lunedì 19 novembre 2012

Il complesso monumentale della Cattedrale di Amalfi di Massimo Capuozzo

Archi a sesto acuto si intrecciano, appena sotto il timpano, anche lungo la facciata policroma della Cattedrale di Amalfi, caratteristica per la decorazione a fasce bianche e nere, anch’essa di derivazione islamica.
L’opulenza e la maestosità della Cattedrale è il riflesso della ricchezza e della potenza raggiunta dalla città marinara di Amalfi: nell’alto Medioevo, infatti, era una Città-Stato, sede del centro commerciale più importante del Mediterraneo Occidentale e doveva questa sua prosperità economica all’attività mercantile – assai precoce per l’Occidente europeo – che svolgeva con ruolo di mediazione fra le comunità produttrici dell’Oriente arabo-bizantino e le società consumatrici dell’Occidente romano-germanico.
Quello della Cattedrale è un vero e proprio complesso monumentale, infatti è composto da più corpi autonomi, sebbene intimamente connessi tra loro: la scalea con l’atrio d’ingresso, le due basiliche accostate e comunicanti, la cripta inferiore, il campanile ed il Chiostro del paradiso.
Questo complesso sorse in prossimità del mare, nei pressi del Palazzo Ducale e del centro commerciale: la primitiva Cattedrale, costruita nel IX secolo, fu ampliata nel 990, quando il doge Mansone I ottenne da papa Giovanni XV l’innalzamento della chiesa episcopale a dignità metropolitana. Nel 1203 la Cattedrale fu ricostruita e nel 1208 visse il momento più prestigioso della sua storia, oltre ad essere pressoché completata nella sua struttura architettonica: per iniziativa dell’arcivescovo Matteo Capuano e di suo fratello il cardinale Pietro Capuano, furono, infatti, realizzati l'atrio e la Cripta, inoltre, Pietro Capuano, dotto e nobile amalfitano, legato pontificio in Siria che Innocenzo III aveva nominato cardinale, portò ad Amalfi il corpo dell'apostolo, cui era già dedicata la chiesa cittadina. Con l'acquisizione delle reliquie e del crisma dell'apostolicità, la Chiesa amalfitana mostrò il nuovo prestigio. Rimaneggiata negli anni 1526, 1566 e 1691, fu poi ricostruita nel 1701-1731, quando l'arcivescovo Bologna la fece rimodernare nonostante l'opposizione degli amalfitani.
Alla Cattedrale si accede attraverso un atrio porticato, sorretto da 26 colonne di spoglio chiuse nei pilastri, che formano delle trifore con archeggiature acute, e preceduto da una monumentale scalinata di 57 gradini.
L'atrio e tutta la facciata furono completamente rifatti  dall’architetto milanese, ma napoletano di adozione,  Enrico Alvino in collaborazione con Luigi Dalla Corte e Guglielmo Raimondi e con le decorazioni pittoriche di Domenico Morelli, tra il 1889 e il 1891, in uno stile che riecheggia l'architettura normanna in Campania.
La riedificazione della facciata si rese necessaria dopo il crollo di quella originale: il 24 dicembre 1861, infatti, sotto l'azione di un forte vento, un tratto del coronamento, in cattivo stato di conservazione, cadde sfondando una o due volte del sottostante atrio. I danni furono lievi e non statici, ma siccome i lavori portarono alla luce l’antica facciata romanica con archetti, colonnine e mosaici – di cui un frammento del XII secolo è conservato nel Chiostro – fu stabilito di realizzare una facciata simile a quella originaria. Il parere favorevole al restauro stilistico della Giunta delle Belle Arti fece sì che le successive stratificazioni sulla facciata fossero cancellate, ricostruendo la facciata secondo lo stile normanno campano: l’architetto, volendo riprodurre l'originario stile della chiesa, dovette demolire portico, capitelli, cornici, intonaci e paraste del Settecento – opera di Arcangelo Guglielmelli – ma in questo modo andarono distrutte le stratificazioni che si erano sovrapposte nel corso dei secoli.
Il progetto, caratterizzato da un certo gusto scenografico e pittoresco, è definito dai puristi un grosso falso artistico, sebbene esteticamente, ad un fuggevole sguardo, se ne rimanga estasiati. Questo tipo di intervento, tuttavia, non è un fenomeno isolato, infatti, esso si inquadra nel vasto ambito di quelle operazioni chiamate di ripristino in stile, che ebbero notevole importanza nel dibattito per l’architettura rappresentativa per l’Unità d’Italia: le fabbriche medievali furono, infatti, considerate tra le più adatte come nuovo stile postunitario. Per questo motivo, sia in nuovi progetti sia in interventi sul preesistente, si richiamava soprattutto il linguaggio romanico, preferito di gran lunga alle eventuali sovrapposizioni barocche.
Il progetto di Alvino si presenta con una facciata normanno-campana, preceduta da un corridoio che collega il campanile, il chiostro del Paradiso e la chiesa-cappella del Crocifisso. Il progetto fu attuato per riprodurre l’originario carattere medievale della chiesa; per giustificare questo rinnovamento della facciata, si asserì, infatti, che la chiesa era quasi del tutto crollata. La facciata ripropone così l’antico linguaggio della Cattedrale di matrice arabo-normanna, con un portico ad archi acuti intrecciati e motivi decorativi a losanghe: esternamente una tessitura di archi moreschi scaricano su colonnine marmoree, non tutte originali, mentre le pareti interne sono costituite da grossi blocchi di tufo bicromo.
I lavori terminarono nel 1891 e restituirono una facciata di tipo medievale, abbellita dai mosaici ornamentali d’impronta bizantina, araba e normanna, riprodotti dalla ditta Salviati di Venezia da tele e cartoni di Domenico Morelli.
I mosaici nel timpano raffigurano il Cristo dell’Apocalisse in trono, affiancato dai simboli dei Quattro Evangelisti e dalle podestà terrene; sotto il timpano sono raffigurati i dodici Apostoli.
Sotto il portico, si conserva il portale della facciata originaria con gli stipiti scolpiti con un tralcio abitato, risalente al XIII secolo. L'architrave è un rifacimento moderno il cui originale è conservato nel museo.
Nell’interno del portale si trova la pregevole porta “bronzea” di notevole valore a sbalzi d’argento: una porta bizantina, fatta a Bisanzio secondo il modello della chiesa di S. Sofia a Costantinopoli, trasportata via mare e poi montata in loco.
Le porte della Cattedrale di Amalfi fanno parte di un gruppo di quattro esemplari, importati da Costantinopoli nell’XI secolo, ed il ciclo inizia proprio da Amalfi: Pantaleone Comite, tra il 1066 e il 1076 donò anche le porte bronzee di Montecassino, su richiesta dell’abate Desiderio nel 1066, quelle della basilica di S. Paolo fuori le mura a Roma nel 1070 ed infine quelle del Santuario di Monte Sant’Angelo nel 1078.
Tutt’e quattro le porte sono caratterizzate da figure raffinatissime e da uno splendore che doveva rievocare per i visitatori un passaggio attraverso le leggendarie porte d’oro e d’argento di Costantinopoli. Queste porte sono accomunate dal dato stilistico, dalla composizione, dal disegno di cornici, di borchie e di maniglie e soprattutto dalla tecnica dell'agemina in argento e smalto: le immagini sono incise a bulino e nei solchi sono battuti fili d'argento, rame e smalto.
Le porte bizantine si distinguono distintamente dalle altre porte romaniche, che sono invece caratterizzate da un rilievo estremamente plastico e da una vivacità ricca di notazioni espressionistiche: le porte bizantine presentano tutte un rivestimento “bronzeo”, fissato per mezzo di chiodi a capocchia semisferica ad una robusta struttura lignea, mentre le verticali ed i correnti racchiudono pannelli decorati con figure ageminate. Si tratta di una manifattura di gran pregio ed estremamente costosa: queste porte sono, infatti, impropriamente dette di bronzo, in quanto  analisi accurate hanno evidenziato che si tratta di oricalco, una lega ternaria, composta di rame al 62%, di zinco al 17%  – che insieme costituiscono l’ottone – di piombo al 19% e con tracce rilevanti di stagno. L’effetto originario doveva essere impressionante, assai simile a quello della pala d'oro di San Marco a Venezia: oggi purtroppo vediamo battenti scoloriti e tinti di verde dall’azione di ossidi che li hanno aggrediti nel corso dei secoli, ma nell’XI secolo esse dovevano brillare come fossero d’oro. La decorazione è realizzata con il sistema della fusione a stampo a cera persa, con formelle applicate ad un’anima di legno.
La porta del duomo di Amalfi, fusa a Costantinopoli nel 1066 da Simone di Antiochia apre questo ciclo artistico. La croce che si eleva sulla porta, fusa a parte ed applicata con borchie, allude al sacrificio di Cristo sulla croce, attraverso il quale l'uomo ha riconquistato la salvezza eterna.
Le porte di Amalfi, come quelle più tarde di Atrani e di Salerno – molto palesemente ad esse ispirate – presentano come elemento iconografico preponderante la croce fogliata, chiara simbologia della vita eterna riconquistata per l'uomo dal sacrificio di Cristo e molto diffusa soprattutto in ambito bizantino: questo elemento decora venti delle ventiquattro formelle riquadrate dall'intelaiatura. La parte figurata, predominante nella porta della basilica romana di San Paolo fuori le mura, si riduce qui ai due pannelli centrali del terzo e del quarto registro con le finissime figure di gusto bizantino di Cristo Redentore, della Madonna, affiancati da simboli alfabetici greci, nella parte sottostante gli Apostoli fratelli di Sant’Andrea e di San Pietro. La presenza di Sant’Andrea è chiaramente legata al culto diffuso già da tempo nel territorio amalfitano, mentre la presenza di San Pietro si spiega con il fatto che la porta fu realizzata pochi anni dopo lo scoppio del violento Scisma d’Oriente ed in quel frangente Amalfi e la sua Chiesa svolsero un’importante opera di mediazione tra i cattolici e gli ortodossi, salvando numerose vite umane.
Le quattro immagini, ben delineate mediante il panneggio delle lunghe vesti, stilisticamente si esprimono in figure allungate, in gesti bloccati ed in un’accentuata stilizzazione, elementi questi tipici della prima età dei Comneni. Le figure fanno parte della Deesis, un topos iconografico che rappresenta l'intercessione da parte della Vergine e dei santi titolari della chiesa presso Cristo, perché permetta al donatore di entrare nel regno dei cieli ed all'uomo di entrare nel tempio e quindi nel Regno dei Cieli.
La porta mostra varie teste di leone recanti un anello in bocca: una di esse, distinta dalle altre come fattura artistica, risulta essere appartenuta ad un attracco portuale bizantino del IV secolo. Le formelle della porta di Amalfi presentano a ripetizione la croce trilobata orientale posta sul Calvario e, su una di queste croci è trascritto a chiare lettere l’albero genealogico di Pantaleone Comite. Pantaleone apparteneva ad una delle famiglie che doveva la propria ascesa sociale al commercio e che per ricchezza, potenza e prestigio era la più illustre ed influente dello Stato Amalfitano tanto da meritare l’epiteto di Comite, attestante il rango comitale. Il grande mercante, capo della colonia commerciale amalfitana a Costantinopoli, dove per lo più risiedeva, vantava legami con la corte e con lo stesso imperatore Costantino ed era un capitalista largamente in anticipo sui tempi: per motivi di affari, infatti, non si limitava alla sola funzione di intermediazione, ma aveva a Bisanzio, nella zona riservata agli amalfitani, una solida base produttiva i cui interessi si estendevano dall’Africa alla Sicilia, dalla costa sirio-palestinese fino a Bisanzio. Pur vivendo quasi sempre in terra straniera, Pantaleone non smise mai di interessarsi alla sorte della sua città di origine legando il suo nome ad Amalfi con il più importante lavoro artistico che essa possiede, le porte della Cattedrale, probabilmente uscite dai suoi stessi opifici a Costantinopoli.
Sempre all’interno del complesso monumentale del Cattedrale[1], spicca il cosiddetto Chiostro del Paradiso, realizzato fra il 1266 e il 1268, un vero e proprio capolavoro dell’architettura romanica, i cui archi, fittamente incrociati, rivelano ancora una volta chiare tendenze musulmane.
Il Chiostro fu edificato dall'arcivescovo Filippo Augustariccio come luogo di sepoltura per i cittadini amalfitani illustri e, dopo essere caduto pressoché in abbandono nel XVII secolo, fu restaurato nel 1908.
Ad esso, vero e proprio angolo d'oriente nel sud Italia, si accede dal lato sinistro del portico. Il chiostro consiste in un quadriportico con volte a crociera, con archi a sesto acuto intrecciati, tipici dell'arte arabo-normanna, e sorretti da finissime colonnine binate d’influsso moresco: da qui il nome di Paradiso. Il motivo degli archi intrecciati è più complesso rispetto a quello dell'abbazia della Trinità di Cava dei Tirreni, simile al chiostro amalfitano, ma stilisticamente anteriore, mentre la decorazione dell'intradosso degli archi a piani degradanti che sporge dall'abaco dei capitelli lo mette in rapporto con il chiostro di Monreale.
Ai lati del colonnato vi sono sei cappelle affrescate con resti pitture databili tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo raffiguranti una Crocifissione – attribuita a Roberto d'Oderisio – un Cristo PantocratoreStorie dei Santi Cosma e Damiano, e cinque sarcofagi di epoca romana riutilizzati nel medioevo.
Il campanile risale alla seconda metà del XII secolo, iniziato nel 1180 ed ultimato nel 1276 ancora su commissione dell'arcivescovo Augustariccio, nel XVIII secolo, fu restaurato e successivamente nel 1934 ripristinato, liberandolo della veste barocca che lo ricopriva.
Nella parte più antica si trovano delle colonne angolari – come ad Aversa, a Salerno ed a Capua – i piani superiori sono aperti da due ordini di finestre, bifore in basso, decorate da tufo giallo, trifore in alto, decorate da tufo grigio scuro. Il coronamento risale invece al 1276: la cella campanaria è costituita da un nucleo centrale cilindrico contornato da quattro torrette angolari, coperte da un tetto con tegole gialle e nere, concluse da lanterne e presentano ognuna tre monofore, motivo che sembra di derivazione calabro-bizantina ed è stato utilizzato anche in alcuni campanili campani – come quelli di Salerno e di Caserta – qui la copertura è però arabeggiante ad embrici maiolicati gialli e verdi. Gli archi intrecciati sorretti da colonne, i motivi stellari e floreali, le fasce geometriche policrome poste al di sotto del tetto del tamburo centrale, realizzati con maioliche gialle e verdi, offrono una preziosa testimonianza di forme decorative romaniche.
Tra quest'ultimo e la nuova facciata si nota il frontone della primitiva cattedrale di Amalfi, detta cappella del Crocifisso, risalente al X secolo.



