martedì 25 giugno 2013

La nascita dell'Estetica moderna di Massimo Capuozzo

La nascita dell’estetica moderna: Baumgarten, Burke, Winckelmann e Kant Di Massimo Capuozzo
Nella considerazione dell'arte l'Illuminismo mantenne un grande interesse per le regole tradizionali di composizione, ma operò anche un rilevante spostamento verso il problema del gusto, cioè verso l'ottica di chi fruisce dell'opera d'arte.
Si spiega così come proprio nel '700 si può parlare con il filosofo tedesco Alexander Gottfried Baumgarten (1714-1762) di fondazione dell'estetica come scienza autonoma. Il termine Estetica comparve per la prima volta, nel significato moderno di Teoria del Bello e dell'Arte, nel 1750, come titolo dell'opera Aesthetica di Baumgarten: il termine deriva dal verbo greco αισθάνομαι (aisthànomai) che significa percepire con i sensi, provare sensazioni, ma anche comprendere. Per questo motivo molti hanno individuato con questa pubblicazione il vero atto di nascita dell’estetica come scienza autonoma, tale da raccogliere in modo unitario le diverse riflessioni intorno al bello e alle arti mettendo a fuoco un insieme di concetti nuovi: gusto, genio, sentimento.
L’idea di estetica come scienza moderna è tuttavia un luogo comune. Non c’è dubbio che prima del Settecento si ha generalmente a che fare con osservazioni sparse, non certo con un discorso teorico unitario sull’arte e, pur essendo vero che la cultura estetica è un fenomeno essenzialmente moderno, sei-settecentesco, tale cultura non nacque dal nulla: essa si radicò in un contesto sociale e culturale che almeno dal Rinascimento in poi aveva iniziato a legittimare una determinata esperienza dell’arte. Si pensi ad esempio alla Poetica di Aristotele e ai suoi commenti cinquecenteschi, allo stesso Platone e a Plotino.
Con Baumgarten però il termine estetica fu per la prima volta esplicitamente usato e definito. Esso era già apparso nel 1735, nelle Riflessioni sul testo poetico, al posto dell’espressione, fino allora consueta, di critica del gusto. Nel 1750 Baumgarten diede il titolo a un’opera intera: esso designa quella scienza della conoscenza sensibile che avrebbe come oggetto centrale l’analisi del bello e delle arti. L’estetica è scienza della perfezione della conoscenza sensibile come tale, cioè della bellezza. L’estetica è teoria delle arti perché è nelle arti che tale perfezione si realizza. È proprio in questa identificazione della sfera del sensibile con quella della bellezza, e dell’idea di bellezza con l’idea di arte, che è stato indicato uno dei momenti fondamentali della cultura dell’estetica in quanto scienza moderna. A Baumgarten spetterebbe il primato della fondazione dell’estetica, intesa come specifica disciplina filosofica. Quanto al primato della scoperta dell’estetica, ci si accorge che altri filosofi sono ritenuti altrettanto essenziali. Vico, per esempio, o lo studioso inglese Edmund Burke (1729-1797) che, ne La ricerca filosofica sull’origine delle idee del sublime e del bello del 1755, aveva individuato il sublime come un elemento contrapposto al bello. Si tratterebbe cioè di quel sentimento di sgomento che l’uomo prova di fronte al terrore, all’oscurità, alla potenza, alla privazione, alla vastità, all’infinità, alla difficoltà, alla magnificenza.
Il concetto di Sublime è correlato e contrapposto a quello di Bello. Nell'idea di Burke è Sublime "Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore", il sublime può anche essere definito come "l'orrendo che affascina". La natura, nei suoi aspetti più terrificanti, come mari burrascosi, cime innevate o eruzioni vulcaniche, diventa dunque la fonte del Sublime perché “produce la più forte emozione che l'animo sia capace di sentire”, un'emozione però negativa, non prodotta dalla contemplazione del fatto in sé, ma dalla consapevolezza della distanza insuperabile che separa il soggetto dall'oggetto.
Altra posizione importante è quella dello storico dell’arte tedesco Winckelmann nella cui opera si individua non solo l’inizio del neoclassicismo, ma anche un grande contributo alla nascita dell’estetica.
Nel suo libro più famoso, la Storia dell’arte nell’antichità del 1764 Winckelmann sancì la superiorità dell’arte greca su tutte le altre e vi elaborò l’idea che l’armonia e la bellezza fossero il risultato di un’operazione di razionalizzazione e di controllo delle passioni realizzata dall’artista, sentendo con grande intensità e con vivo entusiasmo e tenne sempre presente, il momento primario e insieme terminale dell’arte che è la bellezza.
