovo rapporto tra l'eroe e la massa, che è incarnato dal protagonista, Claudio Cantelmo. Egli difatti, costatata la degradazione sociale, intende creare una nuova stirpe aristocratica e divina alla quale ritiene già di appartenere. La vicenda racconta appunto la ricerca, da parte di Claudio, di una donna in grado di dargli un figlio (il futuro Re di Roma) capace di riscattare la degradazione presente. La ricerca si appunta su tre ragazze nobili dalle quali Claudio è tuttavia respinto (sono loro le "vergini delle rocce" cui allude il titolo). Dunque il progetto di un cambiamento sociale fallisce e di conseguenza anche l'affermazione politica del superuomo. In questo modo, il viaggio di formazione dell'eroe dannunziano che tenta di trovare le risposte alla crisi, si finisce con una sconfitta ovvero con la consapevolezza dell'impossibilità di affermare i nuovi valori proposti da D'Annunzio per mascherare la crisi dell'intellettuale di fine '800.

Claudio Cantelmo
·         Il romanzo Le vergini delle rocce è suddiviso in 3 libri. Il passo tratto dal I libro presenta le riflessioni del protagonista sulla società presente: Claudio Cantelmo disprezza l’affarismo borghese, vagheggia una monarchia autoritaria e si appella agli intellettuali perché difendano il culto della «Bellezza».
·         La vicenda è narrata in prima persona dal protagonista, il nobile Claudio Cantelmo. Questi vive con sdegno la situazione politica contemporanea («l’accesso delle plebi al potere») e sogna l’avvento di un uomo forte che guidi l’Italia verso un nuovo destino imperiale. Lascia pertanto Roma e ritorna in Abruzzo, a Rebursa, il paese dei suoi antenati, dove spera di incontrare una donna all’altezza del suo sogno: generare il futuro «re di Roma». Vicino ai suoi feudi vive la nobile famiglia Capece Montaga, ancora di fede borbonica, e Cantelmo cerca tra le tre figlie la più adatta all’alto compito. Ma il suo sogno si scontra con la realtà di una famiglia minata dalla tara della pazzia: le tre «vergini» dalla diafana silhouette (la mistica Massimilla, la generosa Anatolia, la bella ma fredda Violante) rimarranno legate al loro destino e al luogo in cui erano nate.
·         Fra Il piacere (1889) e Le vergini delle rocce (1895) intercorrono sei anni, inframmezzati dal Trionfo della morte (1894). è proprio da esso che D’Annunzio parte per creare un nuovo eroe, esteta e uomo d’azione insieme. Il disprezzo delle masse accomuna Sperelli e Cantelmo, ma, mentre il primo fonda il suo estetismo sul proprio isolamento dalla realtà, con conseguente rifugio nel mondo a parte dell’arte, il secondo arricchisce la propria posizione estetica con un’ideologia antidemocratica: l’intellettuale superuomo non assumerà più una posizione distaccata e isolata rispetto alla realtà che lo circonda e che continua comunque a disprezzare, ma sarà chiamato a modificare il quadro socio-politico esistente in base al suo ideale di bellezza e di forza, creando una monarchia autoritaria che guidi l’Italia ai destini imperiali. Il tono profetico e lo stile oratorio.
·         L’azione quasi non esiste e sulla trama narrativa prevale il monologo oratorio dal tono imperativo, come il profeta che impone il «Verbo». In definitiva, la cultura è per D’Annunzio strumento di potere. Lo stile, definito dallo stesso scrittore «latino, a grandi periodi», è elevato, con largo uso di metafore (gli stallieri della Gran Bestia), perifrasi (le loro mani, a cui il vostro padre Dante darebbe l’epiteto medesimo ch’egli diede alle unghie di Taide, sono atte a raccattar lo stabbio), interrogazioni retoriche, esclamazioni, apostrofi (Difendete… Opponete…), volte a catturare l’attenzione dei destinatari.

