giovedì 13 dicembre 2012

La giara: dalla novella alla commedia di Massimo Capuozzo


La giara è un atto unico del 1916, ripreso dalla novella omonima composta nel 1906 e pubblicata il 20 ottobre 1909 sul Corriere della Sera ed in seguito nella raccolta Terzetti del 1912, edizione Treves, per confluire in seguito nel dodicesimo volume della raccolta delle Novelle per un anno, edizione Treves e seguenti.
La commedia fu rappresentata per la prima volta nella versione siciliana col titolo A’ giarra al Teatro Nazionale di Roma dalla compagnia di Angelo Musco il 9 luglio 1917. Il pezzo ritornò ancora sul palcoscenico in versione italiana il 30 marzo del 1925, con un testo scritto presumibilmente nello stesso anno, sempre a Roma, in quasi contemporanea con la prima edizione, avvenuta quest’ultima assieme agli altri due atti unici Sagra del Signore della Nave e L’altro figlio. Il testo fu poi incluso nel 1933 nelle Maschere Nude, edizione Bemporad.
La storia rappresentata ripercorre con umorismo molti dei temi cari allo scrittore, come la molteplicità dei punti di vista, l'ambiente siciliano ed i conflitti interpersonali. A proposito di questa storia, il compianto Italo Borzi dice che essa, «di gusto campestre e giocoso, vive tutta nel contrasto fra due personaggi di opposto carattere, grotteschi rappresentanti di una civiltà contadina, vivacemente messa in evidenza dal colorito dialogo» fra un commerciante di nome Lollò, detto anche Zirafa e Zi’ Dima di mestiere conciabrocche.
Don Lollò compra una giara grande “nuova fiammante”, pronta a contenere dell’olio, ma purtroppo si rompe, perciò, per aggiustarla, è chiamato zi’ Dima, un artigiano inventore di un preparato ancora non patentato. La giara, larga di pancia e stretta di bocca, non permette più al conciabrocche di uscire, lui che dentro vi è entrato solo per dare i punti come voleva Don Lollò, perciò decide di rimanerci dentro. Dal canto suo, don Lollò si rifiuta di liberarlo, perchè ciò significherebbe rompere la giara per questo si reca dall’avvocato che gli dice di rompere la giara, chiedendo, però, il risarcimento dei danni al prigioniero incastrato. Alloggio abusivo o sequestro di persona? Ne nasce un paradossale caso che diverte l’avvocato Scimè ed esaspera sempre più don Lollò.
Lasciato dentro, i contadini organizzano un baccanale attorno alla giara abitata: «Questa volta non potè più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e…con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, la giara andò a spaccarsi contro un olivo».
Zi’ Dima è libero ed ha la meglio su don Lollò, sconfitto dall’ira. Ultime parole, alle quali occorrerebbe aggiungere un poema e che, nella loro essenzialità, di aforisma non hanno bisogno di nulla, sono e la vinse Zi’ Dima.
La novella, senza alcuna interruzione di tipo tipografico o narrativo, lungo un arco cronologico di poco più di dodici ore circa, durante la stagione autunnale (periodo della bacchiatura delle ulive), in una località siciliana non meglio precisata. Dopo un incipit dal sapore di prefazione, sulla buona annata che aveva reso necessario l’acquisto di una giara nuova, è descritto il carattere iracondo e permaloso del primo protagonista Don Lolò.
La bacchiatura era poi cominciata, ma la giara nuova è misteriosamente trovata rotta.
Inizia qui l’azione vera e propria, che è poi fatta dal contrasto fra i due coprotagonisti. Don Lollò, sanguigno, violento, forte della propria posizione socio-economica, diffidente e suscettibile. La descrizione delle personalità di don Lollò è ottenuta attraverso sequenze narrative e flashback: irascibile e avaro, particolarmente attaccato alle sue ricchezze, per ogni cosa, litiga con gli altri “per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta nel murello di cinta,  gridava che gli sellassero la mula per correr in città per fare gli atti presso un avvocato”.
Al momento della rottura della giara, è già inferocito verso i suoi contadini, colpevolizzandoli dell’accaduto. Zi’ Dima, il conciabrocche, compare solo dopo in seguito alla disgrazia della giara povero diavolo taciturno ed amareggiato dalla diffidenza che lo circonda, ma fiero della propria abilità di lavoratore. Qui le sequenze narrative sono alternate a sequenze più dialogiche che sottolineano il divario tra i due. Da un lato troviamo don Lollò, irragionevole e dall’altro il silenzioso Zi’ Dima, che ha pazienza, non ha fretta, non si smuove per niente. Se nel primo si riscontra un carattere estroverso, il secondo è un mistero: lo stesso Pirandello lo definisce particolarmente silenzioso e misterioso, un miscuglio di tristezza e di scontrosità innata, paragonato ad un vecchio ceppo di olivo. Entrambi sono umili lavoratori, ma don Lollò si crede superiore e marca il divario di classe sociale, comandando il povero Zi’ Dima. Anzi, una frase molto significativa è quella detta dal contadino: “chi è sopra comanda, chi è sotto si danna”.
L’incontro/scontro fra i due appare scandito in due tempi ben distinti: nel primo il vincitore è Don Lollò che esercita la legge del più forte, costringendo il conciabrocche a dare anche i punti oltre ad usare il mastice, nel secondo il vincitore definitivo è Zi’ Dima e la sua astuzia temporeggiatrice, che lascia all’avversario lo scorno e il danno.
I contadini sono invece personaggi  che agiscono conoscendo già don Lollò, svolgono il loro dovere e rendono la situazione ancora più comica perché organizzano feste per zi’ Dima, intrappolato nella giara, cantano e ballando intorno ad essa.

La giara
Piena anche per gli olivi quell'annata. Piante massaje, cariche l'anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire.
Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l'olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d'uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa.
Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non l'attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d'onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s'era mezzo rovinato.
Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare.
Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: - Sellate la mula! - Ora, invece: - Consultate il calepino! -
E Don Lollò rispondeva:
- Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d'un cane!
Quella bella giara nuova, pagata quattr'onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s'era mai veduta. Allogata in quell'antro intanfato di mosto e di quell'odore acre e crudo che cova nei luoghi senz'aria e senza luce, faceva pena.
Da due giorni era cominciata l'abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un'oliva, che fosse un'oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo.
Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l'ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti.
- Guardate! guardate!
- Chi sarà stato?
- Oh, mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova, peccato!
Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne.
Ma il secondo:
- Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel'abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti!
Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò:
- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!
Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell'uomo sempre infuriato.
- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!
Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro gridando:
- Sangue della Madonna, me la pagherete!
Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto:
- La giara nuova! Quattr'onze di giara! Non incignata ancora!
Voleva sapere chi gliel'avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana!
Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l'avrebbe rimessa su, nuova. C'era giusto Zi' Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, alla punta dell'alba, Zi' Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr'otto, la giara, meglio di prima.
Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch'era tutto inutile; che non c'era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all'alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi' Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle.
Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l'uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d'inventore non ancora patentato.
Voleva che parlassero i fatti, Zi' Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto.
- Fatemi vedere codesto mastice - gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo con diffidenza.
Zi' Dima negò col capo, pieno di dignità.
- All'opera si vede.
- Ma verrà bene?
Zi' Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l'attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajo d'occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi' Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull'aja. Disse:
- Verrà bene.
- Col mastice solo però - mise per patto lo Zirafa - non mi fido. Ci voglio anche i punti.
- Me ne vado - rispose senz'altro Zi' Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle.
Don Lollò lo acchiappò per un braccio.
- Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d'asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l'olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io.
Zi' Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d'arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice.
- Se la giara - disse - non suona di nuovo come una campana...
- Non sento niente, - lo interruppe Don Lollò. - I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare?
- Se col mastice solo...
- Càzzica che testa! - esclamò lo Zirafa. - Come parlo? V'ho detto che ci voglio i punti. C'intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi.
E se ne andò a badare ai suoi uomini.
Zi' Dima si mise all'opera gonfio d'ira e di dispetto. E l'ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano.
- Coraggio, Zi' Dima! - gli disse quello, vedendogli la faccia alterata.
Zi' Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt'in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc'anzi. Prima di cominciare a dare i punti:
- Tira! - disse dall'interno della giara al contadino. - Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, si o no, come una campana anche con me qua dentro? Va', va' a dirlo al tuo padrone!
- Chi è sopra comanda, Zi' Dima, - sospirò il contadino - e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti.
E Zi' Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l'uno di qua e l'altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un'ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo.
- Ora ajutami a uscirne, - disse alla fine Zi' Dima.
Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi' Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora - non c'era via di mezzo - per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre.
Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi' Dima, dento la giara, era come un gatto inferocito.
Fatemi uscire! - urlava -. Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!
Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci.
- Ma come? là dentro? s'è cucito là dentro?
S'accostò alla giara e gridò al vecchio:
- Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio... così! e la testa... su... no, piano! Che! giù... aspettate! così no! giù, giù... Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! - si mise a raccomandare tutt'intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. - Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo... La mula!
Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana.
- Bella! Rimessa a nuovo... Aspettate! - disse al prigioniero. - Va' a sellarmi la mula! - ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po' che mi capita! Questa non è giara! quest'è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!»
E accorse a regger la giara, in cui Zi' Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.
- Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l'avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell'interesse vostro... Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano?
- Non voglio nulla! - gridò Zi' Dima. - Voglio uscire.
- Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.
Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso:
- Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l'abbia dato.
Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava.
Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell'avvocato; ma gli toccò d'attendere un bel po', prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì.
- Che c'è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!
Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com'era stato, per farci su altre risate. "Dentro, eh? S'era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te... tene... tenerlo là dentro... ah ah ah... ohi ohi ohi... tenerlo là dentro per non perderci la giara?"
- Ce la devo perdere? - domandò lo Zirafa con le pugna serrate. - Il danno e lo scorno?
- Ma sapete come si chiama questo? - gli disse infine l'avvocato. - Si chiama sequestro di persona!
- Sequestro? E chi l'ha sequestrato? - esclamò lo Zirafa. - Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io?
L'avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall'altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine.
- Ah! - rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara!
- Piano! - osservò l'avvocato. - Non come se fosse nuova, badiamo!
- E perché?
- Ma perché era rotta, oh bella!
- Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato!
L'avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso.
- Anzi - gli consigliò - fatela stimare avanti da lui stesso.
- Bacio le mani - disse Don Lollò, andando via di corsa.
Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi' Dima s'era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi.
Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara.
- Ah! Ci stai bene?
- Benone. Al fresco - rispose quello. - Meglio che a casa mia.
- Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr'onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso?
- Come me qua dentro? - domandò Zi' Dima.
I villani risero.
- Silenzio! - gridò lo Zirafa. - Delle due l'una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com'è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu.
Zi' Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse:
- Rispondo. Se lei me l'avesse fatta conciare col mastice solo, com'io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no.
- Un terzo? - domandò lo Zirafa. - Un'onza e trentatré?
- Meno sì, più no.
- Ebbene, - disse Don Lollò. - Passi la tua parola, e dammi un'onza e trentatré.
- Che? - fece Zi' Dima, come se non avesse inteso.
- Rompo la giara per farti uscire, - rispose Don Lollò - e tu, dice l'avvocato, me la paghi per quanto l'hai stimata: un'onza e trentatré.
- Io pagare? - sghignazzò Zi' Dima. - Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi.
E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l'accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara.
Don Lollò ci restò brutto. Quest'altro caso, che Zi' Dima ora non volesse più uscire dalla giara, nè lui nè l'avvocato l'avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula», ma pensò che era già sera.
- Ah, sì - disse. - Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l'uso della giara.
Zi' Dima cacciò prima fuori un'altra boccata di fumo, poi rispose placido:
- Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare... neanche per ischerzo, vossignoria!
Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo.
- Vede che mastice? - gli disse Zi' Dima.
- Pezzo da galera! - ruggì allora lo Zirafa. - Chi l'ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince!
E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi' Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all'aperto, su l'aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c'era una luna che pareva fosse raggiornato.
A una cert'ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d'inferno. S'affacciò a un balcone della cascina, e vide su l'aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi' Dima, là dentro, cantava a squarciagola.
Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.
E la vinse Zi' Dima.

La pièce teatrale si svolge sulla stessa linea narrativa della novella, cui però apporta sostanziali modifiche di carattere temporale ed organizzativo, in base alle esigenze della messa in scena. Motivo per cui la parte iniziale della novella, che era di tipo esplicativo della situazione, è affidata ad una serie di personaggi che svolgono un po’ la funzione del coro greco che era appunto di introduzione e commento: sono quindi inventati un garzone, due contadini, tre contadine, un mulattiere, un ragazzetto.
In secondo luogo è stata condensata l’azione al tempo reale della rappresentazione che va dal tramonto al sopraggiungere della notte: la vicenda si svolge in poco tempo, dalla rottura della giara. Sono di conseguenza ovviate le esigenze di spostamento dei personaggi, facendo in modo che avvocato e conciabrocche si trovino già in loco al momento del bisogno: avvocato Scimè ospite di Zirafa per un periodo di riposo e Zi’ Dima perché in giro da quelle parti per esigenze di lavoro. Inoltre la didascalia stessa tende ad informarci su ambientazione e tempo della rappresentazione. Campagna siciliana. Oggi. Spiazzo erboso davanti alla cascina di Don Lolò Zirafa in vetta a un poggio.