[1] L'interno del Duomo si presenta in stile tardo-barocco. Restaurato tra il 1690 ed il 1724 da Arcangelo Guglielmelli il più celebre architetto dell'epoca, l'interno è a croce latina con tre navate divise da 20 pilastri racchiudenti colonne.
Il soffitto, a cassettoni in oro fu eseguito agli inizi del XVIII secolo dall'intagliatore napoletano Francesco Gori, presenta quattro grandi tele di Andrea d'Aste, allievo del Solimena, rappresentanti la Flagellazione di Sant’Andrea, il Miracolo della Manna ed il Santo innalzato sulla croce.
Dello stesso artista è la tela raffigurante la Crocifissione di S. Andrea posta sul settecentesco altare maggiore, ai cui lati vi sono due amboni della fine del XII secolo, decorati di mosaici.
Pregevole è l'antica vasca battesimale di porfido rosso egiziano proveniente da Paestum situata nella prima cappella a sinistra.
In fondo alla navata destra si trova il quattrocentesco sepolcro del vescovo Andrea d'Acunto.
nella prima cappella a destra è la cinquecentesca ancona marmorea raffigurante tre Santi
all'ingresso del presbiterio vi sono due candelabri con decorazioni a mosaico.
Dalla navata sinistra del Duomo, tra la quarta e la quinta cappella, una scala conduce alla cripta che costruita nel 1253 venne rinnovata nel 1719.
Sulle pareti della scala vi è la quattrocentesca tavola raffigurante la Madonna col Bambino ed i SS. Giovanni e Andrea e la cinquecentesca Pietà.
La cripta fu fatta costruire dal cardinale Pietro Capuano per ospitarvi le spoglie di Sant’Andrea Apostolo da lui trasportate da Costantinopoli in occasione della IV  Crociata, evidenzia un ambiente ricavato nell’area del cortile dell’ex palazzo ducale, diviso da una fila di colonne su cui poggiano volte a crociera, che nel XIV secolo furono affrescate con il motivo del “coelum stellatum”  (cielo azzurro con stelle d’oro).
La cripta nei primi anni del XVII secolo, per interessamento di Filippo III di Spagna e del viceré di Napoli, subì una totale trasformazione, in base alla quale fu realizzato un ciclo di affreschi sulla Passione di Cristo. Un affresco in particolare, opera di Aniello Falcone, rievoca l’arrivo di S. Andrea Apostolo (8 maggio 1208) e costituisce un documento storico a riguardo della cattedrale di Amalfi prima delle trasformazioni barocche.
Nella cripta fu realizzato l’altare sopra la tomba dell’Apostolo, opera di Domenico Fontana, presenta la statua bronzea di S. Andrea, opera di Michelangelo Naccherino, allievo di Michelangelo, e sulla trabeazione che conclude l'altare vi sono le statue marmoree di S. Stefano e S. Lorenzo, opere di Pietro Bernini. Marmi policromi fiorentini coprono i pilastri ed alcune pareti; mentre l’emblema imperiale della casa spagnola campeggia sui vetri delle finestre. Sotto l'altare sono custodite le reliquie del Santo patrono, racchiuse tra meravigliose lastre istoriate, emanano una sostanza straordinaria: la Manna.

