giovedì 7 febbraio 2013

Caravaggio e la Maddalena Klein di Massimo Capuozzo


A Madda,
la mia amica e sorella di sempre
Massimo
La Maddalena in estasi è un dipinto a olio su tela (106,5 x 91 cm) quasi certamente di Caravaggio, databile attorno al 1606 e appartenente ad una collezione privata di Roma. Delle almeno otto copie di quest'opera, la versione conservata nella collezione privata di Roma sembra essere l’originale.
La avventura critica di questo dipinto segue le varie traversie della vicenda umana del maestro ed ebbe inizio nel 1935, quando Roberto Longhi ipotizzò che la Maddalena a mezza figura firmata dal fiammingo Louis Finson, fosse attribuibile a proprio a lui, a Caravaggio. Sebbene i dubbi rimasti siano a questo punto pochi, sull’autografia del dipinto la discussione è ancora aperta.
Ecco le tappe salienti della storia del dipinto.
Sulla spiaggia di Porto Ercole il sole batteva in quel caldissimo luglio del 1610. Caravaggio l’aveva percorsa in lungo e in largo qualche giorno prima nella speranza di poter ritrovare la nave dove aveva lasciato i tre dipinti che aveva con sé, quando le guardie lo avevano arrestato. Alla fine lo avevano rilasciato; sfinito, bruciato dalla febbre cercava disperatamente quelle tre tele, di cui due raffiguranti San Giovanni Battista – uno noto, per Scipione Borghese, il potente cardinal nipote del Papa, un omaggio dovuto per una grazia tanto sospirata, l'altro sfuggito all'identificazione ed una Maddalena, da alcuni identificata nella cosiddetta «Maddalena Klain», ma a quest’ultima tela lo legavano ben altre ragioni. Caravaggio lo aveva dipinto quando era fuggito da Roma senza nemmeno averla potuta salutare quella donna ritratta nella bellissima tela. Non sapeva ancora bene come era accaduto, ma una delle solite risse nelle quali si lasciava trascinare dal gioco e dal suo brutto carattere si era mutata in tragedia: aveva ucciso un uomo, la fuga era l’unica speranza.
Secondo alcune fonti, il dipinto fu realizzato alcuni mesi dopo la fuga di Caravaggio da Roma – con una pena capitale che gli pendeva sulla testa in seguito all'omicidio di Ranuccio Tomassoni il 29 maggio del 1606 – durante il suo soggiorno presso i principi Colonna, che lo ospitarono nel proprio feudo di Paliano. Qui Caravaggio era arrivato ferito e terrorizzato: i Colonna erano amici, lo avevano sempre protetto, gli diedero asilo anche in quella drammatica circostanza sebbene, nell'offrirgli un nascondiglio, stessero anch'essi correndo dei gravi rischi, protetti soltanto dalla propria influenza.
Rimessosi in forze, il pittore riprese a lavorare, e, durante quella sua breve sistemazione, realizzò almeno due tele conosciute: la Cena in Emmaus, oggi alla Pinacoteca di Brera, e una Maddalena, identificata con quest'opera dalla maggior parte degli studiosi. In questa tela Caravaggio dipinse di nuovo lei, Maddalena Antognetti, la Lena, una cortigiana ben nota a Roma e descritta in alcune cronache come la donna di Michelangelo: Caravaggio l’aveva già ritratta nella Madonna dei pellegrini nella basilica di Sant’Agostino e per la chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri presso San Pietro – dove, però la pala era rimasta solo pochi giorni; era ancora Maddalena la bellissima Madonna dei palafrenieri, oggi nella Galleria Borghese, ma il dipinto era stato rifiutato dai committenti, perché fece scandalo il Bambino, troppo cresciuto per essere ritratto completamente nudo, e soprattutto fecero scandalo la scollatura abbondante della Madonna e la modella scelta per quest'ultima opera, che era una nota prostituta. Ma lì a Paliano, nascosto da tutti, le commissioni latitavano e così fece quel che voleva. L’aveva ritratta come Madonna, ma ora aveva deciso di farla col suo nome e la ritrasse così come la ricordava, bellissima, con i capelli sciolti, la camicia scivolata dalle spalle, il capo reclinato e gli occhi pieni di lacrime, come tante volte l’aveva lasciata andandosene all’alba mentre si risollevava dal sonno.
Quando era partito da Napoli, Caravaggio aveva con sé la tela che riportava a Roma, dopo quattro anni di incredibili peripezie, quando la morte lo colse a Porto Ercole, dopo che la feluca con i dipinti era ritornata a Napoli e l’opera fu presa in carico da Costanza Sforza Colonna, Marchesa di Caravaggio, che era stata da sempre protettrice del pittore.
La figura di Maria Maddalena, ritratta per lo più come penitente ed eremita, o come donna in abito lungo talvolta con mantello, ha ispirato gli artisti di tutti i tempi: numerose opere di pittura la raffigurano per lo più con i lunghi capelli sciolti ed una veste rossa, spesso con l'attributo del vasetto di unguento, sia come figura isolata – come penitente nel deserto – sia in episodi della vita di Gesù nella suggestiva scena del lavaggio dei piedi, in quella della crocifissione, nel Noli me tangere della Resurrezione.
In questo dipinto però la figura della Maddalena è completamente rivoluzionata: Caravaggio sovverte i termini dell’iconografia tradizionale e dell’ideologia della Controriforma cattolica nelle sue interpretazioni del tema della santa peccatrice penitente: tranne i capelli sciolti e la veste rossa, la santa non mostra nessuno dei consueti attributi iconografici – il Vaso, il Teschio, il Cilicio o la Sferza, la Croce, il Libro, la Stuoia, lo Specchio rotto, i Capelli Lunghi, la Nudità, le Gioie disprezzate (collana di perle rotta), le Radici amare, la Grotta, gli Angeli – tanto cari all’iconografica sacra. L'artista lavora piuttosto sull'interiorità dell'espressione e, invece di rappresentarla oppressa dal peccato, la ritrae già convertita, immersa in una contemplazione estatica.
Su uno sfondo completamente nero, si staglia la figura della Santa in estasi che occupa la metà del dipinto, l'altra parte rimane al buio. La tela è impostata su una diagonale, marcata dall'abbandono di Maria Maddalena alla preghiera e dal gesto del suo capo, leggermente inclinato all'indietro e illuminato dalla luce che fa emergere dall’oscurità la figura, impostata di tre quarti verso la sinistra, che si stacca dal fondo scuro ed è con la testa riversa all’indietro e appoggiata al gomito.
La luce sferzante colpisce la giovane donna dalla testa riversa, il corpo sembra ansimare nel rapimento dell'estasi mistica: gli occhi socchiusi, la bocca semiaperta, i muscoli del collo in tensione, che è tensione dell’anima ed anelito verso Dio, i capelli, di un biondo tendenti al rosso e ricadenti sul petto, coprono in parte la spalla destra, le dita intrecciate poggiano sul ventre all’altezza della vita i sensi intorpiditi dalla violenta emozione. Un mantello di un rosso intenso ricopre dal bacino, sopra la tunica bianca a pieghe molto fitte, con ombre di un azzurro tenue, che copre parte del corpo e che le scivola scoprendo la spalla e il petto lasciando nuda la spalla sinistra e la parte superiore del seno.
Priva dei canonici attributi che permetterebbero di riconoscerla come Santa, la Maddalena rientra nei caratteri più peculiari del verbo caravaggesco: una figura forte e reale, semplice ed al tempo stesso umana il cui naturalismo si espleta nella forte drammaticità della sofferenza della donna e il suo pentimento. Alcune ciocche di capelli, come nella vita di tutti i giorni, sono scomposte sulla fronte tra l’occhio semiaperto e l’orecchio mirabilmente rivelato dalla luce. Dall’occhio destro, quasi socchiuso, sgorga una lacrima quale segno evidente ed esterno del dramma che la giovane sta vivendo. Molto forte è l’espressività di questa Maddalena, colta nell’istante in cui l’esperienza mistica sembra raggiungere l’acme, in un misto di abbandono e di dolore, l’estasi appunto, quello stato d’animo staccato dai sensi a causa dell’intensa contemplazione di un oggetto straordinario, di una presenza soprannaturale, di un contatto misterioso e mistico col divino o con il diabolico. La bocca, le labbra livide si schiudono in una voluttà del tutto assente nelle opere d’arte ispirate all'estasi della Santa. La Maddalena è rappresentata da Caravaggio come morente, quasi a voler significare che il sommo grado dell'amore puro sia quello morto, nel quale l'essere che ama è del tutto annullato.
Non c’è da sorprendersi se Pieter Paul Rubens e Simon Vouet  si mostrò molto fedele all'opera di Caravaggio e se Gian Lorenzo Bernini riprese quest’opera, divenuta famosa grazie alle molte copie, nella sua celeberrima Estasi di Santa Teresa della chiesa di Santa Maria della Vittoria: dopo la Maddalena di Caravaggio il capo riverso sulla spalla è quasi d’obbligo per la raffigurazione delle estasi.