Winckelmann, teorizzò il concetto di bellezza ideale, che è una sintesi perfetta di umano e divino e che può derivare solo dal superiore controllo delle passioni e dei sensi, riassumendo le caratteristiche fondamentali dell’arte classica nella seguente formula: “La nobile semplicità e la calma grandezza”. Il primo sintagma si riferisce all’eleganza di quest’arte, che deriva essenzialmente dalla sua semplicità; il secondo, invece, rimanda a un significato più profondo: Winckelmann pensava che l’arte greca trasmettesse sempre un messaggio di tipo etico, quello secondo il quale l’uomo, pur accettando la parte emozionale della sua natura, debba costantemente esercitare un controllo razionale sulle proprie passioni in modo da mantenere equilibrio interiore e serenità d’aspetto. L’artista contemporaneo, quindi, non deve limitarsi a imitare le forme dell’arte classica, ma deve accettare e far propri i suoi valori, sentiti come ancora attuali, ed esprimerli nelle sue opere.
In conformità a tale concezione, l’equilibrio dell’arte classica si propose come modello di fusione tra lo spirito e il corpo. Lo studioso tedesco identifica l’attività dell’artista con un procedimento di autocontrollo che renda l’opera capace di suscitare nell’animo il pathos che ne costituisce l’unicità. Tal eccezionalità prende il nome di “sublime.
Le riflessioni di Burke e di Winckelmann ebbero qualche eco nell’opera di Immanuel Kant (1724-1804), che, nella Critica del giudizio del 1790 sostenne che si ha un giudizio estetico quando, commossi per la contemplazione di uno spettacolo della natura o di un oggetto d'arte, proviamo un piacere che non ha legami con la conoscenza intellettuale. Tale piacere deriva dalla corrispondenza tra il bello cui assistiamo e le nostre più profonde aspirazioni. Il Bello deve produrre armoniosa quiete e Kant distingue fra il semplice bello e il sublime, vale a dire quello che appare in oggetti di potenza e proporzioni smisurate. Di fronte a spettacoli sublimi, l'uomo non può non percepire, da un lato la propria insignificanza ma, dall'altro, la coscienza della propria superiorità morale e del proprio destino soprasensibile. Kant sosteneva inoltre che il bello è dettato da un libero gioco delle facoltà intellettive, per cui al vedere un bel paesaggio proviamo piacere perché è come se esso si adeguasse spontaneamente alle nostre categorie intellettive; per il sublime, invece, Kant – che aveva in mente il cielo stellato, le catene montuose, il mare in tempesta – intende qualcosa di ambiguo, che desta al contempo piacere e senso di smarrimento: l'oggetto in questione – il mare in tempesta, il cielo stellato o le montagne – non si adegua spontaneamente a noi e alle nostre facoltà conoscitive, ma ci incute timore perché manifesta la sterminata grandezza e la sterminata potenza della natura di fronte alla sterminata piccolezza e impotenza dell'uomo; mentre il bello è univocamente positivo, il sublime è positivo e negativo al tempo stesso.
Massimo Capuozzo

martedì 7 maggio 2013

I ritratti di Alfonso d’Aragona: da Mino da Fiesole a Francesco Laurana di Massimo Capuozzo


Il bellissimo bassorilievo raffigurante il re di Napoli Alfonso d’Aragona fu eseguito da Mino da Fiesole fra il 1454 e il 1456. Quando Mino fu chiamato a lavorare per la corte aragonese di Napoli, la fama dello scultore poggiava già sull'amabilità e sulla dolcezza delle sue figure.
Il gusto del busto-ritratto in marmo o in materiali plastici come la terracotta si era sviluppato a Firenze nella metà del XV secolo. Sono ritratti caratterizzati e riconoscibili, spesso di defunti con funzione commemorativa, ma anche dei signori della casa, per legittimare la nobiltà del tempo, consegnando le effigi degli antenati ai discendenti o di giovani donne che hanno lasciato la casa paterna per sposarsi con la funzione di manifestare le virtù di castità, grazie e signorilità della donna. Queste esperienze erano nate dalle indagini plastiche di Donatello, che aveva sperimentato nuove soluzioni sia di resa realistica della figura umana e della sua collocazione nello spazio, sia di restituzione in scultura dei sentimenti e di approfondimento dell’espressività dei volti.
Gli scultori fiorentini cui è maggiormente legato lo sviluppo di questo genere artistico sono Mino da Fiesole, Desiderio da Settignano, Benedetto da Maiano, Antonio Rossellino: i loro committenti sono le principali famiglie fiorentine del periodo e anche alcuni principi e signori italiani, da Federico da Montefeltro al re di Napoli Alfonso d’Aragona.
La prima attività di ritrattista di Mino da Fiesole è attestata dalla sua familiarità con i Medici, per i quali eseguì il busto di Piero, del 1453, figlio ed erede di Cosimo il Vecchio, e il busto di Giovanni, eseguito fra il 1453 e il 1459, custoditi entrambi al Museo Nazionale del Bargello a Firenze. Le fonti riferiscono che Mino aveva scolpito anche il busto di Lucrezia Tornabuoni, moglie di Piero: i tre busti stavano sotto un vano architravato in palazzo Medici.
