martedì 15 settembre 2009

Dux: rivisitazione della vita di un uomo anche politico di Carmine Esposito

Benito Mussolini nacque a Dovia di Predappio in provincia di Forlì il 29 luglio del 1883. La Romagna è terra di sanguigne passioni, dove l’amore per la politica, la polemica e lo scontro verbale è forte.
Figlio di Alessandro, fabbro ferraio, e di Rosa Maltoni, maestra del villaggio, suo padre gli impose tre nomi di famosi rivoluzionari o uomini d’azione: Benito Jaurez, rivoluzionario presidente del Messico, Andrea Costa, uno dei padri e fondatori del socialismo italiano, Amilcare Cipriani, intrepido eroe garibaldino.
Alessandro Mussolini era uno dei primi socialisti in Italia, consigliere comunale a Predappio, era l’anarchico del paese, una testa calda che faceva comizi nelle osterie e scriveva polemici articoli sul Pensiero Romagnolo di Forlì, un giornaletto repubblicano senza troppe pretese, più volte arrestato per i suoi atteggiamenti irriguardosi verso le autorità, trasmise al giovane Benito il suo temperamento ribelle e la sua divorante passione per la politica, per il socialismo e per la rivoluzione. Il figlio lo seguiva ovunque nelle discussioni politiche in piazza, negli scantinati, nelle riunioni di partito, ove il piccolo Benito vedeva suo padre, col suo potentissimo timbro della voce e la sua forte personalità, dominare letteralmente i compagni.
Il padre, non fu proprio esemplare: donnaiolo, gran bevitore, impartì al figlio un’educazione molto severa.
Spesso lo puniva a cinghiate e gli instillò, fin da piccolo, un senso di orgogliosa fierezza ripetendogli spesso che “non si devono tollerare prepotenze da nessuno, chi le subisce è un vigliacco”, oppure “meglio un ceffone da tuo padre oggi che due da un estraneo domani”.
Nonostante una così rigida educazione, Mussolini disse successivamente del padre: “Di beni materiali non ci ha lasciato nulla; di beni morali un tesoro: l'idea” oppure “Con un altro padre io non sarei mai diventato quello che sono”.
La madre Rosa Maltoni era invece la classica donna all'antica, cattolica, maestra del villaggio, donna pia e industriosa. Mussolini visse un’infanzia modesta trascorsa lungo i campi e le strade. Fu un bambino come gli altri in niente diverso dal tipico ragazzo attaccabrighe, sempre smanioso di fare a pugni, di gareggiare nella corsa e nell’arrampicarsi agli alberi, ribelle, battagliero, volitivo.
Questa inclinazione del bambino alla ribellione preoccupava i genitori e perciò suo padre lo obbligava a frequentare l’officina per tirare il mantice, mentre il maestro Silvio Marani gli insegnava l’alfabeto.
L’ambiente semiselvaggio e l’isolamento inasprirono la sua propensione a diventare sempre più indocile ai freni dei primi doveri. Era necessario quindi prendere i provvedimenti ed i genitori si trovarono d’accordo nell'idea di chiudere il ragazzo in un collegio.
Nel settembre del 1892, i genitori lo iscrissero all’Istituto Salesiano di Faenza, dove fu assegnato alla terza elementare.
In collegio la disciplina era ferrea, subiva molti torti ed umiliazioni a causa della sua condizione sociale e ciò esasperava ulteriormente il suo spirito ribelle.
Anche qui si fece subito notare per la violenza dei suoi atteggiamenti tanto che cominciarono a susseguirsi i rimproveri fino alla prima espulsione, dovuta ad una coltellata inferta ad un suo compaesano.
Dopo ripetute preghiere da parte dei genitori, Benito Mussolini rientrò nell’istituto fino alla fine dell’anno scolastico quando il direttore, annunziò con rammarico ad Alessandro Mussolini che non avrebbe potuto più ammettere suo figlio tra gli allievi, poiché il suo temperamento non si era adattato alla disciplina salesiana.
Per un periodo fu costretto a studiare a casa, sotto la guida premurosa della madre, quindi fu inviato all’Istituto Giosuè Carducci di Forlimpopoli.
Aggressivo, litigioso, collerico, aveva due occhi penetranti e inquisitori, ma ispirava simpatia e, anche se appariva sempre ingrugnito e raramente sorrideva, sapeva tenere allegri i compagni, con le sue battute vivaci e i suoi racconti paradossali inventati sul momento. Lo chiamavano el matt, da quando, incaricato dal direttore della scuola, Vilfredo Carducci, fratello del poeta, di commemorare davanti agli alunni la morte di Giuseppe Verdi, invece di parlare di musica si scagliò con violenza contro gli agrari e gli sfruttatori che opprimevano le classi dei lavoratori.
Nonostante le intemperanze, a scuola il suo profitto era ottimo: serio, studioso, s’impegnava a fondo.Iscritto al Partito Socialista Italiano fin dal 1900, mostrò subito un acceso interesse per la politica attiva, stimolato tra l’altro dall’esempio del padre, esponente di un certo rilievo del socialismo anarcoide e anticlericale della Romagna.
Ben presto l’ambiente di provincia gli va stretto e, non appena conseguito nel 1901, con ottimi voti, il diploma di maestro elementare decise di andare a fare l’insegnante a Gualtieri in provincia di Reggio Emilia, con la disapprovazione del padre che vedeva così sfumare i sogni rivoluzionari che aveva riposto nel figlio. Ma il giovane non si fece condizionare: era un ragazzo intelligente, sveglio, aveva bisogno di vedere il mondo, di fare esperienze, di togliersi dall'ambiente famigliare troppo sicuro, troppo tranquillo per il suo temperamento già assai irrequieto.
Ben presto anche Gualtieri diventò un posto troppo angusto per le sue ambizioni. Socialisti da tagliatelle è l'accusa che scagliava contro i socialisti del paese, colpevoli d’esser troppo molli, troppo mansueti, rivoluzionari che non rivoluzionano nulla. Un giorno, ad una riunione di maestri, parlò con tanta violenza delle leggi scolastiche di allora, contro l’incapacità dei responsabili, contro l'ignavia dei reggitori della cosa pubblica che, uno ad uno, tutti i presenti abbandonano la seduta. Mussolini si fece notare anche per le sue tempestose relazioni sentimentali. Quel giovane che avanzava sempre a passo di carica, col petto infuori e il mento proteso in avanti riscuoteva un certo successo. Diventò l'amante di una donna sposata, che aveva il marito militare: il loro amore fu burrascoso, punteggiato da rabbiosi litigi e da pugni e schiaffi reciproci. Una volta la colpì, per gelosia, con una coltellata ad una natica.
La violenza gli piaceva, era un cultore della violenza. Gli era innata, alla scuola anarchico-rivoluzionaria del padre, gli si era accresciuta perchè questa era la sua natura, questa era l’intima essenza della sua mentalità.
Nel 1902, Mussolini, antimilitarista fino al midollo, per sottrarsi al servizio militare partì per la Svizzera, patria della libertà e di tutti gli spiriti rivoluzionari, di tutti gli ambiziosi alla ricerca di uno sfogo, dove trascorse i due anni più desolati della sua vita
Vi giunse senza conoscere nessuno, con pochi soldi in tasca. Tentò di mettersi in contatto coi socialisti italiani là residenti, ma senza esito.
Trovò lavoro come manovale in un cantiere, undici ore al giorno di lavoro spingendo una carriola carica di pietre. Una fatica da schiavi che poco s'attagliava ad un rivoluzionario dai nobili ideali. Dopo una settimana fu cacciato in malo modo.
Dovette adattarsi ai più umili mestieri per sopravvivere, e sbarcare, male, il lunario: manovale, sterratore, garzone di un vinaio, d’un macellaio, l'operaio in una fabbrica di cioccolato. Patì spesso la fame, tanto che una volta, a Losanna, fu arrestato perchè sorpreso a mendicare e a Ginevra assalì due anziane turiste inglesi che ai giardini mangiavano pane, formaggio e uova.
Finalmente riuscì ad entrare in contatto con i socialisti italiani: quasi tutti operai, semianalfabeti, e una persona istruita suscitava in loro rispetto e ammirazione.
Mussolini fu accolto fraternamente: il settimanale dei socialisti italiani a Losanna Avvenire del lavoratore gli pubblicò un articolo.
Si mette subito in evidenza per il suo attivismo, partecipando a riunioni, incontri, comizi, scrivendo articoli di fuoco sui fogli dei lavoratori.
Aveva solo vent’anni, ma il suo carisma sugli emigranti cresceva rapidamente. Questo giovanotto che parlava con periodare pungente, che guarda fisso con gli occhi pieni di vita, che punteggiava i suoi discorsi con ampi gesti delle mani, conquistò consensi e simpatie. Imparò bene il francese, discretamente il tedesco. A mano a mano che la popolarità di Mussolini cresceva, aumentavano i problemi con le autorità svizzere, che non vedevano troppo di buon occhio quel giovane e turbolento.
Ormai il giovane maestro era entrato nel giornalismo rivoluzionario dei fogli degli emigranti, la cerchia delle sue collaborazioni si allargava.
Entrò in contatto con i più noti esponenti del socialismo italiano emigrato come Lucio e Giacinto Menotti Serrati, con Angelica Balabanoff e con altri rivoluzionari, ponendo contemporaneamente le basi della propria cultura politica, in cui si mescolavano gli influssi di Marx, Proudhon e Blanqui con quelli di Nietzsche, di Pareto e di Gustave Le Bon.
Mussolini lesse avidamente di tutto specialmente George Sorel, il teorico della violenza e il più acceso sostenitore del sindacalismo rivoluzionario, che lo influenzò più di tutti. Il suo pensiero si sposava alla perfezione con un uomo d'azione quale si sentiva Mussolini, che amava andare per le spicce e senza troppi riguardi per nessuno.
Un altro ispiratore fu Nietzsche: la sua idea di superuomo con la sua volontà di potenza creatrice sembrava fatta apposta per Mussolini.
Espulso da un cantone all’altro per il suo attivismo anticlericale e antimilitarista, Mussolini si sentiva bloccato.
Nel 1904, Mussolini rientrò in Italia, approfittando di un’amnistia che gli permise di sottrarsi alla pena, prevista per la renitenza alla leva.
Nel 1904, Mussolini rientrò in Italia, approfittando di un’amnistia che gli permise di sottrarsi alla pena, prevista per la renitenza alla leva.
Compì il servizio militare nel reggimento bersaglieri di Verona durante il quale non accade nulla di particolare: faceva, come tutti, le marce, le manovre, la corvèe, il servizio di guardia.
Nel 1905 sua madre morì a quarantasei anni, e suo padre s’era tenuta accanto la vedova d’un bracciante, Anna Guidi, che aveva cinque figlie, la minore delle quali era Rachele. Dopo il congedo Mussolini visse uno strano periodo di apatia. Dopo le dure esperienze passate non aveva nessuna voglia di ritornare in Svizzera. Tentò inutilmente di trovare impiego come giornalista, trovando sbarrate tutte le porte.
Attraversava un periodo di depressione in cui si sentiva svuotato di ogni energia, finito.
Ottenuta una supplenza a Caneva di Tolmezzo, in Carnia. Fu un pò la riedizione dell’esperienza di Gualtieri, con la differenza che ora non è più un ragazzo ai primi passi, era uno scontento, uno sbandato, un ribelle frustrato che non riusciva a trovare la sua strada.
Non poteva durare a lungo in quella situazione, infatti, il 17 febbraio del 1907, Mussolini fu collocato in congedo dai suoi superiori, dopo un’anticlericale e rivoluzionaria commemorazione di Giordano Bruno: la Polizia lo schedò come sovversivo e pericoloso anarchico.
Scelse nuovamente la strada dell’emigrazione, ma stavolta a Marsiglia dove tentò di ripetere le esperienze svizzere gettandosi nell’organizzazione sindacale degli emigranti, ma gli operai italiani in Francia non lo apprezzano come quelli in Svizzera, non ne approvano i metodi troppo bruschi e quando cominciarono ad apprezzarlo fu ancora una volta espulso.
Mussolini tornò a Forlì, dove avrebbe voluto fare il giornalista, ma il giornalino illustrato L'idea Socialista non navigava in buone acque.
Nel 1908, Mussolini fu di nuovo costretto a ripartire, stavolta per Oneglia, in Liguria, dove Lucio Serrati, fratello minore di Giacinto Menotti Serrati, mandava avanti faticosamente La Lima, settimanale dei socialisti liguri. Per averlo come collaboratore fisso, Serrati gli procurò un posto di insegnante di francese in una scuola privata.
Ad Oneglia, Mussolini si mise in luce coi suoi caustici articoli che firma con lo pseudonimo di Vero Eretico, e tornò ad essere il grintoso di prima, polemico, pungente. La Lima lo rimise in sella, e gli diede finalmente l'occasione per coltivare le sue ardenti passioni: il giornalismo e la politica.
Stanco presto anche della provinciale Oneglia, Mussolini tornò a Predappio giusto in tempo per mettersi a capo dello sciopero dei braccianti agricoli. Il 18 luglio fu arrestato per aver minacciato un dirigente delle organizzazioni padronali: processato per direttissima, fu condannato a tre mesi di carcere, ma, dopo 15 giorni, fu messo in libertà provvisoria dietro cauzione. A settembre fu arrestato per dieci giorni, per aver tenuto a Meldola un comizio non autorizzato.
Nel 1909, Mussolini divenne segretario della Camera del Lavoro di Trento e diresse il quotidiano L’avventura del lavoratore e quindi Il Popolo, quotidiano socialista di proprietà dell’irredentista Cesare Battisti.
Mussolini subito innescò polemiche dapprima con i clericali, che là possedevano molti giornali, quindi con le autorità asburgiche, che mal sopportano i continui attacchi del combattivo giornalista.
La querela di un prete ritenutosi diffamato, avviò una lunga serie di arresti. Le autorità che governavano sul territorio dell’Impero asburgico mal sopportavano le intemperanze di Mussolini e, su forti pressioni del clero locale, ne decretarono la sua espulsione. Dopo sei mesi di convulsa attività propagandistica, fu espulso tra le proteste dei socialisti trentini, suscitando un’ampia approvazione in tutta la sinistra italiana.
L’emigrazione, i numerosi arresti, le espulsioni, gli crearono intorno ormai un’aura di martire del socialismo. La sua ambizione, già smisurata, trova nuova linfa nel sentirsi un perseguitato, un ribelle che si batte per una giusta e nobile causa. E finalmente era un rivoluzionario che cominciava a far sentire la propria voce, a dar fastidio, a esser preso sul serio, e a incontrare consensi e popolarità sempre crescenti.
Tornato a Forlì, Mussolini si unì, senza vincoli matrimoniali, con Rachele Guidi, una graziosa biondina di carattere dolce e insieme risoluto da cui ebbe, nel settembre 1910, la prima figlia Edda. Nel frattempo, la federazione socialista di Forlì gli offrì la direzione del settimanale Lotta di classe e lo nominò segretario.
Nei tre anni in cui conservò tali incarichi, Mussolini diede al socialismo romagnolo una sua impronta precisa, fondata su proposte rivoluzionarie e volontaristiche, ben lontane dalla tradizione razionale e positivista del marxismo, come era interpretato dagli uomini più rappresentativi del Partito socialista.
Dopo il Congresso socialista di Milano dell’ottobre 1910, ancora dominato dai riformisti, Mussolini pensò di scuotere la minoranza massimalista, anche a rischio di spaccare il partito, provocando l’uscita dal Partito socialista della federazione socialista forlivese, ma nessun altro lo seguì nell’iniziativa.
Quando la guerra di Libia modificò i rapporti di forza tra le correnti del socialismo italiano, Mussolini, condannato a cinque mesi e mezzo di reclusione per le manifestazioni organizzate nel settembre del 1911 contro la guerra in Africa, apparve come l’uomo più adatto a rappresentare il rinnovamento ideale e politico del partito. Nel luglio del 1911, fu uno dei protagonisti del congresso di Reggio Emilia: si pose alla testa degli intransigenti, deplorando i deputati che si erano congratulati con il Re per lo scampato pericolo e riuscendo ad ottenere l’espulsione dei traditori.