Caravaggio e la Lena non si videro più. Maddalena morì qualche mese prima a Roma, ad appena ventotto anni, ancora nel fiore della sua incredibile bellezza ma resa eterna dal suo sublime amante.
Massimo Capuozzo.

domenica 3 febbraio 2013

La Venere di Willendorf: la dea perduta

L’arte è sempre strettamente connessa all’ambiente in cui essa è creata: per l’uomo preistorico è legata alla vita quotidiana ed è inserita nell’esperienza pratica.
Nel paleolitico, colui che attua la pittura all’interno delle caverne è considerato uno sciamano, una sorta di stregone, le immagini erano realizzate a scopo propiziatorio durante rituali magici per favorire il buon esito, della caccia o la nascita di figli.
Ora l’immagine diventa rappresentazione ed interpretazione del mondo reale, si inserisce nella vita quotidiana come decorazione e completamento dell’ambiente.
Le scoperte più significative compiute sull’arte di questo periodo riguardano i dipinti delle caverne (effettuati con le dita, penne di uccelli o rudimentali pennelli e colori di origine vegetale ed animale) e piccole sculture di figure femminili tondeggianti (scolpite ed incise con punte acuminate su pietra, osso, avorio e corno).
Per quanto riguarda le figure femminili scolpite, si nota un’accentuazione, spesso esasperata, dei seni, del ventre e dei fianchi, tutte caratteristiche strettamente connesse alla fertilità.
La Venere di Willendorf è una delle statuine antropomorfe più famose del mondo.
Questa statuina risale al paleolitico superiore (circa 25.000-26.000 anni fa), essa fu rinvenuta nel 1908 dall’archeologo Josef Szombathy, presso Willendorf in Austria.
Attualmente si trova nel Museo di storia naturale di Vienna.
La Venere di Willendorf è alta 11 cm, raffigura una donna ed è scolpita nella pietra calcarea e dipinta di ocra rossa.
Secondo alcune interpretazioni si tratta di una idealizzazione della donna, questo spiegherebbe le proporzioni alterate del suo seno e della vulva: da questo si intuisce l’intenzione dell’autore di rappresentare un significato fortemente connesso con la fertilità, anche il colore rosso ocra, con cui la statuetta è dipinta, ricorderebbe secondo alcuni studiosi il sangue mestruale.
Questa statuetta rappresenta probabilmente la Madre Terra della cultura del Paleolitico prima dell’arrivo degli Indoeuropei.