Il culto per i busti ritratto non si limitò a Firenze e i servigi di Mino furono richiesti a Roma, dove nel 1454 realizzò il busto di Niccolò Strozzi un banchiere esule fiorentino, oggi allo Staatliche Museen di Berlino. Mino era un artista minuzioso, che descriveva senza compiacimenti il personaggio. I ritratti di Piero de Medici e Niccolò Strozzi mostrano la personalità di scultore di Mino da Fiesole e il suo approccio al ritratto in cui il personaggio è raffigurato senza indulgenza ai difetti fisici e di carattere, come lo sguardo cupo di Piero o l’obesità quasi deforme di Strozzi.
Alla corte di Alfonso d'Aragona a Napoli, dove probabilmente lavorò anche all'arco trionfale di Castelnuovo, eseguì il ritratto di profilo del sovrano ed un busto del generale Astorgio Manfredi alla National Gallery di Washington. Due documenti riferiscono esecuzione di una scultura raffigurante S. Giovanni Battista, oggi perduto, e di un Ritratto di Alfonso d’Aragona oggi al Louvre, opere entrambe destinate a Castel Nuovo.
Gli scambi di artisti tra Medici ed Aragonesi, avviati dopo la Pace di Lodi del 1454 furono cruciali per il recupero dei profili all’antica, ma anche del ritratto moderno in scultura. A Napoli giunsero, infatti, dal 1455, oltre a Desiderio da Settignano, anche Donatello – la cui opera era visibile nel sepolcro del cardinale Rainaldo Brancaccio nella chiesa di Sant’Angelo a Nido – e Mino da Fiesole.
Nel Ritratto di Alfonso d’Aragona, 52 cm. x 44 cm, Mino utilizzò lo schema di profilo e il bassorilievo di derivazione antica già apparso nei Dodici Cesari di Desiderio da Settignano, eseguiti per Alfonso d’Aragona, ma anche nelle medaglie che Pisanello, nel suo soggiorno napoletano, aveva eseguito per lo stesso sovrano. Nelle opere di Mino da Fiesole e di Desiderio da Settignano è notevole uno strettissimo legame fra la ripresa di modelli antichi, studiati per riproporre nuove opere classicheggianti, e lo studio realistico della figura, destinato invece a confluire nel ritratto. Modello antico e studio dal vero sono i due poli essenziali nell’arte rinascimentale che in Mino vanno in parallelo.
La lastra che raffigura Alfonso è in discreto stato di conservazione, sebbene una frattura interessi la zona in alto a sinistra, ma non intacca il ritratto. Per realizzarlo, Mino utilizzò la tecnica dello stiacciato, un rilievo bassissimo con variazioni minime, talvolta di pochi millimetri rispetto al fondo, usato da Donatello e dagli scultori di ambiente fiorentino, per dare una riduzione in prospettiva del volume reale dei corpi, conseguendo così un valore pittorico.
All’epoca del ritratto, Alfonso aveva all’incirca sessantadue anni ed era reduce da una guerra durata quasi quattro anni che lo aveva visto opporsi a Renato D'Angiò e trionfare. Dopo lutti, stenti e battaglie combattute porta a porta, Renato era stato costretto ad imbarcarsi per fuggire ed Alfonso aveva celebrato il proprio ingresso nel 1442 in una Napoli sottratta agli Angiò con un trionfo di sapore antico, raffigurato più tardi nell’arco di Castelnuovo da un’équipe di artisti fiorentini o di cultura rinascimentale. In questo ritratto, l’espressione di Alfonso è assorta e serena nello stesso tempo, nonostante avesse ereditato un regno ormai ridotto allo stremo e con le finanze a zero. Lo sguardo è proiettato lontano, per nulla spaventato dall’arduo impegno che lo attendeva. I tratti fisionomici sono eseguiti con molto realismo: le linee della fronte e del naso sono sinuose, il viso sporge in corrispondenza del naso e delle labbra carnose e ben delineate, mentre il mento è sfuggente e a punta, il naso è lungo e la punta volge verso il basso, la forma dell’orecchio è ovale. Le spalle possenti rivelano il guerriero e sono inguainate da una tunica secondo la moda dell’epoca e da un mantello realisticamente panneggiato di vago sapore romano che conferisce a quest’opera l’aspetto di un antico cammeo. La grazia aspra nelle pieghe acute del panneggio contrasta con il passaggio dolce dei piani nel volto: questo ritratto, caratterizzato da una sottile penetrazione psicologica, attesta una conoscenza profonda della ritrattistica romana. Per artisti come Desiderio, Mino, Pisanello era facile passare dalla raffigurazione di sovrani dell’antichità a quella di re contemporanei, appassionati di antichità e collezionisti di medaglie e di pezzi archeologici.
Alfonso fu un grande sovrano: con lui il Regno di Napoli entrò a far parte, come centro principale, della Confederazione di Stati della Corona d'Aragona e in breve tempo la situazione economica cambiò radicalmente. Con la nuova dinastia i traffici e le relazioni politiche si incrementarono, i servizi si accentrarono presso la corte e gli scambi culturali e commerciali tra l'Italia meridionale e le regioni iberiche si accentuarono: la città venne dunque a trovarsi al centro di un vasto e vitale circuito mediterraneo mentre furono realizzate imponenti opere come il restauro o la costruzione ex novo di fogne e di strade, o grandi opere di ristrutturazione.