Nella novella ci sono alcune citazioni del passato che nella versione teatrale sono raccontate dai personaggi. Nella versione teatrale, Zi’ Dima ne esce ancora vivo e grida vittoria. Nella novella, invece, questo particolare non viene specificato poiché finisce solamente con la frase: "E la vinse Zi’ Dima".
Molti critici attribuiscono il primato cronologico alla stesura in dialetto, leggendo in questa luce la presenza nella stesura in lingua di termini dialettali italianizzati. In ogni caso bisogna tener presente che ci troviamo in un’epoca recentemente postunitaria, in un periodo in cui va cambiando lo stesso significato di molti vocaboli, che pur rimangono.
Quattro onze ballanti e sonanti; dove onze, variante di once, è la moneta medioevale in uso in Sicilia fino all’unificazione e, presumibilmente, per un certo periodo anche dopo. Inoltre l’espressione seguente è in participio presente, per sottolineare il pagamento immediato.
Fu allogata, collocata, nel palmento, ampia vasca per la pigiatura dell’uva e la fermentazione del mosto; qui indicante per metonimia il locale entro cui si trova a vasca.
Da due giorni era cominciata la bacchiatura, la raccolta delle olive, scosse con un bastone, il bacchi.
Costa, terreno in pendio; favata, piantagione delle fave.
Spettorato, camicia aperta sul petto
Con gli occhi lupini, sguardo da lupo, spesso in Pirandello ritornano le similitudini con il mondo animale, per una più efficace caratterizzazione per personaggio in questione.
Lo impiccò al muro, lo tenne affisso, sollevato contro  il muro
Sangue della Madonna, meglio illustra il carattere iracondo e bestemmiatore di Zirafa
Facce terrigene bestiali dei contadini, hanno il colore della terra, ed i lineamenti stravolti dalla paura. Non più umani.
Sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto, con riferimento alle manifestazioni di dolore di origine greca arcaica poi trasferita all’Italia meridionale colonizzata dai Greci; le prefiche, che venivano anche pagate. Un tale riferimento in questo contesto indica lo studio antropologico alla base di una storia che, al primo impatto, potrebbe apparire di carattere esclusivamente comico.
Suonava come una campana: modo di dire per indicare che non era crepata, così come non indignata ancora: non utilizzata; e si poteva sanare: riparare.
Sconfidenza, sta per mancanza di fiducia nell’altro; alieno: anche nell’uso assoluto di “indifferente”; inventore nonancora patentato: non riconosciuto ufficialmente;doveva guardarsi davanti e indietro: indica un po’ l’atteggiamento “genetico” della diffidenza meridionale.
Mise per patto: introduce un’espressione tipica del parlato, così come arie da Carlo Magno non implica necessariamente la conoscenza di tale personaggio storico, ma forse solo la popolarità dell’epopea carolingia diffusa in quella zona dall’pera dei pupi.
Cazzica, che testa! è invece eufemismo che serve a rendere l’idea della parola non detta, e ad evitare una lunga circollocuzione che non sortirebbe lo stesso effetto: da notare che non siamo ancora in un’epoca in cui sarebbe passato pressocchè inosservato l’utilizzo della parola “cazzo”. Da notare inoltre l’utilizzo fatto dei proverbi, come chi è sopra comanda, chi è soto si danna, tradotto dal siciliano, dove è reso più “sonoro” dalla rima cummanna/danna; e che può assurgere a “morale” della prima parte della novella, poi completamente rovesciata nel finale, come a dire che non sempre i proverbi basati su esperienze di vita possono assurgere a dogma universale.
Nella novella come nella commedia, traspare chiaramente la tematica della roba, ripresa dal Verismo verghiano, descritta con il morboso attaccamento di Don Lolò ai beni materiali: la sua funzione nella commedia, comunque, supera la visione del realismo verista, creando invece un effetto tragicomico. Alla figura di Don Lolò viene contrapposta quella di Zi' Dima, privo di poteri e risorse materiali, ma consapevole della dignità del lavoro che egli esegue con onestà e scrupolo e che considera unico per l'uso di quello che egli ritiene come una sorta di bene intellettuale: il suo miracoloso mastice. Nel rapporto antitetico tra due figure completamente diverse, entrambe poco conscie dei propri limiti, ma accomunate dalla stessa cocciutaggine contadina e mosse dai loro istinti, Pirandello riesce a creare una comicità basata su una situazione grottesca: una circostanza nella quale ciascuno dei due diventa al contempo debitore e creditore dell'altro. Dato che nessuno dei due contendenti può o vuole andare incontro all'altro, si arriva ad una situazione di stallo in cui non è più possibile distinguere chi abbia torto e chi ragione. Si tratta di un paradosso paragonabile a quello che ritroviamo ne Il giuoco delle parti pirandelliano. Il ritratto di Zi' Dima è di una immediatezza mirabile. Povero, dignitoso e chiuso nel suo orgoglio d'inventore non ancora patentato, è l'opposto di don Lollò che grida sempre, gesticola, si rincalca il cappellaccio bianco, si percuote il capo e le guance, sbraita: due macchiette, don Lollò e Zi' Dîma, d'un umorismo vivo e pittoresco. La posizione dei due protagonisti è questa: se don Lollò non fa uscire Zi' Dima dalla giara cade nel sequestro di persona..., ma per farlo uscire deve romperla..., perciò la vuole pagata da Zi' Dima..., questi però non vuol saperne di pagare: vi sarebbe piuttosto rimasto dentro fino a farvi i vermi..., ma in questo caso don Lollò lo avrebbe denunciato per alloggio abusivo. È uno dei tanti casi presentati dal Pirandello, dove all'elemento grottesco e comico, che nel racconto è predominante, si accompagna un sorriso amaro, appena accennato, di fronte alla squallida infelicità fisica e morale di Zi' Dima, il quale si dibatte, anche lui, tra la realtà dura della vita e l'illusione: il suo mastice nuovo, miracoloso, non gli darà il benessere e la gloria sperata..., ma finisce col prendere gusto anche lui alla sua bizzarra avventura, ridendone "con la gaiezza mala dei tristi".
Commedia in un atto unico del 1916 ripresa dalla novella composta nel 1906 e pubblicata nella raccolta Novelle per un anno nel 1917.
Vicino ai canoni del verismo, “La giara” sa essere completo racconto, felice rappresentazione di caratteri e di paesaggi. Da un punto di vista narrativo, non ideologico, è quanto di meglio Pirandello abbia scritto.

La giara
PERSONAGGI
Don Lolò Zirafa
Zi' Dima Licasi, conciabrocche
L'avvocato Scimè
'Mpari pè, garzone
Tararà, Fillicò, contadini abbacchiatori
La 'gnà Tana, Trisuzza, Carminella, contadine raccoglitrici d'olive
Un Mulattiere
Nociarello, ragazzo di undici anni, contadino
Campagna siciliana. Oggi.
Spiazzo erboso davanti alla cascina di Don Lolò Zirafa in vetta a un poggio.
A sinistra è la facciata della cascina, rustica, a un sol piano.
La porta, rossa, un po' stinta, è nel mezzo; sopra la porta, un balconcino.
Finestre sopra e sotto: quelle di sotto, con grate.
A destra, un secolare olivo saraceno; e, attorno al tronco scabro e stravolto, un sedile di pietra, murato tutt'in giro.
Di là dall'olivo lo spiazzo scoscende con un viottolo.
In fondo, degradanti per il pendio del poggio, altri olivi.
È ottobre.
Al levarsi della tela, 'Mpari pè, sentendo un canto campestre delle donne, che vengono su per il viottolo a destra con ceste colme d'olive sul capo o tra le braccia, montato sul sedile attorno all'olivo saraceno grida:
'Mpari pè: O oh! Toppe senza chiave! E tu costà, moccioso! Piano, corpo di... badate al carico!
Le donne e Nociarello vengono su dal viottolo a destra, cessando il canto.
Trisuzza: O che vi piglia, 'Mpari pè?
La 'gnà Tana: Alla grazia! Avete imparato anche voi a sacramentare?
Carminella: Anche gli alberi di qui a poco si metteranno a bestemmiare in questa campagna.
'Mpari pè: Ah, vorreste che vi lasciassi seminare per terra le olive?
Trisuzza: Seminare? Io per me non ne ho lasciata cadere nemmeno una. 
'Mpari pè: Se Don Lolò, Dio liberi, s'affaccia là al suo balcone!
La 'gnà Tana: Eh, può anche starci affacciato dalla mattina alla sera! Chi attende al suo dovere, non ha nulla da temere.
'Mpari pè: Già, cantando col naso in aria.
Carminella: O che non si può più nemmeno cantare?
La 'gnà Tana: Che! Solo bestemmiare si può. Pare che abbiano scommesso, padrone e servitore, a chi le spara più grosse.
Trisuzza: Non so come Dio non gliela fulmini codesta cascina con tutti gli alberi attorno!
'Mpari pè: Eh via! finitela! Linguacce! Andate a scaricare e non la fate più lunga!
Carminella: Si séguita a raccogliere?
'Mpari pè: O che è mezza festa, che volete levar mano? C'è ancora tempo per due viaggi. Sù, leste, andate, andate.
Spinge verso l'angolo della cascina a sinistra le donne e Nociarello.
Qualcuna, andando, riprende a cantare, per dispetto.
'Mpari pè, rivolto verso il balcone, chiama: Don Lolò!
Don Lolò (dall'interno a terreno): Chi mi vuole?
'Mpari pè: L'avverto che sono arrivate le mule col concime.
Don Lolò (venendo fuori, sulle furie. È un pezzo d'uomo sui quaranta, dagli occhi di lupo, sospettosi; iracondo. Porta in capo un vecchio cappellaccio bianco a larghe tese e agli orecchi due cerchietti d'oro. Senza giacca, con una camicia dì ruvida flanella, a quadri, violacea, aperta sul petto irsuto; le maniche rimboccate): Le mule, a quest'ora? Dove sono? Dove l'hai avviate?
'Mpari pè: Sono di là, stia tranquillo. Il mulattiere vuol sapere dove deve scaricare.
Don Lolò: Ah si? Scaricare: senza ch'io abbia veduto che cosa m'ha portato? E in questo momento non posso: sto parlando con l'avvocato.
'Mpari pè: Ah, della giara?
Don Lolò (squadrandolo): Ohi, dico, chi t'ha promosso caporale? 
'Mpari pè: No, dicevo...
Don Lolò: Tu non devi dir nulla; obbedire, e mosca! Vorrei sapere per qual ragione t'è potuto venire in mente ch'io stia parlando della giara con l'avvocato.
'Mpari pè: Perché lei non sa in che apprensione ‑ ma che dico, apprensione? ‑ in che terrore vivo per questa giara nuova, a vederla esposta là nel palmento.
Indica a sinistra, verso la cascina.
La levi, la levi, in nome di Dio!
Don Lolò (urlando): No! T'ho detto no cento volte! Deve star lì, e nessuno deve toccarla!
'Mpari pè: Con questo va e vieni di donne e di ragazzi, messa com'è accanto alla porta!
Don Lolò: Sangue di... hai giurato di farmi andar via col cervello?
'Mpari pè: Purché poi non abbia a prendersi un dispiacere.
Don Lolò: Non voglio che mi si esca in altri discorsi, mentre n'ho cominciato uno di là con l'avvocato. Dove vuoi che la metta codesta giara? Nella dispensa non c'è posto, se prima non si leva la botte vecchia; e per ora non ho tempo.
Sopravviene da destra Il mulattiere.
Il mulattiere: Oh, insomma, dove debbo scaricare questo concime? A momenti è bujo,
Don Lolò: Eccone qua un altro! Sant'Aloe t'ajuti a romperti il collo, tu e tutte le tue bestie! Te ne vieni a quest'ora?
Il mulattiere: Prima non ho potuto.
Don Lolò: E io gatte nel sacco non ne ho mai comperate. E voglio che tu i mucchi sul maggese me li faccia dove e come ti dico io; e a quest'ora è troppo tardi.
Il mulattiere: Oh! sa la nuova, Don Lolò. Io scarico le mule dove vien viene, dietro il muro di cinta, e me ne vado.
Don Lolò: Pròvati! Voglio vederti!
Il mulattiere: Ecco che glielo faccio vedere!
S'avvia infuriato.
'Mpari pè (trattenendolo): Eh via, che furie!
Don Lolò: Lascialo, lascialo andare!
Il mulattiere: Se egli ha la testa calda, io l'ho più calda di lui! Non ci si può aver da fare! Ogni volta, una lite!
Don Lolò: Eh, caro mio, con me, chi vuol aver da fare ‑ guarda ‑ cava di tasca un libro di piccolo formato, legato in tela rossa c'è questo. Lo sai che è? Ti sembra un libriccino da messa? È il Codice Civile! Me l'ha regalato il mio avvocato, che ora è qua, a villeggiatura da me. E ho imparato a leggerci, sai, in questo libriccino, e a me non me la fa più nessuno, neppure il Padreterno! Contemplato tutto, qua: caso per caso. E me lo pago ad anno, io, l'avvocato!
'Mpari pè: Eccolo qua!