Ma il 1912 fu l’anno fatale. Il 1° dicembre, Mussolini assunse infatti la direzione dell'Avanti!, prima importante tappa della sua ascesa, e si trasferì a Milano. Attraverso le colonne del giornale del Partito socialista rinnovò i suoi attacchi contro tutto e tutti, e, con i suoi violenti articoli cominciò a dare energiche spallate all'impalcatura del socialismo riformista, arrivando persino a mettersi contro i suoi stessi compagni e spostando un'ala del partito verso l'interventismo con una mossa determinante per le vicende del paese. Margherita Sarfatti, turatiana e quindi avversa alla vincente corrente rivoluzionaria di Mussolini si presentò al direttore per dare le dimissioni da collaboratrice del giornale, ma fra i due nacque subito una simpatia reciproca tanto che mussolini ne cominciò a frequentare il vivace salotto.
Un giorno, Rachele piombò a Milano, e si presentò alla redazione dell’Avanti!, imponendo al riluttante compagno i suoi doveri.
Allo scoppio della guerra mondiale, Mussolini era allineato sulle posizioni di radicale neutralismo del partito, ma, nel giro di qualche mese, in lui si sviluppò la convinzione, comune ad altri settori dell’estremismo di sinistra, che l’opposizione alla guerra avrebbe finito per trascinare il Partito socialista in un ruolo sterile e marginale, mentre sarebbe stato opportuno sfruttare l’occasione offerta da questo sconvolgimento internazionale per far percorrere alle masse la via verso il rinnovamento rivoluzionario, in altro modo impossibile.
Dimessosi perciò dalla direzione dell’Avanti! il 20 ottobre, dopo la pubblicazione di un articolo dal titolo rivelatore della sua cambiata teoria, Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante, Mussolini pensò di realizzare un proprio quotidiano. Il giorno dopo, l’assemblea straordinaria del Partito socialista milanese approvò la linea sostenuta da Mussolini, ma la direzione nazionale la pensava diversamente.
L’editoriale di Mussolini in favore dell'intervento in guerra a fianco della Francia scatenò la polemica nel partito, tradizionalmente antibellico. Fu costretto alle dimissioni dal giornale.
Il 15 novembre, Mussolini, accettando l’aiuto di un gruppo di finanziatori facenti capo a Filippo Naldi, pubblicò Il popolo d’Italia, un giornale ultranazionalista, radicalmente schierato su posizioni interventiste a fianco dell’Intesa e in grado di raggiungere rapidamente un mirabile successo di vendite.
Espulso dal Partito socialista, un affronto sanguinoso per Mussolini, un'onta intollerabile che segnò una svolta nella sua storia personale dal quale nacque l'odio per i socialisti e l'inizio del movimento fascista, con la creazione dei primi Fasci d'Azione Interventista
Nell’aprile del 1915, Mussolini fu arrestato a Roma, mentre si accingeva a presiedere un comizio interventista. Un mese dopo, quando il 24 maggio l’Italia entrò in guerra, Mussolini definì questa giornata la più radiosa della nostra storia.
Il 17 dicembre del 1915, Mussolini sposò Rachele con il rito civile (dieci anni dopo fu celebrato anche il rito religioso).
Richiamato alle armi nei bersaglieri, dopo essere stato ferito nel corso di un’esercitazione, il duce ritornò alla direzione del suo giornale, dalle cui colonne, tra Caporetto e i primi mesi del 1918, ruppe gli ultimi legami ideologici con la sua origine socialista, in nome di un superamento dei tradizionali antagonismi di classe, prospettando l’attuazione di una società produttivistico-capitalistica, capace di soddisfare le aspirazioni economiche di tutti i ceti.
Con la fine della guerra, Mussolini fondò i fasci di combattimento, in Piazza San Sepolcro a Milano, il 23 marzo 1919, primo embrione organizzativo del Fascismo, sebbene facesse appello sulle simpatie di elementi eterogenei e si basasse su un ambiguo programma che mescolava senza scrupoli proposte radicali di sinistra e fermenti nazionalisti, non ebbe inizialmente successo.
Il nuovo movimento si definisce anzitutto come antileninista, cosa che in Italia significava antisocialista.
L’operazione dei Fasci caratterizzava la nuova destra rispetto a quella tradizionale, sostenendo che la vera rivoluzione deve essere salvata da quella bolscevica, la rivoluzione distruttiva della Vandea.
La relazione di Mussolini con la Sarfatti in termini sentimentali si sviluppò dopo la guerra ed andò avanti per vent’anni fra alti e bassi. Non fu un rapporto sereno: scoppiavano anche furiose liti di gelosia perché Mussolini, ultramaschilista dichiarato, non intendeva interrompere le altre sue relazioni amorose. I rapporti tra i due rimasero così su un piano di libertà socialista.
Tuttavia, man mano che la situazione italiana si deteriorava ed il Fascismo si contraddistingueva come forza organizzata in funzione antisocialista e antisindacale, Mussolini otteneva crescenti adesioni e favori da agrari e industriali e quindi dai ceti medi.
Il 7 settembre del 1921, a Roma, si aprì il congresso di fondazione del Partito nazionale fascista, basato su un’alleanza organica con i nazionalisti italiani. La città non piaceva molto ai fascisti, ma per impostare una politica di respiro nazionalistico, Mussolini doveva mettere invece l’accento sull’unità d’Italia. Il programma che uscì dal congresso rassicura la borghesia produttiva. Il Partito nazionale fascista propugna un regime che: “spronando le iniziative e le energie individuali favorisce la ricchezza nazionale con rinuncia assoluta all'antieconomico macchinario delle statalizzazioni, socializzazioni...”
Pochi giorni dopo la chiusura del congresso, prendendo a pretesto uno sciopero effettuato a Roma contro i fascisti, Mussolini dichiara non più valido il patto di pacificazione.
Nel maggio del 1921 si presenta alle elezioni conseguendo una discreta affermazione elettorale: alla Camera furono eletti 36 deputati fascisti e essendo eletto deputato lui stesso, mentre le squadre fasciste sferravano attacchi sempre più violenti, contro le organizzazioni di sinistra.
Dopo un biennio di sviluppo tumultuoso del movimento fascista, nell’ottobre 1922, Benito Mussolini, alla ricerca di una prova di forza col governo, costituì un comitato rivoluzionario (quadrunvirato), composto da Balbo, Bianchi, De Bono, De Vecchi e indisse una grande adunata di squadristi a Napoli.
Il 24 ottobre del 1922, in una riunione all’Hotel Vesuvio di Napoli, Mussolini e i suoi collaboratori decisero di marciare su Roma.
Di fronte a tale minaccia eversiva, il governo non reagì, ma anzi intavolò trattative e Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio sottopostogli tardivamente dal presidente del consiglio Facta, che si dimise, e giunse ad offrire ai fascisti quattro dicasteri in un nuovo governo Salandra. Mussolini non rispose a tale offerta, ma, fatto insediare il quadrunvirato a Perugia (28.10), ordinò agli squadristi di occupare le grandi città del nord e di convergere sulla capitale.
Malgrado la generale connivenza delle autorità, le colonie fasciste furono fermate fuori Roma dalla semplice presenza dell'esercito che non aveva dovuto ricorrere alla forza. Il 28 ottobre, i fascisti entrarono a Roma.
Salandra, il 29 ottobre, rinunciò al mandato ed il re affidò l’incarico a Mussolini, che aspettava l’evolversi della situazione a Milano. Giunto a Roma la mattina del 30 ottobre, in treno, fu ricevuto dal re con il quale accoglie l'omaggio delle squadre fasciste che a quel punto poterono entrare in Roma mentre il Re diede a Mussolini l’incarico di costituire il governo.
Il 28 ottobre del 1922 fu celebrato come data di inizio dell'era fascista. Appena giunto al potere, consapevole d’averlo preso grazie ad una mossa azzardata, Mussolini si preoccupò innanzi tutto di consolidare la sua posizione: tranquillizzò chi vedeva in lui un avventuriero, dando di sé un'immagine moderata e ragionevole, affermando di volere nel suo ministero le intelligenze e le competenze migliori che vanti l'Italia e i rappresentanti dell'intero centro-destra; rassicurò soprattutto la borghesia, di cui precedentemente aveva invocato lo sterminio fisico e, per conciliarsi e garantirsi l'appoggio delle forze conservatrici, decise l'ingresso dei nazionalisti nel partito fascista, con l'elezione di personaggi seri e capaci, che mancavano nel suo partito; con alcune decisioni, s’ingraziò clero cattolico e Vaticano.
Quasi tutti i giornali gli erano favorevoli. I maggiori esponenti liberali giudicavano il suo governo il minore dei mali e anche chi gli era contrario riteneva che occorreva in ogni caso lasciarlo governare, nella presunzione che ciò possa favorire il ritorno alla legalità.
Il nuovo Presidente del Consiglio piaceva, o almeno non dispiace a molti: nell'opposizione c'era anche una sorta di riconoscimento che il nuovo governo, oltre e poter svolgere un’utile funzione antisocialista, esprimeva una maggioranza che esiste non solo al Parlamento, ma anche nel paese.
Mussolini inserì nel governo solo tre ministri fascisti su tredici (ma sette sottosegretari su quattordici: comprende che il sottogoverno può essere altrettanto importante del governo).
L'attività del governo di Mussolini ebbe inizio il 10 novembre.
Nel 1923 Mussolini offrì di sè una duplice immagine: di presidente del Consiglio e di Duce dei fascisti. Si trattava di una necessità, perchè doveva rassicurare i fiancheggiatori liberali e popolari e, nello stesso tempo, presentarsi ai suoi seguaci con l'aspetto del capo pronto a riprendere la lotta.
Il mito di Mussolini influì sulla gente, propensa ad avere fiducia nel governo e nel potere.
Nel marzo del 1923 si realizza la fusione tra il Partito nazionale fascista e il Partito nazionalista. Mussolini costituì un gabinetto di larga coalizione al quale inizialmente parteciparono anche i popolari che però ne uscirono nell’aprile del 1923. Durante questo governo di coalizione, Mussolini si stava preparando ad instaurare la dittatura.
Riformando la legge elettorale con la Legge Acerbo, Mussolini introdusse il sistema del premio di maggioranza che gli consentì in seguito la dittatura. La legge prevedeva l'adozione del sistema maggioritario all'interno di un collegio unico nazionale e chi prendeva più voti prendeva i due terzi dei seggi (356), mentre i restanti (179) su base proporzionale andavano alle liste rimaste in minoranza. La legge fu approvata alla Camera il 21 luglio con 223 si, 123 no e al Senato il 14 novembre con 165 si, 41 no.
In tal modo, Mussolini blindò ulteriormente il suo potere, costituendo i presupposti per la dittatura. Il 17 novembre, la Camera approvò il governo con 306 voti favorevoli e 116 contrari.
Nel novembre del 1923, Mussolini esaltò questa forma di governo con una quarantina di giornalisti stranieri: “Una dittatura intelligente può durare a lungo”. Dopo le elezioni del 6 aprile 1924, Mussolini consolidò ulteriormente il potere.
Il listone fascista ottenne 4.300.000 voti, con 356 seggi i popolari conquistarono 40 seggi, i socialisti 47, i comunisti 18, gli altri partiti 45. Ormai la maggioranza gli consentiva di governare l’Italia senza incontrare nessun ostacolo.
Nella politica interna, ottenne buoni risultati nel risanamento del debito statale, ma si trattò di un punto d'arrivo di un processo che è stato già avviato dai governi liberali.
Nella politica estera ottenne, con la definitiva soluzione della questione di Fiume, che il 27 gennaio 1924 è riconosciuta italiana anche dalla Jugoslavia, con la quale fu stipulato un trattato di amicizia. In questa occasione Mussolini fu insignito da Vittorio Emanuele III del collare dell'Ordine dell'Annunziata. È un nuovo segno dell'appoggio che gli dava la monarchia.
Ma ancora con la limitazione data dall'esistenza del Parlamento.
Affermando che il Parlamento sia diventato inutile, che aveva fatto molto bene per il passato, ma ora non rispondeva più al bisogno dei tempi, Mussolini commise però il suo primo e serio passo falso.
Il deputato Giacomo Matteotti, segretario del P.S.U, il 30 maggio chiese l'invalidazione delle elezioni, che denunciò apertamente il clima di intimidazione in cui si era svolta la consultazione elettorale. Questo aumentò il disprezzo di Mussolini verso il Parlamento.
Matteotti fu rapito il 10 giugno 1924 da una squadra guidata da Dumini e composta da altri quattro fascisti. Trascinato su un'auto, fu ucciso e seppellito la sera stessa nei pressi della via Flaminia (il cadavere fu trovato solo il 16 agosto).
Con l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti l'opposizione ebbe una reazione abbastanza decisa, la secessione parlamentare di Aventino. Anche la gente, che aveva sopportato per due anni un clima di crescente intimidazione, di violenza e di illegalità, con le progressive limitazioni di tutte le libertà, ebbe un moto di rivolta e indignazione.
In quel frangente, Mussolini vide vacillare il suo potere, ma, anche in questa circostanza, vennero
alla luce due caratteristiche del suo temperamento: la tendenza a perdersi d'animo di fronte a grosse difficoltà e la grande capacità di recupero infatti in pochi mesi riuscì a capovolgere gli effetti negativi del delitto, anche perchè molti lo appoggiarono, o almeno, non lo vollero combattere.
Il delitto Matteotti va distinto dall'affare Matteotti, cioè da quel complesso di azioni politiche, che si conclusero il 3 gennaio del 1925 con la trasformazione del Fascismo in dittatura.
L'affare Matteotti si conclude così con la sconfitta del Parlamento e l'annuncio della sua fine.
Mussolini reagì alla crisi con un atto di forza: nel famoso discorso del 3 gennaio 1925 rivendicò la piena e totale responsabilità politica e morale dell’accaduto e annunciò le misure restrittive che sarebbero state chiamate leggi fascistissime.
Questo discorso segnò la sua controffensiva la liquidazione del vecchio Stato liberale e l’instaurazione della dittatura.
Il 12 febbraio Mussolini nominò Roberto Farinacci segretario del partito: è un segno che vuole adottare verso le opposizioni una politica ancora più dura. Per contrastare le tendenze centrifughe del Fascismo, Mussolini rafforzò i poteri dei prefetti: essi devono agire se necessario anche contro i fascisti.
L'occupazione dello Stato non era ancora avvenuta, ma Mussolini si poneva questo obiettivo. Volendo creare ad una dittatura personale:
· In primo luogo, non aveva nessuna intenzione di concedere al PNF quell’autonomia che avrebbe potuto renderlo effettivamente forte e in grado di governare ogni settore dello Stato;
· In secondo luogo, esistevano in Italia forze, dalla Chiesa alla monarchia, dall'esercito alla Confindustria, con cui poteva stringere alleanze, ma non poteva distruggere. Esse, inoltre, non avrebbero accettato l'egemonia del partito, mentre erano disposte ad accettare quella di Mussolini.
Tra gli strumenti di cui Mussolini si servì per esercitare la dittatura, ebbe grande rilievo la presenza dei tecnici: tutta la politica si accentrò nelle sue mani, a lui toccavano le più importanti decisioni politiche, ma perchè esse potessero essere attuate era necessaria una folta schiera di uomini preparati ed efficienti.
Dal dicembre 1925, la figura di capo del governo aveva assunto una nuova fisionomia ed il 24 dicembre una legge ne fissava le prerogative:
· Non era responsabile di fronte alla Camera, ma soltanto di fronte al Re;
· Poteva emanare norme giuridiche;
· Poteva nominare o revocare ministri senza l'autorizzazione del Parlamento.
Mussolini in questo modo aveva uno strumento di potere, il governo, ancora più efficace del partito. Per questa ragione sostenne la supremazia del governo anche sul Partito fascista.
Nell'aprile del 1926 proibì ogni tentativo di sciopero. Nonostante Mussolini tenesse a bada l'opposizione, quasi inesistente, o comunque chi poteva dargli fastidio, con la tecnica del bastone e della carota e che a mano a mano i giri di vite contro la libertà di stampa si facessero sempre più stretti, fino al completo soffocamento, una serie di attentati turarono la sua vita:
· Ad aprile un’anziana signora irlandese, Violet Gibson, gli sparò durante una cerimonia al Campidoglio, ma il proiettile gli sfiorò appena il volto;
· A settembre l’anarchico Lucetti lanciò una bomba contro la sua auto; l’ordigno scivolò sul tetto della vettura ed esplose a terra ferendo lievemente soltanto un passante;
· A ottobre il giovane Anteo Zamboni che avrebbe sparato, senza successo, sfiorando appena il bersaglio e che fu subito dopo pugnalato a morte dai legionari fascisti.