Da vero principe rinascimentale, egli protesse le arti e favorì i letterati, che credeva avrebbero tramandato la sua fama ai posteri. Il suo amore per i classici fu eccezionale, anche per i suoi tempi: alla sua Corte convennero umanisti celebri come il Panormita (1394  1471), Francesco Filelfo (1398  1481), Bartolomeo Facio (1400 – 1457) e Lorenzo Valla (1405 o 1407  1457). La Biblioteca degli Aragonesi di Napoli, una delle luci più splendide del Rinascimento, fu avviata da Alfonso il Magnanimo subito dopo la sua scenografica entrata in Napoli fu quasi il simbolo di un'epoca di eccezionale splendore culturale per la città. La biblioteca – fino alla fatale inva­sione di Carlo VIII nel 1494 che trasferì in Francia 1140 fra incunaboli e manoscritti – era disposta in una grande sala in vista del mare ed era ricca di migliaia di incunaboli e di manoscritti, spesso capolavori dei calligrafi e dei miniatori più illustri del tempo, che lavoravano espressamente per gli Ara­gonesi. I volumi erano collocati negli scaffali, alcuni più grandi erano su tavolini coperti di tappeti, con rilegature scintillanti. La biblioteca degli Aragonesi divenne ben presto un cen­tro vivo ed originale di cultura, cui facevano capo gli ingegni più elevati del tempo, da Bracciolini a Biondo, da Filelfo a Pontano, da Sannazaro a Poliziano.
Alfonso rifece Castelnuovo, vero e proprio modello di reggia fortificata, sede della sua Corte: danneggiato dalle continue guerre Alfonso ne promosse la ristrutturazione affidando l’opera all'architetto maiorcano Guillermo Sagrera (1380 -1456), operante in Italia dal 1446, dove realizzò il suo maggiore capolavoro. Egli ridisegnò quasi totalmente la planimetria della grande fabbrica angioina, dotandola di una pianta trapezoidale irregolare e trasformò le torri, che avevano pianta quadrata, in pianta circolare e rivestite di piperno, inoltre progettò nella fortezza napoletana alcuni loggiati lungo la facciata principale e lungo quella di destra. Ma l'opera più spettacolare che spetta a Sagrera è la superba sala del trono (chiamata in seguito sala dei baroni) la cui maestosa volta fu concepita secondo un disegno stellare che culmina al centro con un luminoso oculo aperto.
Nel 1453, quando il potere reale poteva definirsi ormai solido, Alfonso decise di dotare il castello di un ingresso monumentale, ispirato agli antichi archi di trionfo romani. Il superbo Arco di trionfo di Castel Nuovo, ritenuto una delle più rilevanti opere del Rinascimento italiano, in marmo bianco, di recente restaurato e restituito al suo originario splendore, si pone a simbolo della sovranità di Alfonso sulla città.
Quest’arco è un'opera straordinaria, nata forse dalla collaborazione tra Francesco Laurana (1430-1502) e Guillermo Sagrera ed è il frutto del lavoro di numerose maestranze di diversa cultura e provenienza che crearono un documento eccezionale per aree di influenza: la componente fiammingo-borgognona accanto a quella iberica e dalmata e a quella toscana diventa in quest’opera una testimonianza storico-artistica di carattere prettamente mediterraneo di altissimo livello e che contribuirono alla contaminazione stilistica dell’opera, spaziando dal rinascimento toscano alle tendenze d’oltralpe e veneziane, tutte volte alla riscoperta della classicità.
L'Arco è composto da due volte sovrapposte, rette da colonne binate e coronate da un originalissimo timpano curvilineo. Il principale maestro dell'arco fu senza dubbio il dalmata Francesco Laurana, la cui opera si ricollega alla corte di Urbino: in questo scorcio tardo del Medioevo, la Dalmazia fu centro di diffusione di forme artistiche, in particolare nella scultura determinata dall’esportazione della pietra locale, attività al seguito della quale si erano formati vari artisti operanti a Venezia ed in altri centri italiani, come ad esempio Urbino, dove l'omonimo Luciano Laurana operò con Francesco.
I rilievi dell'arco di trionfo rappresentano un evento storico, enfatizzato dal riferimento al trionfo imperiale romano: l'ingresso a Napoli del re Alfonso, celebrato il 26 febbraio del 1443 come vincitore di Renato d'Angiò, accuratamente preparato con un preciso cerimoniale elaborato dalla corte reale. Il corteo reale si era svolto tra la porta del Mercato e Castel Nuovo. Il re procedeva su un carro dorato condotto da quattro cavalli bianchi, preceduto dai musici a cavallo, da sette Virtù rappresentate da altrettanti cavalieri e da carri allegorici. Seguivano a piedi il principe ereditario e i nobili aragonesi e napoletani.