mercoledì 14 novembre 2012

La Cattedrale di Caserta Vecchia di Massimo Capuozzo


Elementi paleocristiani e bizantineggianti non sono gli unici protagonisti del Romanico campano: ad essi si aggiungono, infatti, motivi arabi e moreschi che dalla Sicilia si diffusero in tutto il Mezzogiorno d’Italia.
È il caso degli archi intrecciati su colonne che decorano l’alto tamburo del tiburio ottagonale della Cattedrale di Caserta Vecchia, risalente al XII secolo. Il tiburio, costruito con pietra dolce bicolore grigio e giallognolo a scacchiera, presenta influssi siciliani che lo accomunano alla contemporanea cattedrale di Salerno e presenta analogie con le chiese di San Giovanni del Toro e di Santa Maria a Gradillo di Ravello della fine del XII secolo, sebbene la cupola di Caserta superi per imponenza quelle più o meno contemporanee della costiera amalfitana. Il tiburio con le sue otto facce, è diviso in due zone: in entrambe il motivo dominante è dato da arcate intrecciate che, nell'ordine inferiore, si sovrappongono a finestra. Il finto loggiato, costituito dalle arcate intrecciate, sorge su un cornicione a dentelli sostenuto da mensolette, ed è sormontato da una cornice più fortemente aggettante, anch'essa poggiante su mensolette variamente ornate. Al di sotto delle cornici corrono larghe fasce decorate con tarsie policrome. Nell'ordine inferiore ritorna il motivo fiorito già presente nelle torri di Salerno e nel chiostro di Monreale: rosoni istoriati, stelle, figure di animali fantastici. Sempre nell'ordine inferiore i sottoarchi includono dischi a motivi geometrici, mentre le membrature degli archi e delle finestre sono rivestite da incrostazioni policrome a disegni geometrici e stilizzati. Ancora influssi arabi, giunti probabilmente tramite l'architettura siciliana ed amalfitana, sono riconoscibili negli archi a ferro di cavallo delle finestre del transetto e negli archetti incrociati che, collocati su due ordini sovrapposti, trasformano la massa volumetrica con accenti linearistici e cromatici, anche grazie alle tarsie policrome che praticamente ricoprono il tamburo.
Splendida e spettacolare, questa cattedrale è un episodio esemplare del romanico campano ed è certamente uno dei monumenti più significativi dell'architettura medioevale nell'Italia Meridionale in quanto presenta ad un tempo influssi provenienti dalla Sicilia con altri provenienti dal romanico lombardo, mediato dal romanico pugliese, ed infine dalla tradizione paleocristiana: si incontrano in questo modo caratteristiche e soprattutto elementi decorativi, derivati dal complesso stile architettonico tipico del romanico siciliano in cui coesistevano elementi normanni con altri arabi e bizantini che giunsero in Campania tramite Amalfi. Altri elementi invece, per esempio il materiale illustrativo scultoreo, sono provenienti da nord o sono filtrati dal romanico pugliese.
La chiesa, dedicata a San Michele Arcangelo, sorge in un borgo medioevale che, fondato dai Longobardi di Capua nel secolo VIII, fu un importante centro fortificato prima longobardo poi normanno e raggiunse il suo massimo splendore fra i secoli XI-XIV.
Costruita a partire dal 1129 sui resti di una precedente chiesa longobarda in cui si venerava San Michele e terminata nel 1153, durante il XIII secolo, la cattedrale subì notevoli modifiche ed accrescimenti: fu arricchita, infatti, del transetto,  della cupola e del campanile con caratteri stilistici che si avvicinano al gotico, sebbene le volte costolonate del transetto sembrino un richiamo all'architettura araba piuttosto che a quella gotica. Nel XVI secolo, sul lato sinistro della cattedrale, fu costruita una cappella quadrata in cui sono rimasti integri gli affreschi medievali. Alla fine del XVII secolo furono effettuati lavori interni che trasformarono l'originario aspetto romanico in quello di una chiesa barocca: fu aggiunto un soffitto ligneo piano decorato da una cornice ornamentale e da dipinti, le pareti furono decorate con stucchi che distrussero precedenti affreschi medievali che ricoprivano le pareti già ritenuti di Pietro Cavallini o in ogni caso della sua scuola, andarono perduti i dipinti del soffitto con la maggior parte del mosaico del pavimento e vari altari furono infine addossati alle pareti delle navate laterali. Nel 1926 un radicale restauro ha riportato la chiesa all'originario aspetto romanico.
Secondo alcuni studiosi, la cattedrale, come nel caso di Sant’Angelo in Formis e del Duomo di Sessa Aurunca, fu costruita ad imitazione della chiesa abbaziale di Montecassino, voluta dall’abate Desiderio che ne volle fare la meraviglia dell’occidente: Montecassino, allora all'apice del suo ruolo di centro spirituale e culturale, diffuse nell'area sud di Roma una tipologia corrispondente a quello della tradizione basilicale paleocristiana. La cattedrale infatti nella prima fase costruttiva presentava una pianta piuttosto semplice a tre navate e con presbiterio a tre absidi allineate, in diretta comunicazione con le navate, senza transetto: uno schema costruttivo di tipo paleocristiano molto diffuso anche in aree circostanti ed uguale a quello della vicina Abbazia di Sant'Angelo in Formis. Solo nella seconda fase costruttiva, posteriore al 1207, ci fu l'ampliamento e la trasformazione della zona presbiteriale, con la realizzazione di un transetto rialzato a tre absidi, coperto con volte a crociera caratterizzate da robusti costoloni, e sulla crociera la cupola. Sulla crociera s'innalza la cupola, di un secolo posteriore alla fabbrica della chiesa essa è uno dei meravigliosi prodotti dell'arte siculo-campana che già aveva espresso le sue prime fantasie decorative nella Cattedrale di Salerno per poi farsi più elegante e immaginosa a Ravello e a Caserta. Nella sua raffinata policromia e nella vibrante grazia decorativa, questa cupola rappresentò uno dei risultati maggiori dell'architettura medioevale in Italia. Dalla navata si accede al transetto attraverso un arcone a sesto acuto.
L'edificio, costruito in tufo grigio campano lasciato a vista, presenta un prevalente colore grigio-ocra che trova precisi riscontri anche a Capua ed a Salerno. La facciata a salienti, di ascendenza lombarda filtrata dal romanico pugliese, riflette l'interno a tre navate. Essa è caratterizzata da: tre portali centinati in marmo bianco di Luni con ornati vegetali che riprendono iconografie antiche, da sculture allegoriche che simboleggiano la Forza e la Potenza della Chiesa con evidenti corrispondenze con le facciate delle cattedrali pugliesi, da due monofore con archivolti riccamente scolpiti terminanti in protomi mostruose ed infine dalla serie degli archetti pensili che percorrono i vari prospetti. Sculture zoomorfe, tra cui dei leoni, sostengono gli architravi e fuoriescono, a mensola in marmo chiaro, dalla muratura: tali mensole trovano corrispondenze nel romanico pugliese,  in particolare a Bari ed a Ruvo di Puglia. 
Sul portale si apre una monofora inquadrata da due colonne poggianti sui leoni. Particolarmente interessante è il timpano triangolare a finta galleria è caratterizzato da una serie di archetti ciechi, tipici dell'architettura romanico-lombarda, intrecciati a formare ogive poggianti su sei colonnine di marmo. Una cornice ad archetti pensili corre lungo tutte le facciate. Ma, oltre che per questi archetti, la facciata acquista animazione per la presenza nel timpano di un loggiato cieco ad archi intrecciati poggianti su colonnine marmoree, evidente richiamo a tanti edifici dell'architettura siculo-mussulmana. I paramenti murari del fianco laterale destro, così come il tiburio, mostrano ampi resti della decorazione, tipica del periodo normanno, in conci di tufo regolari, a faccia vista, disposti a formare figure geometriche ed intrecci.
L'interno della chiesa presenta una pianta a croce commissa in cui la navata centrale, coperta a capriate, è delimitata da 18 colonne monolitiche di spoglio, quasi tutte di marmo cipollino, sovrastate da archi a tutto sesto. I capitelli, tutti diversi l'uno dall'altro (per lo più corinzi ed in diverso stato di conservazione) provengono evidentemente da antichi edifici di età romana imperiale, a parte tre che sono invece di epoca medievale. Essi sono sormontati da una sorta di pulvino di semplice forma parallelepipeda, eredità culturale paleocristiana e bizantina, che serve a compensare la diversa altezza delle colonne.
Sull'altare c’è un crocifisso ligneo di autore ignoto, di rude e provincializzante resa plastica, riferibile alla seconda metà del XIV secolo. Tra la navata ed il transetto c’è un elegante affresco di scuola napoletana del '400 di influenza senese che rappresenta la Vergine col Bambino.
Il transetto ospita due sepolture trecentesche ispirate ai modelli del senese Tino da Camaino attivo dal 1323 a Napoli al servizio del re Roberto d'Angiò.
Il pulpito, realizzato, reimpiegando parti dei due amboni medievali risalenti all’inizio XIII secolo risale all'inizio del Seicento.
Gli unici affreschi superstiti della chiesa sono nella Cappellina trecentesca che è a destra entrando nella chiesa. Al suo fianco, sul muro maestro, recentemente è stato collocato un busto marmoreo raffigurante la Vergine, opera di scuola campana della fine del XIV secolo.
Lateralmente alla chiesa, a destra della facciata, quasi attaccato ad essa sorge l'imponente campanile, terminato nel 1234. Il campanile, massiccia ma slanciata costruzione quadrata che poggia su di un arcone ogivale, è alto 32 metri, manifesta anche influssi gotici, quanto meno nel grande arcone ogivale che al piano terra permette il sottopasso di una strada diretta verso il castello, ma presenta anch'esso il motivo degli archetti incrociati, al primo ordine sopra l'arco. Sovrapposto a questo troviamo due piani ad eleganti bifore ed un originale coronamento ottagonale con una cella campanaria e si conclude con torrette cilindriche agli angoli su cui è ripreso il motivo degli archetti intrecciati.

domenica 4 novembre 2012

Desiderio di Montecassino e Sant'Angelo in Formis di Massimo Capuozzo

A Brigida,
amica e sorella.