sabato 2 febbraio 2013

Il ritratto giottesco di Enrico Scrovegni di Massimo Capuozzo


Il ritratto serviva anche a immortalare i committenti e a far trasmettere particolari messaggi.
È il caso di Enrico Scrovegni, ritratto da Giotto nella cappella dell'Arena a Padova dedicata alla Vergine della Carità, un tema caro alla confraternita dei Frati Gaudenti, dediti a combattere l’usura. Di questa confraternita faceva parte Enrico degli Scrovegni, mercante e banchiere ricchissimo, e la grande spesa che egli fece per costruire e decorare la cappella permetteva di riscattare l'anima del padre Reginaldo dalle pene ultraterrene cui sarebbe stato destinato, perché notoriamente usuraio – Dante lo collocò nell'Inferno proprio tra gli usurai; nello stesso tempo, permetteva di allontanare da se stesso il rischio di andare incontro alla medesima sorte, essendosi anch'egli macchiato di quel peccato, senza la fatica del lavoro. Nella scena della dedicazione della Cappella alla Vergine il gesto di Enrico Scrovegni, raffigurato mentre dona a tre angeli il modellino dell’oratorio da lui fatto erigere e decorare da Giotto, aveva appunto il significato di restituire simbolicamente quanto era stato guadagnato mediante l'usura, condizione posta dalla Chiesa per la remissione di quel peccato.
L’idea tradizionale, ripetuta di recente anche in un volume statunitense – A. Derbes - M. Sandona, The usurer's heart: Giotto, Enrico Scrovegni, and the Arena Chapel in Padua, Pennsylvania State University Press, 2008 – è nota e di recente è stata confutata. La teoria secondo la quale Enrico, usuraio e figlio di un usuraio, considerava la cappella come un’espiazione per il peccato di usura del padre e che il giudizio di Dante avesse rivestito un ruolo nella decisione del ricco patrono per fare ammenda della sua vita scellerata passata ad accumular denaro, non regge: il canto dell’Inferno fu, infatti, composto dopo l’esecuzione degli affreschi, in un contesto politico – con Dante amico di Cangrande della Scala, nemico della guelfa Padova – di odio partigiano verso il committente degli affreschi.
Non solo i nobili sentimenti religiosi mossero Scrovegni che non era poi così pentito e devoto quindi la cappella era più che altro un monumento auto celebrativo. La prova di questa teoria sarebbe costituita dalla statua del mercante, che attualmente si trova nel museo degli Eremitani adiacente la cappella. È possibile ipotizzare che Enrico Scrovegni, ricchissimo e orgoglioso di esserlo, sceglie la cappella e i suoi affreschi come maestosa autorappresentazione e celebrazione del suo potere e della sua ricchezza, prezioso dono alla comunità padovana, a cui proporsi, forse, quale nuovo signore.
Nella scena della dedicazione, Enrico veste il viola, colore della penitenza, ma si fa collocare nel settore destinato ai beati, sotto l'immagine protettrice della croce. Il donatore è inoltre della stessa scala dei personaggi sacri, ma il volto non è molto caratterizzato e distinto dagli altri.
Giotto non appare eccessivamente impegnato a descrivere le fattezze dei personaggi nel ritratto, infatti, il suo principale interesse è non tanto quello di cambiare gli schemi di rappresentazione dei singoli soggetti, quanto di razionalizzare la rappresentazione, organizzandola in uno spazio misurabile, in cui gli elementi si disponessero organicamente e non secondo principi gerarchici o secondo la funzione e l’importanza dei personaggi. L’evidente resistenza giottesca, a dare spazio ai ritratti di contemporanei può risiedere nei caratteri della società fiorentina del tempo: mentre una società retta da un regime monarchico è favorevole al ritratto perché queste immagini possono avere un’utilizzazione strumentale, di propaganda e affermazione del potere personale e della sua dinastia, questa stessa funzione celebrativa del singolo non era gradita invece in una società più democratica, dove il potere spettava a magistrature collettive ed elettive.

lunedì 28 gennaio 2013

Il periodo spagnolo di Sofonisba Anguissola di Massimo Capuozzo



Nel 1559 Filippo II di Spagna, vedovo di Maria Tudor, sposò, a suggello della pace di Cateau Cambresis, la principessa francese Isabella di Valois, figlia di Enrico II di Francia e di Caterina de’ Medici. Isabella era appena quattordicenne, ma era una ragazza matura e amatissima dal marito: amava molto la pittura, del resto era per metà una Medici, e il Duca d’Alba, consigliò a Filippo II di chiamare Sofonisba a Madrid come dama di Corte per la nuova regina.
Nel 1559 Sofonisba lasciò la natia Cremona per Milano, ignara che non vi avrebbe più fatto ritorno e, dopo quaranta giorni di viaggio, giunse a Madrid alla corte di Filippo II.
Nella capitale spagnola Sofonisba ebbe una buona accoglienza: tra la regina e l’artista nacque una profonda amicizia, trascorrevano gran parte della giornata a dipingere e Sofonisba le insegnò a disegnare direttamente dal vero, sostituendo con tale novità le normali attività muliebri.
Sofonisba prese subito intensamente parte all’elegante ma sobria vita di corte, dipingendo numerosi e splendidi ritratti dei membri della famiglia reale e suscitando l’ammirazione e l’interesse di molti ambasciatori accreditati presso il re. Nell'intensa esperienza in Spagna, Sofonisba si adeguò alle soluzioni iconografiche ed allo stile ufficiale incarnato dal fiammingo Antoon Mor van Dashorst (1520 – 1578), dal pittore di Corte Alonso Sanchez Coello (1531 – 1588), allievo di Antoon Mor ed autore di un altro celebre ritratto di Filippo II, ma soprattutto da Tiziano (1477 – 1576) che lavorò per anni al servizio della famiglia asburgica.
Durante il Rinascimento si era affermata una nuova tipologia di ritratto, il cosiddetto ritratto di Stato. Dovendo manifestare esplicitamente la potenza e il decoro del rango nel personaggio raffigurato, i ritratti di papi, di sovrani di personaggi di spicco erano caricati di significati ufficiali. Nel ritratto di Stato i personaggi erano dipinti a tre quarti di figura o seduti accanto a una finestra ed erano fissati in una posa immobile, aulica, poiché richiedevano un’atmosfera atemporale. I tratti fisionomici sono trasferiti sulla tela con estrema minuzia e precisione, ma senza molta definizione psicologica. L’attenzione del pittore era per lo più rivolta alla definizione dei particolari dell’abbigliamento, dei gioielli, delle armature, in modo da rendere subito evidente il rango dei personaggi.
Tiziano, legato soprattutto alla committenza imperiale, fu uno dei maggiori interpreti di questa cultura internazionale: nei suoi ritratti, infatti, l’inevitabile accentuazione dei particolari, propri del rango dei personaggi, si unisce a una calda caratterizzazione umana, che apre uno spiraglio sugli stati d’animo della persona ritratta.
Il celebre Ritratto di Filippo II, eseguito da lui nel 1551, è tagliato in verticale, quasi due metri di altezza con la mezza armatura da pompa, la mano sull'elmo. Filippo non era rimasto soddisfatto per la fretta imposta a Tiziano e avrebbe voluto farglielo rifare, ma oggi quel dipinto è considerato bellissimo e straordinariamente curato nei dettagli.