Esce dalla porta della cascina l'avvocato Scimè con una vecchia paglietta in capo e un giornale in mano, aperto.
Scimè: Che cos'è, Don Lolò?
Don Lolò: Signor avvocato, quest'ignorante se ne viene al bujo con le mule a portarmi un carico di concime per il maggese, e invece di chiedermi scusa –
Il mulattiere (cercando d'interrompere, rivolto all'avvocato): ‑ gli ho detto che prima non ho potuto –
Don Lolò (seguitando): ‑ mi ha minacciato –
Il mulattiere: ‑ io? non è vero! –
Don Lolò: ‑ tu, sì, di buttarmelo dietro il muro –
Il mulattiere: ‑ ma perché lei... –
Don Lolò: ‑ io, che cosa? Lo voglio scaricato sul posto, come si deve, a mucchi, tutti d'una misura.
Il mulattiere: E andiamo! Perché non viene? C'è ancora due ore di sole signor avvocato. È che lui vorrebbe soppesarselo in mano, con rispetto parlando, pallottola per pallottola. L'avessi a conoscere!
Don Lolò: Oh, lascia star l'avvocato, ch'è qua per me e non per te! Non gli dia retta, signor avvocato: se ne vada giù per il viottolo là, al suo solito; si metta a sedere sotto il gelso, e si legga in pace il suo giornale. Verrò più tardi a seguitar con lei il discorso della giara. Al mulattiere: Su, su, andiamo. Quante mule sono?
S'avvia col mulattiere verso destra.
Il mulattiere (seguendolo): Non s'era convenuto per dodici? E son dodici.
Scompare con Don Lolò dietro la cascina.
Scimè (alzando le mani e scotendole in aria): Ah, via, via, via! Domattina all'alba, via a casa mia! Mi sta facendo girar la testa come un arcolajo!
'Mpari pè: Non dà requie a nessuno. E le assicuro che un bel regalo gli ha fatto vossignoria con quel libretto rosso! Prima, alla minima contrarietà, gridava: «Sellatemi la mula!».
Scimè: Già, per correre in città, al mio studio, e farmi ogni volta la testa come un cestone. Caro mio, gliel'ho proprio regalato per questo, il Codice. Se lo cava di tasca, ci si scapa a cercare da sé e lascia me in pace. M'ha ispirato il diavolo, piuttosto, a venire a passare qua una settimana! Ma appena seppe dell'ordinazione del medico, che stessi in riposo per un po' di giorni in campagna, mi mise in croce, mi mise, perché accettassi la sua ospitalità. Gli posi per patto che non dovesse parlarmi di nulla. Da cinque giorni mi rompe l'anima parlandomi d'una giara... di non so che giara...
'Mpari pè: Sissignore, della giara grande, per l'olio, arrivata ch'è poco da Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricano. Uh, bella: grossa così, alta a petto d'uomo: pare una badessa. O che vorrebbe attaccarla anche col fornaciajo di là?
Scimè: E come no? Perché gliel'ha fatta pagar quattr'onze, e dice che se l'aspettava più grande.
'Mpari pè (con stupore): Più grande?
Scimè: Non mi parla d'altro da cinque giorni che son qui.
S'avvia per il sentieruolo a destra: Ah, ma domani, via, via, via. Scompare per il sentieruolo.
Dall'interno, lontano, per le campagne si ode il bercio cantilenato di Zi' Dima Licasi: «Conche, scodelle da accomodare!».
Dal sentieruolo a destra sopravvengono con scala e canne in collo Tararà e Fillicò.
'Mpari pè (vedendoli): Oh, e come mai? Avete smesso d'abbacchiare?
Fillicò: Ce l'ha ordinato il padrone, passando con le mule.
'Mpari pè: E vi disse anche d'andar via?
Tararà: No, che! Ci disse di trattenerci per fare non so che lavoro nella dispensa.
'Mpari pè: Di levarne la botte vecchia?
Fillicò: Già. Per dar posto alla giara nuova.
'Mpari pè: Ah, bene! Son contento che m'abbia dato ascolto almeno una volta! Venite, venite con me.
S'avvia coi due verso sinistra; ma sopravvengono da dietro la cascina Trisuzza,
La 'gnà Tana e Carminella con le ceste vuote.
La 'gnà Tana (vedendo i due abbacchiatori): E come? S'è finito d'abbacchiare?
'Mpari pè: Finito, finito, per oggi.
Trisuzza: E nojaltre, che si fa? 
'Mpari pè: Aspettate che il padrone torni e ve lo dica.
Carminella: Così con le mani in mano?
'Mpari pè: Che volete ch'io vi dica? Andate a scartare nel magazzino. 
La 'gnà Tana: Ah, senza un ordine suo non m'arrischio.
'Mpari pè Mandate allora qualcuno a prender l'ordine.
Via da sinistra con Tararà e Fillicò.
Carminella: Vai, vai tu, Nociarello.
La 'gnà Tana: Gli dirai così: gli uomini hanno smesso d'abbacchiare; le donne vogliono sapere che cosa han da fare. 
Trisuzza: Se vuole che si mettano a scartare. Digli così.
Nociarello: Così. Va bene.
Carminella: Corri!
Nociarello, via di corsa per il sentieruolo a destra.
Ritornano in scena da sinistra, prima uno, poi l'altro, sbalorditi, spaventati, con le mani per aria, Fillicò, Tararà e 'Mpari pè.
Fillicò: Vergine Santa, ajutateci voi!
Tararà: Io non ho più sangue nelle vene!
'Mpari pè: Castigo di Dio! Castigo di Dio!
Le donne (a una voce, facendosi attorno): ‑ Che è stato? ‑ Che avete? ‑ Che è accaduto?
'Mpari pè: La giara! la giara nuova!
Tararà: Spaccata!
Le donne (a una voce): ‑ La giara? ‑ Davvero? ‑ Oh Madre santa!
Fillicò: Spaccata a metà! Come se le avessero dato con la mannaja: zà!
La 'gnà Tana: E com'è possibile!
Trisuzza: Non l'ha toccata nessuno!
Carminella: Nessuno! Ma chi lo sentirà adesso Don Lolò?
Trisuzza: Farà cose da pazzi!
Fillicò: lo per me lascio tutto e me ne scappo.
Tararà: Che? ve ne scappate? Sciocco! E chi gli leverà dal capo allora che non siamo stati noi? Qua fermi tutti! E voi (a 'Mpari pè:) lo andrete a chiamare. No, no: lo chiamerete di qua; gli darete una voce.
'Mpari pè (montando sul sedile attorno all'olivo): Ecco, sì, di qua.
Gridando, con una mano presso la bocca, a più riprese: Don Lolò! Ah, Don Lolòoo! Non sente: va gridando come un pazzo dietro le mule. Don Lolòoo! È inutile! Meglio farci una corsa!
Tararà: Ma in nome di Dio, non gli fate nascere il sospetto...
'Mpari pè: State tranquilli! Come potrei in coscienza incolpar voi?
Via di corsa per il sentieruolo.
Tararà: Oh, tutti d'accordo, noi: una parola sola: fermi, a tenergli testa: la giara s'è rotta da sé.
La 'gnà Tana: S'è dato più d'una volta –
Trisuzza: ‑ sicuro! che le giare nuove si rompano da sé!
Fillicò: Perché tante volte ‑ sapete com'è? ‑ nel cuocerle in fornace, qualche favilla vi rimane presa dentro, che poi tutt'a un tratto pam! scoppia.
Carminella: Proprio così! Come se le tirassero una schioppettata, accenna un segno di croce: Dio ne liberi e scampi.
Si odono dall'interno, a destra, le voci di Don Lolò e di 'Mpari pè.
Voce di Don Lolò: Voglio sapere chi è stato, per la Madonna!
Voce di 'Mpari pè: Nessuno, glielo posso giurare!
Trisuzza: Eccolo qua!
La 'gnà Tana: Signore, ajutateci!
Appare dal sentieruolo, pallido, infuriato, Don Lolò, seguito da 'Mpari pè e Nociarello.
Don Lolò (avventandosi prima contro Tararà, poi contro Fillicò, agguantandoli per il petto della camicia e scrollandoli): Sei stato tu? Chi è stato? O tu o tu, uno dei due dev'essere stato, perdio, e me la pagherete!
Tararà e Fillicò (contemporaneamente, divincolandosi): Io? Lei è pazzo! Mi lasci! Si stia quieto con le mani, o per come è vero Dio...
E contemporaneamente, attorno, le donne e 'Mpari pè, tutti in coro:
Le donne e 'Mpari pè ‑ S'è rotta da sé! ‑ Non ci ha colpa nessuno! ‑ S'è trovata rotta! ‑ Gliel'ho detto e ripetuto!
Don Lolò (ribattendo, ora all'uno ora all'altro): Ah sono pazzo? ‑ Eh già, tutti innocenti! ‑ S'è rotta da sé! La farò pagare a tutti quanti! ‑ Andatela a prendere intanto e portatela qua!
'Mpari pè, Tararà e Fillicò corrono a prendere la giara.
Don Lolò: Alla luce, se c'è segno d'urto o di botta, si vedrà. E se c'è, vi salto alla gola e vi mangio la faccia! Me la pagherete tutti quanti, uomini e donne!
Le donne (a una voce): ‑ Che? Noi? Lei farnetica! ‑ Vuol che ne rispondiamo anche noi? Noi non l'abbiamo nemmeno guardata!
Don Lolò: Siete entrate e uscite dal palmento anche voi!
Trisuzza: Eh, già, le abbiamo rotto la giara, strusciandola così con la sottana!
Si prende con una mano la sottana e smorfiosamente fa l'atto di sbattergliela su una gamba.
Intanto 'Mpari pè, Tararà e Fillicò rientrano in iscena da sinistra recando la giara spaccata.
La 'gnà Tana: Oh peccato! Guardatela!
Don Lolò (levando le disperazioni a modo di quelli che piangono un parente morto): La giara nuova! quattr'onze di giara! E dove metterò l'olio dell'annata? Oh bella mia giara! È stata invidia o infamità! Quattr'onze buttate via! E questa ch'era annata d'olive! Ah Dio, che cosa! E come farò?
Tararà: Ma no, no: guardi –
Fillicò: ‑ si può sanare –
'Mpari pè: ‑ se n'è staccato un pezzo –
Tararà: ‑ un pezzo solo –
Fillicò: ‑ spacco netto –
Tararà: ‑ forse era incrinata.
Don Lolò: Ma che incrinata! Sonava come una campana!
'Mpari pè: E vero. Ne ho fatto io la prova.
Fillicò: Le ritorna come nuova, dia ascolto a me, se chiama un buon conciabrocche; non si vedrà più neanche il segno della saldatura.
Tararà: Chiami Zi' Dima, Zi' Dima Licasi! Dev'essere qua presso; l'ho sentito gridare.
La 'gnà Tana: Bravo mastro, fino: ha un mastice miracoloso, che non ci può neanche il martello, quando ha fatto presa. Corri, Nociarello: è qua accanto, alla chiusa di Mosca; va' a chiamarlo!
Nociarello, via di corsa, per la sinistra.
Don Lolò (gridando): Statevi zitti! M'avete stordito! Non credo a codesti miracoli! Per me la giara è persa.
'Mpari pè: Eh, glielo dicevo io!
Don Lolò (su tutte le furie): Che mi dicevi tu, ménchero, che mi dicevi, se è vero che la giara s'è rotta da sé, senza che nessuno l'abbia toccata? Anche se custodita in un tabernacolo, si sarebbe rotta lo stesso, se s'è rotta da sé!
Tararà: È giusto! Non dite parole inutili!
Don Lolò: Mi fa dannare, quest'imbecille!
Fillicò: Vedrà che tutto s'accomoda, con poche lire! E lei sa che dura più una brocca rotta che una sana.
Don Lolò: Per l'anima di tutti i diavoli: ho le mule a mezza costa col concime!
A 'Mpari pè: Che stai a fare tu qua, a guardarmi in bocca? Corri, va' a dare un occhio, almeno!
'Mpari pè, via per il sentieruolo.
Don Lolò: Ah, mi fuma la testa, mi fuma la testa! Che Zi' Dima e Zi' Dima! Con l'avvocato, piuttosto, devo intendermela! Che se si è rotta da sé, è segno che doveva aver qualche guasto. Sonava, però, sonava, quand'è arrivata! E me la son tenuta per sana. C'è la mia dichiarazione. Quattr'onze perdute. Ci posso far la croce.
Si presenta a sinistra Zi' Dima Licasi seguito da Nociarello
Fillicò: Ah, ecco qua Zi' Dima!
Tararà (piano a Don Lolò): Badi che non parla.
La 'gnà Tana (c.s. quasi misteriosamente): È di poche parole.
Don Lolò: Ah sì?
A Zi' Dima: E non usate neanche salutare, quando vi presentate davanti a qualcuno?
Zi' Dima: Ha bisogno della mia opera o del mio saluto? Della mia opera, credo. Mi dica che ho da fare e lo farò.
Don Lolò: O se le parole vi costano tanto, perché non le risparmiate anche agli altri? Non lo vedete qua che cosa avete da fare?
Gl'indica la giara.
Fillicò: Sanare questa bella giara, Zi' Dima, col vostro mastice!
Don Lolò: Dicono che fa miracoli. L'avete fabbricato voi?