Anche in Campania, come in tutte le regioni europee, non mancano episodi di questo affascinante momento dell’arte medievale.
La chiesa primitiva di Sant’Angelo in Formis presso Capua, fu fondata dai Longobardi nella seconda metà del VI secolo, dove sorgeva il Tempio di Diana Tifatina, e fu dedicata all’Arcangelo Michele. In stato di abbandono, nel 1072 fu donata ai monaci di Montecassino, che dovevano costruirvi anche un monastero.
Desiderio (1027-87), abate di Montecassino divenuto poi papa con il nome di Vittore III, a partire da quella data, riedificò ed ampliò la chiesa, dotandola degli affreschi che ne decorano l'interno e che costituiscono uno tra i più importanti e tra i meglio conservati cicli pittorici romanici d’Italia: questi affreschi, in cui, come sosteneva Silvia Dall’Orso, la “tendenza ad una narrazione più libera e corsiva” si affianca all’evidente influenza bizantina, forniscono il meglio conservato esemplare di Bibbia illustrata dell’XI secolo.
Desiderio, beneventano di nascita, fu una delle più vivaci personalità dell’epoca e svolse – oltre che un ruolo politico importante in seno alla lotta per le investiture ed in seno al crollo del potere longobardo nel mezzogiorno e della relativa affermazione del potere normanno – una sistematica azione di riorganizzazione della disciplina monastica ed una programmazione architettonica ed urbanistica che, alla luce dei risultati raggiunti in tutto il territorio circostante, maturò in un contesto di grande attività collettiva della quale egli fu il perno. Intorno a lui fiorirono straordinarie personalità della cultura: gli storici Amato di Montecassino e Leone Marsicano, il poeta-arcivescovo di Salerno Alfano, il fisico ed erudito enciclopedista Costantino Africano con i suoi allievi Attone e Giovanni, l’esperto di retorica Alberico, l’astronomo Pandolfo di Capua, lo scienziato Lorenzo di Amalfi. Grazie all’impulso dato alle attività dello scriptorium di Montecassino in questo periodo si trascrissero, e perciò si conoscono oggi, importanti testi della letteratura classica.
Nei trent'anni in cui Desiderio fu alla guida del monastero, si assistette ad un immenso sviluppo delle risorse materiali dell'abbazia. Grazie alle cospicue donazioni di terre e chiese, la Terra Sancti Benedicti raggiunse un'estensione di circa 80.000 ettari. A ciò si aggiunga l'intensa attività costruttiva di Desiderio, che avrebbe trovato la sua esplicazione più alta nella ricostruzione della basilica di S. Benedetto. L'edificio, alla cui consacrazione nel 1075 presero parte le più alte personalità del mondo politico ed ecclesiastico del momento, fu realizzato grazie anche alla cooperazione di maestranze di origine bizantina esperte nell'arte del mosaico, e, attraverso la sua proposta di recupero di una dimensione paleocristiana ed antichizzante in linea con i contenuti ideologici della Riforma, era destinato a svolgere funzione normativa per la successiva vicenda artistica del Sud della penisola.
Ma Desiderio svolse anche un ruolo politico fondamentale: negli anni del suo abbaziato, Montecassino riuscì a svolgere anche un ruolo di primo piano nel contesto politico dell'Italia meridionale, dove il tramonto della potenza longobarda, l'affermazione dei Normanni, e, in un contesto più ampio, le vicende connesse con la riforma della Chiesa e i rapporti tra questa e l'Impero, stavano creando le condizioni per un'evoluzione dei tradizionali assetti politici di quest'area. Desiderio seppe inserirsi attivamente in tale processo e assecondarlo, proponendosi tra i promotori più attivi di un'intesa tra Normanni e papato.
Fulcro degli interessi di Desiderio fu comunque sempre l'abbazia di Montecassino, che rese centro di cultura e vita spirituale, nonché uno dei più insigni monumenti della cristianità. La sua intensa attività portò Montecassino a diventare un avamposto della liturgia romana nell’Italia meridionale e la cerimonia di inaugurazione della nuova basilica nel 1071 ne fu la prova più tangibile.
Quando era diventato abate, il monastero era cadente: egli lo rinnovò dalle fondamenta, edificando in particolare una nuova basilica, la cui pianta, notevolissima per l'epoca, e rimasta praticamente invariata sino ai giorni nostri. La nuova chiesa aveva il pavimento completamente rivestito di mosaici e porte di bronzo e di argento fatte fondere a Costantinopoli. Lo splendore delle arti si affiancava ad una intensa vita monastica, con oltre duecento monaci ed una fiorente tradizione eremitica nei dintorni e ad una grande dedizione alla cultura: sotto Desiderio lo «scriptorium» monastico conobbe i vertici del suo splendore.
Divenuto papa nel 1086 con il nome di Vittore III, volle rimanere nella sua Montecassino, dove si spense il 16 settembre 1087.
In questa opera di grande ricostruzione e di operazione culturale rientra anche la Basilica di Sant’Angelo in Formis.
Il possente campanile quadrato a bifore, il cui alto basamento è costituito da materiale dell’antico Tempio di Diana, è staccato dalla Basilica fu aggiunto nel XII secolo: esso presenta una fascia inferiore in blocchi di travertino e la parte superiore in cotto.
Il portico, ricordo del nartece paleocristiano, fu realizzato su colonne con archi acuti dallo stile arabo a cinque arcate, con quella centrale molto più alta delle altre: gli affreschi delle lunette, preludio del ciclo decorativo dell’interno, raffigurano l’arcangelo Michele, la Madonna regina e degli episodi delle vite degli eremiti Antonio e Paolo.
L’architettura della Basilica, nella sua armonica completezza, appare con le caratteristiche comuni alle basiliche desideriane. Le tre navate sono divise da 14 colonne con bei capitelli corinzi di materiale di spoglio, molto facilmente provenienti dal tempio di Diana, e terminano con absidi semicircolari.
Il pavimento è in parte lo stesso dell’antico tempio di Diana e in parte medievale. Altri elementi romani, reimpiegati dopo una lavorazione che li hanno adattati alle nuove funzioni: le acquasantiere ed il fonte battesimale attestano il forte legame col passato, caratteristica comune a tutto il romanico.
Le straordinarie pitture all’interno della Basilica sono uno dei più completi cicli narrativi dell’XI secolo ed è confrontabile con le miniature realizzate nello scriptorium dell'abbazia di Monte Cassino: un programma decorativo che occupa le navate, le absidi e la controfacciata.
Sulla base del presupposto di un inizio dei lavori di costruzione avvenuto intorno al 1072, poiché gli affreschi erano eseguiti dopo l’innalzamento delle murature, è possibile ritenere che la loro stesura sia stata avviata poco dopo la fondazione dell’edificio nella zona absidale, per poi estendersi alle pareti perimetrali, alla controfacciata, e a quelle interne del cleristorio.
Gli affreschi furono probabilmente realizzati da alcune botteghe locali, che operarono ispirandosi a modelli bizantini. Va infatti osservato come l’uso di schemi bizantini, evidenziato dalla suddivisione dell’intero ciclo pittorico in pannelli mediante colonnine dipinte, e dalla disposizione delle figure all’interno dei singoli riquadri, sia attenuato da un primo, seppur timido, tentativo di caratterizzazione delle figure, reso evidente dal rosso che colora le guance dei personaggi, e dalle rughe che, con tratti fortemente marcati, ne segnano i volti.
Il contesto culturale e stilistico in cui tali botteghe operarono, risulta ancora più chiaro se si confrontano gli affreschi di Sant’Angelo in Formis con le coeve miniature di produzione cassinese e, in particolare, con quelle che ornano il codice Vat. Lat. 1202 meglio noto come Lezionario di Desiderio, donato al convento dall’abate Desiderio. Le botteghe in questione risentirono, dunque, di quel clima stilistico che affonda le sue radici nella cultura artistica bizantina, e che risulta strettamente legato alla presenza di quegli artisti bizantini, che l’abate Desiderio chiamò a lavorare nel cantiere della nuova abbazia di Montecassino.
Le scene dell'Antico Testamento delle navate laterali e quelle del Nuovo Testamento nella navata centrale, costituiscono un insieme unico, il cui legame è sottolineato dalla presenza dei Profeti[1] nei pennacchi delle arcate saldano l’antico ed il nuovo testamento e rispondono alla volontà di esplicitare e dimostrare che l’Antico Testamento non era altro che il «Nuovo coperto di un velo», come affermava Sant’Agostino.
Il tema della Concordanza tra i Testamenti negli affreschi della basilica vaticana di San Pietro, sicuramente dovette rappresentare il modello di tutte le decorazioni successive di questo genere. La disposizione delle scene in Sant’Angelo è tuttavia insolita: in genere, infatti, gli episodi dell'Antico e del Nuovo Testamento erano raffigurati entrambi nella navata centrale ciascuno su una delle pareti o su due registri sovrapposti. La disposizione di Sant’Angelo può essere dovuta invece alla volontà di far risaltare il ciclo cristologico rispetto a quello veterotestamentario: come l’Antico Testamento è ombra del Nuovo, così gli episodi che lo illustrano vanno visti nell’ombra delle navate laterali, per preparare l’osservatore alla Rivelazione, dispiegata invece nella piena luce della navata centrale.
Le pareti della navata centrale presentano scene del Nuovo Testamento su due registri, tranne per la Crocifissione e l’Ascensione, che li occupano entrambi. Le pareti delle navate laterali presentano storie dell’Antico Testamento, molto danneggiate, di cui rimangono quattordici scene, tratte dai libri della Genesi e dell'Esodo, e la storia di Gedeone, tratta dal libro dei Giudici. Al di sotto, medaglioni con i ritratti degli abati di Montecassino rivelano ancora l'influenza dei principali monumenti romani: i ritratti degli abati hanno tutto il sapore di una citazione dei ritratti dei pontefici nei tondi della basilica di San Paolo fuori le mura.
Il tema centrale svolto dagli affreschi è quello dell’abolizione dei sacrifici dell’Antico Testamento operata da Cristo per mezzo della Crocifissione: al tema si riferiscono gli episodi della cacciata dei progenitori, di Caino e Abele, di Noè, di Abramo e Isacco, la cui comprensione è facilitata dal fatto che tali scene erano ripetute spesso negli edifici e commentate altrettanto spesso nei testi. Tuttavia sono presenti anche scene meno frequenti, come quella di Gedeone, che a Sant’Angelo in Formis è per la prima volta rappresentata nell’arte monumentale, sebbene esempi precedenti possano essere rintracciati nelle illustrazioni dei manoscritti.
Il Giudizio Universale della controfacciata – con i Santi, i Beati, gli Angeli e la rappresentazione  delle pene infernali – ci dà una visione completa di un Medioevo mistico e fantastico e ricalca lo schema iconografico bizantino, particolarmente diffuso in quel periodo: anche in questo caso le scene si suddividono, infatti, in fasce sovrapposte. In alto, tra le finestre, sono raffigurati i quattro angeli con le trombe del Giudizio; nella fascia centrale vi è rappresentato Cristo Giudice con la mandorla apocalittica, tra gli Apostoli seduti sui troni; più in basso i Beati, ed infine i Dannati. Si deduce, pertanto che, basandosi sul dogma dell’Incarnazione, questo ciclo di affreschi tende ad evidenziare il piano provvidenziale di Dio per la redenzione finale e la salvezza eterna dell’umanità, attuato mediante il sacrificio di Cristo, suo figlio.
Tra le scene quella della Maiestas Domini, schema pittorico con il quale Gesù era rappresentato in trono, spesso in mandorla, è comunque uno dei brani pittorici in cui è maggiormente evidente la formazione bizantina degli autori. Essa occupa l’abside centrale e rappresenta, con chiara iconografia bizantina, Cristo in trono tra i quattro simboli degli Evangelisti, mentre, nel registro inferiore, Desiderio con l’aureola quadrata usata per distinguere i personaggi viventi, offre a Cristo il modello della chiesa, gli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele san Benedetto. Tipico dello stile bizantino è infatti lo schematismo geometrico: ciò si nota a partire dal volto e dalla raffigurazione dei panneggi, in cui la linea spezzata e i cerchi concentrici in corrispondenza delle ginocchia sono unico elemento dinamico dell'immagine. Forte è il contrasto fra le tinte: sia nel Cristo sia negli arcangeli i volti sbiancati sono ravvivati dal rosso sanguigno delle gote e dagli aspri contrasti delle vesti che accostano azzurri intensi, gialli e rossi. A questi contrasti cromatrici corrispondono le espressioni concitate dei personaggi.
Anche nell’abside destra l’affresco è diviso in due fasce sovrapposte: in quella superiore vi è raffigurata la Vergine col Bambino fiancheggiata da due angeli ai quali si aggiungono, nella fascia inferiore, sei santi.
Le figure di Santi, dipinte nei pennacchi delle navate laterali, sono successive all’XI secolo. Tale ipotesi potrebbe essere confermata dal confronto con i Profeti dipinti nei pennacchi della navata centrale. Risulta, infatti, evidente dal confronto non solo la posizione statica, ma anche la maggiore imponenza di queste figure, che presentano caratteristiche affini agli affreschi che ornano le lunette del portico, la cui realizzazione è datata dagli studiosi tra il XII ed il XIII secolo.