Il ritratto Stato fu, per ovvi motivi, particolarmente congeniale allo spirito degli artisti fiamminghi. Antoon Mor, il cui stile forte e austero era stato profondamente influenzato da Tiziano, si distinse diventò uno dei maggiori interpreti di questo genere pittorico e determinò i canoni sui quali la ritrattistica di corte si sarebbe basata fino al XVII secolo.
Nel Ritratto di Filippo II in armatura e nel Ritratto di Maria Tudor del 1553, entrambi al Museo Nacional del Prado, la sua pittura si mostra estremamente levigata, attenta ai dettagli fino al esasperazione, ma il linguaggio si rinnovava rispetto a Tiziano, sviluppando una ritrattistica iconica e ieratica, consona all’austero e rigido cerimoniale della corte asburgica.
A queste caratteristiche divenute canoniche, Sofonisba seppe però unire alla metafisica statuarietà del ritratto aulico l’immediata e cordiale spontaneità dei sentimenti, tipici della sua ricerca, e, mantenendo sempre una spiccata dote introspettiva, studiò la vitalità psicologica del soggetto, avvalendosi delle esperienze estetiche bergamasco-bresciane di Giovan Battista Moroni (1522 – 1579) e di Lorenzo Lotto (1480 – 1557), modulate dall’influenza di Correggio (1489 – 1534) nell’uso morbido del colore. Ma l’elemento che maggiormente qualifica i ritratti di Sofonisba è indubbiamente un’innovativa abilità introspettiva, quella caratterizzazione psichica dei suoi soggetti che alcuni hanno definito «i moti dell'animo fugaci e irripetibili».
Purtroppo molti dei suoi dipinti spagnoli non sono firmati e molti sono andati perduti in un devastante e terribile incendio divampato nell’Alcázar di Madrid o non ancora riconosciuti all’interno del corpus della pittura di corte del periodo.
Nel 1564, la regina Isabella in attesa di un figlio si ammalò perdendo il nascituro. Sofonisba le rimase accanto con amore, come una sorella: la regina riconoscente la colmò di doni preziosi.
Nel Ritratto di Isabella di Valois con miniatura del Museo Nacional del Prado, terminato intorno al 1565 e appartenente ad una nutrita serie di rappresentazioni dedicate alla giovanissima regina durante la sua breve parabola matrimoniale, Sofonisba trasporta l’emozione della visione affettiva, comunicata nella delicata espressione di dolcezza impressa sul volto della regale famiglia, attraverso moduli parmensi legati al Correggio e al Parmigianino e le raffinate eleganze toscane di Bronzino. Alla metafisica fissità del ritratto aristocratico, Sofonisba unisce un contributo di approfondimento della vitalità psicologica del soggetto indagato.
Superando gli schemi stabiliti nella ritrattistica cinquecentesca codificati nel modello di traduzione veneta impostato proprio in Spagna da Tiziano con l’archetipo iconografico di Carlo V, Sofonisba rompe la staticità della postura aristocratica. Anche le figure maschili beneficiano dello sguardo sensibile emanato da Sofonisba, aperto ad una serena compostezza espressiva e ad un tono quasi familiare, sebbene chiusa all’interno del severo abbigliamento in nero imposto dall’ormai insorgente clima controriformista, che domina il Ritratto di Filippo II del Museo Nacional del Prado.
Nel 1566, la regina, rimasta di nuovo incinta e pervasa da cattivi pensieri, fece testamento, raccomandando le sue più care damigelle d’onore al re. Alla nascita di Isabella Clara, la regina sofferente strappò a Sofonisba la promessa che sarebbe stata la prima maestra dell’infanta.
Nel 1567 nacque una seconda bambina, Caterina Micaela. Isabella voleva dare a Filippo un erede maschio: un erede al trono è sempre stato una scommessa con la Storia, una scommessa che spingeva sovrani e regnanti a giocarsi anche la vita politica ed alle regine anche la vita, pur di avere un figlio, necessario a proseguire la dinastia.
Nel 1568 Isabella rimase di nuovo incinta, nonostante la sua salute cagionevole: Isabella morì di parto e la morte della regina scosse notevolmente Sofonisba.
Filippo cadde in una grave depressione, tanto da governare il suo paese conducendo una vita monastica. Tutte le dame del suo seguito tornarono alle famiglie di origine, solo Sofonisba rimase, prendendosi cura delle due infante, Isabella Clara e Caterina Micaela, continuando sempre a dipingere.
La complicità scaturita dall’incontro di Sofonisba con la regina bambina Isabella era riuscita felicemente ad attenuare il comune quanto doloroso distacco che entrambe le giovani donne avvertirono verso le rispettive radici domestiche: questo innescò una relazione di sapore materno con le due infante soprattutto dopo la prematura ed inaspettata scomparsa della madre.
Nel 1570 Filippo, nonostante fosse addolorato per la perdita della moglie, dovette risposarsi di nuovo con Anna d’Austria, per dare al regno un erede maschio: il suo unico figlio, don Carlos, la cui salute mentale aveva dato numerosi problemi al padre, era morto sempre nel 1568.
Nel 1570, Sofonisba era ancora a Madrid, ma espresse il desiderio di rientrare in Italia e di sposare un italiano: il re provò a trovare un marito degno di lei, ma l’impresa si dimostrò difficile.
Intanto a Caterina de’ Medici, preoccupata per le due nipoti, fu assicurato che avevano tutti gli agi e che Sofonisba era sempre con loro: quando più tardi convolarono a nozze ed abbandonarono i luoghi natali per installarsi nelle residenze straniere degli illustri consorti, non esitarono ad imporre una deviazione al loro itinerario di viaggio per sostare in Liguria ed incontrare l’antica governante che in quegli anni si era installata a Genova, città anch’essa in stretti rapporti con la corona spagnola che in quei frangenti alimentò la memoria con un omaggio ritrattistico.
Il re finalmente trovò l’uomo giusto per Sofonisba, il siciliano Fabrizio Moncada, appartenente a una delle famiglie più potenti del regno, e nel 1573 si sposarono a Madrid.

domenica 27 gennaio 2013

Simone Martini e il San Ludovico da Tolosa. Di Massimo Capuozzo.


Il famoso ritratto utilizzato in funzione politica in un’immagine sacra, è la celeberrima Pala di San Ludovico da Tolosa incorona il fratello Roberto d'Angiò del 1317 di Simone Martini della Galleria Nazionale di Capodimonte: la pala, firmata e datata, era stata commissionata dal re di Napoli Roberto d’Angiò per l’altare maggiore della chiesa francescana di San Lorenzo Maggiore a Napoli.