Le sculture raffiguravano l'avvenimento storico, ma arricchito di significati universali. Il rilievo del fregio centrale dell'arco inferiore raffigura il corteo trionfale di Alfonso, raffigurato come un imperatore, seduto sul carro condotto dalla Fortuna e circondato dai dignitari della sua corte. La gerarchia è affermata dalla collocazione delle figure del seguito su un registro inferiore a quello del sovrano. L'arco superiore avrebbe dovuto inquadrare la statua equestre del re aragonese, che Alfonso avrebbe voluto far eseguire da stesso Donatello, ma che non fu mai realizzata.
La realizzazione del complesso apparato scultoreo dell'Arco trionfale costituì il laboratorio di formazione di vari artisti rinascimentali, che, dopo quest’opera, lavorando in tutto il Regno di Napoli, riproposero nell'Italia meridionale le innovazioni rinascimentali. Da qui è nata l’espressione clima dell'arco per questa prima diffusione dei nuovi modi artistici.
Sebbene non abbia saputo ingraziarsi l'animo di tutti i Napoletani – Alfonso morì, non amato dai partenopei, visto sempre come straniero e conquistatore a differenza degli amati e coccolati Angioini – Alfonso riconobbe a Napoli un'importanza primaria rispetto alle altre città del suo regno facendo di essa una vera e propria capitale mediterranea, profondendo somme immense per abbellirla ulteriormente, proteggendo le arti e le industrie. Il nuovo sapere restò però essenzialmente confinato alla corte, mancando ad esempio un'attenzione del sovrano all'Università, che avrebbe potuto diffondere la nuova cultura nel regno.
Massimo Capuozzo

venerdì 5 aprile 2013

Ludovico Ariosto: vita e opere di Massimo Capuozzo

Ludovico Ariosto – Ariosto è la tipica figura di intellettuale cortigiano del Rinascimento, come Castiglione, Bembo e molti altri letterati dell’epoca. La personalità di Ariosto è però complessa ed inoltre nutre nei confronti dell'ambiente in cui vive e lavora sentimenti di malcelato rifiuto e scaglia contro di esso una sottile polemica.

La vita e le opere – Primo di dieci figli, Ludovico Ariosto nacque nel 1474 a Reggio Emilia da Daria Malaguzzi (di nobiltà reggiana) e dal conte Niccolò Ariosto (discendente da nobile famiglia bolognese trapiantata a Ferrara) dove questi era capitano, della rocca della città, in nome degli Estensi.
Nel 1481, la famiglia si trasferì prima, a Rovigo, dove Niccolò era stato inviato dal duca Ercole I d'Este con l'incarico di comandante della guarnigione; poi, a seguito della guerra scoppiata tra Ferrara e Venezia, a Reggio, infine nel 1484, a Ferrara, sede della Corte Estense, uno dei centri culturali più evoluti e raffinati del Rinascimento.
Tra il 1489 e il 1494, contro voglia, per volere del padre, e con esiti piuttosto modesti, studiò diritto presso l'Università di Ferrara. Ma intanto partecipava alla vivace vita della corte di Ercole I, dove entrò in contatto con vari e prestigiosi letterati e umanisti (Ercole Strozzi, Pietro Bembo e molti altri). Lasciato finalmente libero dal padre di dedicarsi ai prediletti studi letterari, abbandonò il diritto e intraprese lo studio della letteratura latina, cominciando a frequentare i corsi dell'umanista Gregorio da Spoleto ed impegnandosi anche in una produzione poetica sia latina sul modello dei grandi poeti dell’antichità, Tibullo, Catullo, Orazio (liriche amorose, elegie, De diversis amoribusDe laudibus Sophiae ad Herculem Ferrariae ducem primum,Epithalamium, epitaffi ed epigrammi) sia volgare, le Rime di argomento prevalentemente amoroso e di timbro petrarche­sco (pubblicate postume 1546).
Nel 1500, in seguito alla morte del padre e, poiché era il primogenito, la necessità di provvedere a una numerosa famiglia, lo costrinse a cercare un impiego e ad abbandonare così la vita meditativa degli studi per quella pratica: la tutela delle cinque sorelle e dei quattro fratelli (tre dei quali minorenni e il maggiore Gabriele paralitico, che rimane con lui tutta la vita). In una delle Satire così egli rievoca argutamente questo momento della sua vita:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero.
dietro a Marta bisogna ch’io rivolga.
Nel 1502, Ariosto ottenne il capitanato della rocca di Canossa.
Nel 1503, ebbe un figlio, Giambattista, dalla domestica Maria. Sempre nello stesso anno entrò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, figlio di Ercole I e fratello del duca Alfonso e divenne funzionario di corte. Al servizio del cardinale, uomo gretto, avaro e insensibile alla cultura e alla poesia, svolse svariati, faticosi, mal retribuiti e ingrati compiti: dalle incombenze pratiche, quali aiutare il signore a spogliarsi, alle faccende amministrative, dalle funzioni di intrattenimento e di rappresentanza alle delicate e rischiose missioni politiche e diplomatiche. Il lavoro presso il cardinale lo costringeva ad attività troppo lontane dai suoi gusti, dal suo amore per la poesia. La vita stessa di corte, cui pure ambivano la maggior parte degli uomini di cultura del tempo, la sentiva come una necessità alquanto fastidiosa e l’accettava di malavoglia, anche se con bonaria rassegnazione. Vagheggiava per contra­sto una esistenza modesta e pacifica, libera da impegni gravosi e confacente ai suoi amati studi. È un ideale che argutamente esprime in una delle Satire:
In casa mia mi sa meglio una rapa,
ch’io cuoca, e cotta su ‘n stecco me inforco
e mondo e spargo poi di aceto e sapa
che all’altrui mensa tordo, starna o porco selvaggio.