Chiedevano intanto i poeti, scoraggiati e smarriti, dopo aver esausta la dovizia delle rime nell’evocare imagini d’altri tempi[38], nel piangere le loro illusioni morte e nel numerare i colori delle foglie caduche; chiedevano, alcuni con ironia, altri pur senza: «Qual può essere oggi il nostro officio[39]? Dobbiamo noi esaltare in senarii doppii il suffragio universale? Dobbiamo noi affrettar con l’ansia dei decasillabi la caduta dei Re, l’avvento delle Repubbliche, l’accesso delle plebi al potere[40]? Non è in Roma, come già fu in Atene, un qualche demagogo Cleofonte fabbricante di lire[41] ? Noi potremmo, per modesta mercede, con i suoi stessi strumenti accordati da lui, persuadere gli increduli che nel gregge è la forza, il diritto, il pensiero, la saggezza, la luce…» Ma nessuno tra loro, più generoso e più ardente, si levava a rispondere: «Difendete la Bellezza! È questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi! Poiché oggi non più i mortali tributano onore e riverenza ai cantori alunni della Musa[42] che li predilige, come diceva Odisseo[43] , difendetevi con tutte le armi[44], e pur con le beffe se queste valgono meglio delle invettive. Attendete ad inacerbire[45] con i più acri veleni le punte del vostro scherno. Fate che i vostri sarcasmi abbiano tal virtù corrosiva che giungano sino alla midolla e la distruggano. Bollate voi sino all’osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodaiuoli[46]. Le vostre risa frenetiche salgano fino al cielo, quando udite gli stallieri della Gran Bestia vociferare nell’assemblea[47]. Proclamate e dimostrate per la gloria dell’Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi[48]. Proclamate e dimostrate che le loro mani, a cui il vostro padre Dante darebbe l’epiteto medesimo ch’egli diede alle unghie di Taide, sono atte a raccattar lo stabbio[49] ma non degne di levarsi per sancire una legge nell’assemblea. Difendete il Pensiero ch’essi minacciano, la Bellezza ch’essi oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele[50]. Difendete l’antica liberale opera[51] dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi[52]. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo[53]. Un ordine di parole può vincere d’efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la distruzione alla distruzione[54]


Contro la borghesia speculatrice
da Le vergini delle rocce di Gabriele D’Annunzio
·         Ne ‘Le vergini delle rocce’, è affrontato il ‘Programma politico’ del superuomo la voce che narra è quella del protagonista Claudio Cantelmo. Il libro I ha un taglio oratorio che rivela la chiara intenzione di imporre un’idea, una volontà, di modellare con la parola la realtà oggettiva.
·         Il linguaggio è aulico e prezioso, pieno di riferimenti eruditi, di allusioni difficili; fa uso di metafore e paragoni nonché della figura del sarcasmo, di interrogazioni retoriche, esclamazioni, apostrofi dirette.
·         Questa ‘orazione’ del protagonista-narratore mira a proporre un programma politico: il suo disprezzo per la società borghese, l’esteta che rifugge dalla realtà del mondo dell’arte, che non si rassegna al destino di sconfitta che si profila per il ceto intellettuale e si sforza di produrre un’immagine nuova, di delineare un ruolo nuovo.
·         L’enunciazione del programma è preceduta da una parte polemica, in cui Cantelmo dipinge la realtà sociale cui intende opporsi con la sua azione: la realtà borghese contemporanea, caratterizzata da ‘basse cupidigie’, dallo spirito affaristico e speculativo, dall’ossessione del denaro, che profana il carattere sacro dell’Urbe, la democrazia e l’egualitarismo, che mortificano la forza del re guerriero, costringendolo ad obbedire alla volontà della plebe. Cantelmo vagheggia una società gerarchica e autoritaria, instaurando un ferreo dominio di classe che l’aristocrazia ha diritto per virtù di sangue, perché ereditato dagli avi ciò che la borghesia non potrà mai avere, il gusto della bellezza e la forza feroce. Lo Stato non deve essere altro se non l’istituzione che favorisce l’elevazione di una classe privilegiata verso una superiore forma di esistenza.