[1] (a sinistra: la Sibilla Persica o Eritrea; Davide, Salomone, Crocifisso (perduto), Osea, Sofonia, Daniele, Amos e un altro profeta perduto; a destra: Isaia, Ezechiele, Geremia, Michea, Balaam, Malachia, Zaccaria, Mosè, Abdia)

venerdì 8 giugno 2012

L’ultimo D’Annunzio: il delicato rapporto fra due egocentrici di Antonio Barbato


Gabriele D’Annunzio è stato un intellettuale molto vicino al Fascismo e per un periodo è stato da alcuni addirittura preferito a Mussolini come capo del PNF. Le differenze caratteriali, ideologiche e politiche tra D’Annunzio e Mussolini, tuttavia, sono notevoli. La storia di D’Annunzio è stata narrata in tutti i suoi risvolti, le sue opere sono state interpretate in un numero infinito di pagine di critica letteraria e, tuttora, la cultura dominante persiste nel considerare il Vate un anticipatore del Fascismo.
Prima di affrontare la questione legata ai controversi rapporti fra l’ultimo D’Annunzio ed il Fascismo, è opportuno analizzare un aspetto precedente che è il terreno di fecondazione, dal quale il Fascismo trasse uno dei suoi lieviti: la prima guerra mondiale.
Mussolini e D’Annunzio s'incontrarono per la prima volta nel 1914, quando Mussolini si convertì all'interventismo, di cui D'Annunzio era il riconosciuto Vate.
Dopo il periodo francese, nel 1915, D’Annunzio ritornò in Italia, dove rifiutò la cattedra di Letteratura italiana, già di Pascoli, e condusse da subito un’intensa propaganda interventista: il discorso celebrativo, che D'Annunzio pronunciò a Quarto il 4 maggio 1915, suscitò entusiastiche manifestazioni interventiste.
Nel frattempo, il 26 aprile del 1915 era stato stipulato in segreto il Trattato di Londra fra l’ambasciatore italiano Guglielmo Imperiali con  i diplomatici della Triplice Intesa, che preludeva all’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Gran Bretagna, della Francia e della Russia.
Il 24 maggio 1915, appena l’Italia entrò in Guerra, D'Annunzio si arruolò volontario e partecipò ad alcune azioni dimostrative navali ed aeree: per un periodo risiedette a Cervignano del Friuli perché così poteva essere vicino al Comando della III Armata, il cui comandante era Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d'Aosta, suo amico ed estimatore.
Nel gennaio del 1916, durante un’azione bellica, D’Annunzio, costretto ad un atterraggio d'emergenza, subì una lesione all'altezza della tempia e dell'arcata sopraccigliare e ciò comportò la perdita momentanea di un occhio. D’Annunzio visse un periodo di convalescenza, assistito dalla figlia Renata: in quel periodo compose Notturno, pubblicata nel 1921 che contiene una serie di ricordi e di osservazioni.
Contro i consigli dei medici, D’Annunzio continuò a partecipare ad azioni belliche aeree e di terra, che culminarono con il volo su Vienna, da lui stesso progettato.
Il 18 gennaio 1919 iniziò la Conferenza di pace di Parigi, che sarebbe durata oltre un anno e mezzo; rappresentante per l'Italia fu l'allora presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, accompagnato dalla delegazione composta dal ministro degli esteri in carica Sidney Sonnino, dall'ex-capo del governo Antonio Salandra e dal giornalista triestino Salvatore Barzilai.
La questione dei territori che sarebbero spettati agli italiani fu dibattuta dal mese di febbraio, e in quell'occasione Orlando si ritrovò di fronte l'ostilità degli jugoslavi, che miravano a ottenere, oltre alla Dalmazia, anche Gorizia, Trieste e l'Istria, e che l'11 febbraio proposero alla delegazione italiana di affidare al presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson la risoluzione delle controversie sui territori; il netto rifiuto degli italiani provocò disordini a Lubiana, Spalato e Ragusa di Dalmazia, ai quali Orlando rispose rivendicando con fermezza Fiume.
Fu proprio sulla questione legata alla città portuale che l'Italia aveva trovato la grande ostilità di Wilson, il quale, il 19 aprile, avanzò la proposta di creare uno stato libero di Fiume, spiegando che la città istriana doveva essere un porto utile per tutta l'Europa balcanica e che le rivendicazioni dell'Italia nei territori a est del Mare Adriatico andavano contro i quattordici punti da lui stesso fissati l'8 gennaio 1918 con l'obiettivo di creare una base per le trattative di pace, tanto da essere additate come "imperialiste". Nello stesso giorno, il primo ministro italiano lasciò polemicamente Parigi: al suo rientro in Italia, le piazze lo accolsero con grande calore, mentre a Roma, Milano, Torino e Napoli si verificarono disordini presso le ambasciate britanniche, francesi e statunitensi. Orlando ritornò a Parigi il 7 maggio, dopo che, il 29 aprile, la Camera aveva confermato la fiducia al suo governo. Il 4 maggio, intanto, dalla balconata del Campidoglio lo scrittore cinquantaseienne Gabriele D'Annunzio, fervente nazionalista, aveva attaccato duramente l'atteggiamento di Wilson, arrivando a insultarne la moglie in quella che fu un'orazione dai toni simili a quelli d'una dichiarazione di guerra.
L'assenso della delegazione italiana al progetto di Parigi costò al primo ministro la poltrona: la Camera gli negò la fiducia e il governo entrò in crisi. A rappresentare l'Italia alla conferenza rimase Sonnino, mentre Orlando dovette lasciare spazio a Francesco Saverio Nitti, che il 21 giugno ottenne da Re Vittorio Emanuele III l'incarico di formare un nuovo governo. Nitti ottenne la fiducia il 12 luglio; nuovo ministro degli esteri fu Vittorio Scialoja. Il 28 giugno, intanto, a Versailles era stato firmato il trattato di pace.
Alla fine della guerra, D'Annunzio si fece portatore di un vasto malcontento, insistendo sul tema della vittoria mutilata e chiedendo il rinnovamento della classe dirigente in Italia, con aspirazioni verso un cambiamento radicale della situazione politica, un’onda di malcontento di istanze nazionalistiche e reazionarie trovò ben presto un sostenitore in Benito Mussolini che nel frattempo fondava a Milano i Fasci di combattimento.
D’Annunzio cercò l’appoggio delle più diverse fazioni politiche; ogni apporto che si fosse potuto sperimentare in un clima di grande libertà a Fiume fu per lui valido. In questo senso è significativa la collaborazione tra D’Annunzio e De Ambris, il cui contributo sarà fondamentale per la stesura della Carta del Carnaro. Nel confrontare i due carteggi (Mussolini – D’Annunzio e D’Annunzio – De Ambris) entrambi raccolti ed analizzati da Renzo De Felice, si percepisce quanto i propositi di D’Annunzio fossero diversi da quelli di Mussolini. Diversi furono inoltre anche i personaggi che accompagnarono D’Annunzio nella sua impresa.
Furono dei rivoluzionari che rifiutarono un ordine costituito, un governo che privava i popoli del loro diritto all’autodecisione; dei nazionalisti, quindi, animati da un patriottismo sconosciuto agli sbandati che formarono le squadre fasciste.
L’intento, quindi, di D’Annunzio di fare di Fiume un luogo per un primo esperimento rivoluzionario sindacalista da cui sarebbe partita quella rivoluzione in grado di conquistare l’Italia, era condivisa anche dai nazionalisti e dai fascisti che appoggiarono inizialmente l’idea della rivoluzione, ma con il fine di costringere Nitti ad abbandonare il governo.
D’Annunzio, tuttavia, continuò a cercare l’appoggio di Mussolini, in grado di fungere da mediatore con il governo di Roma e di reperire, tramite Il Popolo d’Italia, fondi per la causa fiumana. Il D’Annunzio era convinto che il Fascismo avrebbe avuto un ruolo di scarsa rilevanza nella politica italiana e che, ben presto, egli si sarebbe sostituito a Mussolini nel ruolo di guida di un movimento rivoluzionario.
Il 12 settembre del 1919 D’Annunzio organizzò un clamoroso colpo di mano paramilitare, guidando una spedizione di legionari, partiti da Ronchi di Monfalcone, che occuparono la città, instaurandovi una repubblica da lui presieduta, la Reggenza italiana del Carnaro cui fece seguito la Carta del Carnaro.
Gabriele d'Annunzio, che l'8 settembre aveva pubblicato la Carta del Carnaro e si era proclamato governatore, rifiutò categoricamente di lasciare Fiume: questo malgrado la situazione economica della città, dopo oltre un anno di isolamento, non fosse nelle condizioni migliori, tanto che tra la cittadinanza e i volontari erano cominciati a serpeggiare malcontento e antipatia nei confronti dell'eccentrico Vate.
Persino Mussolini, che aveva appoggiato anche finanziariamente l'iniziativa dell'intellettuale, approvò il trattato di Rapallo, definendolo "unica soluzione possibile" per uscire dal periodo di stasi che caratterizzava ormai la politica estera italiana.
La logica nazionalistica e imperialista dell’impresa fiumana avvicinarono D’Annunzio al nuovo movimento fascista, infatti, quando da poco stavano sviluppandosi i primi fasci di combattimento in tutta Italia, lui era già in Istria per la famosa conquista di Fiume.
L’impresa di Fiume rappresenta una svolta decisiva del processo di decadimento, nella vita pubblica, della crisi dello Stato liberale.
Mussolini sfruttò a proprio vantaggio l’azione dannunziana e colse, nell’impresa fiumana, un’ulteriore occasione politica per la propria affermazione.
Il duce espresse in più occasioni la stima ed il proprio consenso a Gabriele D’Annunzio, reinterpretandone l’azione secondo gli stereotipi nazionalisti della necessità di un’azione decisa che riparasse al torto subito dall’Italia a Versailles e che faceva dunque di Fiume il simbolo della Vittoria Mutilata.
Il 12 del 1920, nasceva nella sala della Giovine Fiume, il Fascio Fiumano, che ebbe tra i propri iscritti lo stesso D’Annunzio.
Notevoli sono le differenze caratteriali, ideologiche e politiche tra D’Annunzio e Mussolini e diversa fu la valutazione e l’interpretazione che diedero del fiumanesimo. Mussolini non seppe in anticipo dell’impresa dannunziana, cosa che esclude che vi sia potuto essere un precedente accordo tra questi e D’Annunzio. Del Vate, inoltre, Mussolini, sebbene ne riconoscesse l’infallibile intuito, sottovalutava le capacità politiche e scorse perciò nella sua impresa una grande occasione propagandistica per sé e per il suo partito. Al tempo stesso intuì la debolezza di un atto che, per quanto eroico, non aveva potenzialità eversive tali da renderlo un pericolo per il governo Nitti.
D’Annunzio visse l’esperienza fiumana con una esaltazione più patriottica che nazionalista: essa fu la grande occasione della sua vita per restituire all’Italia quella unità che il patto di Londra le aveva tolto.
Il 12 novembre 1920, quando fu stipulato il trattato di Rapallo, l’impresa fu vanificata dal governo Giolitti: Fiume diventò città libera, Zara e le piccole isole di Làgosta e Pelagosa passarono all'Italia, ma D'Annunzio non accettò l'accordo ed il governo italiano, il 26 dicembre 1920, noto come il Natale di sangue, fece sgomberare i legionari con la forza.
D’Annunzio e Mussolini non si amarono mai, anche se in certi cruciali momenti si trovarono sulle stesse posizioni e finsero di essere completamente d'accordo nell'immediato dopoguerra, quando i reduci, fra i quali entrambi reclutavano i loro seguaci, furono accolti a sassate e sputacchi dalle folle rosse.
Mussolini sostenne a spada tratta, sul Popolo d'Italia, l'impresa di Fiume non perchè ci credesse, ma perchè indeboliva il governo in carica che non sapeva come affrontarla e risolverla. In realtà, nelle lettere che da Fiume gl'inviava, il Vate non faceva che lamentarsi dell'appoggio puramente verbale che Mussolini gli dava. A sostegno dell’impresa fiumana fu fatta anche una colletta che, nel gennaio del 1920, raggiunse la cifra di 3 milioni, che, però non arrivarono mai a Fiume.  Mussolini si era servito di gran parte della sottoscrizione pro Fiume, per organizzare e finanziare bande di facinorosi utilizzate a scopo intimidatorio durante la campagna elettorale del 1919. La sottoscrizione raggiunse quasi i tre milioni complessivi, ma non si seppe quanto di quella cifra passò nelle mani di D’Annunzio, anche se Alceste De Ambris giurava che Mussolini non aveva trattenuto pìù di trecentomila lire.
Nei suoi articoli, Mussolini appoggiò D’Annunzio, ma nei fatti non gli offrì mai il proprio concreto ed aperto sostegno. Il Mussolini del 1919 è ancora titubante sulla reale capacità rivoluzionaria dei fasci sparsi in tutta Italia. Il Mussolini del 1920 (il trattato di Rapallo è del 12 novembre e chiude il contenzioso con la Jugoslavia) si sente più sicuro con oltre 800 sezioni aperte. Giolitti gli chiese poi di non opporsi al trattato di spartizione e alla azione di forza che scattò a Natale contro D'Annunzio (il Natale di sangue). In cambio emissari di Giolitti, si disse di un incontro al caffè Savini  di Milano, promisero un appoggio alle successive elezioni politiche.
Al contrario, all’indomani del Natale di sangue del 1921, il Comitato Centrale dei Fasci approvò all’unanimità, meno un solo voto, un ordine del giorno di protesta contro Giolitti e di solidarietà con D’Annunzio: quel solo voto contrario era di Mussolini.
Il governo italiano optò per un ultimatum e impose ad un D'Annunzio sempre più isolato di abbandonare la città con le truppe entro il 24 dicembre; dopodiché, nel caso avesse resistito, si sarebbe mosso l'esercito italiano. D'Annunzio sottovalutò gli avvertimenti del governo. Convinto che mai Roma avrebbe attaccato Fiume, mantenne la sua posizione e così fecero i suoi uomini, fino alla vigilia di Natale, alle sei di sera, quando il primo colpo di cannone sparato dalla corazzata Andrea Doria sventrò la residenza fiumana del Vate, che rimase illeso ma optò, il 31 dicembre, per la resa, dopo che negli scontri con l'esercito italiano della settimana precedente cinquanta suoi uomini avevano perso la vita (Natale di sangue).