Tra il 1507 e il 1515, periodo assai ricco di incidenti diplomatici, Ariosto fu spesso costretto a fare viaggi a cavallo per recarsi ad Urbino, a Venezia, a Firenze, a Bologna, a Modena, a Mantova e a Roma. E così, mentre attendeva alla stesura dell'Orlando furioso, e si impegnava nell'ambito del teatro di corte, scrivendo e mettendo in scena i primi importanti esperimenti del nuovo teatro volgare, le commedie Cassaria e I Suppositi, Ariosto fu protagonista di una delle fasi più aspre delle guerre d'Italia.
Fra gli anni 1507 e 1531 compose per il teatro di corte cinque commedie modellate per la struttura sui classici greci e latini, ma nelle quali spesso si riflettono la vita e la so­cietà contemporanee.
La situazione del Ducato, restio alla soggezione allo Stato della Chiesa, divenne, in seguito alle vicende provocate dalla Lega di Cambrai del 1508, delicata sul piano militare e diplomatico.  
Nel 1509, Ariosto seguì il cardinale nella guerra contro Venezia.
Nel 1510, Ariosto si recò a Roma per ottenere la revoca della scomunica inflitta da papa Giulio II Della Rovere al cardinale e su quest'ultimo fu richiesta l'opera di Ariosto, inviato spesso come messaggero presso Giulio II: la risolutezza del poeta è indicata dal fatto che il papa giunse a minacciarlo di morte e di essere gettato ai pesci.
Nel 1512, Ariosto insieme al duca Alfonso, che dopo la vittoria dei Francesi e dei Ferraresi sulle truppe papali a Ravenna cercava di rappacificarsi col pontefice, visse una romanzesca fuga attraverso gli Appennini, per sottrarsi alle ire del pontefice, deciso a non riconciliarsi con gli Estensi, alleatisi con i francesi nella guerra della Lega Santa.
Nel 1513, alla morte di Giulio II, si recò nuovamente a Roma per felicitarsi con il nuovo papa Leone X de’ Medici, che aveva con lui rapporti amichevoli, sperando, tuttavia invano, di ottenere un beneficio generoso che gli permettesse una sistemazione più tranquilla, ma rimase deluso. Nel viaggio di ritorno Ariosto conobbe a Firenze Alessandra Benucci, una fiorentina sposata con il ferrarese Tito Strozzi: fu l'unico amore della sua vita.
Nel 1515, morto il marito, la Benucci andò ad abitare a Ferrara, ma non visse mai con lui, neppure dopo il matrimonio, celebrato in gran segreto nel 1527 — affinché lei non perdesse i diritti all'eredità del marito e lui i suoi benefici ecclesiastici.
Nel 1516, uscì la prima edizione dell'Orlando furioso, in quaranta canti, dedicata al cardinale Ippolito d'Este, che tuttavia non dimostrò alcuna gratitudine.
Nel 1517, Ariosto lasciò il servizio del cardinale Ippolito, quando questi fu nominato vescovo di Budapest. Ariosto si rifiutò di seguirlo in un paese che giudicava inospitale per co­stumi e per clima; e soprattutto perché sarebbe stato costretto ad abbandonare, oltre che la sua città («a me piace abitar la mia contrada»), anche la donna amata, Alessandra Benucci.
Tra il 1517 e il 1521, attende alla composizione delle sette Satire componimenti in terzine e in forma epistolare (pubblicate solo nel 1534): realistica e amara meditazione sugli ambienti cortigiani e sulla sorte degli uomini di lettere. Non sono satire nel senso che è oggi dato al termine, ma conversazioni argute e riflessive come le Satire oraziane che Ariosto ebbe a modello. In esse l’autore delinea il proprio ritratto che, se non corrisponde sempre a ciò che egli vera­mente fu nella realtà, coglie però i tratti essenziali della sua natura e del suo carattere: la predilezione per la vita studiosa e appartata, l’insofferenza per la mondanità vacua della corte, l’amore per la sua donna e per la sua città e la sofferenza a staccarsi da en­trambe, l’ammirazione per la cultura classica; e poi le speranze e le delusioni che a lui, come a tutti gli uomini, elargiva la vita: il tutto guardato con maturo e bonario equili­brio.
Questi sono probabilmente anche gli anni a cui risale la stesura dei Cinque Canti, composti in vista di un inserimento nel Furioso, ma poi lasciati da parte a causa dei toni cupi e perciò dissonanti rispetto al resto del poema.
Nel 1518, lasciato il cardinale Ippolito, entrò al servizio del duca Alfonso I: anche questa «servitù» non fu leggera, pur senza migliorare la situazione economica.