·         Questo dominio dell’elite privilegiata, deve poi essere finalizzato ad una politica aggressiva verso l’esterno: bisogna ridare a Roma una potenza imperiale, che la porti di nuovo a dominare il mondo.
·         Gli intellettuali devono dare un contributo essenziale all’instaurarsi di questo nuovo quadro politico. I poeti non devono piegarsi a servire il nuovo dominio borghese: il loro compito è l’azione in difesa della bellezza contro la meschinità del mondo moderno. La parola poetica deve essere usata come un’arma micidiale per distruggere la società borghese, per creare un mondo in cui la bellezza possa di nuovo vivere nella realtà.
·         Questi sarà, dunque, il superuomo, in cui la stirpe latina toccherà il culmine della sua elevazione, ed al tempo stesso il nuovo ‘Re di Roma’, colui che dovrà guidare Roma ai suoi futuri destini imperiali.
·         Un progetto del genere ha radici concrete nella realtà sociale e culturale dell’ultimo decennio del secolo: da un lato esplodevano in Italia forti conflitti sociali che trovavano un’espressione nel Partito Socialista, dall’altro il governo contrastava con estrema violenza queste tensioni, e gli ambienti più reazionari maturavano l’idea di un colpo di Stato per eliminare le libertà politiche e civili ed imporre un governo autoritario. Erano anche gli anni dell’imperialismo trionfante, in cui le grandi potenze conducevano una politica aggressiva, tesa soprattutto alla conquista e al mantenimento di vasti imperi coloniali. Anche l’Italia, pur essendo uno Stato di recente formazione, arretrato, povero e debole, si era lanciata in una politica di conquiste coloniali. Il sogno imperiale compensava le frustrazioni di un ceto medio uscito deluso dal compimento dell’unità, nauseato dagli intrighi politici e dalla corruzione, ma anche dal grigiore di una realtà chiusa, che non offriva possibilità all’iniziativa individuale, alla promozione sociale.

Allora, avendo così lucida dinnanzi a me la tavola delle mie leggi, io conobbi non soltanto la tristezza del dubbio ma un'ansietà che somigliava alla paura, un'ansietà nova e orri­bile. «Se una violenza cieca e impreveduta delle forze este­riori urtasse difformasse infrangesse la mia opera! Se io do­vessi piegarmi e soggiacere a un sopruso bestiale del Caso! Se il mio edificio crollasse, prima della coronazione, per uno di quei soffii deleterii che all'improvviso irrompono dal buio!». Questa paura io conobbi, in una strana ora di smar­rimento e dì abbattimento sentendo vacillare la mia fede. Ma poco dopo n'ebbi vergogna, quando l'ammonitore mi disse: «A giudicarne dalla qualità dei tuoi pensieri, tu sem­bri contaminato dalla folla o preso da una femmina. Per avere attraversato la folla che ti guardava, ecco, tu già ti sen­ti diminuito dinnanzi a te medesimo. Non vedi tu gli uo­mini che la frequentano divenire infecondi come i muli? Lo sguardo della folla è peggio che un getto di fango; il suo alito è pestifero. Vattene lontano, mentre la cloaca si scarica. Vattene lontano, a maturare tutto quel che hai raccolto. Ver­rà poi la tua ora. Di che temi? Che varrebbe tanta disciplina se non ti rendesse più forte delle cose? Tu non dovrai invo­care dalla fortuna se non l'occasione; ma pur questa è possibile talvolta, con la volontà, crearla. Vattene lontano, dun­que, mentre la cloaca si scarica. Non t'indugiare; non ti la­sciar contaminare dalla folla, né ti lasciar prendere da una femmina. Certo, tu hai bisogno di un'alleanza per fornire una parte del compito che hai assegnato a te stesso. Ma me­glio è per te attendere e rimaner solo, pur anche uccidere la tua speranza è meglio che sottomettere la tua carne e la tua anima a un vincolo indegno. - Se la cosa amata è vile, l'amante si fa vile. - Bisogna che tu non dimentichi mai que­sta sentenza del tuo Leonardo, e che tu possa sempre rispon­dere superbamente come Castruccio: - Io ho preso lei non ella me.»