Zi' Dima lo guarda scontroso e non risponde.
Don Lolò: Oh, rispondete e fatemelo vedere!
Tararà (di nuovo piano a Don Lolò): Se lei lo piglia così, non ne otterrà nulla.
La 'gnà Tana (c.s.): Non lo fa vedere a nessuno. Ne è geloso.
Don Lolò: E che è? Ostia consacrata? A Zi' Dima: Ditemi almeno se credete che la giara, accomodata, verrà bene.
Zi' Dima (che ha posato a terra la cesta e n'ha cavato un vecchio fazzoletto di cotone turchino tutto avvoltolato): Così subito? Io credo quando vedo. Mi dia tempo. 
Si mette a sedere per terra e comincia a svolgere pian piano, con molta cautela, il fazzoletto. Tutti lo guardano, attenti e curiosi.
La 'gnà Tana (piano a Don Lolò): Sarà il mastice!
Don Lolò: Io mi sento salire una cosa da qua.
(Indica la bocca dello stomaco.)
Tutti (appena da quel fazzoletto vien fuori un pajo d'occhiali col sellino e le stanghette rotti e legati con lo spago, scoppiando in una risata): - Uh, gli occhiali! - Chi sa che credevamo che fosse! - Credevamo il mastice! - Pare una capezza!
Zi' Dima (pulendo gli occhiali con una cocca del fazzoletto, li guarda; poi, inforcando gli occhiali, esamina la giara e dice): Verrà bene.
Don Lolò: Bum! Il tribunale ha emesso la sentenza. Ma vi avverto che di codesto vostro mastice, per quanto miracoloso, non mi fido. Ci voglio anche i punti.
Zi' Dima torna a guardarlo, poi, senza dir nulla, prende il fazzoletto, gli occhiali e li butta nella cesta rabbiosamente; afferra la cesta, se la rimette in ispalla e s'avvia.
Don Lolò: Ohi, dico, che fate?
Zi' Dima: Me ne vado.
Don Lolò: Messere e porco, così trattate?
Fillicò (trattenendolo): Eh via! Zi' Dima, pazienza!
Tararà (c.s.): Fate come vi comanda il padrone.
Don Lolò: Guardate un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d'asino, che non siete altro! Ci ho a metter l'olio là dentro, che trasuda. Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio anche i punti. Mastice e punti. Comando io.
Zi' Dima: Tutti così! Tutti così! Ignoranti! Sia pure una brocca o sia una conchetta, una ciotola o una tazzina: i punti! I denti della vecchia che digrignano e par che dicano: «Sono rotta e accomodata!». Offro il bene e nessuno ne vuole approfittare. E mi dev'esser negato di fare un lavoro pulito e a regola d'arte!
S'appressa a Don Lolò: Dia ascolto a me. Se questa giara non suona di nuovo come una campana, col solo mastice...
Don Lolò: V'ho detto di no! Io con costui non ci posso combattere!
A Tararà: Alla grazia! M'hai detto che parlava poco!
A Zi' Dima: È inutile che facciate la predica! Se tutti vi comandano i punti, è segno che a giudizio di tutti i punti ci vogliono.
Zi' Dima: Che giudizio! È ignoranza!
La 'gnà Tana: Anche a me ‑ sarà ignoranza ‑ ma mi sembra che ci vogliano, Zi' Dima.
Trisuzza: Certo, tengono meglio.
Zi' Dima: Ma bucano! Ci vuol tanto a capirlo? Ogni punto, due buchi; venti punti, quaranta buchi. Dove col mastice solo...
Don Lolò: Càzzica, che testa! Neanche un mulo! Bucheranno, ma ce li voglio! Sono io il padrone!
Rivolgendosi alle donne: Su, su, andiamo: vojaltre, a scaricare nel magazzino; agli uomini: e vojaltri, nella dispensa, a levar la botte vecchia; andiamo!
Li spinge verso la cascina.
Zi' Dima: Oh, e aspetti!
Don Lolò: C'intenderemo a lavoro finito. Non ho tempo da perdere con voi.
Zi' Dima: Vuol lasciarmi qua solo? Ho bisogno di qualcuno che m'ajuti a reggere il lembo spaccato. La giara è grossa.
Don Lolò: Ah, e allora ‑ a Tararà: ‑ rimani qua tu. A Fillicò: E tu vieni con me.
Via con Fillicò.
Le donne e Nociarello sono già andati via.
Zi' Dima si mette subito all'opera, con dispetto.
Cava dal cesto il trapano e comincia a fare i buchi alla giara e al lembo spaccato. Nel mentre Tararà gli parlerà:
Tararà: Manco male che l'ha presa cosà! Non ci so credere. Ho temuto che dovesse avvenire il finimondo stasera! Non s'amareggi il sangue, Zi' Dima. Ci vuole i punti? Lei ce li metta. Venti, trenta.
Zi' Dima lo guarda
Tararà: anche più? trentacinque?
Zi' Dima torna a guardarlo:
Tararà: E quanti, allora?
Zi' Dima: La vedi questa saettella di trapano? Come la muovo ‑ fru e fru, fru e fru ‑ me ne sento sfruconare il cuore.
Tararà: Mi dica, è vero che l'ebbe in sogno la ricetta del suo mastice?
Zi' Dima (seguitando a lavorare): In sogno, sì.
Tararà: E chi le apparve in sogno?
Zi' Dima: Mio padre.
Tararà: Ah, suo padre! Le apparve in sogno e le disse come doveva fabbricarlo?
Zi' Dima: Mammalucco!
Tararà: Io? Perché?
Zi' Dima: Sai chi è mio padre?
Tararà: Chi è?
Zi' Dima: Il diavolo che ti mangia.
Tararà: Ah, lei dunque è figlio del diavolo?
Zi' Dima: E questa che ho nella cesta è la pece che v'attaccherà tutti quanti.
Tararà: Ah, è nera?
Zi' Dima: È bianca. E me l'insegnò mio padre a farla bianca. Riconoscerete la sua potenza quando ci starete a bollire in mezzo. Ma laggiù è nera. Se accosti due dita, non le stacchi più; e se t'attacco il labbro col naso, resti abissino per tutta la vita.
Tararà: E com'è che lei la tocca e non le fa niente?
Zi' Dima: Sciocco, quando mai il cane ha morso il suo padrone?
Butta via il trapano e sorge in piedi: Vieni qua, adesso.
Gli fa reggere il lembo già forato: Reggi qua.
Cava dalla cesta una scatola di latta, la apre, ne trae una ditata di mastice e lo mostra: Guarda. Ti pare un mastice come un altro? Sta' a vedere.
Spalma il mastice prima sull'orlo della spaccatura della giara, poi lungo tutto il lembo.
Con tre o quattro ditate, così... appena appena... Reggi bene. Io mi caccio adesso qua dentro.
Tararà: Ah, da dentro?
Zi' Dima: Per forza, asino; se ho a fermare i punti bisogna che li fermi da dentro. Aspetta. Cerca nella cesta: Fil di ferro e tanaglie. 
Prende quello e queste e va a cacciarsi dentro la giara.
Oh, tu adesso... ‑ aspetta che mi metta bene ‑ alza codesto lembo e applicalo, a combaciare... piano... bravo... così. 
Tararà eseguisce e lo chiude dentro la giara. Poco dopo, sporgendo il capo dalla bocca della giara:
Zi' Dima: Ora tira, tira! È ancora senza punti. Tira con tutta la tua forza. Vedi? vedi se si stacca più? Neanche dieci paja di buoi potrebbero più staccarla! Va', va' a dirlo al tuo padrone!
Tararà: Ma scusi, zii Dima, è sicuro che potrà uscime, ora?
Zi' Dima: Come no? Ne son sempre uscito, da tutte le giare.
Tararà: Ma questa ‑ non so ‑ mi pare un po' stretta di bocca per lei. Si provi.
Ritorna dal viottolo a destra 'Mpari pè.
'Mpari pè: O che non può più uscirne?
Tararà (a Zi' Dima, dentro la giara): Piano. Aspetti. Di lato. 
'Mpari pè: Il braccio, fuori prima un braccio.
Tararà: No, il braccio, che dite?
Zi' Dima: Ma insomma, santo diavolo, com'è? Non posso più uscirne? 
'Mpari pè: Tanto grossa di pancia e tanto stretta di bocca!
Tararà: Sarebbe da ridere, dopo averla sanata, se non ne potesse più uscire davvero! 
Ride.
Zi' Dima: Ah tu ridi? Corpo di Dio, datemi ajuto!
E fa leva infuriato. 
'Mpari pè: Aspettate, non fate cosà! Vediamo se, piegandola...
Zi' Dima: No, peggio. Lasciate! L'intoppo è nelle spalle.
Tararà: Già, lei che n'abbonda un pochino da una parte!
Zi' Dima: Io? Se hai detto tu stesso che difetta di bocca la giara!
'Mpari pè: E ora come si fa?
Tararà: Ah, questa è da contare! da contare!
Ride e corre verso la cascina, chiamando: Fillicò! 'gnà Tana! Trisuzza! Carminella! Venite venite qua! Zi Dima non può più uscire dalla giara!
Arrivano da destra Fillicò, La 'gnà Tana, Trisuzza, Carminella, Nociarello.
Le donne e Nociarello (tutti a coro, ridendo, saltando, battendo le mani): Dentro la giara? ‑ Oh bella! E com'è stato? ‑ Non può più uscirne?
Zi' Dima (nello stesso tempo, come un gatto inferocito): Fatemi uscire! Prendete il martello da quella cesta!
'Mpari pè: Che martello! Voi siete pazzo! Deve dirlo il padrone.
Fillicò: Eccolo qua! Eccolo qua!
Sopravviene di corsa dalla destra Don Lolò.
Le donne (andandogli incontro): S'è murato dentro la giara! ‑ Da sé! ‑ Non può più uscirne!
Don Lolò: Dentro la giara?
Zi' Dima (nello stesso tempo): Ajuto! ajuto!
Don Lolò: E che ajuto posso darvi io, vecchio imbecille, se non avete preso la misura della vostra gobba... (tutti ridono) ...Prima di cacciarvi dentro?
La 'gnà Tana: Ma guardate che gli càpita, povero Zi' Dima!
Fillicò: È da cavarne i numeri, per com'è vero Dio!
Don Lolò: Aspettate. Piano. Cercate di trar fuori un braccio.
'Mpari pè: È inutile! S'è provato in tutti i modi.
Zi' Dima (che ha cavato fuori a stento un braccio): Ahi! Piano, mi sloga il braccio!
Don Lolò: Pazienza! Provate a...
Zi' Dima: No! Mi lasci!
Don Lolò: Che volete che vi faccia allora?
Zi' Dima: Prenda il martello e rompa la giara!
Don Lolò: Che? Ora che è sanata?
Zi' Dima: O che vorrebbe tenermi qua dentro?
Don Lolò: Bisogna prima vedere come s'ha da fare.
Zi' Dima: Che vuol vedere? Io voglio uscire! voglio uscire, perdio!
Le donne (a coro): ‑ Ha ragione! ‑ Non può mica tenerlo lì! ‑ Se non c'è altro rimedio!
Don Lolò: Mi fuma la testa! Mi fuma la testa! Calma, calma! Questo è un caso nuovo! Non capitato mai a nessuno!
A Nociarello: Vieni qua, ragazzo... No, meglio tu, Fillicò: corri là (gl'indica il sentieruolo a destra) sotto il gelso, c'è l'avvocato; fallo venir subito qua...
E come Fillicò va via, rivolgendosi a Zi' Dima che si dibatte nella giara: Fermo, voi! Agli altri: Tenetelo fermo! Non è giara, questa! è il diavolo! Di nuovo a Zi' Dima che scrolla la giara e vi si dimena dentro: Fermo, vi dico!
Zi' Dima: O la rompe lei, o a costo di rompermi io la testa, la faccio rotolare e spaccare contro un albero! Voglio uscirne! voglio uscirne!
Don Lolò: Aspettate che venga su l'avvocato: risolverà lui questo caso nuovo! Io intanto mi guardo il mio diritto alla giara e comincio col fare il mio dovere. Cava di tasca un grosso vecchio portafoglio di cuojo legato con lo spago e ne trae una carta di dieci lire: Testimoni tutti, vojaltri: qua dieci lire in compenso del vostro lavoro!
Zi' Dima: Non voglio niente! Voglio uscire!
Don Lolò: Uscirete quando lo dirà l'avvocato: io intanto vi pago.
Alza la mano col biglietto di dieci lire e lo cala dentro la giara.
Dal sentieruolo a destra viene l'avvocato Scimè, ridendo, seguito da Fillicò.
Don Lolò (vedendolo): Ma che c'è da ridere, mi scusi! A lei non brucia, lo so! La giara è mia.
Scimè (non potendo trattenersi, tra le risate anche degli altri): Ma che pre ... ma che pretendete di tene... di tenerlo là dentro? Ah ah ah, ohi ohi ohi ... Tenerlo là dentro per non perderci la giara?
Don Lolò: Ah, secondo lei, dovrei patire io, allora, il danno e lo scorno?
Scimè: Ma sapete come si chiama codesto? Sequestro di persona.