L’opera, costituita da una grande tavola, è importantissima nello sviluppo della tipologia della pala d’altare, perché per la prima volta Simone scandisce nettamente il dipinto fra una parte centrale, a carattere più ieratico e iconico, e una narrativa, riservata alla predella in cui sono narrate le sue storie.
Il protagonista è San Ludovico. Figlio del re di Sicilia e di Napoli Carlo II d'Angiò e di Maria di Ungheria, Ludovico era destinato a diventare re, ma a Montpellier nel 1296, rinunziò alla corona di Napoli, scegliendo la strada religiosa che intraprese nel maggio dello stesso anno, entrando nell’ordine francescano e lasciando il trono al fratello Roberto, committente del dipinto.
L’ascesa al trono del fratello Roberto, suscitò forti contestazioni e si levarono voci di usurpazione, tanto che si arrivò ad un processo presso la corte pontificia: il Papa si pronunciò a favore, ma le polemiche non si placarono, soprattutto negli ambienti ghibellini.
La santificazione di Ludovico, avvenuta il 7 aprile 1317 sotto il pontificato di papa Giovanni XXII Duèze, diede modo al nuovo re di Napoli di validare la propria legittimità al trono.
Simone Martini valutò l'importanza dell'avvenimento ed impostò il suo concetto nel modo più razionale ed espressivo possibile, mettendo in relazione sul piano figurativo le due alte investiture — terrena e celeste — che riconosceva come inseparabili anche nel pensiero di Roberto.
L'episodio principale di sapore prettamente gotico, è descritto nella sua quasi totalità dalla maestosa immagine di San Ludovico da Tolosa, assiso in trono e notevolmente adornato con vesti episcopali la cui apertura scopre il saio francescano. Il Santo è incoronato da due angeli, a sancire la sua recente santificazione, nel momento in cui, a sua volta, sta porgendo una corona sul capo del suo fratello minore. Roberto è raffigurato sulla destra, in ginocchio e a mani giunte, secondo lo stereotipo del donatore nelle pale ed è rappresentato di profilo e in dimensioni minori del santo, ma entra come protagonista nel campo dell’azione: mentre, infatti, San Ludovico è incoronato dagli angeli, a sua volta incorona il fratello, cui, in effetti, aveva consentito con la sua scelta di salire al trono. C’è quindi un significato politico–dinastico molto forte: l’immagine afferma la legittimazione ultraterrena del regno degli angioini a Napoli e nella celebrazione del Santo, ma anche quella della dinastia della famiglia angioina.
Lo sfarzo incredibile del dipinto – la foglia d’oro finemente punzonata, come se si trattasse di un’oreficeria, la cornice con i gigli di Francia e in origine anche numerose pietre preziose che ornavano gli abiti di Ludovico e di Roberto – concorre ad accrescere il valore di manifesto della regalità. Nella composizione tutto diventa aulico, regale e pregiato: la sontuosità del mantello in broccato rifinito con elegantissime bordure dorate, il prezioso incasellamento di gemme sul pastorale e sulla mitra, la raffinatezza delle due corone che sembrano fondersi con lo stesso cromatismo dorato dello sfondo.
Simone dimostra in questo dipinto di avere una grande sensibilità e altrettanta capacità di raffigurare le varie materie, come le stoffe con i relativi ricami, i gigli della famiglia Angiò, il tappeto di motivo orientale disteso sul pavimento, i pregiati metalli delle oreficerie, gli intarsi della pedana in legno sotto il trono.
La ricca decorazione e i vivaci colori si stagliano sul fondo d'oro e concorrono a creare una scena in cui il motivo religioso svanisce rispetto all'esaltazione della regalità dei personaggi in un’immagine di altissimo valore simbolico che trascende qualsiasi preoccupazione di verità mimetica di quello che è rappresentato.
Ciò rende il senso più preciso di come Simone si muova in un ambito concretamente medievale: la linea sinuosa e di puro valore decorativo dei bordi delle vesti e del mantello del santo, la grande decorazione arabescata delle vesti infine la preferenza per i colori intensi e squillanti. Ma il carattere gotico dell’immagine principale si perde completamente nella predella inferiore, dove Simone dimostra di saper controllare la rappresentazione spaziale in maniera non inferiore allo stesso Giotto: la predella, suddivisa in cinque scomparti, contornati ognuno da un arco, è quasi come un portico oltre il quale si mostra una sola scena: le cinque diverse scene sono, infatti, unificate da un unico punto di fuga e questo crea una sensazione spaziale di grande effetto, facendo sì, che l’occhio percepisca questa predella inferiore come il piano trasparente oltre il quale si sviluppano le scene.
Massimo Capuozzo

sabato 26 gennaio 2013

L’originale assente: il ritratto nell’Alto Medioevo. Di Massimo Capuozzo


Durante l’Alto Medioevo, il ritratto subì un ampio processo di trasformazione.
Rispetto all’arte romana in cui questo genere figurativo aveva raggiunto una notevole complessità e un’eccezionale capacità illusionistica, il volto umano, ma in generale l’immagine, subì un possente processo di idealizzazione e di astrazione.
Questo processo di trasformazione dell’immagine – nella fattispecie di quella dell’Imperatore e del potere imperiale – cominciò dal IV secolo: da un individuo realisticamente caratterizzato si andò verso un tipo dai caratteri fissi, espressione del potere assoluto.
Una funzione fondamentale fu svolta dalla contaminazione dell'arte bizantina, che da un lato tramandò la fissità ieratica dei volti, dall'altra permise il recupero di un'impostazione classicista come dimostra l’Avorio Barberini.