Giusta scendeva l'ammonizione, in quell'ora. E senza in­dugio io mi disposi a partire dalla città infetta.
Era il tempo in cui più torbida ferveva l'operosità dei distruttori e dei costruttori sul suolo di Roma. Insieme con nuvoli di polvere si propagava una specie di follia del lu­cro, come un turbine maligno, afferrando non soltanto gli uomini servili, i familiari della calce e del mattone, ma ben anche i più schivi eredi dei maiorascati papali, che avevano fin allora guardato con dispregio gli intrusi dalle finestre dei palazzi di travertino incrollabili sotto la crosta dei seco­li. Le magnifiche stirpi - fondate, rinnovellate, rafforzate col nepotismo e con le guerre di parte - si abbassavano a una a una, sdrucciolavano nella nuova melma, vi s'affonda­vano, scomparivano. Le ricchezze illustri, accumulate da se­coli di felice rapina e di fasto mecenatico, erano esposte ai rischi della Borsa.
I lauri e i roseti della Villa Sciarra, per così lungo ordine di notti lodati dagli usignuoli, cadevano recisi o rimanevano umiliati fra i cancelli dei piccoli giardini contigui alle villet­te dei droghieri. I giganteschi cipressi ludovisii, quelli del­l'Aurora, quelli medesimi i quali un giorno avevano sparsa la solennità del loro antico mistero sul capo olimpico del Goethe, giacevano atterrati (mi stanno sempre nella memoria come i miei occhi li videro in un pomeriggio di novembre) atterrati e allineati l'uno accanto all'altro, con tutte le radici scoperte che fumigavano verso il cielo impallidito, con tutte le negre radici scoperte che parevano tenére ancor prigione entro l'enorme intrico il fantasma di una vita oltrapossente. E d'intorno, su i prati signorili dove nella primavera ante­riore le violette erano apparse per l'ultima volta più nume­rose dei fili d'erba, biancheggiavano pozze di calce, rosseg­giavano cumuli di mattoni, stridevano ruote di carri carichi di pietre, si alternavano le chiamate dei mastri e i gridi rau­chi dei carrettieri, cresceva rapidamente l'opera brutale che doveva occupare i luoghi già per tanta età sacri alla Bellezza e al Sogno.
Sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di ville gen­tilizie a cui nulla è paragonabile nel mondo delle memorie e della poesia. Perfino su i bussi della Villa Albani, che eran parsi immortali come le cariatidi e le erme, pendeva la mi­naccia dei barbari.
Il contagio si propagava da per tutto, rapidamente. Nel contrasto incessante degli affari, nella furia feroce degli ap­petiti e delle passioni, nell'esercizio disordinato ed esclusivo delle attività utili, ogni senso di decoro era smarrito, ogni rispetto del Passato era deposto. La lotta per il guadagno era combattuta con un accanimento implacabile, senza alcun freno. Il piccone, la cazzuola e la mala fede erano le armi. E, da una settimana all'altra, con una rapidità quasi chime­rica, sorgevano su le fondamenta riempite di macerie le gabbie enormi e vacue, crivellate di buchi rettangolari, sormon­tate da cornicioni posticci, incrostate di stucchi obbrobriosi. Una specie d'immenso tumore biancastro sporgeva dal fian­co della vecchia Urbe e ne assorbiva la vita.