Don Lolò: E chi l'ha sequestrato? S'è sequestrato lui da sé! Che colpa n'ho io? A Zi' Dima: Chi vi tiene lì dentro? Uscitene!
Zi' Dima: Si provi lei a farmi uscire, se n'è capace!
Don Lolò: Ma non vi ci ho ficcato io costà, da aver quest'obbligo! Vi ci siete ficcato voi: uscitene!
Scimè: Signori miei, permettete che parli io?
Tararà: Parla l'avvocato! Parla l'avvocato!
Scimè: Son due i casi, statemi a sentire, e dovete mettervi d'accordo. Rivolgendosi prima a Don Lolò: Da una parte, voi Don Lolò, dovete subito liberare Zi' Dima.
Don Lolò (subito): E come? rompendo la giara?
Scimè: Aspettate. C'è poi la parte dell'altro. Lasciatemi dire. Non potete farne a meno. Per non rispondere di sequestro di persona.
Rivolgendosi ora a Zi' Dima: Dall'altra parte, anche voi Zi' Dima dovete rispondere del danno che avete cagionato cacciandovi dentro la giara senza badare che non potevate più uscirne.
Zi' Dima: Ma signor avvocato, io non ci ho badato perché, da tant'anni che faccio questo mestiere, di giare ne ho accomodate centinaja, e tutte sempre da dentro, per fermare i punti come l'arte comanda. Non m'era mai avvenuto il caso di non poterne più uscire. Tocca a lui dunque di prendersela col fornaciajo che gliela fabbricò così stretta di bocca. Io non ci ho colpa.
Don Lolò: Ma codesta gobba che avete, ve l'ha forse fabbricata il fornaciajo per impedirvi d'uscire dalla mia giara? Se attacchiamo lite per la bocca stretta, signor avvocato, appena si presenterà lui con quella gobba, il meno che potrà fare il pretore è di mettersi a ridere; mi condannerà alle spese e buona notte!
Zi' Dima: Non è vero! no! Perché con questa stessa gobba, io, per vostra regola, dalla bocca di tutte le altre giare son sempre entrato e uscito come dalla porta di casa mia!
Scimè: Questa non è ragione, abbiate pazienza, Zi' Dima. L'obbligo vostro era di prender la misura prima d'entrare, se ne potevate uscire oppur no.
Don Lolò: E deve dunque ripagarmi la giara?
Zi' Dima: Che?
Scimè: Piano, piano. Ripagarvela come nuova?
Don Lolò: Certo. Perché no?
Scimè: Ma perché era già rotta, oh bella!
Zi' Dima: Gliel'ho accomodata io!
Don Lolò: L'avete accomodata? E dunque ora è sana! Non più rotta. Se io ora la rompo per farne uscir voi, non potrò più farla riaccomodare, e ci avrò perduto la giara per sempre, signor avvocato.
Scimè: Ma ho detto perciò che Zi' Dima dovrà pur rispondere per la sua parte! Lasciate parlare a me!
Don Lolò: Parli, parli.
Scimè: Caro Zi' Dima, una delle due: o il vostro mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla.
Don Lolò (contentissimo, a quanti stanno a sentire): Sentite, sentite, come lo piglia in trappola adesso. Quando comincia così...
Scimè: Se il vostro mastice non serve a nulla, voi siete un imbroglione qualunque. Se serve a qualche cosa, e allora la giara, anche così com'è, deve avere il suo valore. Che valore? Dite voi. Stimatela.
Zi' Dima: Con me qua dentro?
Tutti ridono.
Scimè: Senza scherzare! Così com'è.
Zi' Dima: Rispondo. Se Don Lolò me l'avesse lasciata accomodare col solo mastice com'io volevo, prima di tutto non mi troverei qua dentro, perché avrei potuto accomodarla da fuori: e allora la giara sarebbe rimasta come nuova, e avrebbe avuto lo stesso valore di prima, né più né meno. Così rabberciata come è adesso, e forata come un colabrodo, che vuole che valga? Sì e no un terzo di quanto fu pagata.
Don Lolò: Un terzo?
Scimè: (subito, a Don Lolò, facendo atto di parare): Un terzo! Zitto, voi! Un terzo... vuol dire?
Don Lolò: Fu pagata quattr'onze: un'onza e trentatré.
Zi' Dima: Meno sì, più no.
Scimè: Valga la vostra parola. Prendete un'onza e trentatré e datela a Don Lolò.
Zi' Dima: Chi? Io? Un'onza e trentatré a lui?
Scimè: Perché rompa la giara e vi faccia uscire. Gliela pagherete quanto voi stesso l'avete stimata.
Don Lolò: Liscio come l'olio.
Zi' Dima: Pagare, io? Pazzia, signor avvocato! Io ci faccio i vermi, qua dentro. Oh, tu, Tararà, pigliami la pipa, dalla cesta costà.
Tararà (eseguendo): Questa?
Zi' Dima: Grazie. Dammi un po' di fuoco.
Tararà accende un fiammifero e gliel'accosta alla pipa.
Zi' Dima: Grazie. E bacio le mani a tutti quanti.
Con la pipa che fuma si cala dentro la giara tra le risate generali.
Don Lolò (restando come un allocco): E ora come si fa, signor avvocato, se non ne vuole più uscire?
Scimè (grattandosi la testa e sorridendo): Eh, già, veramente, finché voleva uscirne, il rimedio c'era; ma se ora non ne vuole più uscire...
Don Lolò (andando a parlare a Zi' Dima dentro la giara): Oh, che intenzione avete? di domiciliarvi costì?
Zi' Dima (sporgendo il capo): Ci sto meglio che a casa mia. Fresco, come in paradiso.
Si ricala dentro e ripiglia a fumare a gran boccate.
Don Lolò (tra le risate di tutti, infuriatissimo): Finite di ridere, per la Madonna! E siatemi tutti testimoni che è lui, adesso, a non volere più uscire, per non pagare quel che mi deve, mentre io son pronto a rompere la giara. All'avvocato: Non potrei citarlo per alloggio abusivo, signor avvocato?
Scimè (ridendo): E come no? Mandategli l'usciere per lo sfratto.
Don Lolò: Ma scusi, se m'impedisce l'uso della giara?
Zi' Dima (sporgendo di nuovo il capo): Lei sbaglia. Non sto mica qua per mio piacere. Mi faccia uscire e me n'andrò ballando. Ma quanto a farmi pagare, se lo scordi. Non mi muovo più di qua dentro.
Don Lolò (abbrancando la giara e scotendola furiosamente): Ah, non ti muovi più? non ti muovi più?
Zi' Dima: Vede che mastice? Non ci sono mica i punti, sa?
Don Lolò: Pezzo di ladro, laccio di forca, manigoldo, chi l'ha fatto il male, tu o io? E vuoi che lo paghi io?
Scimè (tirandoselo via per un braccio): Non fate così, ch'è peggio! Lasciatelo star lì tutta la notte, e vedrete che domattina ve lo chiederà lui stesso d'uscire. Allora, voi, un'onza e trentatré, o niente. Andiamocene su. Lasciatelo perdere.
S'avvia con Don Lolò verso la cascina.
Zi' Dima (sporgendo ancora una volta il capo): Ohi, Don Lolò!
Scimè (a Don Lolò seguitando ad andare): Non vi voltate. Via, via.
Zi' Dima (prima che i due entrino nella cascina): Buona notte, signor avvocato! Ho qua dieci lire!
E appena i due sono entrati, rivolgendosi agli altri: Faremo allegria tra noi, qua tutti quanti! Voglio incignar la casa nuova! Tu, Tarara, corri qua da Mosca e compra vino, pane, pesce fritto e peperoni salati: faremo un gran festino!
Tutti (battendo le mani, mentre Tararà corre per le compere): Viva Zi' Dima! Viva l'allegria!
Fillicò: Con questa bella luna! Guardate. È spuntata di là. Indica a sinistra: Pare giorno!
Zi' Dima: La voglio vedere! la voglio vedere anch'io! Trasportate la giara più là, pian piano.
Tutti ajutano, circondando la giara e spingendola a girar su se stessa, verso il sentieruolo a destra: Zi' Dima: Così, piano, ecco... così... Ah com'è bella! la vedo, la vedo! Pare un sole! Chi fa una cantatina?
La 'gnà Tana: Tu, Trisuzza!
Trisuzza: Io, no! Carminella!
Zi' Dima: Cantiamo tutti a coro! tu Fillicò, suona lo scacciapensieri, e voi tutti, una bella cantata, ballando attorno alla giara!
Fillicò cava di tasca lo scacciapensieri e si mette a sonarlo; gli altri, cantando e gridando, si prendono per mano e danzano scompostamente attorno alla giara, incitati da Zi' Dima. Ma poco dopo, la porta della cascina si spalanca difuria e irrompe don Lolò gridando:
Don Lolò: Corpo di Dio, dove vi par d'essere, alla taverna? Tenete, vecchio del diavolo: andate a rompervi il collo!
Allunga un formidabile calcio alla giara, che rotola giù per il sentieruolo tra le grida di tutti.
Poi si sente il fracasso della giara che si spacca urtando contro un albero.
La 'gnà Tana (seguitando il grido): Ah, l'ha ucciso!
Fillicò (guardando con gli altri): No! Eccolo là!
Ne esce! Si alza!
Non s'è fatto nulla!
Le donne battono le mani allegramente.
Tutti: Viva Zi' Dima! Viva Zi' Dima!
Lo prendono sulle spalle e lo portano via in trionfo verso sinistra.
Zi' Dima (agitando le braccia): L'ho vinta io! L'ho vinta io!

Restano da fare solo delle osservazioni relative al titolo, che non cambia in nessuna delle tre versioni (novella e atto unico, questo in siciliano e lingua): A’giarra  la giara, stante ad indicare fin dall’inizio il cardine di tutta la vicenda, e che servirà in particolare a mettere a confronto i difetti dei due coprotagonisti, con la sconfitta finale di Zirafa, che paga simbolicamente per tutti coloro che non hanno mai voluto dare fiducia al mastico di Zi’ Dima, come evidenzia Briganti.
La giara è una delle vette creative di Luigi Pirandello. Non appesantito dalle dicotomie riscontrabilissime nella produzione pirandelliana – flusso/forma, maschera/volto, tempo/durata, comicità/umorismo – il racconto si snoda in una progressione di colpi di scena piacevoli fino allo scioglimento finale, all’apoteosi.
Tutti e due i personaggi sono tratti da un tipo di società che fa risaltare soprattutto una profonda miseria, che ha origini lontane nel tempo: cosa può venir fuori da un povero zi' Dima che gode delle disgrazie altrui, senza pensare a risolvere le proprie? E zi' Dima continuerà a vivere nella sua mutria, in quel suo atteggiamento un po' superbo e scostante, sottolineato da un silenzio che deriva non solo dall'incapacità di comunicare, ma anche dalla diffidenza negli altri, pronti più a strappargli il segreto dell'invenzione miracolosa del mastice che ad avere con lui normali e umani rapporti.
La soluzione non nasce mai dall'interno dei personaggi, ma arriva sempre dall'esterno: per zi' Dima da don Lollò che con la sua rabbia rompe alla fine la giara per non sopportare il divertimento della gente alle sue spalle, per don Lollò dall'avvocato e dal calepino.
Ogni soluzione è trovata nella banalità quotidiana: la banalità, spinta fino al paradosso, rappresenta il tema intorno al quale ruota la vicenda dei personaggi e l'esistenza quotidiana nel suo complesso, senza che mai qualcuno abbia la forza per costruire qualcosa di veramente valido.
A cosa serve, infatti, la stessa ricchezza di don Lollò? Non certamente per vivere un'esigenza più agiata o con meno pensieri degli umili lavoranti che faticano nelle sue terre. La ricchezza è un bene che vive per sé, che altri poi potranno godere, ma don Lollò di essa non può sperperare neanche un centesimo. In questo modo si risolve l'attimo, l'evento particolare e accidentale, non certamente la situazione generale, che avrebbe bisogno di ben altra forza nei personaggi.
Entrambi i personaggi si muovono al di fuori del modo comune di agire; sono entrambi senza famiglia, e questo spinge a considerazioni un po' amare. Nella loro condizione di solitudine, con o senza il rispetto degli altri, viene a mancare uno degli elementi fondamentali della vita di ogni individuo, la famiglia, un valore che rappresenta il naturale completamento di ciascun individuo. Massimo Capuozzo

martedì 11 dicembre 2012

La progressiva laicizzazione della cultura: cavalleria e cortesia di Massimo Capuozzo


Nell'Alto Medioevo la cultura scritta era totalmente in mano alla Chiesa: l'intellettuale era un ecclesiastico, il clericus, con competenze prevalentemente religiose, ma anche capace di prestare un servizio pratico alla società civile, come insegnare nelle scuole istituite presso monasteri ed abbazie, e impiegato perfino come funzionario amministrativo. L’opera letteraria si consumava totalmente in ambito religioso.