Nel novembre del 1926 Mussolini emanò le leggi fascistissime, con le quali:
· Furono sciolti tutti i partiti antifascisti;
· Furono dichiarati decaduti dal mandato i deputati dell’Aventino;
· Fu attuata la pena di morte per i reati contro lo Stato;
· Fu istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato;
· Nel 1927 fu costituita l’Ovra.
Mussolini si rendeva conto che il Fascismo, fino a quel momento, non aveva una base ideologica abbastanza forte e convincente: Giovanni Gentile allora si impegnò a costruirne una.
Nella concezione mussoliniana e gentiliana, il Fascismo, diventava migliore di qualsiasi altra ideologia: era dottrina, fede, religione. Da allora nei testi elaborati dal Partito Nazionale Fascista furono prodighi termini come martire, credente, sacrificio, devozione al duce, fede fascista, dottrina fascista, mistica fascista, comandamenti, catechismi. Tutti termini che afferiscono alla sfera religiosa.
Nel motto credere-obbedire-combattere c'é tutta l'ideologia fascista accostata: la religione, la scomparsa del pensiero critico, la violenza.
Augusto Turati, nuovo segretario del PNF succeduto a Farinacci nel 1926, istituzionalizzò il culto del capo; Giuseppe Bottai, lo rese intellettualmente rispettabile, proclamando la propria convinzione che nessuna figura della storia reggeva il confronto con quest'uomo eccezionale; suo fratello Arnaldo Mussolini, dalle colonne del Popolo d’Italia, lo consacrava ogni giorno: il principale statista d'Europa, aveva messo la sua saggezza, il suo eroismo ed il suo enorme intelletto al servizio del suo popolo. La sua persona doveva essere pertanto sacra e inviolabile.
Nel 1926-1927, la religione del ducismo era ormai in pieno sviluppo: gli insegnanti ebbero l'ordine di esaltare questa figura solitaria, di mettere in risalto il suo interesse, il suo meraviglioso coraggio e la sua mente brillante e di spiegare che l'obbedienza ad un tale uomo era la virtù eccelsa. Questa figura leggendaria divenne più familiare attraverso la biografia Dux, scritta da Margherita Sarfatti, di cui Mussolini stesso corresse le bozze.
Il 21 aprile del 1927, fu pubblicata la Carta del Lavoro che prevedeva 22 corporazioni. Con la Carta del Lavoro, che i propagandisti salutarono come La Magna Carta della rivoluzione fascista, il regime stabilì alcuni diritti-doveri del lavoratore:
· La giornata lavorativa di otto ore, la cassa malattie;
· Le pensioni di vecchiaia;
· L'assistenza alla maternità;
· Le vacanze organizzate a cura del Dopolavoro.
Gli articoli della Carta tuttavia rimasero in gran parte una dichiarazione di principi, per via dell'arretratezza dell'organizzazione statale. Nella concezione fascista il lavoro, inquadrato nelle varie corporazioni, divenne un dovere sociale e lo sciopero un reato penalmente perseguibile.
Nel 1928 dopo l’avvio piuttosto travagliato della sua vita familiare, Rachele ed i suoi figli raggiunsero Mussolini a Roma e si insediarono a Villa Torlonia, e condussero una vita piuttosto normale per quanto poteva concernere la normalità della presenza in casa del padrone d’Italia.
Rachele era, una padrona di casa romagnola sensata ed economa: anche perché Mussolini lesinava sul soldo, non avendone mai di suoi, neppure allorché fu Duce: e ogni spesa gli pareva spropositata.
I ragazzi crebbero bene tranne Anna Maria colpita da una grave infermità e i due maschi maggiori dovettero, senza eccessiva vocazione, seguire il curriculum che per loro sembrava doveroso: gli studi, le uniformi di balilla o avanguardista, e infine l’Arma Azzurra. Padre e figli avevano un rapporto affettuoso ma non intenso. Il preside del liceo Tasso, dove studiavano, inviava al Duce dei rapporti sul profitto scolastico dei ragazzi. Lui non commentava.
Mussolini fascistizzò progressivamente tutto lo Stato, affermando che il Fascismo doveva essere come il sangue in un corpo, e quindi doveva identificarsi con lo Stato.
Lo Stato Fascista, avrebbe dovuto predominare in ogni aspetto della vita sociale, politica e culturale, di qui il famoso motto: Tutto nello Stato, niente contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato.
Neppure la gioventù fu risparmiata dall'indottrinamento, anzi il regime considerava fondamentale addestrare gli italiani al regime fascista fin quasi dalla nascita: la Gioventù Italiana del Littorio aveva appunto il compito di creare un uomo che fosse naturalmente fascista, che vivesse e pensasse spontaneamente, grazie ad una meticolosa educazione fascista.
Il Fascismo entrava così, poco a poco, non solo in ogni apparato dello Stato, ma nella vita sociale e privata di ogni cittadino: nelle nuove generazioni, esso entrava nelle loro mentalità fin dall'infanzia.
In modo parallelo a questo condizionamento capillare, ogni opposizione fu messa a tacere: partiti e sindacati furono dichiarati illegali e quindi soppressi, i giornali che non si adeguavano al regime chiusi d'imperio, gli oppositori politici furono bastonati, imprigionati o mandati al confino e, a volte, assassinati.
Una continua propaganda cominciò ad esaltare in maniera spesso ridicola le doti di genio del duce supremo, trasformandone la personalità in una sorta di semidio insonne che aveva sempre ragione ed era l’unico in grado di interpretare i destini della patria.
L’11 febbraio del 1929, Mussolini firmò i Patti Lateranensi con il Vaticano che rappresentavano la conciliazione fra lo Stato italiano e la Santa Sede.
Mussolini avviò importanti riforme economiche, nel campo del lavoro, dell'industria e dell'agricoltura, e diede inizio a rilevanti opere pubbliche: queste gli servivano per fornire prove tangibili al popolo che il Fascismo produceva non solo chiacchiere, ma fatti concreti. Tra le più citate, le bonifiche delle paludi dell'Agro Pontino.
Con la battaglia del grano, Mussolini perseguì l'intento di aumentare la produzione di cereali, nel quadro di quell’autarchia che, in caso di guerra, avrebbe reso l'Italia autosufficiente. Ciò gli serviva anche per trattenere i contadini nelle campagne, perché non vedeva di buon occhio l'eccessiva urbanizzazione: nelle campagne si pensa solo a lavorare, nelle città la gente parla e pensa troppo.
In politica estera, dopo l’episodio di Corfù, occupata dalle truppe italiane nel 1923, e la decisa presa di posizione contro la minaccia tedesca di annessione dell’Austria cui fece seguito il Convegno di Stresa con Francia e Gran Bretagna, nel 1935, che sembrò tracciare un fronte comune antihitleriano, Mussolini si gettò nella conquista dell’Etiopia.
All'inizio del 1934, Mussolini decise di conquistare l'ultimo dei posti al sole rimasti.
Il posto al sole non è la stessa cosa dello spazio vitale di cui parla Hitler, ma un posticino in Africa per una nazione proletaria che cerca uno sfogo alla sovrappopolazione.
Cercare di conquistare l'Etiopia significava fare una politica di rischio calcolato.
Mussolini sapeva che l'Italia non è pronta ad un grande conflitto e che può affrontarne solo uno coloniale: la guerra gli è necessaria, ma deve essere il più possibile limitata.
Mussolini vuole conquistare gli altipiani inabitati, dove gli italiani avrebbero potuto costruire le loro case, arare le nuove terre e guadagnarsi il pane.
Ma la guerra dei poveri italiani contro i poverissimi abissini si trasformò, con una magistrale operazione propagandistica, nella guerra dei poveri contro i ricchi, perchè dietro l'Etiopia, la propaganda sosteneva ci fosse la ricca Inghilterra.
Il 14 giugno 1934, Mussolini incontrò Hitler la prima volta, ma non ne riportò una buona impressione, mentre quest'ultimo fu entusiasta di lui.
Nel luglio 1934 i nazisti operarono un violento colpo di stato in Austria, assassinando il cancelliere Dolfuss, e tentando di rovesciare con la forza il governo austriaco; ma il tentativo si rivelò prematuro e non riuscì. Infatti l'Italia intervenne immediatamente inviando sul Brennero alcune divisioni italiane, pronte ad entrare in azione per reprimere un eventuale attacco della Germania.
Quando il 2 ottobre Mussolini decise di conquistare l'Etiopia, l'opinione pubblica era preparata e a Roma si riversò per le strade una fiumana di persone. Mussolini annunciò davanti a venti milioni di persone: “Camicie nere della rivoluzione! Ascoltate! Un'ora solenne sta per scoccare nella storia della patria”. Parlò anche di una possibile catastrofe europea, ma assicurò che lo scontro armato con la Francia e l'Inghilterra può essere evitato. Queste condannarono l'invasione e proposero delle sanzioni, che ebbero un’efficacia limitata:
· Il 3 ottobre 1935 le truppe italiane varcarono il confine con l’Abissinia; alla minaccia delle sanzioni formulate a Ginevra rispose con l’autarchia;
· Il 9 maggio 1936 dopo che gli etiopici avevano resistito sette mesi Mussolini poté proclamare l'Impero.
L’impresa, da un lato, segnò il punto più alto della sua popolarità in patria: La creazione di un impero coloniale servì a Mussolini per irrobustire l'orgoglio nazionale: Libia, Etiopia, Somalia, Eritrea e Albania, dovevano servire a pareggiare i conti con le altre potenze coloniali, soprattutto Francia e Inghilterra, e fare dell'Italia, assetata di gloria e di potenza, la nazione guida dell'Europa e il faro della civiltà nel mondo. Ciò rafforzava il suo prestigio in politica interna: Mussolini si diede da fare nel gioco diplomatico internazionale, intervenendo nei trattati e facendo da paciere o da arbitro. La stampa fascista enfatizzò ed esaltò i suoi meriti nella risoluzione di complesse trattative ed suoi successi internazionali contribuivano quindi alla sua progressiva deificazione.
La guerra vittoriosa di Etiopia, dall’altro lato aprì ed aggravò per Mussolini alcuni problemi:
· I rapporti con Vittorio Emanuele III, diventato imperatore d’Etiopia, riprendendo il titolo di Qesar, dovrebbe appagare il Re, ma Vittorio Emanuele III è Cesare solo in Etiopia, in Italia il vero Cesare è Mussolini e quando il Parlamento fascista approvò una legge che creava due marescialli dell’Impero, rendendo così Mussolini al pari del re, s’infuriò dicendo: “Questo smacco alla Corona dovrà essere l’ultimo”;
· Il dono dell’Impero che Mussolini ha fatto al re aveva un costo elevato, per mantenere l’Etiopia lo Stato italiano spendeva 57 miliardi;
· Il sempre più stretto accostamento tra l’Italia e la Germania che, durante il periodo delle sanzioni, aveva recato un notevole contributo all’Italia, ed aveva poi riconosciuto senza indugio la sovranità italiana sull’Impero d’Etiopia aveva inimicato l’Italia con la Gran Bretagna, la Francia e la Società delle Nazioni.
Questo squilibrio internazionale costrinse l’Italia ad un lento, ma fatale avvicinamento alla Germania:
· Nell’ottobre 1936 il ministro degli esteri Ciano si recò in Germania e sottoscrisse con il governo tedesco un patto di collaborazione, primo approccio per una vera e propria alleanza politico-militare tra Italia e Germania, il cosiddetto Asse Roma-Berlino;
· Il 6 novembre del 1937 l’Italia firmò il Patto Anticominform con Germania e Giappone;
· L’11 dicembre del 1937 l’Italia uscì dalla Società delle Nazioni;
· Il 17 novembre del 1938 l’Italia emanò le leggi razziali contro gli ebrei, che entrarono in vigore;
· Nel 1939 Mussolini firmò il patto d’Acciaio, legandosi definitivamente a Hitler.
La sfida all’Inghilterra ed alla Società delle nazioni, la sua apoteosi di fondatore dell’Impero e di primo maresciallo il 30 marzo del 1938 e, infine, il comando supremo delle truppe operanti su tutti i fronti l’11 giugno del 1940, assunto il giorno dopo l’ingresso in guerra al fianco dell’Asse, furono il principio della fine Mussolini e per il regime fascista.
Poco a poco Mussolini aveva perduto in gran parte il contatto con la realtà: ignorava la situazione del paese, delle forze armate, dell’esercito, poiché i suoi più stretti collaboratori gli riferivano solo ciò che gli avrebbe fatto piacere, nascondendogli invece i problemi o attenuando le cose negative. Specialmente negli ultimi anni, le sue incertezze si fecero sempre più frequenti: raramente sapeva prendere o imporre una propria decisione con rapidità quando le circostanze lo richiedevano. Era spesso dubbioso, cambiava idea più volte al giorno e con i suoi collaboratori non di rado era vile, sleale, meschino e furbo, pronto alla bugia e all’inganno. Non esitava inoltre a disfarsi calcolatamente dei suoi seguaci più fidi, pur di perseguire i suoi scopi. Era incapace di veri affetti.
Il suo declino iniziò infatti con l’entrata in guerra, un’avventura che lui solo aveva voluto sebbene impreparato e contro le idee dei suoi più stretti collaboratori Badoglio, Grandi e Ciano, nell’illusione di un veloce e facile trionfo.
L’Italia allo scoppio della guerra, aveva proclamato col consenso di Hitler, la sua non belligeranza. Mussolini, nonostante l’impreparazione morale e militare, volle accelerare i tempi dell’intervento ritenendo che il conflitto fosse prossimo alla fine.
Il 10 giugno 1940, l’Italia dichiarò guerra alla Francia e all’Inghilterra.
Dopo due settimane fu firmato l’armistizio franco-italiano, in base al quale l’Italia poteva occupare alcuni territori del confine.
Le truppe italiane dovevano operare su diversi fronti (sotto il comando generale del maresciallo Badoglio), e furono impegnati in diversi avvenimenti bellici. Nel 1940, le truppe combattono:
· Per la conquista della Somalia Britannica;
· A settembre vi è l'offensiva italiana in Libia, organizzata e diretta dal maresciallo Graziani;
· Poi l’attacco italiano contro la Grecia, che ha messo in evidenza la grande inettitudine e imprevidenza del nostro governo e dei comandi militari.
E così vennero man mano le gravi vicende della guerra con il risultato di un sostanziale insuccesso:
· L’11 novembre del 1940 l'attacco inglese alla nostra flotta a Taranto;
· In Grecia (1941);
· In Egitto (1942);
· Il proposito di stendere sul bagnasciuga i nemici che avessero osato porre il piede sul suolo d’Italia (24 giugno 1943);
· L’invasione anglo-americana della Sicilia e il suo ultimo colloquio con Hitler (19 luglio 1943).
In quel momento Mussolini diventò il responsabile unico del disastro.
A Mussolini che invano ha chiesto aiuti militari a Hitler, mancò la fiducia degli stessi fascisti.
Il 24 luglio 1943, per opera soprattutto di Dino Grandi e di Galeazzo Ciano, ci fu una vera e propria ribellione all'interno del regime ed il Gran Consiglio del Fascismo, riunitosi in una seduta straordinaria, si pronunciò decisamente per la sfiducia a Mussolini, costringendolo a presentare la proprie dimissioni.
Il 25 luglio Vittorio Emanuele III ordinò di arrestare Mussolini e assegnò l'incarico al maresciallo Badoglio di formare il nuovo governo; mentre era dichiarato lo scioglimento del partito fascista.
Il 25 luglio 1943 si ebbe il crollo del fascismo dopo oltre venti anni di dittatura.
Trasferito a Ponza, poi alla Maddalena e infine a Campo Imperatore sul Gran Sasso, il 12 settembre Mussolini fu liberato dai paracadutisti tedeschi al comando del Maggiore Harald Mors della Luftwaffe.
Mussolini fu portato in Germania, da dove il 15 settembre proclamò la ricostituzione del Partito Fascista Repubblicano.