Poi di giorno in giorno, su i tramonti, - quando le torme rissose degli operai si sparpagliavano per le osterie della via Salaria e della via Nomentana - giù per i viali principeschi della Villa Borghese si vedevano apparire in carrozze luci­dissime i nuovi eletti della fortuna, a cui né il parrucchiere né il sarto né il calzolaio avevan potuto togliere l'impronta ignobile; si vedevano passare e ripassare al trotto sonoro dei bai e dei morelli, riconoscibili alla goffaggine insolente del­le loro pose, all'impaccio delle loro mani rapaci e nascoste in guanti troppo larghi o troppo stretti. E parevano dire: «Noi siamo i nuovi padroni di Roma. Inchinatevi! »
Tali, in fatti, i padroni di quella Roma che sognatori e profeti, ebri dell'ardente esalazione dì tanto latino sangue sparso, avevano assomigliata all'arco di Ulisse. - Bisogna curvarlo o morire. - Ma quegli stessi uomini, i quali da lun­gi erano apparsi fiamme nel cielo eroico della patria non an-cor libera, ora diventavano «carboni sordidi, buoni soltan­to a segnare su i muri una turpe figura o una parola scon­cia», secondo l'atroce imagine d'un rètore indignato. S'industriavano anch'essi a vendere, a barattare, a legiferare e a tender trappole, nessuno più facendo allusione all'arco mi­cidiale. E non pareva probabile, in verità, che a spaventarli si levasse d'improvviso il grido: «O Proci, divoratori della sostanza altrui, badate, Ulisse è già approdato in Itaca!»

Ottimo consiglio era dunque il ritrarsi dallo spettacolo, per qualche tempo. E io partii con i miei cavalli e con le mie cose più familiari, senza commiati.
Avevo scelto per soggiorno Rebursa, la prediletta delle mie terre ereditarie, prediletta già da mio padre come da me; rifugio favorevole a un'anima valida, paese dalle verte­bre di roccia, disegnato con rara sobrietà e gagliardia di sti­le: che poteva accogliere e nutrire il sogno imperioso della mia ambizione come aveva accolto e nutrito l'altera tristez­za dì mio padre dopo la caduta del suo Re e dopo la morte di Colei che vivente era parsa la luce della nostra casa, il nostro più sicuro bene.
Anche, io aveva poco lungi di là - a Trigento - alcuni amici, non veduti da molti anni ma non obliati, a cui mi le­gavano grati ricordi della puerizia e dell'adolescenza. E il pensiero di rivederli mi rallegrava.
Vìvevano a Trigento, nell'antico palazzo baronale circon­dato da un giardino quasi vasto come un parco, i Capece Montaga: famiglia tra le più illustri e magnifiche delle Due Sicilie, caduta in rovina nei dieci anni che seguirono la disgrazia del Re, quindi ritiratasi a vita oscura nell'ultimo dei suoi feudi, in fondo alla provincia silenziosa. Il vecchio principe dì Castromitrano - che aveva goduto i supremi onori alla corte di Ferdinando e di Francesco, e che aveva seguito fedelmente l'esule a Roma e oltralpe senza mai rinunziare alle suntuosità del tempo felice - sognava da anni nell'ombra e da anni invano aspettava la Restaurazione, mentre la sua canizie precoce andavasi chinando sempre più verso il sepolcro e la sua figliolanza andavasi disfa­cendo nel tedio inerte. Soltanto la demenza della princi­pessa Aldoina turbava la lunga agonia gittandovi sopra a sprazzi lo splendore fantastico del Passato. E nulla poteva eguagliare in desolazione il contrasto tra la realtà misere­vole e i pomposi fantasmi espressi dal cervello della demente. Quella grande stirpe moribonda aggiungeva a quel paese di rocce una specie dì funebre bellezza, per la mia anima che cercava già di raccogliere tutta l'anima inclusa nella chiostra lapidea. Mi nasceva già dal profondo un presentimento misterioso in cui il mio destino si avvicinava e si mescolava a quel destino solitario. E nella memoria mi riso­navano con una tenue magia musicale i nomi delle princi­pesse nubili: Massimilla, Anatolia, Violante: nomi in cui parevami fosse qualche cosa di vagamente visibile come un ritratto pallido a traverso un vetro offuscato; nomi espres­sivi come volti pieni di ombre e di lumi, in cui già parevami scoprire un infinito di grazia, di passione e di dolore.