Nell’Alto Medioevo esistevano due tipi di pubblico, ben distinti fra loro. Il primo era costituito dalla ristretta cerchia dei dotti, tutti chierici che si intendevano fra di loro in latino, lingua internazionale, sugli alti temi della scienza teologale; il secondo era invece costituito dalla gran massa degli indotti, non solo la povera gente, ma anche i signori, analfabeti quanto i primi; a questo pubblico ci si rivolgeva in volgare cioè in una delle varie parlate correnti, diverse da luogo a luogo. C’è da precisare, inoltre, che la Chiesa del tempo era tutt’altro che insensibile alla necessità di poter comunicare con la stragrande maggioranza dei credenti che non capiva più il latino: esigenze di apostolato e di egemonia ideologica glielo imponevano. Già Gregorio Magno aveva raccomandato ai chierici di lasciar perdere gli orpelli retorici e di usare un linguaggio comprensibile agli umili, ai quali Gesù aveva indirizzato principalmente la buona novella. Due secoli dopo, il concilio di Tours nell’813 aveva imposto all’episcopato di far tradurre la predicazione negli idiomi locali «in rusticam romanam linguam aut thoitiscam quo facilius cuncti possint intelligere que dicuntur». La Chiesa quindi senz’altro accettava l’esistenza dei linguaggi volgari e ne faceva uso per le sue esigenze di comunicazioni verbali, ma la lingua della cultura e, più in generale la lingua scritta doveva rimanere il latino: del resto gli umili erano tutti analfabeti e non avrebbero potuto capire un testo anche se scritto in rusticam romanam linguam. L’unica lettura per i laboratores poteva essere la contemplazione delle pitture e delle sculture che narravano sulle facciate e lungo le pareti delle chiese fatti di fede e di pietà.
Per oltre mezzo millennio l’intellettuale era stato dunque un uomo di Dio, un monaco interessato in modo pressoché esclusivo a penetrare i misteri della fede cristiana e a propagandarne il messaggio spirituale e morale. L’identificazione pertanto fra intellettuale e uomo di Chiesa era completa, a tal punto che chierico era sinonimo di dotto. Erano stati secoli tremendi di anarchia e di miseria, dominati da un’universale insicurezza a cui dava parziale rifugio la speranza di una ricompensa ultraterrena, peraltro anch’essa drammaticamente difficile. La speranza in una felicità ultraterrena era, tuttavia, l’unica che gli uomini sentono di poter ragionevolmente nutrire.
Era considerato assurdo credere di migliorare qualcosa su questo mondo: assurdo e colpevole perché distoglieva l’uomo dal suo vero fine. Gli intellettuali medievali, gli oratores, coloro che pregano, furono instancabili teorizzatori e persuasori di questa impossibilità ed illiceità del mutamento che valeva anche naturalmente nel campo del sapere.
Intorno al secolo XI – cessate ormai da tempo le rovinose e massicce invasioni di Ungari, Musulmani e Normanni, restituito un minimo di tranquillità al lavoro ed alle opere di pace – l’agricoltura e la popolazione, i commerci e le città tornarono a svilupparsi: questi mutamenti socioeconomici incisero significativamente, ma in modo per la prima volta diversificato, sull’evoluzione della vita culturale nelle regioni d’Europa dove il mondo feudale dimostrava una maggiore vitalità, ed in quelle dove più rapidamente si diffuse la nuova società urbana e borghese. In quel momento da un lato la cultura, che si era manifestata unitaria nell’Alto Medioevo, cominciò a diversificarsi nelle varie nazionalità ed a cercare una propria identità, dall’altro si ebbe il risveglio generale nel campo spirituale, politico e sociale. Furono recuperati interessi più umani e terreni, si attenuò l'esasperato ascetismo, ponendo i presupposti che avrebbero portato ai secoli dell'Umanesimo.
Nell’XI e nel XII secolo il sistema feudale si consolidò notevolmente e questo tipo di società raggiunse il suo momento di massimo sviluppo: i grandi feudatari cominciarono a rendersi conto dell’importanza di disporre nella loro corte – già dotata di funzioni giuridiche ed amministrative – di un autonomo centro di elaborazione culturale, ma cominciarono anche a rendersi conto dell’importanza di legittimare la propria dinastia attraverso la redazione di cronache e storie e, soprattutto, attraverso la redazione di opere di autocelebrazione e d’intrattenimento, attraverso lirica e poesia musicata, poemi epici e romanzo. Nasceva così la cultura feudale laica, dapprima essenzialmente orale ed in un secondo momento scritta.
Occorre fare attenzione piuttosto sul fenomeno della laicizzazione della cultura che non avvenne ex abrupto, ma fu il processo di una lenta gestazione perché il ruolo del chierico rimase ancora indispensabile: nell’XI secolo non si era ancora sviluppata l’attività dei cantori di corte ed i monasteri, che in Francia come in Europa, continuavano a rappresentare gli unici centri di cultura. Quest’attività aveva fatto degli scriptoria le uniche sedi di trasmissione e di trasformazione del sapere, tanto che tutti i maggiori intellettuali del periodo uscirono dagli ambienti monastici, oppure ad essi furono legati. Tenuto conto di un tale scenario storico, sarebbe difficile ipotizzare che gli autori delle Chanson siano stati completamente avulsi dall’ambiente religioso. È legittimo parlare di una cultura laica non nel senso che siano laici coloro che attendono ad esse, perché all’inizio i nuovi intellettuali sono più che altro dei chierici che mettono l’istruzione acquisita nei centri di studio ecclesiastici – scuole abbaziali, vescovili, capitolari – al servizio delle corti come scrivani precettori e, in misura crescente, come poeti. Essi sono di fatto dei laici per la loro condizione sociale e per il loro orientamento spirituale non vivendo essi di decime, prebende ed elemosine, ma del mecenatismo del signore e facendo oggetto della loro poesia valori più umani e mondani: il coraggio, l’amore la liberalità la lealtà. Insieme con questi intellettuali laici nascono non a caso le letterature romanze: i nuovi intellettuali si rivolgono ad un pubblico nuovo diverso da quello del passato, un pubblico che non si accontentava più di parlare un idioma rozzo ed incolto, ma si sforzava di ingentilirlo: era un pubblico che si interessava della poesia, ma che ne era respinto dall’uso del latino che ignorava.
Il termine cortese in provenzale cortes, in francese cortois – abitualmente usato per definire questa cultura – deriva da curtensis, un aggettivo formato dal tardo latino cortis-curtis, che, dall’età carolingia, aveva il significato di masseria, proprietà terriera, signoria, seguito del principe, mentre dal X secolo cominciò ad essere usato anche col significato di corte di giustizia.
Il termine cortesia evoca dunque uno spazio ben preciso, un luogo di potere, ma anche di cultura, quello della corte, sebbene il concetto di corte sia in molti casi un'astrazione: Federico II, per esempio non aveva una corte fissa, nonostante l'importanza di Palermo, era ospite ogni volta di un suo vassallo, molto spesso nella valle padana. Era lui a fare da centro. I luoghi dove aveva luogo l'evento poetico furono nella realtà molto vari. Possiamo solo romanticamente pensare ai signori, con i loro fedeli e i loro armati, chiusi in castelli, prima che si moltiplichino le corti cittadine. L’edificio simbolo di questa cultura rimane comunque il castello: strutturato in modo da difendere i loro occupanti dagli attacchi dei nemici, un fossato circondava il castello, dalle mura sporgevano le torri a intervalli regolari, le finestre strombate, strette verso l’esterno e larghe verso l’interno, in modo da far entrare più luce, si aprivano sulle mura, soprattutto nei piani più bassi, per difendersi sia dai proiettili nemici sia dalle incursioni e dai tentativi di scalare le mura; il dongione poi, un grosso torrione con mura di grande spessore, poteva ospitare il feudatario e tutto il suo seguito. Agli inizi del XIII secolo si assiste alla costruzione di castelli concentrici, fortificazioni, cioè, che presentavano due cerchie successive di mura, l’una dentro l’altra. Le costruzioni più interne erano più alte di quelle esterne, così da poterle controllare e sottoporre a lancio di proiettili, pietre e frecce, dall’interno. Eppure, nello stesso periodo, si assiste alla creazione di corti fastose in città che, come nel caso della Parigi di Filippo Augusto, ebbero prestissimo uno sviluppo straordinario.
Naturalmente, chiese e conventi continuavano a rimanere sempre e quasi dovunque centri di produzione letteraria, prima in latino, poi in volgare. I giullari percorrevano anche le strade dei pellegrini, e, in cambio del loro obolo, celebravano – d'intesa con i monaci – qualche santuario locale, collegandolo con le imprese dei re o dei grandi signori, ma soprattutto, propugnavano crociate contro gli infedeli.
Nel generale risveglio economico dell’Europa dell’XI secolo, si erano moltiplicati e consolidati alcuni «nuclei dinastici – scrive Aurelio Roncaglia in Poesia dell’età cortese del 1961 – in larga misura autonomi, spregiudicati nell’uso della forza come delle ricchezze per suo mezzo accumulate». Quell’atmosfera di sacralità provvidenzialistica, che aveva circondato tradizionalmente imperatori e re – le cui biografie avevano sempre un fine agiografico – cominciò a diradarsi, aprendo la strada ad una visione più laica della vita ed alle esigenze delle elite aristocratiche. Le corti europee si aprirono allora a nuove manifestazioni e a riti collettivi, non più dominati dai clerici, ma espressione dei propri desideri e delle proprie aspirazioni. A questo mondo è legata la nascita di una letteratura in lingua volgare, che celebrava valori, miti e riti della classe feudale, sintetizzabili negli ideali cortesi della cavalleria.
Per comprendere meglio i contenuti di queste prime forme letterarie, è necessario innanzi tutto fare riferimento al mondo della cavalleria, manifestazione caratteristica del mondo feudale, perché la classe militare – la casta dei nobili guerrieri che Adalberone di Laon definiva i bellatores – era alla base della società medioevale, infatti, il ceto aristocratico di origine guerriera – conti, baroni, marchesi – era decisivo. Col passar del tempo, però, gli esperti nell’uso delle armi tra gli appartenenti all’antica nobiltà guerriera diventarono sempre più insufficienti a sopperire ai bisogni delle guerre e delle faide. Si ricorse allora alla creazione di nuove milizie: si creò in questo modo la cavalleria, nerbo dell’esercito medievale costituito dai soldati a cavallo, e nuova classe militare, che integrò la vecchia nobiltà guerriera.
La cavalleria era formata, oltre che dai figli cadetti dell’antica nobiltà, abitualmente esclusi dalla successione ereditaria dei feudi – in conseguenza dell’istituto giuridico del maggiorasco, il feudo era trasmesso indiviso al primogenito e i cadetti potevano scegliere la vita monastica o la carriera militare – ma era costituita anche dagli appartenenti a strati più bassi della nobiltà, che non avevano mai posseduto un feudo o che erano decaduti, diventando quindi dei mercenari al servizio di qualche signore. La maggior parte della cavalleria era tuttavia costituita da gente nuova, che proveniva dal rango dei ministeriales, cioè i funzionari di corte, gli amministratori – segretari del feudatario, sovrintendenti di corte, scudieri, staffieri – quindi molti cavalieri potevano anche essere di origine bassa e servile e, per la prima volta, avevano la chance di diventare i compagni d’armi, ottenendo terre in cambio dei loro servigi militari. Con l’ascesa sociale dei ministeriales si ha la testimonianza di una prima fase della mobilità sociale nel Medioevo, che mise in moto dei nuovi meccanismi, anche se, già alla fine dell’XI secolo, il nuovo ceto cavalleresco fu nuovamente bloccato e soltanto i figli dei cavalieri poterono diventare cavalieri.
Diventata una protagonista della vita dell’incipiente Basso Medioevo, questa classe sociale influenzò profondamente la cultura e nello specifico la letteratura. I cavalieri diventarono gli interpreti più rappresentativi della visione del mondo e dell’etica feudale e, quindi, influenzarono l’immaginario collettivo: prendendo coscienza del proprio ruolo sociale sempre più rilevante, essi si sentirono in dovere di elaborare alcuni propri ideali di comportamento e di visione della realtà e la letteratura diventò uno strumento di propaganda della loro visione del mondo.
I cardini della visione cavalleresca della vita si possono sintetizzare nel valore della prodezza nell’esercizio delle armi e nel conseguente sprezzo del pericolo, nel senso dell’onore, accompagnato al desiderio di gloria – perdere l’onore era peggiore della morte – nel valore della lealtà, rispettando l’avversario ed il codice di combattimento, infine nel valore della generosità con i vinti. L’insieme di questi valori, complementari tra loro, formava un codice unitario di comportamento: venir meno all’ideale della prodezza comprometteva l’onore, lo stesso valeva per la slealtà e la fellonia – infedeltà verso il proprio signore – era considerata gravissima.
Questi ideali cavallereschi, tipici della classe feudale, trovarono la loro canonizzazione nella Chanson de Roland – la prima e la più nota canzone di gesta – ed il loro principale luogo di espressione nella corte, centro della vita sociale e culturale delle elite aristocratiche.