Tra il 1519 e il 1520 prosegue la composizione delle rime in volgare e compone, inoltre, due commedie Il Negromante e I studenti (incompiuta).
Nel 1521, seguì una seconda edizione dell’Orlando furioso.
Dal 1522 al 1525, per volere del duca dovette, assume­re, seppur malvolentieri, l’incarico di governatore della regione montuosa e selvatica della Garfagnana, un paese violento, infestato dai briganti. E, benché amasse rappresentarsi come inetto alle cose pratiche, tenne questo difficile ufficio con fermezza ed equilibrio. Le Lettere, scritte per dovere d'ufficio al duca, rivelano la grande fermezza, serietà e sagacia amministrativa e politica con cui Ariosto cercò di ricondurre la legge e l'ordine in quel territorio di confine, infestato dai banditi e dalle violenza delle fazioni rivali.
Nel 1525, lasciata la Garfagnana, si apre un periodo più sereno e per il poeta e per il suo ducato. Tornato a Ferrara, il duca gli affida varie cariche amministrative ma anche incarichi a lui più congeniali. Fu chiamato, infatti, a far parte del Maestrato dei savi e fu nominato sovrintendente agli spettacoli di corte. Riscrive in versi la Cassaria e I Suppositi, rielabora Il Negromante.
Nel 1528 è a Modena con il duca per scortare l'imperatore Carlo V di passaggio nello Stato estense e nel 1528 scrive una nuova commedia, la Lena, in versi rappresentata a Ferrara nel carnevale del 1528 e ripresa l'anno successivo con l'aggiunta di nuove scene. Imperniata sui maneggi della ruffiana Lena per favorire gli amori contrastati della giovane figlia di un suo amante, è il miglior testo teatrale ariostesco, in quanto riscatta la convenzionalità del tema ancorandolo alla realtà ferrarese del Rinascimento.
Tornato a Ferrara si ritirò finalmente a vita privata; si comprò una modesta casetta con un piccolo orto, e lì trascorse gli ultimi suoi anni, fra le occupazioni agresti e i diletti studi, curando soprattutto l’ultima revisione della sua opera maggiore, L’Orlando furioso.
Nel 1531, dopo essere stato a Firenze, ad Abano e a Venezia, il marchese del Vasto, Alfonso d'Avalos, condottiero dell'esercito imperiale, gli assegna, a Correggio, una pensione di cento ducati d'oro.
Nel 1532 seguì una terza edizione dell’Orlando furioso aumentata di sei canti: notevolissima l’elabora­zione linguistica e formale che intercorre fra la prima edizione e l’ultima. Nello stesso anno diresse le recite di una compagnia padovana inviata a Ferrara dal Ruzzante.
Ammalatosi di enterite, morì nel 1533 nella parva domus acquistata sei anni prima in contrada Mirasole.

martedì 12 marzo 2013

Il dittico di Piero di Francesca degli Uffizi di Massimo Capuozzo


Il mirabile Dittico dei duchi di Urbino è una serie di quattro dipinti autografi di Piero della Francesca – due sul recto e due sul verso – realizzati con tecnica a olio su tavola forse fra il 1465 e il 1474. Le parti misurano 47 x 33 cm. ed il dittico è custodito agli Uffizi di Firenze. Nel recto sono raffigurati Federico II da Montefeltro e Battista Sforza, sul verso sono rappresentati allegoricamente i trionfi dei due coniugi. I due dipinti sono oggi uniti da un'unica cornice ottocentesca, probabilmente, si chiudeva come un libro lungo una cornice centrale: la pittura su entrambe le parti farebbe infatti pensare ad un oggetto privato, piuttosto che ad un ritratto pubblico da appendere – come è stato invece erroneamente ipotizzato in una parete della sala udienze nel Palazzo di Urbino – e magari fu richiesto dallo stesso Federico come ricordo dell'amatissima moglie, come sembra suggerire anche un certo tono malinconico dell'opera.
Il dittico giunse alla Galleria degli Uffizi nel 1631 insieme alla cospicua eredità della famiglia Della Rovere, quando la casata ducale urbinate si estinse. Nel 1508, Francesco Maria I Della Rovere era succeduto allo zio materno Guidubaldo I di Montefeltro che, rimasto senza eredi, lo aveva adottato. Trascorso poco più di un secolo, anche il terzo duca Della Rovere, Francesco Maria II, rimase privo di successori maschi, così, nel 1631, la dinastia si estinse: il Ducato passò alla curia romana, mentre i beni mobili, comprendenti la ricca collezione di famiglia, seguirono a Firenze Vittoria Della Rovere, nipote del duca Francesco Maria II e moglie del granduca di Toscana Ferdinando II de’ Medici. La ricchissima collezione che i tre duchi Della Rovere (Francesco Maria I, Guidubaldo II e Francesco Maria II) avevano messo insieme in poco più di un secolo fu ben presto dispersa: la libraria finì alla Biblioteca Vaticana, poi con l’estinzione dei Medici e l’avvento dei Lorena molte opere d’arte presero da Firenze la via dei musei europei, mentre la devoluzione, le spoliazioni napoleoniche e le aste fecero il resto.