[1] passionato: appassionato, pieno di passione.
[2] corte borbonica: la famiglia Sperelli si era infatti trasferita a metà Seicento alla corte borbonica di Napoli.
[3] voluttuaria: dedita ai piaceri, edonistica.
[4] byroniana: ispirata a George Byron (1788-1824), celebre scrittore inglese la cui vita e le cui opere furono piene di slanci romantici e gesti estremi, l’ultimo dei quali, la partecipazione alla Guerra di indipendenza greca, che gli costò la vita.
[5] esperimento: esperienza.
[6] forza sensitiva: sensibilità.
[7] forza morale: senso etico, rigore morale.
[8] Anche: Ancora, Inoltre.
[9] Habere, non haberi: frase latina il cui significato è “possedere, non essere posseduti”.
[10] sofisma: argomentazione capziosa, apparentemente valida ma non aderente alla verità
[11] Pericle: oratore e uomo politico greco che visse nel V secolo a.C. (495- 29 a.C).
[12] abito: abitudine (latinismo).
[13] egli: Giorgio Aurispa, il protagonista.
[14] gran luce meridiana: la luce splendente del mezzogiorno.
[15] l’ora pànica: nella mitologia greca il dio Pan si muoveva nella campagna nell’ora del mezzogiorno, spaventando chi osasse mostrarglisi.
[16] imminente... vita: incombente sul vuoto della vita.
[17] meriggi canicolari: mezzogiorni soffocanti per il caldo. Letteralmente la canicola è il periodo estivo più caldo quando in agosto il sole è nella costellazione del Cane.
[18] l’orrore… immite ed occulto: il dio Pàn aggressivo e invisibile comunica un orrore sovrannaturale; plaga: zona, regione.
[19] formidabile: nell’accezione latina di tremendo, spaventoso.
[20] omeri: spalle.
[21] peplo: la veste femminile nell’antica Grecia.
[22] si disegnava... celeste: Giorgio osserva dalla riva la figura di Ippolita che si profilava per metà sullo sfondo azzurro (glauco) del mare e per metà nell’aria luminosa del cielo (trasparenza celeste).
[23] capellatura: capigliatura.
[24] reclinata e intenta: leggermente piegata e pensierosa.
[25] blanda: fresca.
[26] obliosamente: dimenticando tutto in quel piacere.
[27] comunicando… sane: entrando in contatto con la libertà e la sanità degli elementi della natura.
[28] così inferma e così valida… il morbo astrale: così malata e così forte. Ippolita soffre di epilessia che gli antichi chiamavano «male sacro» come se gli ammalati fossero posseduti da un dio (morbo astrale: letteralmente malattia dovuta all’influsso del cielo); nella sua sostanza: nel suo organismo.
[29] cupida e convulsa: vogliosa e frenetica.
[30] ardore: passione amorosa e sessuale.
[31] alzata: eretta.
[32] simile ai simulacri... ellesponto: simile alle statue greche che raffigurano ideali antichi di bellezza e si specchiano nelle acque dell’Ellesponto limpide come cristallo (lo stretto dell’Ellesponto separa l’Asia dall’Europa).
[33] perspicacia: acutezza nell’analizzare il carattere di Ippolita.
[34] bassa stirpe: Ippolita è di nascita piccolo borghese, dunque non nobile.
[35] intentamente: fissamente.
[36] eravi: vi era.
[37] il vincolo: il legame fra i due amanti.
[38] esausta... tempi: esaurita l’abbondanza delle rime.
[39] Offici: doveri
[40] senarii doppii… potere: versi classici composti da dodici sillabe (doppi senari), usati da Carducci e anche da D’Annunzio nelle liriche giovanili. Ma il tono è ironico, nel senso che non si può far poesia con un argomento volgare come la vita democratica, la repubblica, l’eguaglianza.