L’attribuzione del poema è incerta: alcuni studiosi ritengono che sia opera di un unico autore, riconosciuto in quel Turoldo citato nell’ultimo verso del poema; per un lungo periodo è stata diffusa invece la teoria che si tratti di un’opera composita, in cui si sono fuse diverse narrazioni orali che avevano tutte come tema la sconfitta di Roncisvalle e la morte di Roland. La Chanson nacque certamente in ambienti signorili legati alla scuola conservatrice della tradizione letteraria latina per opera di uomini che si erano formati nella scuola e possedevano pienamente il patrimonio ideale legato al medioevo dall’antichità. L’adozione del volgare come strumento di espressione letteraria da parte di questi intellettuali, che erano letterati coltissimi, è sintomatica. Quest’opera, come le altre che la seguirono, nacque da movimenti spirituali suscitati da uomini formati nell’ambiente clericale, ma operanti fuori dal loro milieu. Il poema appare, infatti, ancora fortemente permeato di una viva ispirazione religiosa, rivela un’accurata conoscenza dei testi liturgici ed è infine incentrato sull’esaltazione del martirio cristianamente inteso. La scelta dell'argomento era di grande attualità: composta intorno al 1080, l’opera riflette gli orientamenti che durante tutto l'XI secolo ebbero gli Stati cristiani, impegnati in una strenua lotta contro gli Arabi che occupavano la Spagna, la Sicilia e la Sardegna, oltre all'Africa del Nord, in una serie di guerre e battaglie che avrebbero portato alla prima crociata nel 1095.
Benché la materia di cui tratta sia un avvenimento risalente a tre secoli prima, l’autore della Chanson de Roland proietta sui personaggi e sulle vicende narrate la mentalità del suo tempo, attribuendo a Carlo Magno ed ai suoi paladini usanze e mentalità proprie dell’epoca feudale dell’XI secolo e soprattutto facendone i paladini della Cristianità, in un’epoca in cui la lotta contro gli infedeli era di grande modernità. La necessità di risvegliare negli ascoltatori lo spirito delle crociate spiega anche le modifiche ai fatti storici, in primo luogo l’attribuzione dell’attacco contro i cristiani ai saraceni – nella realtà storica, invece, banditi baschi cristiani attaccarono nel 778 i Franchi a Roncisvalle ed il vero Roland quindi fu ucciso da cristiani e non dai musulmani in chiave essenzialmente propagandistica, proprio perché c’è bisogno di una mobilitazione ideologica contro i musulmani, alla vigilia della spedizione per liberare il Santo Sepolcro. La Chanson de Roland riflette l’atteggiamento spirituale diffuso tra i cavalieri francesi, molti dei quali avevano preso l’abitudine di partire per la Spagna, con l’obiettivo di arricchirsi, combattendo per la fede cristiana contro i musulmani. Per tutti costoro, il protagonista della Chanson diventò un personaggio esemplare ed un modello da seguire. L’eroe del poema è presentato in molte occasioni ancora come un santo, o meglio come un martire di Cristo: al momento della morte, ad esempio, due arcangeli accorrono per raccogliere la sua anima e portarla direttamente in paradiso. Inoltre, come Cristo fu tradito da Giuda, così Orlando è tradito da Gano, che nel poema appare come un vassallo infedele colpevole di fellonia nei confronti del suo signore, Carlo Magno.
Il passaggio attraverso l’ambiente monastico sembra quindi obbligato, al pari di come fu decisivo il ruolo della Chiesa nell’evoluzione della cavalleria: per incanalare la violenza di questi guerrieri che, per arricchirsi, non di rado si abban­donavano al brigantaggio o al saccheggio, la Chiesa, verso l’inizio dell’XI secolo, aveva pro­posto al cavaliere di mettere la sua forza e il suo coraggio al servizio della fede e della giustizia, in difesa dei deboli e degli oppressi. La cavalleria si trasformò così in una specie di grande confraternita sottoposta a severe regole morali: il significato religioso dell’istituzione era rilevato da un preciso rito che regolava la cerimonia dell’investi­tura.
Sul modello della Chanson de Roland, le chansons de geste nacquero e si diffusero nell’area geografica comprendente le attuali regioni di Normandia, Piccardia e Champagne, e una parte dell’odierna Germania, e furono una rielaborazione, da parte dei trovieri, della tradizione epica latina, della tradizione epica germanica e dei racconti della storia carolingia.
Esse celebrano le imprese gloriose di personaggi storici o leggendari. Recitate nelle corti e nelle piazze, spesso accompagnate dalla musica, le canzoni di gesta si rivolgevano a un pubblico ampio e di varia estrazione sociale, unificato tuttavia dagli stessi semplici ideali e tutte contribuirono a formare un'etica cavalleresca rispondendo al bisogno di disciplinare e sublimare la brutalità e la rozzezza della società feudale.
Ci sono stati tramandati tre cicli di canzoni di gesta: il ciclo carolingio, di cui fa parte la Canzone di Orlando; il ciclo narbonese, con la Canzone di Guglielmo di Orange, grande feudatario della Francia meridionale; i ciclo dei vassalli ribelli, che narra le lotte dei feudatari fra loro e contro il sovrano di cui l’eroe centrale è Raoul di Cambrai.
Leggermente diversa è la situazione delle corti del Mezzogiorno della Francia, la Provenza, dove si sviluppò una corte maggiormente improntata alla raffinatezza e ad un ideale di vita elegante. L’area interessata da questa cultura era compresa fra le Alpi e i Pirenei e si allungava sulla costa da Mentone alla Catalogna. La corte di tipo provenzale, gravitava fondamentalmente intorno al Mediterraneo, era culturalmente vivace e forniva sollievo alle cure quotidiane, dava fama e prestigio all’intellettuale, contribuendo anche a svincolare ideologicamente il feudatario dalla dipendenza dalla Chiesa, unica fonte fin’allora esistente di elaborazione culturale.
I poeti provenzali possono essere considerati i primi poeti moderni ed a loro si deve il rinnovamento del genere lirico, dopo secoli di oblio; essi sono i primi in assoluto, in una cultura letteraria dominata dal latino, a conferire dignità poetica ad una lingua volgare in grado di raggiungere un pubblico molto più ampio di quello che usava e comprendeva il latino. Un altro tratto distintivo della loro modernità è dato dal fatto che con loro, di fatto, nacque il mestiere del poeta e che questa coscienza professionale coincise con il riconoscimento di un posto di rilievo all’interno della società: le loro opere, infatti, a differenza della produzione letteraria precedente in volgare – per esempio le chanson de geste – non sono mai anonime, ma sono firmate ed appaiono come il frutto di un’identità poetica e storica ben precisa.
In questo modo dunque la cultura cortese, feudale e laica, si affiancava alla cultura clericale, dominando la scena letteraria in modo pressoché esclusivo per almeno due secoli – dall’XI a metà del XIII – per poi continuare ad esercitare una notevole influenza, in forma diversa, anche nei secoli seguenti, fino a tutto il Rinascimento, e, per taluni aspetti, fino alla Rivoluzione francese.
L’intreccio tra esigenze politiche e decorative – svaghi e prestigio dei signori – produsse forti investimenti culturali da parte dei nobili per cui – inizialmente nelle corti feudali della Provenza, nel Sud della Francia, tra l’XI e il XII secolo – nacque una produzione poetica molto omogenea, sia per i caratteri formali – tipi di versi e di strofe, uso della rima, ecc – sia per i temi. Questa poesia, scritta in lingua d’oc, era profondamente legata all’ambiente della corte, di cui fu espressione e dove trovava pubblico, argomenti e raison d’etre: fu manifestazione di una nuova domanda di letteratura che doveva intrattenere e nello stesso tempo dare prestigio ai membri e allo stile di vita della corte.
Si è molto dibattuta la questione delle origini della poesia provenzale: molte consuetudini di questa poesia possono essere rintracciate in Ovidio, ma non è plausibile ricondurle tutte a questa origine. Tra le ipotesi maggiormente accreditate oggi vi è quella che, seguendo la traccia di una certa affinità tematica, è individuabile il modello di ispirazione nelle kharagiat andaluse, poesie in mozarabico, ossia scritte in una lingua nata dall’ibridazione dei volgari iberici con l’arabo. Secondo una teoria affermata vigorosamente peer la ricchezza delle argomentazioni da Maria Rosa Menocal, in Il ruolo arabo nella storia della letteratura medievale, parte della lirica romanza ebbe origine dalla poesia arabo-andalusa popolare, di cui la strofa, fu usata prima che dai cristiani dai musulmani andalusi e fu coltivata eccellentemente dal poeta cordovese Ibn Quzman (ca. 1080-1160), mentre anticipa forme e modi che saranno poi dei giullari europei. Questa situazione denuncia contatti con una tradizione poetica e popolare indigena, la cui esistenza è stata anche dimostrata dalla scoperta di liriche bilingui – in arabo, ma con congedi in protoromanzo iberico – risalenti fino all’XI secolo, cioè anteriori alle più antiche liriche volgari europee finora conosciute. Il lavoro della Menocal avvalora la definizione di Ramon Menéndez de Pidal della Spagna come anello di congiunzione fra l'Islam e la Cristianità medievale. Un gruppo di poeti girovaghi che andavano di corte in corte sarebbero apparsi nella Spagna dell'XI secolo, talvolta giungendo nelle corti cristiane della Francia meridionale. I contatti tra questi poeti spagnoli e i trovatori francesi erano frequenti e le forme metriche usate dai poeti spagnoli erano simili a quelle usate in seguito dai trovatori.
L’abbandono della lingua latina e la scelta di temi laici, in particolare di quello amoroso, sono sensibili novità che segnalano l’affiorare dell’idea che la letteratura poteva avere un va­lore in sé, slegato dalle finalità religiose e morali – ancora presenti e vive nella Chanson de Roland – e che l’attività poetica poteva semplicemente ricercare la bellezza ed il piacere di chi lo ascoltava.
Le corti feudali, del Nord come del Sud della Francia, raccogliendo chierici e giullari, si qualificarono nel tempo come un luogo che fissava modelli non soltanto di comportamento, ma anche di una vita piena e gioiosa, anche grazie alla produzione letteraria e musicale dedicata a interessi e temi laici. La principale novità di questa forma d’arte consiste nel fatto che, per la prima volta, siamo di fronte a testi letterari composti da laici e destinati ad altri laici, mentre nei precedenti secoli del Medioevo la scrittura era stata un patrimonio esclusivo dei chierici. La figura del trovatore, il poeta – dal provenzale trobàr che significa poetare – era parte integrante della corte del Mezzogiorno: molti erano aristocratici e feudatari, più o meno potenti, come Guglielmo IX duca d’Aquitania, che tramite la poesia davano voce ai propri ideali e ai propri desideri, altri erano di umili origini, ma la loro attività poetica li elevava socialmente e spesso procurava riconoscimenti o incarichi che davano loro dignità e ricchezza. Questi ideali non sempre coincidevano con quelli della Chiesa: basti pensare al fatto che essi celebravano anche la guerra e le loro imprese guerriere, anche quando queste non erano a servizio della fede, bensì utili a procurare gloria e bottino.
Il linguaggio dei nuovi generi non era più il latino, ma il volgare, poiché nuovo era anche il pubblico, a cominciare da quello femminile della corte.
Le donne di corte, infatti, svolsero un ruolo centrale in questa evoluzione ed assunsero, perciò, una posizione di rilievo, sia pure prevalentemente passiva, in qualità di lettrici e di protettrici dei letterati, o talvolta di loro ispiratrici. Questa presenza femminile nella corte fu esaltata come stimolatrice d’ingentilimento e la corte assunse la gioia e «l’amore – scrive Aurelio Roncaglia in Poesia dell’età cortese del 1961 – (o magari, più intellettualisticamente, l’amore dell’amore) come esperienza centrale di vita e di poesia. Come della gioia e dell’amore, la corte diviene così sede elettiva della poesia; e la poesia, impegnata a cercare amore e gioia, ad analizzarne la fenomenologia e a definirne l’essenza, s’impone come segno indispensabile al prestigio della corte».
S’imposero così nuovi temi e nuovi generi letterari – lirica e romanzo – che riprendevano temi, motivi e personaggi della letteratura classica e medievale, ma li reinterpretavano alla luce delle nuove strutture e delle nuove esigenze sociali, affiancando alla materia antica anche tematiche e motivi del tutto originali, come la materia di Bretagna e l’invenzione del romanzo.
La concorrenza culturale tra le varie corti contribuì potentemente all’espansione ed all’articolazione di una cultura cortese che si diffuse rapidamente dal Mezzogiorno francese in tutta l’Europa, romanza e germanica, anche grazie ai rapporti matrimoniali e familiari – caso tipico e importantissimo quello della famiglia del primo trovatore, Guglielmo IX.
La vita di corte fu, inoltre, codificata in elaborate forme rituali che facevano sì che alle virtù tipicamente guerriere e cavalleresche si affiancassero anche virtù civili. Furono molto valorizzate: la virtù della liberalità, intesa come generosità – il disprezzo del denaro e di ogni meschino attaccamento ai beni materiali –  la nobiltà d'animo, intesa come disinteresse, e la virtus di stampo classico – intesa nella misura e nell’equilibrio. Di stampo classico fu anche il valore della bellezza, intesa come culto delle belle arti e delle maniere eleganti, del rispetto delle gerarchie ed il culto delle belle forme si doveva riflettere anche nel carattere delle persone. Il contrario di tutti questi valori si riassumeva nel termine villania: era cioè villano chi letteralmente veniva dalla campagna e quindi era abituato a uno stile di vita rozzo. L’opposto è, invece, essere cortesi ed in particolare, la dama – soggetto attorno a cui ruotava tutto questo sistema di valori – diventò simbolo assoluto della cortesia; per questo la dama, pur non essendo dotata di un reale potere politico e sociale, diventò nell’immaginario collettivo un soggetto molto carismatico, che ebbe un forte potere di soggezione nei confronti dei cavalieri, oltre a rappresentare il fulcro della corte, specialmente in assenza del signore.