Il 23 settembre del 1943, Mussolini, Ormai stanco e malato e in completa balia delle decisioni di Hitler, ritornò in Italia, ponendo la propria resistenza a Salò, sul lago di Garda e costituì la Repubblica Sociale Italiana, riorganizzando il partito fascista e tentando di ricostruire un esercito, al comando del maresciallo Graziani, per continuare la guerra la fianco della Germania, cercando di far rivivere le parole d’ordine del Fascismo della prima ora.
Sempre più isolato e privo di attendibilità, quando le ultime resistenze tedesche in Italia furono fiaccate, Mussolini, trasferitosi a Milano, propose ai capi del C.L.N.A.I. (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) un inammissibile passaggio di poteri, che fu respinto intanto Travestito da militare tedesco, tentò allora, insieme alla compagna Claretta Petacci, la fuga verso la Valtellina, dirigendosi verso la Svizzera, ma Riconosciuto a Dongo dai partigiani, fu arrestato e il 28 aprile 1945 fu fucilato senza regolare processo insieme alla Petacci, per ordine del C.L.N., presso Giulino di Mezzegra, sul lago di Como.
Fu esposto a Piazzale Loreto a Milano come trofeo di guerra da parte dei partigiani.
Carmine Esposito

domenica 6 settembre 2009

Ugo Ojetti, il talento con il monocolo: un singolare operatore culturale dell’Italia fascista di Dominìka Somma

Questo breve saggio si propone di mettere in luce la personalità, gli interessi e la poliedrica produzione di una delle più interessanti figure del Novecento italiano. Un'occasione per ricordare un intellettuale raffinato, Ugo Ojetti, scrittore e giornalista fra i più eleganti ed autorevoli del primo Novecento italiano, colpevolmente dimenticato dopo la morte, anche per l'enorme importanza avuta durante il fascismo.
Negli ultimi anni, Ojetti sta ritrovando una certa visibilità ed è sempre più frequentemente citato, specie nella storia e nella critica d'arte.
Personaggio eclettico, ricco di talento, giornalista di vasta e profonda cultura letteraria ed artistica, Ojetti rappresenta la figura centrale di una tradizione giornalistico-letteraria oggi scomparsa.
Bell'uomo, di aspetto aristocratico e di modi galanti, affascinante conversatore, il caratteristico monocolo portato con ironica bonarietà fin da giovane, Ojetti aveva buon gioco con le signore, che lo apprezzavano almeno quanto lui apprezzava loro. Non era un libertino, né del resto glielo avrebbe permesso sua moglie, nobildonna piemontese dal piglio energico, che gli fu fedelissima e richiese a lui altrettanta fedeltà.
Cronista principe, grandissimo osservatore di cose umane, appassionato promotore di cultura e scopritore di talenti, per natura incline alla valorizzazione dei giovani, questo soprattutto fu Ugo Ojetti nel panorama giornalistico-letterario italiano del suo tempo. Indro Montanelli, parlando di un direttore del “Corriere della Sera” del secondo dopoguerra, gli rivolse forse il più alto e raro degli elogi: «Si preoccupa di scoprire talenti ed è soprattutto felice del successo di coloro che lancia». Molti, infatti, sono stati i nomi nuovi lanciati da Ojetti, solo a citarne alcuni: Giuseppe De Robertis, Pietro Pancrazi e Guido Piovene ed ancora, nel mondo giornalistico, Orio Vergani, Paolo Monelli ed Indro Montanelli.
Quell'atteggiamento descrittivo più curioso che impegnato, sempre lievemente colorito di un disincantato scetticismo, fu frutto di un’intelligente comprensione dei propri limiti umani ed anche di una naturale predisposizione del suo carattere che non fu certo quello di “maestro di vita”, ma piuttosto di “maestro del saper vivere”.
Scrittore lucido, elegante e piacevole, non seguì il dannunzianesimo imperante ed ebbe i suoi momenti letterari più riusciti nelle raccolte di ritratti, di ricordi e di saggi.
Tra le figure di organizzatori culturali che calcarono la scena artistica e del regime, Ojetti si distingue per le sue camaleontiche caratteristiche. Piero Gobetti lo definì «maestro raffinato delle belle maniere e dell’arte del successo, insuperabile nella magra arte dell’arrivare»; Mino Maccari lo bollò come il “sor Ugo senzasugo”, dedicandogli parecchie vignette satiriche ne “Il Selvaggio”; dalle colonne de “L’Italiano” fu definito “vegetariano della letteratura, ovvero mezzana degli antiquari”. Queste due ultime posizioni sono in sintonia con lo strapaesanismo cui facevano capo i due periodici. Con la sua eleganza di stile, il fiuto infallibile per il dettaglio rivelatore, “acuto veditore”, lo definì D'Annunzio, in quei raffinati elzeviri, Ojetti dipinse magistralmente l'Italia fra le due guerre. Del resto, in quegli anni il termine ojettismo era usato per definire una certa maniera di fare cultura, assecondando e sfruttando il potere.
Ugo Ojetti nacque a Roma il 15 luglio 1871 da famiglia romana. Dal padre, noto architetto, trasse un'inclinazione per le arti figurative e i problemi di estetica: egli, infatti, s’interessò alla critica d’arte, alla letteratura ed al teatro.
Nel 1892, a ventuno anni si laureò in legge, dopodiché si dedicò al giornalismo e alla critica d’arte.
Egli esordì come poeta e narratore alla fine del secolo, infatti, i suoi primi articoli comparvero nel 1894 sulle riviste romane “Tribuna” e “Nuova Rassegna”. Inoltre, nel 1894, Ojetti pubblicò il romanzo “Senza Dio”.
Nel 1895, a ventiquattro anni, Ojetti realizzò un’inchiesta letteraria di successo: ventisei interviste a scrittori e poeti fra cui Carducci, Fogazzaro, Verga, De Roberto, De Amicis, e naturalmente D'Annunzio, di cui fu caro amico. Il gusto per la buona scrittura era per lui una necessità, cui non riusciva a sottrarsi neanche davanti a testi altrui. Il prodotto di questa inchiesta fu il libro “Alla scoperta dei letterati”, che egli pubblicò nel 1895.
Dal 1898 e, per oltre vent’anni, curò la rubrica artistica del “Corriere della Sera”. Sempre nel 1898, Ojetti fu inviato negli Stati Uniti a seguire la guerra contro la Spagna per l'indipendenza di Cuba e ne tornò con la gloria di un’esclusiva intervista a Teodoro Roosevelt. Il 30 settembre 1898, Ojetti si abbonò al “Gabinetto Vieusseux” e ne restò socio anche negli anni successivi.
Nel 1899, Ojetti pubblicò “Il gioco dell’amore!” e “Il Vecchio”, nel 1902, pubblicò “Le vie del peccato” e nel 1904, “Il cavallo di Troia”.
Tra il 1904 e il 1908, sotto lo pseudonimo di “Conte Ottavio”, Ojetti scrisse per l’Illustrazione italiana e, nel 1908, pubblicò il primo volume de “I capricci del Conte Ottavio” e “Mimì e la gloria”; nel 1910, egli pubblicò il secondo volume de “I capricci del Conte Ottavio”.
Il 23 marzo 1906 Ojetti tenne una conferenza nel “Collegio Romano”, davanti alla Regina Madre e alla sala gremita per le grandi occasioni, sul tema del valore dell'arte e sul problema di estetica inerente alla mancanza di stile dell'arte contemporanea. Dopo aver descritto lo stile del monumento a Vittorio Emanuele a Roma e aver paragonato le condizioni nelle quali, allora, un architetto creava solo per soddisfare un capriccio personale, agli architetti delle grandi epoche d'arte che, invece, avevano seguito l'impulso del gusto della civiltà e accettato l'imposizione dello stile corrente, egli aveva concluso che uno stile per essere degno del nome avrebbe dovuto essere universale ed essere accettato da un'intera nazione, come le parole della sua lingua e il culto della sua moneta.
Nella sua lunga orazione, Ojetti si era soffermato, tra le altre cose, sui vantaggi che la libertà romantica aveva arrecato all'arte e, in particolar modo, alla pittura di paesaggio e alla scultura, mentre l'architettura, che per sua natura aveva bisogno di sottostare a delle leggi e ad uno stile, non aveva goduto di quello spirito di libertà. Riguardo all’importanza nell'architettura del valore delle sue norme, egli aveva illustrato un quadro vivo e poetico, per mostrare i danni che ad ogni arte derivavano dalla decadenza presente nell'architettura. Anche se un rimedio sicuro non esisteva, egli, tuttavia, aveva proposto un programma di riavvicinamento dei popoli all'arte, in cui, essa posta su un terreno fecondo, avrebbe potuto favorire la rinascita di uno stile e, egli aveva tracciato le linee generali di questo programma.
Nel 1911, Ojetti organizzò la mostra “Ritratto italiano” a Palazzo Vecchio, inoltre, pubblicò il primo volume di “Ritratti di artisti italiani”. Sempre nello stesso anno, per quanto riguarda il teatro, egli, insieme a Renato Simoni, scrisse la commedia in quattro atti “Il matrimonio di Casanova”.
Il 1911 è anche l’anno dell’acquisto del “Salviatino” la villa nella quale Ugo Ojetti abitò. «La mia casa è solida, massiccia e patriarcale, sulle sue volte trecentesche e quattrocentesche del pian terreno, sui soffitti del Cinquecento a travi di rovere lunghe, spianate, spaziate e squadrate come un periodo del Guicciardini» così Ojetti descriveva la sua casa. In primo piano c'erano le statue di guardia all'ingresso del parco, collocate ai lati del viale che tagliava il giardino italiano fino alla scala della casa.
Quest'ultima, centrale nella prospettiva, appariva descritta con una minuzia maniacale: perfetti erano i particolari della facciata e delle finestre; esatto il numero di cipressi che gli stavano attorno e il rapporto delle loro altezze; fedele era il profilo delle colline che chiudevano l'orizzonte.
Nel 1912, pubblicò “Donne, uomini e burattini”, nel 1913, pubblicò L’amore e suo figlio.
Durante la Prima guerra mondiale, Ojetti fu volontario con il grado di tenente ed il governo gli affidò l’incarico di vigilare sulla salvaguardia degli oggetti d’arte e di monumenti nelle zone colpite dalla guerra. S’interessò al restauro di monumenti, di museologia e di arti minori, creandosi in tal modo una competenza specifica in ogni campo che lo portò ad essere presente agli avvenimenti più importanti, tanto che nel 1917, egli pubblicò “I monumenti italiani e la guerra”. In qualità di Ufficiale di Stato Maggiore, riscrisse in bella copia i comunicati dal fronte di Cadorna e di Diaz: fu lui a stendere il bollettino della vittoria.
Egli diventò membro di numerose commissioni e si occupò dell’organizzazione di mostre sul territorio italiano.
Nel 1920, Ojetti pubblicò “I nani tra le colonne” e fondò la rivista “Dedalo”, dove in ogni fascicolo dedicò un articolo a un giovane artista, iniziando a sostenere la nuova corrente del ‘ritorno all’ordine’.
Ojetti, critico d’arte famosissimo ai suoi tempi, nel giugno del 1920, cinquantenne, fondò la rivista ‘Dedalo’. Da subito, nell’impostazione della rivista, si dimostrò un precursore, un critico che esprimeva una sensibilità assolutamente nuova per i temi della comunicazione e della divulgazione delle opere d’arte, oltre che profondo interesse per l’arte contemporanea.
La rivista diventò, da subito, un’occasione di incontro e dibattito tra critici, intellettuali, archeologi, artisti e letterati del calibro di Berenson, Marangoni, Jahier, Maraini, Bianchi Bandinelli, Toesca, Lionello Venturi e Longhi. Questi ultimi si impegnarono nei temi della promozione dell’arte contemporanea e nella conservazione e diffusione di quella antica.
Le illustrazioni costituiscono parte integrante del linguaggio espressivo di ‘Dedalo’, che si fondava essenzialmente sulle fotografie, molto belle, di semplice lettura, nitide e curate. Quello che si può notare è l’attenzione alla comunicazione, infatti, si voleva arrivare a conquistare e coinvolgere il pubblico attraverso la semplicità e la chiarezza delle immagini: in questo, anticipando di almeno un secolo valori che si sono poi definitivamente affermati.
La rivista si presentava in fascicoli di grande formato, sottili e maneggevoli, che si caratterizzavano per la ricchezza e la bellezza delle illustrazioni, molte delle quali a piena pagina, in bianco e nero e alcune anche a colori; praticamente tutte accompagnate da testi brevi scritti con linguaggio chiaro e conciso e stampati a due colonne a caratteri grandi e ben in neretto sul fondo giallo della carta patinata: la veste ben curata rifletteva le esigenze di razionalità e chiarezza del critico.
Le ‘arti minori’ rappresentano uno dei temi fondamentali della rivista. Per ogni epoca, dall’antico al Rinascimento fino al Seicento e Settecento, chi sfoglia la rivista incontra articoli dedicati a tessuti, ricami, stoffe, maioliche, porcellane, terrecotte, libri, mobili, arte del giardino, poi, oggetti maggiormente legati alle necessità quotidiane come scaldini, bussole, giocattoli, arredi e arte navale.
Uno degli scopi della rivista era di presentare al pubblico le più importanti collezioni d’arte. Inoltre, altro filo conduttore degli articoli di ‘Dedalo’ fu l’interesse per l’arte contemporanea e per quei pittori e quegli scultori che propugnavano un ritorno all’ordine classico: tra questi Victor Hammer, amico di Berenson e di Placci e le opere dei pittori René Piot e Giuseppe Ricci. Inoltre, ‘Dedalo’ testimoniò l’idea, assai innovativa, che il valore fondamentale dell’opera d’arte fu quello di testimonianza visibile della storia e dell’anima di una civiltà con maggior forza di suggestione e di convinzione che qualsiasi testimonianza scritta.
Negli anni Venti del XX secolo, dopo la fioritura del ‘cubismo’, del ‘futurismo’ e della ‘metafisica’, si fece strada una corrente che riproponeva la centralità della tradizione e della storia, del classicismo e della fedeltà figurativa, del racconto e della celebrazione aulica. È il ‘rappel à l'ordre’, il ritorno all'ordine che a macchia d'olio coinvolge gran parte dell'arte europea e che coinvolge molti artisti delle varie avanguardie in una pausa di riflessione dopo le rapidissime rivoluzioni apportate all'arte durante la prima parte del secolo. In Italia il ‘ritorno all'ordine’ è intuito soprattutto da Margherita Sarfatti che organizzò, in diretto contatto con Mussolini, una serie di esposizioni sotto il nome di ‘Novecento italiano’, cui partecipano tutti quegli artisti che si propongono un ritorno al ‘figurativo’, dopo gli sperimentalismi delle avanguardie.
Per quanto riguarda i suoi rapporti con gli artisti romani, è da segnalare soprattutto il sostegno offerto al giovane Antonio Donghi, nel corso degli anni Venti. Nel 1921, Ojetti organizzò alla ‘Galleria Pesaro’ di Milano la mostra ‘Arte Italiana Contemporanea’, un’abile scelta bilanciata tra i maestri del tardo impressionismo ottocentesco e i giovani artisti. Ojetti inoltre, pubblicò ‘Raffaello e le altre leggi’ e ‘Cose Viste’, volumi in cui egli raccolse i suoi articoli di terza pagina del Corriere della Sera. In questi volumi vi sono i ritratti di uomini illustri, descrizioni di luoghi, notazioni di avvenimenti, interpretazioni di fatti, che conservano la cronaca più colorita di quanto di notevole accadde in quegli anni. In questo lavoro di attenta osservazione e commento, l'aspetto emergente è quello del fine ritrattista: gli uomini e le cose che egli ha descritto sono stati sempre osservati con tranquillità, attenzione e curiosità.
Nel 1922, a cinquant’anni, Ojetti, collaboratore del ‘Corriere della Sera’ organizzò a Palazzo Pitti la mostra ‘Pittura italiana del ‘600 e del ‘700’ e pubblicò ‘Mio figlio ferroviere’.