Il 18 gennaio del 1921 D'Annunzio lasciò Fiume dopo numerosi discorsi di commiato dai legionari, scegliendo di ritirarsi nella sua villa di Gardone Riviera, il Vittoriale. La vita dello stato di Fiume poté avere inizio.
Nei momenti che portarono il Fascismo al potere, D’Annunzio si trovò preso tra propositi diversi: da un lato aspirava ad un nuovo protagonismo personale, ma dall’altro nutriva riserve verso alcuni aspetti del programma fascista e diffidenze verso il personaggio del duce.
Mussolini attraversava un brutto momento: i ribelli il 16 agosto si riunirono a Bologna e all'unanimità accusarono Mussolini sia per il patto sia per la sua linea politica. Mussolini si dimise allora dalla commissione esecutiva dei fasci. Tutto il suo operato stava quasi per franare quando Grandi e Balbo si diedero da fare per creare una fronda per dar vita a una scissione e per sostituire Mussolini.
Grandi e Balbo credevano di avere idee, ma si ritrovano a non avere una guida: ai primi di autunno del 1921 Grandi e Balbo si recarono segretamente a Gardone, cercando inutilmente di convincere D'Annunzio a prendere la guida dei fasci per proporre al Vate di approfittare del grande raduno nazionale di ex combattenti programmato per il 4 Novembre, anniversario della Vittoria, per dare l'avvio ad una Marcia su Roma mettendosene alla testa. Il Vate, che li aveva ricevuti vestito da frate, dopo averli ascoltati, rispose: Fratelli, prima di prendere una decisione così grave, debbo consultare le stelle, e li rimandò all'indomani. Il giorno dopo disse loro che le stelle, coperte dalle nuvole, non si erano rivelate e così andò avanti per quasi una settimana, finché i due, stanchi, se n'andarono imprecando. Mussolini lo seppe, o almeno lo sospettò.
D’Annunzio, ritiratosi dalla vita politica, dopo la sconfitta subita, ammonì più volte i suoi legionari a non far parte delle squadre fasciste ed a mantenere la propria indipendenza se non addirittura passare all’opposizione. L’opposizione di D’Annunzio a Mussolini fu netta, ma non esplicita: il momento non gli permetteva di entrare in aperta polemica con lui, ma tuttavia egli era libero di rifiutare offerte politiche quali ad esempio la candidatura a Zara, che da questo gli provenivano.
Il malanimo tra D’Annunzio e Mussolini rischiò di diventare rottura aperta quando, di fronte alle esitazioni di Mussolini alla presa del potere, i suoi più impazienti seguaci pensarono di sostituirlo col Vate alla guida del Fascismo.
Il 3 agosto del 1922 pronunziò un discorso dal balcone di Palazzo Marino a nazionalisti e fascisti. I fascisti erano in gran fermento e le elezioni dell’anno precedente erano andate male per loro: il paese viveva in uno stato confusionale, disordini e scioperi erano all’ordine del giorno. Mussolini, lontano dal riscuotere quella popolarità che avrebbe permesso agli elettori di catalizzare verso di lui le preferenze, guardava da tempo a D’Annunzio, come ad un nume tutelare, ad uno sponsor che si identificasse con l’idea fascista. Per questo motivo aveva soccorso l’Impresa di Fiume fornendo, con le pagine del Secolo d’Italia e l’apertura di sottoscrizioni, un aiuto sensibile.
Mussolini voleva coinvolgere D’Annunzio nella causa fascista, per ottenere i consensi, sfruttandone la grande popolarità e, sotto questa prospettiva, va inquadrato il discorso di Palazzo Marino.
Il 31 Luglio l’Alleanza del Lavoro proclamò uno sciopero di vaste proporzioni in difesa degli operai, trattati brutalmente dai fascisti ed imponevano al presidente del Consiglio Facta, un ultimatum: 48 ore di tempo per far cessare lo sciopero, altrimenti le camicie nere avrebbero disperso i dimostranti. D’Annunzio in quei giorni soggiornava all’Hotel Cavour a Milano, base dei fascisti e punto dal quale sarebbe partito lo sciopero dei sindacati. Il Vate si era incontrato con Eleonora Duse, ma si teneva in contatto con Mussolini, del quale sostanzialmente diffidava, nel senso che non voleva mettersi completamente nelle sue mani, ma che non poteva nemmeno avversare, visto l’appoggio dato a Fiume. Mussolini fu abilissimo ad incastrarlo, convincendolo ad arringare le camicie nere sotto Palazzo Marino, il 3 agosto, ma D’Annunzio in una confusione che non fece capire ai più nemmeno una parola, rivolgendosi ai fascisti, ne pose in risalto un’irreale bontà, che essendo inverosimile, testimoniò solo la distanza che prendeva da loro, pur non sconfessandoli.
13 agosto del 1922 a causa di una misteriosa caduta dalla finestra sfumò l'incontro di D'Annunzio con Francesco Saverio Nitti e con Benito Mussolini per la pacificazione nazionale. Per capire bene l’evento bisogna fare un passo indietro in quell’estate del 1922. Mussolini aveva puntato molto sul discorso di D’Annunzio a Palazzo Marino, ma dai termini del discorso capì che avrebbe avuti ben pochi aiuti politici da D’Annunzio: egli, tuttavia, non aveva abbandonato le sue mire per una scalata politica che da solo non avrebbe potuto davvero compiere ed organizzò un incontro il 15 agosto, in una villa toscana, dove si sarebbe incontrato con D’Annunzio e Nitti per decidere di organizzare un progetto politico che avrebbe potuto consentire la nascita di un governo di largo respiro, capace di attirare la maggioranza dei consensi e di fronteggiare le sinistre. Nitti, l’ex presidente del Consiglio che D’annunzio e i fascisti avevano sbeffeggiato a Fiume, rappresentava l’ala liberale e moderata e costituiva una garanzia per contenere l’esuberanza fascista. Il problema era coniugarlo con D’Annunzio, più che con Mussolini, quest’ultimo duttile fino al punto di sopportare Nitti, pur di avere i consensi per andare vittorioso a Montecitorio. Nitti scrisse una lettera a D’Annunzio per invitarlo all’incontro e per convincerlo a sostenere ed a partecipare al progetto, fidando nella sua fama e sulla sua capacità di trascinatore di folle. D’Annunzio, messo da parte l’astio fiumano, accettò di buon grado l’incontro.
Nitti afferma che l’idea fu suggerita da Mussolini e che fu da questi convinto ad attuarla. Ma D’Annunzio non aveva più alcuna voglia di mettersi nell’agone politico: l’avventura fiumana gli era bastata, proprio perché l’aveva vissuta come un’impresa squisitamente epica, militare, ma del contenuto politico–amministrativo ne aveva piene le tasche. Il ritiro a Cargnacco era un’abdicazione senza riserve e lo dimostrò continuamente rintuzzando qualsiasi proposta politica. Mussolini convinse Nitti a scrivere a D’Annunzio e sorprendentemente D’Annunzio rispose ed accettò.
Antongini e il banchiere Giorgio Schiff-Giorgini, iniziarono per conto di D’Annunzio le trattative per un accordo programmatico, fissando data e luogo. Quando tutto sembrava pronto e ci si apprestava ad organizzare l’incontro, giunse la notizia che la sera del 13 agosto, D’Annunzio era caduto dalla finestra della Sala della Musica, nella villa Cargnacco. Un incidente banale ed un salto di appena 7 metri. La notizia fu diffusa il giorno seguente, dando all’episodio una versione accidentale: il Comandante, in ascolto della pianista Luisa Baccara e della sorella Jolanda, aveva perso l’equilibrio, mentre era appoggiato allo stipite della finestra ed era quindi precipitato a terra.
La Pubblica Sicurezza intese svolgere un’indagine sull’accaduto, sebbene nessuno avesse sporto denuncia e quindi non è chiaro a che titolo possano essere stati fatti gli opportuni accertamenti. Eppure qualcuno voleva scoprire una verità: a Gardone fu, infatti, inviato il funzionario Giuseppe Dosi per svolgere un’inchiesta segreta ed il 4 ottobre consegnò il suo rapporto. Sicuramente qualcuno che ha visto nell’evento la volontà di non far presiedere D’Annunzio all’incontro con Nitti e Mussolini e quindi cercava la traccia di un complotto.
Sospettoso dei contatti che Grandi e Balbo, come altri gerarchi fascisti continuavano a mantenere con D’Annunzio, Mussolini indisse la grande adunata di Napoli, preludio della Marcia: il 28 ottobre del 1922 D'Annunzio assistette incredulo alla Marcia su Roma ed il 2 novembre del 1922 il Comandante pubblicò sulla Patria del popolo, organo dei legionari, il messaggio L'alto monito di Gabriele d'Annunzio alla giovinezza italiana. Il Fascismo, infatti, fu accolto a Fiume con generale diffidenza ed indifferenza; mancava di una propria sede ed il suo organo di stampa “Il Fascio” toccava appena le 20 copie vendute.
I ministri ed i membri dell’Assemblea Costituente dimostrarono un evidente opportunismo politico optando per il nuovo regime, e fu infatti a questo livello che si ebbero le adesioni più numerose.
Successivamente, i rapporti fra D’Annunzio e Mussolini furono di reciproco opportunismo: Mussolini comprò il Vate elargendogli senza risparmio onori, blasoni, emolumenti, e, come diceva l'ex fiumano Comisso, cocaina, sempre tenendolo sotto sorveglianza. Tagliato allora fuori dal corso degli eventi politici, D’Annunzio preferì ritirarsi definitivamente nella villa di Cargnacco, sul lago di Garda, continuando comunque ad essere esaltato dal regime fascista come artista supremo. Il regime concesse a D’Annunzio anche un finanziamento per trasformare la villa Garnasco in un vero e proprio museo e D'Annunzio, che fino al 1920 era perseguitato dai creditori riuscì a costruire attorno a sé una città museo dove poter esaltare le proprie imprese valorose ed ardite e vivere nell'agiatezza del lusso più sfrenato senza alcun freno a nessuna prodigalità né economica né carnale. Mussolini aveva detto: «D’Annunzio è il dente cariato d’Italia: o strapparlo o ricoprirlo d’oro». Questa frase rappresentò la fortuna del Vate, il quale, avendo dimostrato in parte adesione al pensiero Fascista, potè costruire il Vittoriale a spese del regime, in cambio, però di dover donare allo Stato tutto il Vittoriale dopo la propria morte, da cui derivò il nome Vittoriale degli Italiani poiché più che di D'Annunzio era di tutti gli Italiani e da qui la massima che si trova alle soglie del Vittoriale “IO HO QUEL CHE HO DONATO”.
Tutto questo però ebbe un prezzo, infatti, come riferiva il federale di Brescia Giovanni Comini – supercontrollore del D’Annunzio dal 1935 al 1938 – D’Annunzio degli ultimi anni, accettando di finire murato vivo nella quiete del Vittoriale, rinunciò alla libertà e a parte cospicua della sua dignità, in cambio della definitiva consacrazione del proprio mito.
Nel 1923, nella sua nuova residenza, D’Annunzio scrisse Per l'Italia degli Italiani.
Nel 1924, isolato e vigilato da Mussolini al Vittoriale, D'Annunzio ricevette il titolo nobiliare di Principe di Montenevoso, e si fece donare la nave Puglia ed il MAS di Buccari. Inoltre nello stesso anno, scrisse Le Faville del maglio ed Il Venturiero senza ventura e altri studi del vivere inimitabile.
Il 9 ottobre del 1933 D'Annunzio scrisse una lettera a Mussolini, avversando gli accordi che il Duce stringeva con la Germania di Adolf Hitler.
Il 12 luglio del 1934, dopo l'incontro fra Hitler e Mussolini a Venezia, D'Annunzio si affaticò per l'interruzione dei rapporti italo-tedeschi sia per via epistolare di persona cui seguì anche una Pasquinata dissacratoria contro Hitler: «Il marrano Adolph Hitler dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce o di colla ond'egli aveva zuppo il pennello, o la penellessa, in cima alla canna, o alla pertica, divenutagli scettro di pagliaccio feroce non senza ciuffo prolungato alla radice del suo naso nazi».
Il Vittoriale è la cittadella di un D’Annunzio-soldato dove il Vate trascorre le sue giornate in compagnia dell'ultima amante ufficiale Luisa Baccara, rinomata pianista alla quale dedica un'intera stanza al Vittoriale. Entro queste mura, D'Annunzio visse gli ultimi 16 anni della propria esistenza, rinchiuso nella penombra della sua villa, poiché, a causa della ferita all'occhio, era divenuto fotofobico o semplicemente da buon esteta non voleva accettare l'onta della decadenza sul suo volto. Di tutte le questioni relative ai medicinali, all’ipocondria, alle polveri ed al suicidio è impossibile, allo stato degli studi, pronunziare una parola finale, poiché il Vate fu per anni una guida spirituale per il paese, con i suoi mistici sogni, con i suoi ideali raffinati, il suo buon gusto in opere d'inchiostro e la sua eccessiva mondanità.
Il 30 settembre del 1937 ci fu l’ultimo incontro con Mussolini: D'Annunzio raggiunse il Duce alla stazione di Verona, per dissuaderlo dall'alleanza con la Germania nazista.
La vecchiezza mise di fronte il piccolo nume alla irrimediabilità della morte e lo costrinse a ricercare disperatamente ciò che non poteva essere più: in una lettera alla sorella del 1938 D'Annunzio scrive Io resto con il nulla che mi sono creato, segno che forse era il momento della riconciliazione fra superuomo e uomo di mondo, fra peccato e redenzione, fra mito e realtà. Questo il sogno d’un uomo mosso dalla passione, corroso dalla febbre letteraria ed ammalato di poesia. La passione in tutto. Desidero le più lievi cose perdutamente, come le più grandi. Non ho mai tregua…
Così scriveva negli ultimi giorni della sua vita, rinchiuso nella sua prigione dorata e nella penombra sepolcrale della sua Villa incantata.
D’Annunzio morì nella sua villa il 1º marzo 1938 per un'emorragia cerebrale, osannato da celebrazioni ufficiali che il regime fascista fece celebrare in suo onore in solenni funerali di Stato.
Che cosa rimane della vita d'un artista mosso dalla passione, travolto dalla fiumana della voluttà, sospinto dalla scintilla di genio battagliero? Qualche pagina in un'antologia scolastica, dei siti internet sparsi per la rete, un film dal titolo D’Annunzio, tanta poesia, tanta veemenza, fervore, entusiasmo, trasporto, tripudio per l'inclinazione smisurata di quel genio che: Fece della sua vita ciò che si fa d’un opera d’arte.