La distanza che separa la poesia provenzale del XII secolo dalla precedente letteratura medievale, compresa la Chanson de Roland, emerge pienamente dalla centralità del tema dell’amore che la maggior parte dei trovatori espresse in una concezione originalissima dell’amore che prende il nome di amor cortese o di fin amor, come essi stessi amavano definirlo: questo termine riassume un ideale di vi­ta esclusivo del milieu della corte in una concezione nuova non solo per il Medioevo, ma anche rispetto al mondo classico, dove l’amore, nonostante le differenze abissali tra uomo e donna, era concepito in maniera paritaria. Nella cultura cortese la concezione dell’amore non fu più paritaria, ma l’amante affermava un vero e proprio culto della donna, vista da lui come un essere sublime, impareggiabile e irraggiungibile. I protagonisti di questo particolare rapporto amoroso possono essere soltan­to la dama di corte–madonna ed il poeta–amante che è tenuto ad un atteggiamento di cortesia rivolto alla dama che è di totale ubbidienza, vassallaggio, desiderio ed omaggio.
Per meglio comprendere la concezione di amor cortese occorre risalire indietro nel tempo. Il Medioevo aveva ereditato dall'antichità classica la concezione erotica di Ovidio, lascivi praeceptor amoris, le cui opere ebbero una straordinaria circolazione nell’antichità. Questa concezione ludica e spregiudicata entrò in crisi con la rivoluzione cristiana, che mutò radicalmente i parametri dell'amore, quando i padri della chiesa elaborarono una complessa precettistica che mirava sia a condannare la libertà nei rapporti erotici sia a disciplinare l'amore coniugale. Su questa linea della condanna di ogni passionalità si muovevano scrittori ed educatori di parte ecclesiastica – Pietro Lombardo e Ugo di San Vittore – fino al XII secolo, cioè nel pieno della cosiddetta civiltà cortese, legata alle corti della Provenza e della Francia settentrionale. Su una nuova idea della vita, fondata sugli ideali di liberalità, magnanimità, raffinatezza, si innestò una nuova concezione dell'amore, assai più nobile e intensa di quella che emergeva nelle pagine di Ovidio, autore pur riscoperto e valorizzato in quegli ambienti. Fu allora che fermenti di libertà intellettuale e di tolleranza morale cominciarono a scardinare l'ortodossia cristiana nell'ambito erotico.
Si è molto indagato sull’origine di questa particolare concezione dell’amore ed oggi le ipotesi fanno sempre più spesso capo ad una derivazione araba. Le ragioni di questa filiazione sono rintracciabili nei poeti arabi e nella poesia della Sicilia e della Spagna musulmane nonché dal contatto più intenso dell'Europa con il mondo islamico. Poiché pratiche simili all'amor cortese erano già in auge nella penisola iberica araba ed altrove nel mondo islamico, è molto verosimile che queste influenzassero gli europei cristiani. Ma l’aspetto più nuovo ed interessante del XII secolo fu la trasformazione profonda che si manifestò nei costumi, nell’ideale di vita della classe aristocratica, che cessò di essere un ambiente unicamente di guerrieri in preda solo alla volontà di potenza. Nel corso della seconda metà dell’XI secolo, tra il 1060 e il 1080, accadde qualcosa che rese più complessa, più ricca la nozione che esprimevano le parole «corte, cortejar, cortezia». Il lusso, il gusto degli abiti preziosi aumentò sensibilmente: i latini della prima crociata, abbagliati dagli splendori bizantini ed islamici, subirono certamente uno choc psicologico che agì in questa direzione: all’interno delle corti e dei castelli dell’Europa latina, che fino ad allora sarebbe apparsa decisamente barbara e primitiva a chi l’avesse confrontata con i ben più ricchi mondi orientali dell’Islam e di Costantinopoli, si verificò la nascita di un’inedita raffinatezza. Esemplare è in tal senso la figura di Guglielmo IX, che, per motivi politici – la prima crociata e la Reconquista in corso in Spagna – ebbe duraturi contatti con la cultura islamica. Secondo G. E. von Grunebaum – in Studies in Islamic Cultural History del 2011 – ci sono parecchi elementi dell’amor cortese che si sviluppano nella letteratura araba: le due nozioni dell'amore finalizzato all'amore e dell'esaltazione della donna amata risalgono alla letteratura araba del IX e X secolo; la nozione dell'amore come potenza che nobilita è sviluppata nell'XI secolo dallo psicologo e filosofo persiano, conosciuto in Europa come Avicenna (980-1037), nel suo Trattato sull'amore; l'elemento finale dell'amor cortese, il concetto di amore come desiderio che non può mai essere appagato, era a volte implicito nella poesia araba, ma per la prima volta sviluppato in forma dottrinale nella letteratura europea, in cui sono presenti tutti e quattro gli elementi dell'amor cortese.
Proprio Avicenna assegna all’amore umano, l’amore sessuale, il ruolo positivo di contribuire all’ascesa dell’anima all’amore divino e all’unione col divino stesso. Secondo la sua visione, pertanto, il desiderio di unione fisica con l’amata non è un mero desiderio di piacere voluttuoso, bensì diventa un mezzo per l’anima razionale per avvicinarsi al Bene Supremo.
In Occidente l’amor cortese fu teorizzato ed esaminato in un trattato assai famoso a quel tempo, il De amore di Andrea Cappellano, che dettò le regole di comportamento e definì anche le situazioni sentimentali degne di un vero cavaliere. L’amor cortese vede come protagonisti un cavaliere ed una dama, la cui caratteristica è quella di essere sempre sposata e di rango superiore rispetto al maschio che la ama: anzi, spesso, è la moglie del suo signore feudale. Nell’amor cortese c’è dunque un evidente elemento di trasgressione rispetto alle norme morali correnti, che condannavano severamente l’adulterio e insistevano sulla necessità di un’assoluta fedeltà coniugale da parte della donna, dopo il matrimonio. Questo elemento spinto lascia comprendere uno dei motivi che resero così popolare la letteratura amorosa cortese: in un mondo in cui la passione erotica era condannata dal clero ed i matrimoni nascevano solo per ragioni di interesse e di politica, essa permetteva di sognare un modo diverso di vivere il proprio sentimento.
L’amor cortese seguiva un preciso codice di comportamento. Dopo aver rivelato alla dama ciò che egli provava per lei, il cavaliere accettava di mettersi al suo servizio e di esserle completamente fedele. Da questo punto di vista, è possibile rintracciare elementi di somiglianza tra l’amor cortese e i costumi feudali: in pratica, il giovane amante faceva esattamente le stesse promesse che si impegnava a rispettare un vassallo nel momento in cui riceveva un feudo dal suo signore e come questo avrebbe ricompensato solo il cavaliere che si fosse mostrato valoroso in battaglia, così la dama non si concedeva subito all’amante, ma solo dopo che questi aveva dato buona prova di sé. Non a caso l’atteggiamento del cavaliere nei confronti della propria dama, per quanto riguardava il servizio d’amore, ricalcasse molto da vicino l’atteggiamento del cavaliere stesso nei confronti del proprio signore: il cavaliere non inventò un nuovo modo di rapportarsi alla donna, ma semplicemente trasferì il codice di comportamento che aveva nei confronti del proprio signore alla dama. È interessante notare, infatti, come questo passaggio fosse rappresentato nella letteratura di età cortese: nei primi testi di autori provenzali, si trova, infatti, il tema del servitium amoris, sviluppato come una sorta di investitura del cavaliere da parte non più del signore, ma da parte della donna. In queste descrizioni poetiche, infatti, compaiono dei riferimenti a gesti, azioni ed oggetti che hanno forti legami simbolici con la realtà del vassallaggio. Secondo la concezione cortese, la vista della dama risvegliava nell’amante il desiderio di possedere la donna. Poiché essa, tuttavia, si sarebbe concessa solo dopo un lungo intervallo di tempo, il cavaliere doveva imparare a tenere a bada la propria passione. Se non fosse stato capace di un simile autocontrollo, il giovane avrebbe dimostrato di essere un villano, un bruto animalesco, e non un cuor gentile. Il momento massimo dell’autocontrollo era raggiunto quando il cavaliere era chiamato a giacere accanto alla dama e, pur essendo entrambi nudi, sapeva resistere al desiderio di possederla. Solo se il cavaliere avesse superato quest’ultima e decisiva prova, la dama, infine, si sarebbe concessa, coronando i sogni dell’amante. L’amor cortese, insomma, non escludeva che i due amanti giungessero a consumare l’adulterio: non era un amore asessuato. I trovatori, tuttavia, mettevano l’accento sul processo di perfezionamento cui il cavaliere si sottoponeva, per rendersi degno dei favori sessuali della dama ed essere finalmente accolto da lei.
L’amor cortese, dunque, presentava un modello di comportamento ai cavalieri del XII secolo, spesso tutt’altro che sensibili e raffinati, poiché fin da ragazzi erano stati addestrati solo all’uso delle armi, al governo dei cavalli e alla pratica della violenza. Tramite l’amor cortese, i trovatori provenzali tentarono di svolgere un’azione pedagogica per certi versi simile a quella che s’incontra nella cultura ecclesiastica dell’XI secolo: in entrambi i casi, l’obiettivo fu quello di ingentilire i rozzi costumi della classe dirigente, cioè dell’aristocrazia guerriera. La differenza consiste nel fatto che la Chanson de Roland e l’idea di crociata avevano indicato ai cavalieri di mettere la spada al servizio della fede, dei poveri e della Chiesa; i trovatori, invece, in modo certamente più laico, percorsero la strada del dominio su di sé, a cominciare dalla più impetuosa delle passioni, quella sessuale.
La lirica cortese compì una mediazione tra il sentimento d’amore e la sua trasfigurazione intellettuale attraverso un linguaggio letterario assai raffinato e seleziona­to, basato su alcune parole-chiave e sull’esclusione dei termini non eleganti; la lingua dei trovatori si presenta come un codice lirico, una lingua con regole assai rigide e distante da quella parlata.
La poesia dei trovatori, nata nelle corti della Francia meridionale, fu largamente conosciuta in Italia: già alla fine del XII secolo alcuni trovatori provenzali furono ospiti delle corti feudali del nord d'Italia e la poesia è considerata un mezzo di educazione intellettuale e morale. Nelle corti del Nord, una quarantina di trovatori sfuggiti alla crociata contro gli Albigesi nel 1208 continuarono a poetare in lingua d’oc: molti trovatori che esercitavano la loro attività nelle corti della Francia del Sud furono costretti ad abbandonare le loro terre ed attraversarono le Alpi alla volta dell’Italia a causa di eventi drammatici come la Crociata contro gli Albigesi e le pressioni espansionistiche del Re di Francia. Essi trovarono ospitalità presso le corti aristocratiche dell’epoca: i Savoia, i Saluzzo, i marchesi di Monferrato, gli Este, i Da Romano e i Malaspina, furono tra i primi ad accoglierli. E proprio in Italia fra XIII e XIV secolo il verbo dell’amor cortese giunse ad un altissimo grado di elaborazione, creando il nucleo iniziale della tradizione letteraria italiana ed europea: dalla Provenza questa colta poesia, stilizzata e raffinata, si diffuse e si rinnovò destando echi negli stilnovisti e palpitando ancora nell’arte di Petrarca attraverso il quale si propagò più tardi in tutta l'Europa del Rinascimento.
L'evoluzione dei costumi della società feudale, la fioritura delle grandi corti signorili anche nella Francia del Nord costituì la cornice in cui nacque, verso la metà del XII secolo, e si sviluppò il genere tutto nuovo del romanzo cortese. Ispirato alle leggende bretoni, il genere esprime capolavori quali i Lais di Maria di Francia, il poema Tristano e Isotta e soprattutto le grandi opere di Chrétien de Troyes. Struttura allegorica della cultura cortese e al tempo stesso suo superamento fu più tardi il Roman de la Rose.
Il romanzo medievale francese impose il tipo del cavaliere cortese, più raffinato dell'eroe delle chanson de geste, che persegue il proprio arricchimento spirituale attraverso l'amore e l'avventura. Il romanzo cortese, che si sviluppò nelle corti signorili, si differenziò nettamente dalle canzoni di gesta: alla recitazione pubblica si sostituì progressivamente la lettura privata; alla semplificazione vigorosa, la ricerca delle sfumature psicologiche e della varietà. Anche il pubblico era diverso: l'aristocrazia feudale, non più classe di rudi guerrieri, aveva acquisito uno stile di vita raffinato, in cui assumevano importanza, oltre al valore, l'amore, la grazia, la cortesia. Il romanzo cortese rispondeva perfettamente alle aspirazioni di quella società e ne rappresentò ad un tempo l'ideale di vita e l'evasione in un universo fiabesco.
L’amore ed il gusto per le cose spirituali, quale si incarna nell’arte dei trovatori, fu la manifestazione più originale di questa rivoluzione dei costumi.  Massimo Capuozzo

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