Nel 1923, a Caprera, Ojetti incontrò donna Francesca Armosino, che fu al fianco di Garibaldi nei suoi ultimi anni di vita e che gli diede tre figli: Clelia, Rosita e Manlio. Ottantenne «solida, semplice e sorridente, volto aperto, zigomi larghi, sopracciglia alte, occhi d'acciaio, carnagione accesa e capelli bianchi lucidi attorti sul sommo del capo», donna Francesca custodiva da quarant'anni l'ultima dimora di Garibaldi, portando ogni giorno un mazzolino di fiori freschi che deponeva sul guanciale su cui aveva dormito il generale. Il suo modo di descrivere i luoghi era divenuto proverbiale. Diceva Montanelli: «Per noi, gli epigoni, è stata una fortuna che Ojetti abbia smesso presto di viaggiare. Altrimenti avremmo potuto restarcene a casa, perché dov'era passato lui non c' era più nulla da arare».
In qualità di firma di prestigio del ‘Corriere della sera’, nel giugno 1923, a Palazzo Chigi, Mussolini ricevette Ojetti. «Poco sincero e troppo teatrale», fu la sua impressione. Nel 1923, Ojetti pubblicò il secondo volume di ‘Ritratti di artisti italiani’.
Nel 1924, egli presentò, nella ‘Galleria Pesaro’ di Milano, la mostra ‘Venti Artisti Italiani’, comprendente i migliori artisti del ‘Realismo magico’ in tutte le sue accezioni e declinazioni geografiche: de Chirico, Casorati, Menzio, Chessa, Guidi, Donghi, Trombadori, Oppo e Trentin. Ojetti appoggiò gli esponenti di questa tendenza per tre ragionevoli motivi: primo perché fondavano la loro arte su valori antichi, poi perché studiavano il mestiere e la figura umana, rispettando ognuno i confini di ciascuna arte, la causa principale è nel mondo che stava sterzando a destra, verso l’ordine, la disciplina e la pace. Inoltre, nel 1924, Ojetti pubblicò ‘La pittura italiana del Seicento e del Settecento’.
Nel 1925, Ojetti pubblicò il primo volume dell’Atlante di storia dell’arte italiana’. Nel 1925, Ojetti fu tra i firmatari del ‘Manifesto degli intellettuali fascisti’: la sua adesione al fascismo, che tanti feroci giudizi gli attirarono nel secondo dopoguerra, fu sostanzialmente priva di intima convinzione ideologica. La sua educazione culturale, infatti, ed una formazione di tipo liberale, costituivano degli anticorpi resistenti ad ogni forma di totalitarismo. Nel 1925, Ojetti diventò direttore del ‘Corriere della sera’.
Col famoso discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini si attribuì poteri dittatoriali, fra cui quello di concedere o negare il visto alla nomina dei direttori dei giornali. Il giornale più prestigioso era il ‘Corriere della Sera’, il cui direttore, Luigi Albertini, si era fino allora distinto nell’opposizione al fascismo. Senatore del regno, rispettatissimo non solo in Italia, ma anche all'estero, e per di più comproprietario del giornale, la sua estromissione non era facile, e ancora meno la sua sostituzione. Per la prima fu stabilito che gli azionisti di maggioranza, che erano i tre fratelli Crespi, acquistassero la quota di Albertini al prezzo da lui richiesto. Per la sostituzione ci voleva un nome che non facesse troppo rimpiangere, come autorevolezza, quello di Albertini, e che non poteva essere che quello di Ojetti, che lo diresse fra il 1926 ed il 1927. Ojetti però, non avendo la penna per fare il lodatore del regime e del suo capo, rimase a quel posto poco più di un anno per tornare alla sua diletta ‘terza pagina’ di arte e di cultura. «Col fascismo Ojetti – scrive Montanelli – convisse da gran signore che considerava la politica roba da portinaie, cercando solo di combatterne, nel campo dell'arte, gli aspetti più volgari e pacchiani. Era Accademico d'Italia, ma lo sarebbe stato sotto qualsiasi regime ne avesse istituita una».
Nella conduzione del ‘Corriere della sera’ non dimenticò mai la tradizione del giornalismo; un certo stile nel linguaggio, nella titolazione, nei caratteri, riversando soprattutto il suo impegno nella terza pagina attraverso gli articoli denominati ‘Cose Viste’ seppe raccontare il costume italiano attraverso minuziose ricostruzioni di luoghi, paesaggi, volti, avvenimenti, con descrizioni ed osservazioni profonde.
Inoltre, nel 1926, Ojetti fu presidente dell’Alfa.
Nel 1929, Ojetti fondò e diresse ‘Pegaso’ e pubblicò ‘La pittura italiana dell’Ottocento’.
‘Pegaso’ fu una rivista di lettere e arte, fondata a Firenze, nel 1929, da Ugo Ojetti, con la collaborazione di Giuseppe De Robertis e Pietro Pancrazi. Distaccandosi dall’estetismo dannunziano, Ojetti seppe accogliere le novità introdotte da ‘La Voce’ e ‘La Ronda’, dando ampio spazio alla prosa d’arte, oltre che a interventi critici e filologici. Ojetti ebbe tra i suoi collaboratori Riccardo Bacchelli, Massimo Bontempelli, Emilio Cecchi, Curzio Malaparte, Alberto Moravia, Giovanni Papini, Enrico Pea, Elio Vittorini, e critici come Francesco Flora, Attilio Momigliano, Giorgio Pasquali, Mario Praz.
La rivista, edita a Firenze da Le Monnier ed in seguito, dal 1932 al 1933, a Milano-Firenze da Treves-Treccani-Tumminelli, riporta, nel primo numero del gennaio 1929, una lettera d'apertura indirizzata a ‘Sua Eccellenza’ Benito Mussolini, dove Ojetti dimostrò di preoccuparsi dello stile fascista che doveva nascere in arte e in letteratura. La rivista apparve subito specializzata nell'ambito della letteratura italiana moderna e contemporanea con diversi saggi di Diego Valeri e Giuseppe De Robertis sull'Ottocento-Novecento e brani di nuovi articoli da ‘Inverno malato’ di Alberto Moravia, da ‘Avventura d'estate’ di Corrado Alvaro, dal romanzo ‘L'Andreana’, pubblicato a puntate, di Marino Moretti a opere di Massimo Bontempelli e Guido Piovene.
In ‘Pegaso’, come in seguito nella rivista ‘Pan’, fu professato un generico buon gusto nelle arti nazionali tradizionali, ma furono rifiutate tutte le forme sperimentali e d'avanguardia dell'arte novecentesca, dal futurismo, all'impressionismo, alla psicanalisi. Emilio Cecchi, in un articolo del giugno 1929 dal titolo ‘Argomenti-Psicoanalisi’, si dichiara diffidente del rapporto letteratura-psicanalisi nella paura che la conoscenza psicanalitica possa portare «pericolosamente a sovvertire strutture e ad allineare difese interne». Nel 1933, la rivista non fu più pubblicata.
Nel 1930, Ojetti divenne ‘Accademico d’Italia’ e pubblicò ‘Bello e brutto’. Nel 1931, egli scrisse Sessanta, raccolta di aforismi, massime e pensieri per i quali, oggi Ojetti è celebre.
Il 1933 fu un anno denso per Ojetti: fondò ‘Pan’, rivista fondata sulle ceneri della precedente esperienza fiorentina della ‘Rassegna di lettere ed Arti, Pegaso’ e la diresse fino alla sua morte; fu collaboratore e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Enciclopedia Italiana Treccani; fondò e diresse la collana ‘Le più belle pagine degli scrittori italiani’ per la casa editrice Treves; pubblicò l’Atlante della storia dell’arte.
Pan fu una rivista di lettere, arte e musica, essa, infatti, può essere definita antologica, cioè, disposta ad accogliere nelle sue pagine personalità completamente diverse fra loro, con interessi che spaziano dalla letteratura antica all’arte, dai problemi edilizi alle manifestazioni culturali più importanti. La rivista professava un sollecito ossequio a tutte le forme del regime, condivideva gli obiettivi di grandezza nazionale e di ordine nuovo da instaurare nella società italiana e dava il suo pieno consenso ai miti della civiltà latino-mediterranea e del fascismo universale.
Redatta da Giuseppe De Robertis e dal giovane Guido Piovene per la Rizzoli, Pan, a confronto della rivista Pegaso, che l'aveva preceduta, allargò gli orizzonti a interessi più ampi, spaziando dalla letteratura greca e latina, alla storia, alle arti figurative, secondo un ideale di ‘Humanitas’ completamente antinovecentesco e filofascista che fu espresso nel numero del gennaio 1934, nell' ‘Avvertenza al lettore’.
Via via, si incontrano firme il più possibile assortite: da un lato elementi antifascisti, quali Eugenio Montale, Massimo Mila, Francesco Flora e Concetto Marchesi; dall’altro lato, figurano nomi di scrittori e critici fascisti, come Ojetti, Monelli, Comisso e D’Amico. Alcuni collaboratori si trovarono alla ribalta della vita politica di quegli anni: Cipriano Efisio Oppo, deputato al parlamento, Emilio Bodrero sottosegretario. Questo fattore giocò in modo del tutto favorevole alla rivista, che si propose subito priva di pregiudizi ideologici, ma attenta soprattutto alla qualità di ciò che pubblicava. Ojetti era memore del problema, che già in altro momento aveva dibattuto sui giornali: in Italia coloro che scrivono non si preoccupano del pubblico, ne trascurano il gusto e non cercano con la varietà e l’incremento della produzione di interessarlo alle lettere e alla cultura. Di qui, le varie attrattive, anche esteriori, del nuovo periodico. Di qui, i saggi di letteratura e d’arte, le varie collaborazioni di prosatori e di poeti, dovute per lo più alla penna di scrittori giovani.
Il periodico che si presentava al grande pubblico con l’eleganza della sua veste tipografica e con la ricchezza delle illustrazioni, prendeva il nome da un dio onnipresente, che, col suono della sua siringa, scacciava le nuvole e da ogni parte era seguito dall’eco e che, quando da giovane fu condotto da Mercurio, fu battezzato Pan, affinché desse gioia a tutti gli dei. Si può quindi ipotizzare che Ojetti pescasse nel repertorio mitologico classico scegliesse proprio un dio che scacciava le nuvole, con il proposito di portare luce in un mondo che si stava sempre più oscurando all’ombra del regime e che forse Ojetti, nonostante l’atteggiamento costante di omaggio al fascismo, aveva ben intuito.
Il I fascicolo della rivista, uscito il 1° dicembre 1933, si apriva con un corsivo, indirizzato al lettore, nel quale è possibile intuire quali sarebbero poi state le coordinate che avrebbero indirizzato Pan e in cui si avverte l’ambizione di fornire al pubblico le migliori istanze culturali europee.
La rivista diede spazio a scrittori giovani e meno giovani ed ospitò i nomi più autorevoli della cultura italiana dell’epoca. Il primo fascicolo di Pan tenne fede all’intonazione umanistica della divulgazione e proseguiva con una nota di Ugo Ojetti sugli scritti di Benito Mussolini. Pietro Pancrazi vi scriveva un primo saggio su Guido Gozzano, mettendo in luce alcuni aspetti della poesia gozzaniana del tutto nuovi; Cipriano Efisio Oppo vi commentava i risultati di una mostra parigina su Renoir e seguiva uno studio di Giorgio Pasquali sul concetto di razza. Il quadro informativo si arricchiva di una serie di recensioni a cura di Enrico Falqui, Eugenio Montale, Giuseppe Fiocco e Massimo Mila. Il fascicolo si chiudeva con una rassegna delle maggiori pubblicazioni italiane e straniere, uscite nel corso dell’anno nei settori della letteratura italiana e tedesca, dell’arte e della musica. Questa fu una rassegna molto esauriente che spaziò anche nei fascicoli successivi, fino alla letteratura russa, francese e nonché al teatro.
Col succedersi dei numeri, fu dato sempre maggiore spazio alle rassegne bibliografiche. Ciò diede a Pan una maggiore aderenza alla realtà culturale. Inoltre, nel primo fascicolo, l’attenzione si concentra sull’articolo, firmato da Ojetti e dedicato agli ‘Scritti’ di Benito Mussolini e in cui emerge l’esaltazione di Mussolini-capo.
Nel gennaio 1934, Pietro Solari intervenne con un articolo, forse tra i più ambigui di Pan, sul fenomeno del razzismo. Solari fu critico nei confronti dei nazisti, che dopo un anno, si illusero di poter imprimere una svolta nella storia dell’arte tedesca. Solari, però, non pose delle riserve assolute di fronte allo spirito razzista cui la nuova arte si ispirò: «Sarebbe troppo facile sottoporre questa estetica razzista, nella quale non parla la ragione ma la fede, alla fredda lente dell’ironia». Invece, di netto dissenso furono le ‘Notizie’ del fascicolo di aprile dello stesso anno, in cui si stigmatizzò che autori del calibro di Thomas Mann furono ridotti ad una citazione di passaggio. Di contro, aumentò il consenso davanti ad autori comodi al regime, ma di scarso spessore letterario.
Restando nell’ambito letterario, è significativo considerare un articolo di Emilio Cecchi, scritto nel numero di maggio di ‘Pan’ e, dedicato allo scrittore americano William Faulkner. In quel secolo, l’America era considerata un sogno, un mito, l’attuazione di ciò che era solo potenziale.
Anche in questo caso, la linea di Pan rimase salda alla tradizione, infatti, dall’articolo di Cecchi si evince che il suo giudizio sull’America non è privo di pregiudizi e di riserve. Inoltre, lo spazio dedicato alla letteratura straniera era minimo, infatti, le ‘Notizie’ che trovavano spazio alla fine dei vari fascicoli, si occupavano di letteratura francese, tedesca e russa, ma in maniera asettica e descrittiva.
Inoltre, non è trascurabile lo spazio che la rivista dedica al cinema nella sezione “Notizie” con il titolo appunto di “Cinematografo”. Ancora una volta, l’atteggiamento di Ojetti non è quello di servire il regime. È importante sottolineare che questa rubrica era improntata ad uno stile asciutto e descrittivo. Nel 1935, il regime intraprese una politica di programmazione cinematografica e, quasi contemporaneamente, Pan non ospitò più la rubrica dedicata al cinema. Ojetti eliminò questa sezione della rivista perché, fedele al proposito di soddisfare i lettori, si accorse che il cinema li interessava meno. Infatti, nel numero di novembre del 1934, Ojetti fece un resoconto sugli introiti degli spettacoli, resoconto che fu negativo. A dicembre del 1935, Pan cessò la pubblicazione, senza alcun segno premonitore, escludendo il trafiletto apposto alla fine di un articolo di Giacomo Antonini, uscito nel numero di ottobre e che diceva: «In ottemperanza alle disposizioni del Ministero di Stampa e Propaganda, da questo mese ‘Pan’ esce in fascicoli ridotti di un quarto».
‘Pan’ seguì le disposizioni in totale assenza di spirito critico, coerente con la sua impostazione letteraria. Per due mesi, il numero delle pagine fu ridotto di un quarto e, a dicembre, la rivista, che aveva segnato il punto cardine all’interno della stampa specializzata, cessò la pubblicazione.
Nel 1934, Ojetti fondò e diresse I classici italiani per la casa editrice Rizzoli, e pubblicò il secondo volume dell’ ‘Atlante di storia dell’arte italiana’.
Nel 1936, Ojetti egli pubblicò ‘Ottocento, Novecento e via dicendo’, nel 1937, organizzò la mostra ‘Mostra Grottesca’ agli Uffizi e pubblicò Sessanta.
Nel 1938, Ojetti pubblicò ‘Più vivi dei vivi’ e nel 1942, ‘In Italia l’arte ha da essere italiana?’.
Nel 1943, Ojetti aderì alla Repubblica di Salò: era un vecchio distrutto dall'Alzheimer, inchiodato in carrozzella, completamente gestito di una moglie fascista che aveva anche purgato i taccuini di Ojetti di tutto ciò che per lei sapeva di critica al regime.
Ojetti morì nella sua Villa, Il Salviatino, a Firenze il I gennaio 1946. Sulla lapide dove riposa, nella Badia Fiesolana vi è il seguente epitaffio: «Qui riposa Ugo Ojetti, Romano. Amò e servì le Arti e la Lingua d'Italia. Le più limpide e umane sulla terra e per questo care a Dio».
Nel 1946, scrisse Montale, in occasione della sua scomparsa: «fare di Ojetti un letterato italiano-tipo per colpire tutta una classe di italiani pensanti e scriventi è troppo facile ed ingiusto».