Conservato al Museo del Louvre, questo bellissimo manufatto propone il ritratto equestre Anastasio I e recupera schemi e parametri propri della classicità più matura. Databile al primo quarto del VI secolo ed attribuita ad una bottega imperiale di Costantinopoli, questa splendida operina raffigura il tema classico dell'imperatore trionfante, molto probabilmente l’immagine di Anastasio I Dicoro, imperatore dal 491 al 518.
L’intera composizione è organizzata intorno al pannello centrale che raffigura l’imperatore a cavallo che nella destra regge una lancia e nella sinistra le redini del suo cavallo da battaglia. Dietro la lancia si distingue una figura di barbaro, riconoscibile come tale per la capigliatura e per la folta barba, ma soprattutto per il suo abbigliamento: un copricapo ricurvo, simile ad un berretto frigio per indicare la sua origine orientale, una tunica con le maniche lunghe e brache. Il barbaro, un persiano o uno scita, toccando la lancia con la destra e sollevando la sinistra, simboleggia la sottomissione dei popoli vinti dall'imperatore. In basso a destra, sotto il cavallo, una donna è seduta a terra con le gambe incrociate: il suo vestito, sfuggito via, mostra il seno scoperto, con la mano sinistra regge un lembo della veste con cui porta dei frutti, simbolo di prosperità, e con la destra sostiene il piede destro dell'imperatore, in un gesto di sottomissione. La donna rappresenta la Terra, che raffigura sia il dominio universale dell'imperatore sia la prosperità del suo regno – i frutti che porta – è una metafora frequente nelle immagini dell'imperatore in maestà trionfante. Simmetricamente a questa prima figura femminile, nell'angolo superiore destro della lamina eburnea, è raffigurata una Vittoria alata, in piedi su di un globo su cui è incisa una croce, che tiene nella sinistra una palma, simbolo di trionfo. Anche questa personificazione è un motivo iconografico obbligato delle raffigurazioni dell'imperatore trionfante. La scena è dominata dall'imperatore che indossa una corona decorata di perle: i tratti del suo viso sono abbastanza pesanti, specie le sopracciglia e il naso, ma conferiscono al ritratto un aspetto sorridente. Il sovrano indossa l’abbigliamento militare tipico del comandante in capo dell'esercito: una tunica corta sotto la corazza, e, su questa, il paludamentum, con un lembo che svolazza dietro la sua figura, fermato sulla spalla da una fibula rotonda, in origine decorata con una pietra preziosa come la corazza; i calzari hanno i lacci incrociati e sono decorati da una testa di un leone. I finimenti del cavallo sono decorati con medaglioni. Il rilievo del motivo centrale è particolarmente accentuato: la Vittoria, la lancia e le teste dell'imperatore e del cavallo, sono scolpite quasi a tutto tondo. La cura usata nel disegnare i drappeggi, così come nel modellare alcuni dettagli anatomici come i muscoli delle gambe dell'imperatore sono classicheggianti. Queste caratteristiche servono a porre l’accento sulla maestà della persona imperiale, un tema tipico dell'arte teodosiana e protobizantina.
Lentamente, pur conservando i temi consacrati dalla tradizione antica, dalla fine del VI secolo e soprattutto alla vigilia della crisi iconoclastica, l’estetica bizantina tese a sostituire alle abituali formule romane un’iconografia simbolica cristiana ed anche l’arte profana cominciò ad ubbidire alle stesse norme dell’arte religiosa.
Pur assegnando la giusta importanza alle modifiche stilistiche introdotte in periodi e regioni diverse, permeate in misura differente dall’arte barbarica, l’estetica bizantina impose alcuni tratti essenziali. La figura umana cominciò ad essere smaterializzata, il peso e il volume si attenuarono e nello stesso tempo se ne limitò il movimento. I personaggi tesero sempre più ad essere rappresentati frontalmente e tutta la loro vita si concentrò nello sguardo intenso, diretto verso lo spettatore. Tutto ciò che è accidentale, contingente, fu eliminato e le composizioni si collocarono in un mondo bidimensionale, privo di ogni rapporto col mondo materiale. Questo distacco tra immagine e realtà fu reso totale dalla monocromia degli abbacinanti sfondi d’oro e dalla mancanza di un piano d'appoggio per le figure che, pertanto, appaiono sospese come se fluttuassero nello spazio.
Pian piano si era passati dalla diversità degli individui a pochi tipi con caratteri fissi e con attributi che li potessero rendere facilmente riconoscibili e, allo stesso tempo, la figura umana cominciò ad essere costruita ricorrendo a una geometrizzazione – tipica di tutte le età barbariche e di tutti i barbarismi – con un valore prettamente simbolico funzionale all’avvicinamento dell’uomo a Dio, mentre il ritratto per eccellenza diventò – e lo fu per molti secoli – il ritratto di Cristo.
Il ritratto dunque non era sparito del tutto, continuò ad esistere, ma riguardò soprattutto determinati personaggi, quelli investiti di una missione superiore. Era diventato, però un ritratto tipico non autentico ed i tipi erano i papi, i vescovi, i re, gli imperatori. Si affermava un naturalismo nuovo, di tipo medievale, che sostituì il naturalismo ereditato dai classici, un naturalismo che si può definire simbolico. Il filone classicista, sia pure compresso nella nuova espressività di contaminazione barbarica, riemerge di tanto in tanto come un fiume carsico, condizionando di volta in volta la ritrattistica di corte la quale si avvantaggiò di precise formule di riconoscimento più che di una ricerca fisionomica vera e propria.
È quanto accadde per esempio nei ritratti dei Papi, rappresentati nella basilica di San Paolo fuori le mura in serie continue di immagini per dimostrare che ogni singolo papa è l’elemento di una serie ininterrotta e per mostrare, attraverso la continuità dei vari papi succedutisi nel tempo, la legittimità del potere papale.

È quanto accade con i ritratti di Carlo Magno, sparsi in codici e manufatti che conducono fino al celebre bronzetto equestre conservato ad Aquisgrana in cui il modello seguito è palesemente quello del romano Marco Aurelio. Il bronzetto, nonostante le ridotte dimensioni, riecheggia i monumenti equestri dell’antichità classica dalle manifeste implicazioni politiche. Siffatta tipologia qualifica, infatti, significativamente il personaggio rappresentato, che alcuni identificano con Carlo Magno, altri con uno dei suoi successori.
Allo stesso modo, il ritratto dell'imperatore Ottone III lascia intuire come proprio l'apparato iconografico determina l'inequivocabile riconoscimento del personaggio e non la capacità imitativa della fisionomia. Le due figure di Ottone II e di Ottone III sono, infatti, quasi uguali.
In una miniatura della fine del X secolo oggi al Musée Condé di Chantilly, Ottone II è ritratto seduto in trono e regge le insegne del potere sia temporale sia spirituale. Le figure al suo fianco simboleggiano le province della Slavonia, della Gallia, della Germania e di Roma. Il globo con la croce simboleggia il potere spirituale mentre lo scettro il potere temporale.

Così Ottone III, in un’altra miniatura della fine del X secolo appartenente all’Evangeliario di Bamberga, uscito dallo scriptorium di Reichenau e oggi alla Biblioteca di Monaco, circondato dai grandi dell’Impero: l’imperatore è raffigurato in trono con le insegne del potere (la corona, lo scettro, il globo) altri simboli sono la tunica scarlatta ed il mantello, mentre il prezioso drappo che sta alle spalle del sovrano è un drappo d’onore, derivato dalla tradizione romana e passato nell’iconografia cristiana per designare il particolare rango di alcune figure sacre, come per esempio la Vergine. Come l’imperatore anche i dignitari che lo circondano sono raffigurati non come individui, ma come tipi: a sinistra due chierici e a destra due laici, in ciascuno dei gruppi uno è più anziano e l’altro, messo un passo indietro, più giovane. I chierici stanno a indicare la sottomissione dei vescovi-conti, mentre i laici sono chiaramente connotati come condottieri. Il forte impianto gerarchico dell’immagine è ribadito dalle dimensioni, per cui l’imperatore appare più grande dei suoi vassalli. La funzione di una simile immagine è quella di mostrare il potere dell’imperatore e la coesione del suo regno nelle varie parti che lo costituiscono.
Alla base di questa scelta iconografica c'è una difficoltà tecnica, aggirata facilmente grazie a segni convenzionali di riconoscimento che possono giungere fino alla scritta vera e propria del nome.

È il caso dell'immensa Croce di Ariberto, oggi nel Museo del Duomo a Milano donata dall'arcivescovo Ariberto d’Intimiano alla chiesa di S. Dionigi tra il 1037 e il 1039: alla base di questo crocifisso di metallo, sotto gli enormi piedi del Cristo, c'è una piccola figura a sbalzo dorato che raffigura lo stesso vescovo committente: ricurvo, ripreso nell'atto di offrire la chiesa di San Dionigi, il vescovo non sarebbe identificabile se non ci fosse la scritta «Aribertus Indignus Archiepiscopus» sul capo del presule.