[41] Cleofonte… lire: nel V sec. incitò gli ateniesi a resistere all’assedio degli spartani; successivamente fu accusato di tradimento e condannato a morte. Qui il protagonista si chiede con sarcasmo se non ci sia a Roma un Cleofonte, fabbricante di lire ossia un demagogo della poesia.
[42] cantori... Musa: i poeti.
[43] Odisseo: nome greco di Ulisse, eroe dell’inganno che supplisce alla forza.
[44] tutte le armi: l’azione dei poeti è quella di criticare i valori borghesi e, come dirà dopo, di promuovere il gusto della bellezza.
[45] Attendete ad inacerbire: adoperatevi per inasprire.
[46] ciascuna anima... chiodaiuoli: l’uguaglianza crea una meccanica uniformità, come il chiodaiolo che fa le teste dei chiodi tutte uguali. La polemica antidemocratica è implicitamente anche contro il socialismo.
[47] stallieri della Gran Bestia… assemblea: i rappresentanti del popolo che discutono in Parlamento; letteralmente nel parlamento prendono la parola i servi (stallieri) della democrazia. L’immagine della «Gran Bestia» deriva dall’Apocalisse, dove designava Satana, ed era stata ripresa da Nietzsche, a indicare con tono dispregiativo le masse.
D’Annunzio tre anni prima della pubblicazione del romanzo scriveva sul “Mattino” di Napoli un articolo dal titolo «La Bestia elettiva», dove dichiarava: «Le plebi restano sempre schiave e condannate a soffrire, tanto all’ombra delle torri feudali quanto all’ombra dei feudali fumaioli nelle officine moderne. Esse non avranno mai dentro di loro il sentimento della libertà. [...] Su l’uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia socialista, si andrà formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e questo gruppo a poco a poco riuscirà ad impadronirsi di tutte le redini per domare le masse a suo profitto, distruggendo qualunque vano sogno di uguaglianza e di giustizia»
[48] Suoni sconci... legumi: i discorsi democratici sono spregevoli come i rutti dei contadini che magiano i legumi.
[49] epiteto... stabbio: Taide è una cortigiana che, nel XVIII canto dell’Inferno, Dante colloca nella seconda bolgia tra gli adulatori, la rappresenta immersa nello sterco (stabbio) e definisce le sue unghie «merdose».
[50] Difendete... tele: la democrazia minaccia di distruggere l’arte.
[51] L’antica… opera: la poesia, qui chiamata «liberale» come nel Medioevo ossia tale da rendere «liberi», quindi di animo nobile, chi la coltivi.
[52] rabbia... ubriachi: la rabbia Il programma antiborghese e autoritario La voce narrante coincide con quella del protagonista: esponente di una famiglia patrizia, Claudio Cantelmo critica la società borghese della sua epoca, manifestando un’avversione violenta ai principi di democrazia e uguaglianza, nello spregio del popolo (plebi). Acceso è, inoltre, il tono contro il parlamentarismo e i suoi rappresentanti (chiamati metaforicamente Gran Bestia), dalle cui vociferazioni (in senso ironico e spregiativo) la «nuova oligarchia», formata da aristocratici e poeti, non dovrà farsi illudere. La funzione dei poeti Il suo programma aristocratico è rivolto dunque non solo ai patrizi ma anche ai poeti, che devono difendere il culto della Bellezza e la sua espressione (il Verbo): la parola poetica è divina, è la suprema forza del mondo, la sola che può distruggere la meschinità borghese.
[53] il Verbo: il Verbo dannunziano qui non indica il Verbo evangelico; l’uso del lessico religioso crea solo un effetto evocativo.
[54] Un ordine... distruzione!: la parola poetica può essere più efficace di un esplosivo per porre fine al sistema borghese, che a sua volta distrugge la bellezza.