Nel 1954, sua figlia Paola pubblicò i ‘Taccuini’, documenti straordinari sia dal punto di vista storico sia culturale dell'Italia tra la Grande Guerra e la crisi del regime fascista, in cui si ripropone al lettore di oggi il costume del tempo, la geometria espressiva e la finezza dello stile di un giornalista colto ed autorevole. Nel 1957, furono pubblicati ‘D’Annunzio. Amico, maestro, soldato e Ricordi di un ragazzo romano’. Nel 1965, fu pubblicato ‘Lettere alla moglie’.
Ojetti cercò di unire la tradizione umanistica italiana con le nuove tendenze in atto nella cultura italiana. Nel saggio, Ugo Ojetti, alla luce del suo impegno come critico d’arte, ripropone la figura di un protagonista della cultura italiana della prima metà del Novecento. Le sue proposte erano state accolte con viva ed esplicita approvazione dal pubblico presente, a testimonianza del vivo interesse suscitato dall'argomento e dalla necessità evidente di restituire all'arte una sua dignità e il suo valore intrinseco, quale forma creativa di conoscenza e di ricerca del bello e di contrastare la tendenza contemporanea di attribuire all'arte strutture e forme espressive del tutto autonome dai contrasti storico culturali della società in cui essa si sviluppava.
Il vero Ojetti da ricordare e da prendere a modello è quello dei sette volumi di ‘Cose viste’ e dei ‘Taccuini’. Nella memorialistica italiana, non c'è nulla di comparabile a queste pagine per gusto, per capacità di osservazione e per sottesa cultura.
Dominìka Somma

venerdì 4 settembre 2009

Ugo Spirito: un maestro classico di modernità. Note biobibliografiche di Lucia Cascone

Un gruppo di studiosi, raccolto attorno alla Fondazione Ugo Spirito, ha recentemente intrapreso il progetto di pubblicare, presso l’editore Luni, le più significative opere di Ugo Spirito, una delle coscienze più lucide ed inquiete della filosofia contemporanea italiana ed europea. Questa iniziativa si inserisce organicamente in una ripresa degli studi sulla tradizione filosofica novecentesca in Italia, molto segnata dalla parabola del neoidealismo nella prima metà del secolo, una corrente che, con il tramonto del regime fascista, è caduta nel dimenticatoio, a causa delle tumultuose trasformazioni del dopoguerra e delle ansie innovatrici, e talvolta alquanto velleitarie dei tempi più recenti.
Queste nuove edizioni si caratterizzano non solo per l’impegno filologico, seguendo indiscutibili criteri di precisione documentaria, ma anche per l’accuratezza con la quale si sono voluti ricostruire genesi e significato del pensiero di Ugo Spirito, portando all’attenzione dei lettori la consistenza speculativa e l’attualità del pensiero attualistico e problematicistico.
Di grande rilievo è l’analisi del momento cruciale che segnò il distacco di Spirito dall’attualismo per cercare vie nuove, momento individuato nella persecuzione subita da Spirito proprio all’avvio della sua carriera universitaria, ostacolata da quanti non perdonavano all’allievo, forse prediletto, di Gentile le sue vedute sulla corporazione proprietaria, oggettivamente pericolose per gli interessi degli imprenditori, sui quali si poggiava la solidità economica dell’Italia fascista e lo stesso consenso al regime.
Spirito era promotore di un fascismo di sinistra, controcorrente e destinato ad una crescente marginalizzazione, senza giungere, tuttavia, ad una vera e propria rottura col regime nemmeno negli anni della guerra.
La ricostruzione delle interpretazioni dell’opera di Spirito, dei legami che questo filosofo coltivò con altri grandi esponenti della cultura italiana e delle critiche, simpatetiche o distruttive, alle quali fu sottoposto il suo pensiero, nella sua minuziosa precisione rende conto dell’ampiezza delle risonanze e della consistenza delle posizioni assunte da Spirito, pensatore che mantenne sempre viva la consapevolezza della dimensione di ricerca insita nell’esistenza e quindi nella riflessione, anche al prezzo di andare controcorrente.
Ugo Spirito nacque ad Arezzo, il 9 settembre 1896, dall’ingegner Prospero e da Rosa Leone, e trascorse la sua adolescenza nell’ambiente provinciale di Caserta e di Chieti: i suoi interessi spaziavano dalla fotografia, alla telegrafia Morse e all’arte: dipinse, infatti, numerosi quadri, ma durante gli anni della formazione universitaria ed in seguito alle critiche dell’amico Mario Praz, bruciò quasi tutto. Frequentò il Ginnasio-Liceo G.B. Vico di Chieti, dove ebbe come professore di filosofia Emilio La Rocca, che esercitò su di lui un’influenza profonda e duratura e con cui mantenne sempre stretti contatti.
Il 10 gennaio del 1918, Spirito assistette per la prima volta ad una lezione di Giovanni Gentile, allora all’inizio del suo insegnamento romano e, nel dicembre dello stesso anno, si laureò in giurisprudenza con una tesi su I doveri inerenti al diritto di patria potestà.
Spirito, però, continuò gli studi e, il 10 luglio del 1920, si laureò in Filosofia con una tesi su Il pragmatismo nella filosofia contemporanea. Nel 1921, Spirito vinse il premio Corsi dell’Università di Roma e pubblicò la sua tesi su Il pragmatismo a Firenze nel 1921: ad essa Ernesto Buonaiuti dedicò un ampio articolo su Il Tempo del 12 marzo.
Nel 1922, Spirito conobbe Benedetto Croce che, su suo invito, accettò di far parte della redazione de La nuova politica liberale: con Croce, in seguito, Spirito entrò in polemica e, dopo il 1923, la rottura fu definitiva.
Nel 1923 Spirito, vinse ancora il premio A. Loria per il concorso indetto dall’Università di Torino, collaborò, insieme con Carmelo Licitra ed ad Arnaldo Volpicelli, alla fondazione ed alla direzione della Nuova politica liberale (successivamente chiamata Educazione politica e, poi, Educazione fascista); dal gennaio 1923 al luglio 1924 diresse la rivista Educazione nazionale.
Ugo Spirito primeggiava su tutti per impegno didattico e per capacità di coinvolgimento degli studenti: il suo metodo puntava, infatti, sull'apprendimento dell'arte di pensare, anziché di nozioni specifiche. Le sue lezioni erano rinomate, quanto i suoi pomeriggi di discussione del giovedì: tre ore, non di lezione, ma di discussione serrata su un problema filosofico, uno soltanto per un intero anno accademico ed al concetto di sogno fu dedicato un anno. Ai giovedì di Ugo Spirito intervenivano tante e diverse persone: gli studenti, i numerosi assistenti e inoltre partecipanti di varie età, convinzioni e provenienze. Ugo Spirito ascoltava tutti, rilanciava la discussione e guidava la discussione verso nuove prospettive interpretative. Volendo indicare un tratto distintivo del pensiero di Ugo Spirito, si può affermare che esso consisteva nella curiosità e nel rispetto per qualsiasi posizione. Non esisteva per lui una parola definitiva, ma la ricerca della verità doveva essere portata sempre ulteriormente avanti.
In Spirito la ricerca dell’incontrovertibile sembrò acquietarsi per parecchi anni in virtù della fede nell’attualismo, nell’adesione alla filosofia di Giovanni Gentile, che aveva soddisfatto l’esigenza metafisica dell’assoluto: «L’aveva soddisfatta perché, uscendo dalla certezza scientifica di senso comune propria del positivismo, aveva ribadito tale certezza, dando ad essa un fondamento speculativo di gran lunga più critico e più persuasivo». Dall’interno dell’attualismo, intanto, si erano determinati alcuni dubbi sostanziali che assumevano dimensioni sempre maggiori e tali da investire insieme la sicurezza scientifica e quella filosofica. Ma questa volta i dubbi non potevano essere superati, facendo ricorso ad un’altra metafisica. Ora, invece, con la crisi della nuova metafisica, la sensazione del vuoto diventava dominante. La speranza di una nuova certezza assoluta non poteva essere ragionevolmente alimentata dalla situazione che si era determinata. «Bisogna riconoscere che una sola via poteva aprirsi e fatalmente porsi: la via di capovolgere la situazione e far diventare incontrovertibile proprio la mancanza di quella sicurezza e di quell’assoluto di cui si avvertiva l’assoluta necessità. All’incontrovertibile positivo si doveva sostituire l’incontrovertibile negativo».
Nel 1925, Spirito fu uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, e del fascismo fu il teorico del Corporativismo; e nello stesso anno pubblicò la Storia del diritto penale italiano.
Nel 1927, Spirito, con Arnaldo Volpicelli, fu fondatore e direttore del periodico bimestrale Nuovi studi di diritto, economia e politica, nella convinzione programmatica che «lo specialismo scientifico non è atomico particolarismo, ma distinzione che si ritaglia e si articola nell’unità del sapere e della vita spirituale». Questa tesi fu ulteriormente esplicitata da Spirito in una comunicazione presentata nel maggio del 1929 al VII Congresso Nazionale di Filosofia, nella quale giunse alla formulazione dell’identità di scienza e filosofia, nel tentativo di ritrovare la vera filosofia nella politica, nella pedagogia, nel diritto e nell’economia.
Spirito dopo aver aderito assai giovane all'attualismo gentiliano, di cui fu uno dei più brillanti interpreti, se ne distaccò gradualmente negli anni Trenta, pur senza rinnegarne alcuni principi di fondo: Spirito cominciò così ad elaborare una concezione speculativa che definì problematicistica.
Nel 1930 Spirito pubblicò L’idealismo italiano e i suoi critici e, nel 1932, lasciò l'insegnamento della filosofia ed accettò la cattedra di Economia corporativa a Pisa, che Bottai gli propose e nello stesso anno pubblicò I fondamenti dell’economia corporativa; il 25 Marzo del 1932, Spirito espose le proprie idee a Mussolini, che espresse, a riguardo, la sua piena approvazione, successivamente resa publica su Il Popolo d'Italia il 3 ottobre e a Ferrara, al II convegno di studi sindacali e corporativi, espose la teoria della corporazione proprietaria, per un definitivo superamento della concezione tradizionale della proprietà privata: fu attaccato da tutti, industriali e sindacalisti, trovò l'appoggio di Mussolini, ma non fu sufficientemente sostenuto da Giuseppe Bottai.
In questi anni Spirito diresse la Collezione di Classici del Liberismo e del Socialismo.
Nel 1933, Spirito pubblicò Scienza e filosofia. Spirito in quest’opera sottolineò con forza la non inferiorità della conoscenza scientifica rispetto alla conoscenza filosofica, l'impossibilità di sopprimere la scienza nella filosofia e la necessità di stabilire tra esse un'organica collaborazione. Si trattava, insomma, di fare sul serio scienza che sia filosofia e filosofia che sia scienza, in un costante nesso dialettico.
In questa prospettiva Spirito chiamava la propria concezione attualismo costruttore, in quanto vedeva il pensiero chiamato ad un'elaborazione attiva, costruttrice appunto, per un perseguimento di sapere e di certezze (mai definitive) da condursi non lontano, ma dentro le scienze positive.
Nel 1935, Spirito partecipò al concorso per il premio della R. Accademia dei Licei per gli studi corporativi, ma le proprie opere non furono esaminate dalla commissione: in via riservata alcuni membri gli comunicarono che il premio gli sarebbe stato assegnato, se contro di lui non ci fossero stati insormontabili pregiudizi di carattere politico. Nel 1937 Spirito pubblicò La vita come ricerca, nel 1939 pubblicò Dall’economia liberale al corporativismo, nel 1941 pubblicò La vita come arte.
Nel 1948 Spirito pubblicò Il problematicismo, in cui egli giunse finalmente ad una fondazione più compiuta del proprio pensiero. In che cosa consiste allora il problematicismo? Spirito risponde, dicendo che dire problematicità significa in primo luogo dire insoddisfazione e conseguente ricerca incessante della soluzione o della soddisfazione. Il suo filosofare accade «con l'occhio rivolto unicamente alla verità cui si anela, senza subordinare la ricerca a nessun presunto valore, a nessuna autorità ha nessuna pressione del senso comune e della forza della tradizione». «Ciò che io posso affermare senza timore di smentita è che sento il desiderio di dare una conclusione al mio discorso, di togliere in esso ogni contraddizione che la conclusione renda impossibile o gratuita. Ora, finché rimango in tale situazione, cercando di uscirne, ma non avvertendo di esserne effettivamente uscito, l'istanza critica non degenera in alcuna forma di dogmatismo. Il problematicismo, cioè, è inconfutabile. Ed è inconfutabile perché, a differenza di tutte le altre conclusioni, quella del problematico non è più negata, ma confermata dalla constatazione del suo carattere contraddittorio. In altri termini, l'unica differenza rispetto alle altre posizioni è che – ammesso il circolo vizioso – il problematicista aggiunge di non saperne uscire. La confutazione non basta a farlo mutare di via, perché è già scontata in partenza. La sua posizione diventa inconfutabile o insuperabile nei riguardi di ogni critica negativa, perché l'ammissione di tale critica è proprio il fondamento del suo argomentare». Tutto questo comunque non condusse Spirito allo scetticismo più radicale o alla disperazione. Al contrario, se il problematicismo segnò la consapevolezza di una crisi totale, potette prepararsi al domani con la speranza di un mondo che era illuminato da una luce non illusoria. Il nostro animo, dice Spirito, si apre all'avvenire, lasciando cadere tutti i paraocchi, con un desiderio di vero non diminuito da alcuna presunta certezza. E questo è possibile perché bisogna riconoscere l'assolutezza formale di ogni affermazione umana. Non appare possibile, infatti, che l'uomo apra bocca senza dare alla propria parola un valore di certezza senza riserve e perciò il carattere della universalità e della necessità logica. Per quanto si trattava di affermare la problematicità, la relatività o l'erroneità del proprio discorso, sta di fatto che l'elemento dubitativo o addirittura negativo, e esplicitamente riconosciuto, diventa contenuto di un’affermazione che lo trascende e la cui certezza non è affatto compromessa dal riconoscimento compiuto.
Come ben s'intende, la prospettiva teorica sopra accennata esigeva non solo un nuovo concetto di scienza, ma anche un nuovo concetto di filosofia. Ed è proprio tale esigenza, congiunta con un'interpretazione estremamente mossa e complessa del rapporto conoscenza-realtà e uomo-mondo, che sta alla base del problematicismo di Spirito. Problematicistica la concezione del pensatore romano lo è anzitutto per l'abbandono dei fondamenti metafisico-assoluti cari alla tradizione idealistico-attualistica. La sostituzione del concetto gentiliano di Atto con quello di vita e di prassi vuole appunto esprimere in prima istanza il privilegio di un orizzonte dotato di una terrena, concreta, imprevedibile (e proprio per ciò problematica) pluralità di forme e di valori.
Problematicistica tale concezione lo è poi anche (e soprattutto) per l'insistita e appassionata interpretazione della filosofia come problema e non soluzione, apertura e non conclusione; processo di dubbio che tende a diventare sempre più radicale. Alla luce di tutto ciò non sorprende che Spirito accentuò il modus operandi della ricerca quale carattere peculiare della filosofia. La ricerca pone, infatti, in luce la struttura costitutivamente aperta, complessa, problematica, anzi addirittura antinomica della vita. Pensare la vita (questo, per Spirito, è uno dei compiti primari della filosofia) significa accettare la sfida dell'antinomia sempre risorgente e che non dà tregua sollevata appunto dalla vita. Da questo punto di vista né il razionalismo metafisico, né il positivismo, né l'irrazionalismo offrono adeguate soluzioni, perché tendono a superare o a dissolvere l'antinomia. Solo lo storicismo ha imboccato la strada giusta, quella della soluzione dialettica dell'antinomia, ma non l'ha portata ad una realizzazione completa, esasperandone invece l'aspetto intellettualistico. Per Spirito si tratta invece di articolare ulteriormente questa soluzione dialettica, ancorandola all'uomo concreto che vive nell'esigenza sempre più imperiosa di allargare i limiti della propria esperienza, tendendo all'ideale di un'esperienza totale.