In altri casi il contesto e l'abbigliamento facilitano il riconoscimento del personaggio ritratto, così come accade, per esempio, nel duomo di Monreale, dove Guglielmo II indossa una veste e una corona che, al di là della scritta, lo rendono immediatamente identificabile.
La decorazione di Monreale, realizzata fra il 1180 e il 1190 – differenze stilistiche tra le varie raffigurazioni hanno fatto ipotizzare che più squadre di mosaicisti, direttamente provenienti dal mondo bizantino o forse da cantieri locali, lavorassero alla loro realizzazione – quando pensieri e modi occidentali cominciarono ad intaccare il tessuto orientale arabo e bizantino dell'arte siciliana, testimonia un nuovo afflusso di maestranze bizantine in Sicilia legate al giro della cultura, sviluppatasi nell'età tardo-commena le cui tendenze estetiche mostrano una più spiccata accuratezza realistica, nel desiderio di conferire un accento personale ai tipi fissati da una lunga tradizione, nell’interpretazione degli episodi, nei quali i sentimenti di dolore e tenerezza sono espressi con maggior fervore: i corpi più snelli, hanno perduto l’impianto monumentale, le pieghe agitate dei drappeggi denunciano il movimento ed il tracciato grafico accentua l’espressione dei volti. Le scene di Monreale e nello specifico quella dell’Incoronazione di re Guglielmo e quella della Dedicazione della chiesa alla Theotókos da parte del re – rispettivamente collocate sul pilastro sinistro e su quello destro dell’arco di trionfo che divide il coro dalla zona absidale - si caratterizzano per un andamento rapido e movimentato, servito dalla continua frammentazione della linea, dal risalto dei colori non più stesi in zone locali statiche e circoscritte.

Tra gli sfavillii delle tessere, Guglielmo compare effigiato riccamente e vestito alla bizantina, ai piedi della Vergine mentre le offre il modellino della chiesa imitando, quasi provocatoriamente, la rappresentazione regale del nonno Ruggero II, raffigurato analogamente nella Martorana all’epoca di Giorgio di Antiochia.
Nell’Incoronazione di re Guglielmo il sovrano è ritratto nell’atto di essere incoronato da Cristo con l’ausilio di due angeli. Nelle intenzioni del sovrano questa struttura doveva assolvere alla funzione di pantheon regale della dinastia normanna, centro monastico di fondazione regia e chiesa di rappresentanza della monarchia siciliana connessa al palazzo reale sul modello di Santa Sofia per gli imperatori bizantini.
Il pannello, dunque, è opera direttamente commissionata dal sovrano e preposta ad assolvere al ruolo di sua immagine ufficiale e dunque la scena rappresentata è da interpretarsi in chiave prettamente politica, come conferma anche il passo dal quale è tratto il versetto biblico che accompagna la figura di Cristo.
Le due raffigurazioni di Guglielmo, parti integranti di un unico palcoscenico che pone in scena in maniera monumentale la monarchia normanna, la tradizione biblica e l’autorità vescovile, sono collocate quindi in un luogo altamente caratterizzato in senso pubblico ed ammantato di un altissimo valore simbolico – in quanto spazio generalmente riservato ai soli ecclesiastici. In questo senso, esse non si limitano a commemorare nel re il fondatore della chiesa, ma ne compiono una vera e propria celebrazione e glorificazione.

Il sovrano è rappresentato nell’atto di essere incoronato da Cristo con l’ausilio di due angeli che recano dall’alto dei Cieli il labarum ed il globo. Inoltre, grazie ad un’iscrizione riportata di lato alla testa del re, si mette in scena lo stretto legame che intercorre tra lui e Cristo stesso. Cristo, raffigurato sulla destra, è identificato dal monogramma greco IC XC – IHCOYC XPICTOC –. Il sovrano, posto sulla sinistra, è contraddistinto dalla scritta REX GVILIELMVS S[E]C[VN]D[VS].
Tra i due personaggi c’è l’iscrizione: MANVS ENI[M] MEA AVXILIABITVR EI. Tale frase è tratta dalla Bibbia e si riferisce alla promessa fatta da Dio a Davide per mezzo del profeta Natan.
La scena si svolge entro uno sfondo interamente realizzato a tessere musive color oro. Nella parte in alto sono raffigurati due angeli, alati, completamente vestiti da una lunga tunica bianca e con la testa aureolata, che scendono dal Cielo con in mano un lungo scettro a forma di labarum terminante con un pomolo rettangolare ed un globo ornato di perle e con una croce, composta anch’essa di perle, inscritta al suo interno. La volta celeste è resa attraverso una sorta di tendone di forma convessa, posto orizzontalmente e colorato di blu con il bordo inferiore a color avorio e bianco. Cristo è raffigurato seduto su un trono di legno intarsiato e dorato, ornato di perle, con la seduta coperta da preziosi cuscini blu e rossi e terminante con un poggiapiedi, ornato di gemme di varia foggia e da un ampio cuscino di colore verde. La sua testa è avvolta da un’ampia aureola con una croce, incrostata di perle e gemme, inscritta al suo interno. Addosso veste una lunga tunica color porpora coperta in parte da un ampio mantello blu che si apre, all’altezza della spalla destra, per liberare il movimento del braccio. Infine porta due calzari piuttosto semplici che gli lasciano i piedi in gran parte nudi. La mano destra pone la corona sulla testa di Guglielmo mentre la sinistra sorregge il libro dei Vangeli aperto al passo: EGO SVM LVX MVNDI QVI SEQVITVR ME.  La frase è tratta dal Vangelo di Giovanni.
Massimo Capuozzo.

domenica 20 gennaio 2013

Ritratti celebri nei secoli XIII e XIV Di Massimo Capuozzo

Nel Medioevo l’interesse per il ritratto decadde e le caratteristiche dell’individuo si trasformano in una tipologia fissa, fatta di pochi tratti sommari. Anche nel caso di ritratti di uomini illustri e potenti il riconoscimento avviene grazie agli attributi, ossia gli oggetti simbolo che si riferiscono al loro ruolo, come lo scettro, la corona, l’armatura o gli abiti sfarzosi.
Dal XIII secolo, con l’emergere dei nuovi ceti borghesi dediti all’artigianato e al commercio, il ritratto naturalistico riapparve nei dipinti a soggetto sacro, dove i signori usavano farsi rappresentare in veste di donatori in preghiera.
Le loro immagini, dapprima minuscole, diventeranno nel corso del tempo  sempre più grandi, fino ad eguagliare le proporzioni dei santi e delle divinità. Una maggiore attenzione alla resa dei tratti fisionomici, preludio alla svolta rinascimentale, si evidenzia in genere nella scultura fiorita sotto il regno di Federico II e, in particolare per quel che riguarda il ritratto.