lunedì 14 maggio 2012

Raffaello e la pala Baglioni


Siamo a Perugia nei primi anni del ‘500 quando la nobile Atalanta Baglioni, commissiona ad un giovane Raffaello, che a Firenze aveva appena ammirato le opere di Leonardo e di Michelangelo, la realizzazione di una pala d’altare per la Cappella del Salvatore, nella chiesa perugina di San Francesco al Prato. Nasce uno dei capolavori del Rinascimento: La deposizione di Cristo.
Erano anni di violentissime contese cittadine per il potere che avevano insanguinato varie città italiane e che a Perugia avevano visto Grifonetto Baglioni, figlio di Atalanta, partecipare ad una congiura contro parte della sua stessa famiglia, trucidando il giovane Astorre Baglioni la notte stessa delle sue nozze e, in seguito lo stesso Grifonetto fu trucidato dalla fazione avversa. La madre Atalanta, che lo aveva maledetto per l’eccidio di cui si era macchiato, era accorsa alla fine accanto al figlio morente, perdonandolo e rendendo un tributo al proprio dolore di madre tramite l’opera di Raffaello.
Raffaello, allora poco più che ventenne, ma già molto noto e ricercato, si cimenta per la prima volta con un tipo di rappresentazione destinato a rimpiazzare, nella pittura italiana, l’interpretazione tradizionale: con la Pala Baglioni e soprattutto con La deposizione di Cristo, il giovane maestro inaugura, infatti, la stagione della narrazione storica dell’evento descritto, inserendolo in uno spazio prospettico dinamico, sottolineato dalla drammaticità della narrazione. L'elaborazione dell'opera segna quindi il passaggio da una figurazione statica ad una figura­zione dinamica, da una rappresentazione sacra ad una rappresentazione storica. Il soggetto stesso de La deposizione di Cristo serve a commemorare un evento storicamente accaduto: la tragica morte di Grifonetto Baglioni che, dopo aver sterminato diversi membri della propria famiglia, è a sua volta ferito a morte e spira, stringendo la mano della madre – particolare quest’ultimo riportato nel dolcissimo gesto della Maddalena ritratta nell’atto di sostenere la mano esanime di Gesù.
Quest’opera impegnò molto il giovane pittore per la grande complessità dello schema compositivo e della sovrapposizione dei piani narrativi: il gruppo della Vergine e dalle pie donne sulla destra in secondo piano, mentre il Cristo è trasportato su di un lenzuolo dai personaggi della narrazione evangelica. In uno dei portatori, la figura centrale del poderoso giovane portatore impegnato a reggere il corpo di Cristo e fissato in un incisivo profilo, si identificano comunemente le fattezze di Grifonetto Baglioni, mentre nella Madonna addolorata si identificano le fattezze della committente Atalanta Baglioni, madre di Grifonetto.
Il dipinto nacque come una Deposizione, ma in seguito Raffaello scelse il più dinamico Trasporto che gli permetteva di articolare il quadro in due scene: quella di sinistra con Giuseppe d'Arimatea, Giovanni, Nicodemo e Maria Maddalena e quella a destra, leggermente in secondo piano, con Maria, sorretta e circondata dalle pie donne, che sviene per il dolore. Sebbene il dipinto sia la somma di due temi iconografici distinti – una Deposizione e uno Svenimento della Madonna – l'artista lo propone come unità, collegando le due parti con il grande portatore a destra, che è, di fatto, la figura dominante, e al tempo stesso, quella che meno esprime un particolare affetto, anzi, egli appare come una figura palesemente «ideale» com'è suggerito dalla chioma investita da un vento che non tocca le altre figure. Questa figura «ideale» che domina le espressioni addolorate delle altre figure e che stabilisce tra i due episodi un'unità di tempo e di luogo che già riflette l'osservanza dei principi della Poetica di Aristotele, testo fondamentale dell'estetica del Cinquecento.
Per Raffaello, l'equilibrio tra umanità e natura – problema dibattuto nel trascolorante Quattrocento – non si ottiene soltanto nella contemplazione, ma anche nell'azione e nel dramma, pertanto si comprende chiaramente che, per muoversi in questa direzione, la guida etica di Michelangelo gli appaia più sicura di quella tanto raffinatamente intellettuale di Leonardo: il Cristo morto è una chiara citazione della Pietà di San Pietro, mentre la donna che sostiene la Madonna svenuta è una diretta derivazione del Tondo Doni. Il profilo dei monti, perfino le nuvole in cielo, seguono e ribadiscono il movimento delle figure denunciando il debito contratto da Raffaello con il mondo figurativo fiammingo, in termini di splendore cromatico, sottigliezza luministica, nitida evidenza ottica e di gusto della veduta paesaggistica e del dettaglio naturalistico.
Raffaello dunque conosce l’arte del suo tempo e ne trae spunto per creare un’opera forte, coinvolgente, quasi teatrale, se una critica può essere mossa al dipinto è che esso è rappresentativo di troppi stati d’animo: nelle quattro teste che formano un arco intorno al volto di Cristo morto, l'artista vuole manifestare quattro momenti o varietà del dolore, dolore che diventa schianto nella parte destra del dipinto. Ma ilpathos non deve giungere ad alterare il bello che costituisce il senso universale della sembianza. Quel bello che egli ha ritratto nella figura centrale del giovane « ... Grifonetto Baglioni col suo giustacuore trapunto, il berretto gemmato e i ricci in forma di acanto, che uccise Astorre con la sposa e Simonetto col suo paggio, e che era di una tale bellezza che, quando giacque morente nella piazza gialla di Perugia coloro che l'avevano odiato non potevano trattenere le lacrime e Atalanta, che l'aveva maledetto, lo benedisse » come lo descrive Wilde in Il ritratto di Dorian Gray.
È lui il personaggio principale del dipinto ed a lui affida il suo credo classicista.