Tale soluzione dialettica è resa trasparente nella vita assunta come arte, cioè assunta nelle dimensioni di immediatezza, tensione vissuta, creatività che si manifestano nel modo più evidente e intenso nell'attività lato senso estetica. Quell'arte da cui abbiamo tratto i motivi per caratterizzare l'immediatezza spirituale di chi ricerca, se ha potuto veder slargati i propri limiti fino a coincidere con la vita, resta poi, nella sua specificità, a segnare i punti culminanti della vita stessa, in quanto protesa nello spazio per raggiungere l'universale (La vita come arte, I). La dimensione dell'arte è poi allargata e integrata da Spirito con quella dell'amore: dell'amore come fruizione appagante dell'immediato e come unità profonda con gli altri uomini ricercanti, che vanno riconosciuti nella loro costitutiva diversità e per ciò stesso amati.
Tale conclusione portò Spirito a modificare in parte il suo pensiero, passando dal problematicismo ad un nuovo tipo di problematicismo che egli chiamò onnicentrismo.
L'accentuazione del pluralismo dell'esperienza e della diversità negli esseri umani trova la propria definitiva formulazione teorica nella già ricordata concezione onnicentristica. Anch'essa, per Spirito, era essenzialmente un'ipotesi, che un giorno avrebbe dovuto, come tutte le altre, essere superata e accantonata. Tuttavia per ora interpreta efficacemente la condizione spirituale dell'uomo contemporaneo: la sua coscienza della precarietà dell'esperienza e insieme il suo bisogno di assolutezza.
Nell'ultima fase del suo pensiero, Spirito approfondì gli assunti del problematicismo nella direzione di una dottrina definita onnicentrismo: una visione filosofica radicalmente immanentistica che da un lato sottolineava l'infinita pluralità e relatività del mondo e dall'altro valorizzava la positività del tutto e la centralità di ogni cosa, approfondendo insieme il principio della ricerca, vista come lo strumento più adeguato, per appropriarsi di questa realtà polimorfa e contraddittoria.
Nella prospettiva dell'onnicentrismo la vita si fa atto di radicale affermazione in ogni sua forma: forma che è sempre assoluta in quanto centro, relativa in quanto periferia, e che si identifica così col mondo, con la realtà assunta nella sua poliedricità e nella sua attualità, caratterizzata dalla pluralità dei suoi centri, sempre in movimento in se stessi e rispetto agli altri.
L'onnicentrismo è anche in grado, per Spirito, di ispirare un nuovo umanesimo, che deve essere affermato sul terreno sia etico-sociale sia educativo. Si tratta di un umanesimo che riserva uno spazio privilegiato alla scienza, rivaluta più in generale tutte le attività dell'uomo (a cominciare dal lavoro) e accoglie in sé anche la dimensione della religiosità, interpretata come il senso dell'assoluto e dell'infinito. In tale contesto, l'uomo è riportato alla società e il suo conoscere e il suo agire diventano realtà collettiva; la vera trasformazione è data dalla sostituzione del soggetto sociale a quello singolo, e la sostituzione non può non ingigantire le possibilità della conoscenza e dell'azione.
«Si deve ammettere, inizia Spirito, che nonostante il non sapere, la vita del problematicista continua in una serie di decisioni e di scelte che sono in contraddizione con l'assenza affermata di ogni criterio di valutazione. Il che ci porta a riconoscere che in fondo la vita, e cioè la parola non può essere che un atto radicale di affermazione. Sì che io potrò dubitare di tutto e di tutti, ma non del criterio con cui dubito e che solleva il dubitare ad assoluto sapere. Io dunque so e non posso non sapere. Tutto è assoluto: tutto è in ogni cosa è perciò niente è vano. È chiaro che se ogni parola è assoluta, ogni parola è necessariamente verità: ogni parola esprime la verità perché esprime tutto il mondo in una centralità originale e libera; essa non può non essere vera perché non può non essere un fatto, come ogni altro fatto dell'universo». Giudicare significherà allora, dice Spirito, «costruire il mio quadro, pronunciare la mia parola, ordinare i miei valori ma non mai giudicare l'altro in quanto altro, con me stesso in quanto giudice. Il fatto che io non possa giudicare l'altro vuol dire semplicemente che non posso vivere della sua centralità: io non sono responsabile di fronte all'altro, come l'altro non è responsabile di fronte a me, ognuno dei due, essendo responsabile unicamente di fronte a se stesso e cioè nell'ambito della propria realizzazione. Ma il vero e il bene vivono negli altri come in lui, e l'unità è sempre realizzata perché il reale è uno in ognuno; tutto sarà sempre macrocosmo e microcosmo». Queste furono le ultime parole di Ugo Spirito. Non sono però quelle finali della sua ricerca: infatti, dopo aver riconosciuto che, comunque, i caratteri costitutivi dell'onnicentrismo rimangono quelli della ipoteticità e della inverificabilità, egli ci lascia con una domanda in sospeso: «Il problematicismo si è trasformato per il riconoscimento dell'impossibilità di problematizzare se stesso e per la constatazione del dogmatismo della posizione ipercritica. Potrà avere diversa sorte l'ipotesi dell'assolutezza di ogni parola?»
Nel 1949, Spirito prese parte al I Congresso Nazionale di Filosofia che si tenne in Argentina, dal 30 marzo al 9 aprile; nello stesso anno egli fu nominato presidente a vita della Fondazione G. Gentile per gli studi filosofici.
Nel 1953 Spirito pubblicò La vita come amore, nel 1955 pubblicò Significato del nostro tempo.
Nel 1956, Spirito si recò in Unione Sovietica, proprio nel delicato momento del passaggio dal regime di Stalin a quello di Kruscev, con il quale ebbe un lungo colloquio di circa tre ore. Uno dei frutti di questo viaggio fu costituito dal saggio Comunismo orientale e comunismo occidentale. La sostanziale delusione del comunismo realizzato portò Spirito a misurarsi con un nuovo elemento che lo affascinò particolarmente, la scienza.
Nel 1961 Spirito pubblicò Inizio di una nuova epoca, nel 1964 Spirito pubblicò Nuovo umanesimo, nel 1966 Spirito pubblicò Dal mito alla scienza.
Nel 1975, come presidente della Fondazione G. Gentile, Spirito organizzò, con L'Istituto dell'Enciclopedia Italiana e la Scuola Normale Superiore di Pisa, l'importante convegno internazionale su Il pensiero di Giovanni Gentile, tenendovi una relazione intitolata Gentile romano.
Nella prima fase del proprio lavoro Spirito, fu essenzialmente un divulgatore entusiasta ed un apologista instancabile dell'attualismo. Tale fase fu avviata già con la prima opera Il pragmatismo nella filosofia contemporanea del 1921, e fu proseguita col più importante volume L'idealismo italiano e i suoi critici del 1930, in cui era riconosciuto a Gentile il ruolo di massima guida filosofica, perché in lui, il concetto di filosofia si esplicava nella sua piena dialetticità e lo spirito annulla ogni alterità e si afferma nella sua infinità creatrice. Tuttavia, già con Scienza e Filosofia, Spirito delineava una prospettiva per più versi originale ed autonoma rispetto all'attualismo, collocandosi con Guido Calogero ed altri su quel fronte che fu detto della sinistra attualistica.
Il principale obiettivo della sinistra attualistica era di mantenere sì il primato gentiliano del fare (l'Atto) ma, insieme, di demetafisicizzarlo: di ancorarlo cioè al concreto agire degli uomini entro il concreto orizzonte mondano. Mentre però Calogero sviluppò questo programma in direzione essenzialmente etica, considerando esaurita e conclusa quella che chiamava la filosofia del conoscere, Spirito si impegnò intensamente proprio nell'ambito della problematica gnoseologica, pervenendo a risultati assai diversi da quelli cui erano giunti Gentile e Croce.
Per quanto riguarda il carteggio tra Calogero e Spirito è bene precisare subito la consistenza e le caratteristiche. Si trattava di 57 tra lettere e cartoline postali inviate da Calogero a Spirito.
Siamo quindi di fronte ad un epistolario di una certa consistenza purtroppo incompleto, che lo rende meno utile di quello che sarebbe stato se completo.
Le lettere riguardano perlopiù comunicazioni relative alla concreta attività di ricerca e di insegnamento di due studiosi, e poi di due professori universitari.
Nel 1975 Spirito organizzò, con la collaborazione dell’Enciclopedia italiana e della Scuola Normale Superiore di Pisa il primo convegno su Giovanni Gentile.
Nel 1977 Spirito tenne una conversazione alla Rai sul tema: Cos'è il corporativismo moderno.
Anche negli ultimi anni la casa di Ugo Spirito continuò ad essere meta di incontri ed era frequentata specialmente da giovani che venivano a cogliere, dalla voce del maestro, i frutti di un'esperienza singolare di vita interiore ed intellettuale.
Ugo Spirito morì improvvisamente a Roma il 28 aprile. Dopo la morte del filosofo è stata costituita la Fondazione Ugo Spirito.
Lucia Cascone.

Massimo Bontempelli: 900 tra fascismo e Stracittà di Massimo Capuozzo

La rivista 900. Cahiers d’Italie et d’Europe – della quale si sono interessati A. Saccone, col suo saggio Massimo Bontempelli: il mito del ‘900 del 1979 ed Elena Urgnani in Sogni e visioni. Massimo Bontempelli fra surrealismo e futurismo, del 1991 che, nonostante sia un po’ datato, ho trovato ancora molto valido, soprattutto per alcuni paragrafi del primo capitolo come Impegno politico e coscienza ideologica e Bontempelli come intellettuale mediatore fra gli Apparati del Potere e il Popolo – fondata e diretta da Massimo Bontempelli – uno degli autori più rimossi dalla coscienza critica contemporanea – nel novembre del 1926 e con la condirezione di Curzio Malaparte, era pubblicata a Roma in francese, nei primi due anni, ed in italiano, nei due anni successivi, con cadenza trimestrale: solo nell'ultimo anno essa fu pubblicata con cadenza mensile.
Bontempelli fu sempre molto riservato su tanti aspetti di questa iniziativa: non ne è nota, infatti, la genesi come tornaconto del regime fascista, ma si può ipotizzare, basandosi sul fastidio percepito da Mussolini che, nella ridefinizione storica delle origini del fascismo, inciampava spesso nella parola Futurismo, dietro di cui c'erano decenni significativi della vita ideologico-culturale italiana e che non gli piacesse sentire l’anziano, ma sempre esplosivo Marinetti duce dei futuristi, proclamare – durante le serate futuriste tra il 1921 e il 1924 – sullo stesso piano la potenza mentale delle calvizie elettriche di D'Annunzio, Mussolini e Marinetti.
Mussolini poteva essere interessato ad un movimento di idee che ponesse indirettamente fine all’insistente Futurismo storico, ancora molto clamoroso ed invadente. Malaparte, per la sua posizione di fascista estremista ed intransigente, già incaricato di creare e di costruire il mito del duce, si mostrava l’intellettuale più adatto ad accogliere i desideri di Mussolini: per questo, Malaparte dovette ricevere qualche incitamento, sebbene egli avesse già scoperto la necessità di un'Italia barbara, in possesso di propri caratteri, spontanei e contadini.
900 nacque quindi quasi certamente col consenso di Palazzo Venezia, affinché fosse assestata una battuta d'arresto al Futurismo, considerato l’unica avanguardia, offerta alla giovane letteratura italiana. Mussolini, sempre pronto a stimolare ogni iniziativa culturale non contraria ideologicamente al regime, sostenne anche l'impresa Bontempelli-Malaparte, dalla quale si aspettava la nascita di una letteratura celebrativa del Fascismo, diffusa in Europa attraverso una rivista scritta in francese, circostanza questa che costituì già il primo grande fraintendimento tra 900 e Mussolini.
Ma chi era Massimo Bontempelli? Per comprenderne la figura ed i suoi rapporti con il fascismo, è opportuno fare un passo indietro.
Nato nel 1878, Bontempelli era entrato molto tardi nel Novecento, dopo aver rifiutato un suo passato tradizionalista, quando, congedato nel 1919, aveva pubblicato Il Purosangue, un volume di poesie, scritte tra il 1916 e il 1918, di vaga ispirazione futurista, era stato tra i fondatori del Fascio Politico Futurista di Milano ed aveva composto Siepe a Nordovest un’opera teatrale, anch’essa intrisa di vago sapore futurista. Nel 1920, Bontempelli aveva pubblicato il romanzo La vita intensa, già pubblicato a puntate tra marzo e dicembre del 1919 in Ardita, supplemento mensile de Il Popolo d'Italia, il giornale diretto da Mussolini, e, nel 1921, il romanzo La vita operosa, storia di un reduce che vuol buttarsi negli affari, narrata sullo sfondo di una Milano esplosa e collassata, come si presentava nel dopoguerra, alla vigilia del Fascismo. I soggiorni parigini, nel 1921 e nel 1922, avevano messo Bontempelli in contatto con le nuove avanguardie francesi, che avevano cambiato profondamente la sua icona dell'artista moderno: i brevi romanzi La scacchiera davanti allo specchio, del 1922, ed Eva ultima del 1923 denotano infatti, uno stile ispirato all'arbitrio irrazionale ed alla casualità apparente dei sogni, un'impostazione di scrittura, che presenta fortissime assonanze con il Primo manifesto del Surrealismo di André Breton del 1924. Quando si stabilì a Roma, Bontempelli, ormai convinto assertore del Fascismo, nel quale vedeva lo strumento politico più adatto a traghettare l’Italia nella società moderna, prese parte al Teatro degli Undici, fondato da Stefano Pirandello, Stefano Landi ed Orio Vergani, e strinse amicizia con Luigi Pirandello, che lo spronò a scrivere anche drammi per la sua compagnia: da quel sodalizio erano nati due pezzi teatrali, Nostra Dea, del 1925, di cui fu protagonista Marta Abba, e Minnie la candida del 1927, la cui messa in scena fu curata dallo stesso Pirandello.
Su questo scenario ideologico – fra futurismo, surrealismo e fascismo – si innesta l’idea di 900.
In una lettera pubblicata sulla terza pagina de Il Tevere – un giornale spregiudicato ed combattivo fondato e diretto da Telesio Interlandi – Bontempelli chiarì le ragioni del suo progetto di 900: «La rivista sarà redatta in francese perchè ha intenzione: 1) di segnalar bene la parte che l’Italia ha (contro l’opinione comune) nella formazione di un’atmosfera poetica nuova; tanto nuova che il nostro tempo è, credo, il preludio di una nuovissima terza èra, dopo il classicismo cha va da Omero a Cristo (escluso), e il classicismo che va da Cristo al balletto russo (compreso), come ho già annunziato altre volte. 2) di far più intenso tale contributo col buttare addirittura audacemente in gara i giovanissimi valori italiani con i men giovani valori delle altre Nazioni. 3) di ottenere che sieno essi valori italiani, esportandosi e penetrando, a premere sugli stranieri e informarli di sé, contrariamente a quanto è avvenuto in tempi più timidi. Per ottenere questi fini mi occorre una lingua che sia ampiamente letta in Europa. Ad altri il compito di imporre la lingua italiana a tutto il mondo della cultura; ma sarà un lento lavoro. Spero che tra 10 anni 900 potrà essere scritto in italiano e così letto in tutta Europa. Per ora, se lo scrivessi in italiano lo leggerebbero 1000 italiani e 50 stranieri; in francese lo leggeranno ugualmente quei 1000 italiani, più 5000 stranieri, secondo il computo infallibile che abbiamo fatto Suckert [Malaparte n. d. a.] e io quando abbiamo preso la risoluzione che ha destato tante apprensioni. Uno dei caratteri che credo necessario fomentare nella letteratura moderna, è la immaginazione inventiva, la facoltà di creare miti, favole, personaggi, così vivi da mantenere il solido della loro vita, anche tradotti, anche rinarrati in altre forme. Una delle riprove del valore di un’opera novecentista sarà la sua traducibilità. Per ciò ai giovanissimi che stanno con me in questo tentativo orgoglioso impongo questo sacrificio e questa minorazione; di presentarsi senza l’aiuto e il vantaggio del loro idioma; e quale idioma!».