Il Busto di Federico II del 1230 del Museo Civico di Barletta, ci ricorda la passione dello stupor mundi per la cultura classica. Federico è ritratto, con probabile somiglianza, in abiti imperiali: indossa la clamide, fermata sulla spalla da una fibula. Il volto ruotato lateralmente, i capelli raccolti in piccole ciocche sotto una corona di alloro ad imitazione dei ritratti di età augustea. L’ambizione di Federico II, infatti, era quella di recuperare l'immagine imperiale romana e di rinnovarla nel presente, come preciso modello politico oltre che artistico. Il busto del sovrano, sebbene sia in pessime condizioni, lascia ampiamente intuire lo sforzo di un'imitazione fisionomica motivata dalla volontà di rifarsi a precisi modelli classici. L'attenzione al modello imperiale romano non era soltanto appannaggio di sovrani, laici come Federico II, ma emergeva anche dalle scelte dei pontefici, come per esempio Bonifacio VIII che volle farsi ritrarre da Arnolfo di Cambio nella statua frammentaria a fianco del sacello funebre demolito nel vecchio San Pietro Vaticano. Il valore dell'opera, tuttora esistente, oltre a quello devozionale, significava una presenza perenne, come il simulacro dell'imperatore al centro della città.
Una delle principali ragioni del ritratto continuava a essere quella di perpetuare i volti del sovrano o del pontefice che in quel momento rappresentavano il potere temporale e spirituale.
Tuttavia, il ritratto serviva anche a immortalare i committenti.

È il caso di Enrico Scrovegni, ritratto da Giotto nella cappella dell'Arena a Padova dedicata alla Vergine della Carità, tema caro alla confraternita dei Frati Gaudenti, dediti a combattere l’usura, confraternita di cui faceva parte Enrico degli Scrovegni. Enrico era un banchiere ricchissimo e la grande spesa effettuata per costruire e decorare la cappella permetteva di riscattare l'anima del padre Reginaldo dalle pene ultraterrene cui sarebbe stato destinato in quanto notoriamente usuraio – Dante lo colloca nell'Inferno proprio tra gli usurai – e nello stesso tempo, di allontanare da se stesso il rischio di andare incontro alla medesima sorte, essendosi anch'egli macchiato di quel peccato, senza la fatica del lavoro. Nella scena della dedica della Cappella alla Vergine il gesto di Enrico aveva appunto il significato di restituire simbolicamente quanto era stato lucrato mediante l'usura, condizione posta dalla Chiesa per la remissione di quel peccato. Tornando alla scena della dedicazione, Enrico veste il viola, colore della penitenza, ma si fa collocare nel settore destinato ai beati, sotto l'immagine protettrice della croce.

È il caso della devozione di un re come la celeberrima Pala di San Ludovico da Tolosa incorona il fratello Roberto d'Angiò del 1317 di Simone Martini della Galleria Nazionale di Capodimonte: la ricca decorazione e i vivaci colori si stagliano sul fondo d'oro e concorrono a creare una scena in cui il motivo religioso svanisce rispetto all'esaltazione della regalità dei personaggi. San Ludovico, figlio del re di Sicilia Carlo II d'Angiò e di Maria di Ungheria, a Montpellier, ad inizio 1296, rinunziò alla corona di Napoli scegliendo la strada religiosa, che intraprese nel maggio dello stesso anno. Al suo posto ascese al trono il fratello Roberto, ma forti furono le contestazioni e le voci di usurpazione, tanto che si arrivò ad un processo presso la corte pontificia. Il Papa si pronunciò a favore, ma le polemiche non si placarono, soprattutto negli ambienti ghibellini. La santificazione di Ludovico, avvenuta il 7 aprile 1317 sotto il pontificato di papa Giovanni XXII, diede modo al nuovo re di Napoli di validare la propria legittimità al trono. Simone Martini valutò l'importanza dell'avvenimento ed impostò il suo concetto nel modo più razionale ed espressivo, mettendo in relazione sul piano figurativo le due alte investiture — terrena e celeste — che riconosceva come inseparabili anche nel pensiero di Roberto. L'opera è costituita da tavola grande, dove è raffigurato il santo, e una predella in cui sono narrate le sue storie. L'episodio principale è descritto nella sua quasi totalità dalla maestosa immagine di San Ludovico da Tolosa, assiso in trono e notevolmente adornato con vesti episcopali la cui apertura scopre il saio francescano. Il Santo è incoronato da due angeli nel momento in cui sta porgendo una corona sul capo di Roberto d'Angiò, suo fratello minore. Il dipinto, realizzato in occasione della sua santificazione, è dunque una celebrazione del Santo, ma anche quella della dinastia della famiglia angioina. Nella composizione tutto diventa aulico, regale e pregiato: la sontuosità del mantello in broccato rifinito con elegantissime bordure dorate, il prezioso casellamento di gemme sul pastorale e sulla mitra, la raffinatezza delle due corone che sembrano fondersi con lo stesso cromatismo dorato dello sfondo. Simone Martini dimostra in questo dipinto di avere una grande sensibilità e capacità di raffigurare le varie materie, come le stoffe con i relativi ricami, i gigli della famiglia Angiò, il tappeto di motivo orientale disteso sul pavimento, i pregiati metalli delle oreficerie, gli intarsi della pedana in legno sotto il trono.

È il caso ancora delle gesta di un condottiero, come il celeberrimo Guidoriccio da Fogliano che Simone Martini celebra nel suo affresco per il vittorioso assedio di Montemassi del 1328. L'opera mostra il comandante delle truppe senesi, Guido Ricci o Guidoriccio da Fogliano di Reggio Emilia, rappresentato a cavallo, di profilo, mentre si reca all'assalto del Castello di Montemassi in Maremma, episodio avvenuto nel 1328. Sullo sfondo la rappresentazione di un paesaggio piuttosto realistico con montagne, un accampamento e le località interessate dagli eventi. In quest’opera si mescola un'ambientazione fiabesca con un acuto senso della realtà, il ritratto del condottiero diventa una metafora della potenza senese, non un ritratto realistico, e il paesaggio circostante ha un valore simbolico, con elementi tipici della guerra (steccati, accampamenti militari, castelli), senza alcuna figura umana. La doppia valenza simbolica e di celebrazione individuale richiama alla pala di San Ludovico.
Massimo Capuozzo

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