La Cappella Cerasi e la Conversione di San Paolo di Caravaggio

La Roma in cui ha operato Caravaggio – siamo nell’ultimo scorcio XVI ed all’alba del XVII secolo – era un luogo ed un momento cruciale della cultura italiana: ancora dolorante per il traumatico scisma luterano, il Concilio di Trento (1545-1563) si era concluso con un’altrettanto brusca riorganizzazione teologica ed ecclesiastica, la Controriforma che, con le sue miserie e con i suoi splendori, segnò tutta la successiva evoluzione del cattolicesimo. Roma risplende del mecenatismo dei papi e si sviluppa, con sempre maggiore vigore, attraverso il regno di quattro importanti Pontefici: Clemente VIII Aldobrandini, Paolo V Borghese, Gregorio XV Ludovisi, Urbano VIII Barberini. Questo momento irripetibile durò circa un quarantennio, dal 1595 al 1635, e dagli avvenimenti accaduti in quest’arco di tempo dipese gran parte dello sviluppo artistico europeo che si protrasse fino alla fine del Seicento. Sull’onda del mecenatismo papale fiorirono le botteghe sempre attive, per soddisfare le esigenze di papi e cardinali, nonché delle loro famiglie.
In questa Roma, gravida di fermenti e ricca di botteghe, Caravaggio era giunto dalla Lombardia tuffandosi con la sua ribollente vita quotidiana in quella non meno agitata vita romana, campo di fazioni e tumulti, tenuti a freno da leggi taglione e da uno stato di polizia. Inizialmente Caravaggio conobbe momenti di miseria, lavorando con il Cavalier d'Arpino e con Prosperino delle Grottesche, finché non conobbe il potente cardinal Del Monte, che accolse Caravaggio nella sua dimora a Palazzo Madama gli commissionò numerosi dipinti e lo aiutò ad ottenere importanti commissioni come quella per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Nel palazzo di Del Monte Caravaggio buttaporò finalmente un periodo di tranquillità dopo le difficoltà finanziarie dei primi anni romani ed ebbe modo di entrare in contatto con gli intellettuali e con i mecenati più illustri.
Fra le commissioni di questo periodo c’è La conversione di San Paolorealizzata dal pittore per la Cappella Cerasi della basilica romana diSanta Maria del Popolo, autentico compendio dei vari secoli della storia dell’arte e dell’architettura.
Questa cappella, in origine fondata dal cardinale veneziano Pietro Foscari, fu fatta realizzare – come la osserviamo oggi – da Tiberio Cerasi, avvocato concistoriale, che, l’8 luglio 1600, per sublimare la sua ascesa sociale, l’aveva acquistata ed i frati agostiniani gli avevano concesso la facoltà di poterla edificare, elevare e decorare nel modo et forma che egli avesse voluto.
Autorizzato a rimuovere dalla cappella le sepolture già esistenti, Tiberio Cerasi chiamò allora tre grandi artisti, Carlo Maderno – che purtroppo morì pochi mesi dopo a lavori appena iniziati – per la realizzazione architettonica, Annibale Carracci e Caravaggio per la decorazione pittorica.
Sull'altare della cappella, Annibale Carracci dipinse una tela raffigurante l'Assunzione della Vergine fra angeli e santi, ai lati Caravaggio dipinse due tele, una raffigurante il Martirio di San Pietro e l'altra la La conversione di San Paolo: per queste due tele, Maurizio Calvesi ipotizzò che, in ottemperanza alla teologia agostiniana, il committente avesse voluto far rappresentare i "due poli del pensiero agostiniano" – l'Autorità, richiamata dal martirio di Pietro, e la Ragione, richiamata dalla vocazione di Paolo.
Le due tele furono dipinte poco dopo il ciclo pittorico di San Matteo, eseguito per la Cappella Contarelli della Chiesa romana di San Luigi dei Francesi, ciclo che può essere considerato l’immediato precedente delle due tele della Cappella Cerasi.
Ne La conversione di San Paolo, Caravaggio continua il suo percorso rivoluzionario, non solo nel suo originalissimo modo di trattare la luce, ma anche in quello di trattare l’ambientazione delle scene religiose: rinunciando ad una consolidata tradizione iconografica dove compaiono soldati spaventati e cavalli imbizzarriti – si ricordi l’arazzodi Raffaello, l’affresco michelangiolesco nella Cappella Paolina del Vaticano, la tela di Ludovico Carracci ed anche un precedente dipinto su tavola dello stesso Caravaggio – San Paolo non cade da cavallo lungo la via di Damasco, verso la quale si stava dirigendo alla testa di una legione di soldati romani per perseguitare i primi cristiani, ma il fatto miracoloso è ambientato nella penombra di una semplice stalla, una posta poco prima della città di Damasco, dove era diretto.
Caravaggio sceglie un’interpretazione inedita anche per il modello che impersona Saul: è un giovane imberbe, accuratamente vestito, in un abbigliamento dove nulla è lasciato al caso. Lo raffigura con abbondanza di rosso, consegnando allo spettatore in pochi tratti un fedele ritratto di quest’uomo, tutto d’un pezzo sempre all’altezza della situazione, sicuro di essere nel giusto, passionale e portato agli eccessi. Eppure una visione e Saul rimane folgorato. Caravaggio impedisce allo spettatore di vedere ciò che Saul ha visto, ma racconta l’evento come un fatto tutto interiore, capace però, diversamente dalla precedente iconografia, di imprimere sul volto di questo giovanissimo Saul un’aurea di pace.
La scena è priva di qualsiasi clamore miracolistico: l’episodio perde, infatti, il carattere di evento pubblico, per tradursi in chiave intima ed interiore si svolge al chiuso, di sera, in una luce attutita ed in assoluto silenzio, dove gli unici testimoni dell’evento soprannaturale sono il cavallo, che occupa inaspettatamente più della metà del dipinto, ed un anziano stalliere che a stento s’intravede sulla destra del dipinto dietro il collo possente del cavallo. Paolo è riverso a terra, rappresentato nell’istante successivo a quella «luce del cielo [che] gli folgorò intorno», abbattendolo al suolo.
Un’ambientazione poverissima, tanto spoglia da apparire ai contemporanei perfino irriverente.
La protagonista della scena è la luce: essa è, infatti, manifestazione della divinità, è teofania che squarcia la tenebra del paganesimo, dell’indifferenza, della persecuzione, della calunnia. È la luce che colpisce Saul che cade e tutto, ogni superficie, la riflette: il mantello vermiglio di Saul, il mantello pezzato del cavallo, i piedi del vecchio stalliere. Tutto è impressionato da quella luce e tutto riverbera da quella potenza. Non è tanto il puro significato simbolico che impressiona e che sbigottisce gli attori di questa scena e lo spettatore, quanto piuttosto l’inquietante realismo di un corpo non ancora completamente caduto, in cui si scorge ancora il moto delle gambe inclinate, delle braccia alzate, degli occhi accecati, delle palpebre serrate per difendersi da quella luce accecante. È il momento finale di un crescendo, tipico del pathos evocativo caravaggesco.
Un discorso a sé stante occorre per il cavallo in una posa singolare: l’unico testimone cosciente, ma impossibilitato a comunicare la dinamica dei fatti, è il cavallo con l’occhio aperto e rivolto al suo cavaliere, mentre lo stalliere è anch’egli accecato dalla folgore divina che ha colpito Saul.
La scena non presenta Cristo nel momento in cui chiedeva «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», la presenza della divinità è ancora più angosciata, resa nell’assenza, che ci fa percepire la fragilità di Paolo, emblema della “fragilità” umana che ancora non conosce Dio, di fronte alla soprannaturale maestosità del divino.
Qui la struttura compositiva del quadro si carica di significati più profondi: non a caso nella raffigurazione della conversione di Paolo è stato aggiunto un cavallo sebbene negli Atti degli Apostoli – in cui per ben tre volte si narra l’incontro di Paolo sulla via di Damasco con il Signore risorto – non si faccia mai accenno ad un cavallo. Eppure la rappresentazione del cavallo e della caduta a terra di Paolo ha una fortissima carica simbolica che, pur traducendo liberamente il testo biblico, ne permette piuttosto una comprensione più profonda.
Iconograficamente, la pittura e la scultura si sono infatti spesso servite del cavallo per dare un volto al potere smisurato, alla grandezza di un personaggio, alla statura morale, alla compostezza dell’autorità. Chi lo cavalcava, guardando dall’alto gli altri mortali, manifestava così la sua dignità superiore. L’arte ha ripreso questo simbolo in mille raffigurazioni dal Marco Aurelio, a Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini, ai dipintiequestri di Velázquez. Ancora una volta Caravaggio si serve in modo assolutamente personale del motivo iconografico: Saul è disarcionato, non cade semplicemente a terra, ma è sbalzato da ogni suo potere, da tutto il suo orgoglio, precipitando a terra. Dovrà imparare, lui così fieramente attaccato alla Legge e all’illusione che l’uomo abbia una forza tale da potersi salvare con le proprie forze, che niente può l’uomo senza la grazia di Cristo. L’uomo deve ricevere la salvezza, senza alcun merito, la deve accogliere come una realtà che non ha principio primo in lui. È l’interpretazione teologico dottrinale del Cattolicesimo postridentino. Deve ricevere l’amore per poter poi vivere di esso ed in esso. Solo in questo momento Saul di Tarso è diventato Paolo, l’apostolo delle genti.
Questa l’interpretazione di Caravaggio della controversa figura di San Paolo.

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