Bontempelli diresse un comitato internazionale di redazione, costituito da intellettuali come gli italiani Alberto Moravia, Corrado Alvaro, Renato Barilli, Emilio Cecchi, Antonio Aniante, Marcello Gallian, Alberto Spaini e stranieri come André Malraux, Philippe Soupault e Blaise Gendrars, M. Jakob, Virginia Woolf, D.H. Lawrence, Ramón Gómez de la Serna, James Joyce, Gorge Kaiser, Pierre Mac Orlan e dal terzo numero il sovietico Il'ja Grigorevic Erenburg, ed ebbe due segretari di redazione, Corrado Alvaro a Roma e Nino Frank a Parigi.
900, tuttavia, nonostante avesse come collaboratori dei non allineati al Fascismo, non era una rivista antifascista, anzi fiancheggiava il regime, infatti, al gruppo era molto vicina Margherita Sarfatti che, per alcuni aspetti, anche se indiretti, ne dovette essere mentore. Di qui nascevano il suo europeismo e la sua antidemocraticità. Ma il suo era un europeismo nazionalisticamente inteso tanto che egli scrive «nel momento stesso che ci sforziamo di essere europei, ci sentiamo perdutamente romani», nonché, convintamente antidemocratico, scrive: «oggi abbiamo in Europa due tombe della democrazia ottocentesca. Una è a Roma, l'altra a Mosca».
È opportuno a questo proposito ricordare che la nascente diplomazia fascista aveva riconosciuto diplomaticamente l’Unione Sovietica, con un atto formalizzato il 7 febbraio 1924, evento questo che – secondo Manfredi Martelli nel suo Mussolini e la Russia del 2007 – faceva dell’Italia fascista il primo paese europeo a riconoscere la Russia comunista.
In quattro preamboli – Giustificazione, Fondamenti, Consigli, Analogie –pubblicati in francese nei quaderni dell'autunno 1926, nel marzo e nel giugno del 1927, e tradotti nel 1938 dallo stesso Bontempelli, lo scrittore aveva costituito un articolato programma culturale, che esponeva le principali linee dell'azione novecentista.
«Il compito più urgente e preciso del secolo ventesimo, sarà la ricostruzione del tempo e dello spazio». Così inizia l’articolo La ricostruzione del tempo e dello spazio con cui Bontempelli illustra nel primo numero della rivista gli obiettivi di 900, che, con la sua diffusione e con il suo comitato di redazione internazionali, voleva – sprovincializzando la cultura italiana e portandola a contatto con la letteratura europea – aprirsi alle esperienze letterarie dell'epoca – surrealismo, espressionismo e dadaismo – e voleva promuovere un consenso estetico di massa, fondato sul realismo magico e sui miti moderni, che avrebbe finalmente sancito l'accordo tra gli intellettuali e il regime.
Non a caso 900 tradusse e diffuse autori stranieri – nel giro di soli tre anni, 900 ospitò il dadaista Ribemont-Dessaignes e il surrealista Soupault, fece conoscere per la prima volta in Italia sezioni tradotte dall'Ulisse di James Joyce e da La signora Dalloway di Virginia Woolf, riportò il Profilo di George Grosz, scritto da Ivan Goll, gli inediti di Anton Čechov e Le memorie postume del vecchio Teodoro Kusmic di Lev Tolstoj – e predilesse l’ispirazione metafisica della cultura europea.
Bontempelli come Carlo Carrà operò una mediazione fra moderno ed antico, basata sull’allusività e sulla magia dell’oggetto, ma diversamente dai metafisici e similmente a Mario Sironi ricercava nuovi linguaggi che potessero aprire ad una comunicazione diretta con il pubblico e che permettessero la nascita di un nuovo rapporto tra l’intellettuale e le grandi masse della società moderna: la costruzione degli intrecci, l’abbandono del culto della forma, la formulazione del criterio della traducibilità, in base al quale l’opera migliore era quella che meglio si prestava alla traduzione in altre lingue e, più tardi, quella che poteva diventare soggetto cinematografico senza snaturarsi.
Tutto questo nasceva dall’aristocratica consapevolezza intellettuale delle limitate qualità del destinatario-massa, interessato di più alla vicenda e al suo scioglimento ed attratto soprattutto dalle immagini, che in quegli anni iniziavano a riempire le pagine delle riviste.
La rivista, sostenendo che il Novecento avesse avuto inizio con la guerra mondiale, oltre che come decisa presa di posizione contro l'Ottocento, si pose in una posizione di recupero del Novecento letterario. Polemizzando contro la tradizione veristica del tardo Ottocento, e nel contempo, contro la letteratura accademica fatta soltanto di raffinatezza stilistica, Bontempelli teorizzò un’arte che superasse ogni limitazione grettamente realistica e trasfigurasse in favola il dato reale attraverso «precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata al suolo e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso l’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la nostra vita si proietta».
Per Bontempelli «la tradizione è la cosa più strana che esista. Anzi non esiste affatto: è una formula a posteriori, è una finzione giuridica con la quale la storia letteraria accomoda tutto». Dell’idealismo esasperò la componente irrazionalista: il mito e la magia divennero, infatti, gli strumenti teorici ed ideali del rinnovamento delle arti e del presente con i mezzi dell’evasione metafisica – mitologia, magia e mistero – tanto che sulla rivista teorizzò la sua poetica del realismo magico, una peculiare combinazione di fantasia, di avventura e di intelligenza, in cui l’intellettuale rifiutava la realtà, vivendo in un senso magico, incardinato nel surrealismo francese e nella cosmopolitica vita moderna, ed accostandosi così a Pirandello le cui affinità sono state ben rilevate da Simona Micali che, nel suo studio scrupoloso ed appassionato Miti e riti del moderno del 2002 di questi scrittori, osserva che essi invece di confrontarsi con la tradizione mitologica, si imposero di creare dei nuovi miti nel ventesimo secolo.
Nel citato articolo La ricostruzione del tempo e dello spazio, Bontempelli definì i caratteri fondamentali del realismo magico: «Piuttosto che di fiaba, abbiamo sete di avventura. La vita più quotidiana e normale, vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio continuo, continuo sforzo di eroismi o di trappolerie per scamparne. L’esercizio stesso dell’arte diviene un rischio di ogni momento. Non esser mai certo dell’effetto. Temere sempre che non si tratti d’ispirazione ma di trucco. Tanti saluti ai bei comodi del realismo, alle truffe dell’impressionismo. Nessuna norma, nessun dato di confronto per giudicare i risultamenti. Non sarà possibile combinarvi sopra alcun aristotelismo. Siamo sempre sulla corda tesa o sulla cresta di un flutto: e tuttavia sorridi e accendi la pipa. Nessuna legge: ma ogni opera, ogni capitolo, ogni pagina, detterà a se stessa la propria ferrea legge unica, che non deve più servire un’altra volta. Ecco la regola di vita e d’arte per cent’anni ancora: avventurarsi di minuto in minuto in cui o si è assunti in cielo o si precipita».
Già con la particolare suddivisione della storia della civiltà occidentale in tre epoche, Classica, Romantica e Contemporanea, Bontempelli, aderendo alla concezione ciclica, all’utopia della rigenerazione del tempo e della storia attraverso l’inizio di un nuovo ciclo, teorizza la necessità di elaborare nuovi miti popolari con nuovi contenuti e con nuove forme, comprensibili e godibili da tutti, proponendo la riscoperta di un approccio vergine ed infantile, un ritorno ad un’infanzia creatrice come Pirandello vagheggia un ritorno all’originaria sorgente archetipica. La storia non è più la condanna dell’uomo cacciato dal paradiso degli archetipi e scagliato nel tempo profano, privo di guida e di conforto, ma diventa rappresentazione del mito nuovo, spazio sacro del rito di rigenerazione collettiva, che per Bontempelli è palingenesi storica e politica, per Pirandello è palingenesi morale ed estetica.
La mitopoiesi novecentista di Bontempelli si delinea in due direzioni, da un lato offre una sorta di quotidianizzazione del mito, dall’altro opera una mitizzazione del quotidiano: l’amore, il sogno, sono altrettanti miracoli, che solo l’animo candido riesce a vedere.
Le esperienze intellettuali mitopoietiche di Pirandello e di Bontempelli, come del resto quelle del futurismo marinettiano, sono contigue, pur essendo autori che si differenziano notevolmente nella loro poetica. Ma far derivare la loro mitopoiesi dalla comune matrice fascista sarebbe troppo semplicistico, perché le adesioni al fascismo di Bontempelli e di Pirandello ebbero natura e significato diversi ed il forte interesse del fascismo nei confronti del mito, palese per le sue potenzialità di cementare la coesione collettiva e di legittimare il potere, era orientato soprattutto verso il consolidamento di mitologie tradizionali, manipolate in modo da supportare il regime e per caratterizzare i suoi riti collettivi. Il fascismo invece non provò mai un particolare interesse nei confronti dei nuovi miti, deludendo le aspettative di Bontempelli e di Pirandello, che si aspettavano maggiori consensi di quelli che in realtà le loro opere ricevettero, sia dal regime sia dal pubblico fascista.
Il rapporto Pirandello-Bontempelli non fu solo di pura filiazione – come già affermò Leone de Castris in Storia di Pirandello, del 1962 – ma Bontempelli concorse a certe atmosfere di realismo magico di alcune opere drammaturgiche, verificabili in lavori pirandelliani degli anni Trenta come Lazzaro, ma, più tangibilmente riscontrabili nelle due ultime opere La favola del figlio cambiato ed I giganti della montagna, dove si nota un ulteriore avvicinamento di Pirandello a Bontempelli: accomunati dall’idea di voler offrire al pubblico miti moderni, i due rivelano le stesse modalità di produzione. In La favola del figlio cambiato, opera in versi composta in funzione de I Giganti della montagna, si assiste ad una fiaba che resta sospesa tra verità fiabesca e consapevole illusione. Questa ambiguità e questa vaga sospensione tra vero e illusorio, tra fiaba e realtà, e soprattutto l’atteggiamento di Pirandello nei confronti del meraviglioso e dell’onirico, coincidono perfettamente con quello novecentista bontempelliano.
900 nasceva tuttavia imbrattata di tutte le lordure: in francese, con un comitato di direzione nel quale, accanto a Bontempelli, figuravano i nomi di quattro scrittori europei assolutamente anticonformisti, liberali al limite dell'anarchia, estranei al concetto paesano e ottocentesco che Mussolini possedeva della cultura, come lo spagnolo Ramon Gomez de la Sema, l’irlandese italianizzante James Joyce, George Kaiser, caposcuola del teatro espressionista tedesco, ed il fumiate francese Pierre Mac Orlan; i segretari di redazione inoltre erano, a Roma, Corrado Alvaro, antifascista e redattore del Mondo di Amendola e Cianca, ed a Parigi Nino Frank, emigrato e associato ai gruppi di opposizione democratica già usciti clandestinamente, dall'Italia dopo l’assassinio Matteotti. Il motivo antifuturista che avrebbe potuto incontrare l'approvazione e la convenienza di Mussolini, si sfaldava e si diluiva in ragioni teoriche, espresse nel preambolo di Bontempelli al primo fascicolo, che proclamavano la giustezza delle idee di Benedetto Croce che aveva scritto: «Il problema attuale dell'estetica è la difesa della classicità contro il romanticismo, del momento sintetico e formale e teoretico, in cui è il proprio dell'arte, contro quello affettivo, che l'arte ha per istituto di risolvere in sé, e che ai nostri giorni le si rivolta contro e cerca di usurparne il posto». E Bontempelli annunciava nella prima pagina del primo fascicolo di 900 proprio questa restaurazione come compito il più urgente e definito del XX secolo, cioè quella ricostruzione dello Spazio e del Tempo e, perciò, della Immaginazione. Bontempelli non poteva esprimere una professione di fede crociana più schietta, di quella contenuta in un altro passaggio della stessa Giustificazione, dove proclamava l'esercizio dell'arte come un rischio continuo, la impossibilità di leggi regolatrici dell'opera d'arte nella quale «ogni opera, ogni pagina detterà da sé le sue leggi draconiane e uniche, che non saranno più valide per un'altra volta. Regola della vita e dell'arte per cento anni: avventurarsi ad ogni istante, sino al momento in cui non si diventa una costellazione o si crolla». Ma Bontempelli si scopriva anche meglio in un passaggio successivo: «In tutto ciò che si è detto prima, non bisogna vedere un atto d'accusa contro quell'Idealismo che ha strappato la nostra età virile dai rovi nei quali la nostra adolescenza s'era trovata impigliata».
Presto la polemica si scatenò su Bontempelli. Le tare liberali e non-fasciste, l'inviso europeismo, i nomi, tutti molto malvisti a Mussolini, dei collaboratori e condirettori stranieri, tra loro il comunista sovietico Il’ja Ehrenburg, ba­starono a provocare un attacco a tenaglia contro 900 e contro i novecentisti, subito indicati come internazionalisti, comunisti e diventati di colpo esclusivi sostenitori di una forma d'arte metropolitana, meccanizzante, americaneggiante, che si disse dispregiativamente Stracittà.
Queste erano tuttavia accuse infondate poiché tra gli stracittadini si trovavano personalità legate alle origini, al colore e al calore di ben precisi climi poetici: come il catanese Antonio Aniante, i napoletani Giovanni Artieri e Francesco Cipriani, il calabrese Corrado Alvaro e via dicendo; mentre tra gli strapaesani, partigiani di una retorica contadina, si trovavano i raffinatissimi Leo Longanesi e Mino Maccari, provenienti dal più raffinato surrealismo parigino e lo stesso colto e sofisticato Malaparte, già passato attraverso molte esperienze letterarie e non tutte italiane.
900, le cui riviste satelliti erano I Lupi (1928), L’Interplanetario (1928) e Duemila (1929), diffondeva un’ideologia cittadina, industrializzata e borghese, che proclamava il trionfo del moderno sulla tradizione, da realizzarsi nella terza epoca – dopo la classica e la romantica – quella novecentista, caratterizzata dal progresso, dalla massificazione, dall’industrialismo e dall’urbanesimo.
La periodicità trimestrale di 900 durò fino al quinto quaderno del 1927 numero con cui, in seguito alle violente polemiche scoppiate fra Strapaese e Stracittà, e per le quali Malaparte, consapevole anche del valore della tradizione contadina e provinciale italiana, ritirò il suo appoggio alla rivista, passando clamorosamente nel campo opposto, per fondare il movimento di Strapaese, che raccoglieva invece le istanze della tradizione contadina italiana e collaborando con la rivista L’italiano che ne sosteneva le idee.
Bontempelli restò da solo a dirigere 900, ma il dialogo internazionale che aveva tentato di instaurare, il suo miraggio novecentista di aprire la provincia culturale italiana all'Europa e il progetto ad esso collegato di esportarvi una letteratura più giovane e nuova, si svolse in condizioni difficili e sospette, tanto che, dopo il quarto numero, il regime impose a 900 di usare la lingua italiana e l'avventura novecentista di Bontempelli stava per concludersi: nel 1928, Bontempelli, divenuto segretario nazionale del Sindacato Fascista Autori e Scrittori, chiuse la rivista nel giugno del 1929.
Il consolidamento delle sue posizioni arrivò un po' dopo: conclusasi brevemente la parabola della rivista 900, il 23 ottobre 1930 Bontempelli fu nominato Accademico d'Italia, mentre dalla teorizzazione, svolta sulla rivista, della funzione fantastica della letteratura discendeva, tradotta in arte, una serie di romanzi, Il figlio di due madri del 1929, Vita e morte di Adria e dei suoi figli del 1930, Gente nel tempo del 1937 che cominciarono ad imporsi per la generazione di giovani Nelle sue favole metafisiche, nei suoi miti Bontempelli portò a notevoli realizzazioni queste premesse riuscendo a creare atmosfere rarefatte ed irreali, talvolta allucinate, nelle quali il dato reale si carica di una componente visionaria ed evocativa, attraverso una prosa ferma e lucida.
La sua urgenza di ricostruire il Tempo e lo Spazio – scrive di lui Giovanni Artieri – divenne un modo un po’ misterioso, di dire agli scrittori: mettete il naso fuori della finestra, sbattete l'uscio di casa, andatevene per il mondo, a guardarlo e a descriverlo. Tutti quelli che sono usciti dalla matrice novecentista sono stati viaggiatori e descrittori del mondo attorno a loro e non superficiali testimoni e attori dei suoi drammi e commedie. Bontempelli vedeva l'esistenza di un mistero, di una magia anche nella più umile e borghese contingenza.

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