Fortunatamente il dittico è rimasto a Firenze.
Nei due pannelli del recto, i due personaggi sono ritratti «all’italiana», cioè di profilo, secondo quella moda tipicamente quattrocentesca, inaugurata dal Pisanello, che si opponeva a quella dei fiamminghi che invece eseguivano i ritratti mettendo il volto a tre quarti.
Questi ritratti, al di là del loro intrinseco valore nella storia di questo genere artistico sono un tipico esempio di arte rinascimentale al punto da essere considerati un’icona di Piero e, perché no, un’icona del Rinascimento.
Il maestro di Borgo Sansepolcro fu molto legato a Federico da Montefeltro, anche se non sono del tutto chiari i suoi spostamenti alla corte urbinate, soprattutto riguardo alla frequenza ed alla durata dei suoi soggiorni, nel quadro di una vita ricca di spostamenti scarsamente documentati. Piero sicuramente soggiornò ad Urbino tra il 1469 e il 1472, portando il suo stile già delineato nei tratti fondamentali e riassumibile nell'organizzazione prospettica dei dipinti, nella semplificazione geometrica che investe le composizioni ed anche le singole figure, nell'equilibrio tra immobilità cerimoniale e indagine sulla verità umana ed infine nell'uso di una luce chiarissima che schiarisce le ombre e permea i colori. Nonostante questa discontinuità, Piero è tuttavia considerato uno dei protagonisti e dei maggiori promotori della cultura urbinate, sebbene non fosse marchigiano né di nascita né di formazione, bensì toscano, e proprio ad Urbino il suo stile raggiunse un insuperato equilibrio tra l'uso di rigorose regole geometriche ed il respiro serenamente monumentale. Una delle prime opere forse legate alla committenza urbinate è la Flagellazione, un'opera significativa ed enigmatica dai molteplici livelli di lettura che continua ad appassionare ricerche e studi. Il Dittico degli Uffizi è datato al 1465-1472 circa: il ritratto di Federico era completato nel 1465, mentre si sa che quello di Battista Sforza è postumo, quindi successivo al 1472. Nel 1469 Piero è ad Urbino, dove la Confraternita del Corpus Domini lo incaricò di dipingere uno stendardo processionale, in quell'occasione al maestro fu proposta anche la pittura della travagliata Pala del Corpus Domini. Nel 1470 Piero a Sansepolcro con Federico da Montefeltro. A Urbino Piero lasciò soprattutto la Madonna di Senigallia e la Pala di Brera, precedente al 1475, oggi ritenuta concordemente una sorta di summa dell’arte del della Francesca e delle sue teorie scientifiche sulla prospettiva.
Nel doppio Ritratto dei duchi di Urbino si nota già un influsso della pittura fiamminga: si tratta, infatti, dell'uso della tecnica a olio, innovativo per il pittore, sebbene in opere precedenti sia usata una tecnica mista, olio e tempera. Ciò può essere derivato dal contatto con i pittori fiamminghi della corte urbinate, quali Giusto di Gand. Ma la memoria nordica, in particolare di Jan van Eyck, si nota soprattutto in quei paesaggi sfumati in una profondità estremamente lontana, e nella cura dei dettagli nelle immediatamente vicine immagini dei duchi. Notevole è lo studio della luce – fredda e lunare per Battista Sforza, calda per Federico – unificata da un forte rigore formale, da un senso pieno del volume e da alcuni accorgimenti – come il rosso degli abiti di Federico – che isolano i ritratti facendoli incombere sullo spettatore.
In quest’opera Piero si impegnò in una costruzione compositiva piuttosto difficile e mai affrontata prima. Da un lato, il maestro contrappose i due ritratti in un’astratta geometria di volumi – iconograficamente riconducibile alla tradizione araldica dei ritratti su medaglia – resa possibile dall’incidersi netto dei volti contro lo sfondo rarefatto e lontano, da un altro, dietro il ritratto di profilo dei due soggetti – entrambi i profili sono taglienti e decisi – l'artista aggiunse uno straordinario paesaggio che si estende in profondità fino a perdersi in una nebulosa distanza. Un paesaggio reale dove la Valle del Metauro e le colline rappresentano i reali domini di Federico e corrisponde approssimativamente alla vista panoramica dalla torre occidentale del Palazzo Ducale di Urbino, con le colline punteggiate di torri e castelli tra fertili vallate, dove si vedono i campi arati, e un bacino, corrispondente allo sbocco sul mare, dove transitano imbarcazioni industriose, dando un'idea delle vivaci attività economiche del Ducato. Anche nel paesaggio c’è la ricerca di spazialità, intesa non tanto come costruzione di prospettive geometriche, quanto come capacità di guardare in lontananza. In questo caso la lontananza è creata prestando attenzione ai giusti valori atmosferici del cielo e dell’orizzonte, che prendono colorazioni che nel loro schiarirsi ci rendono il senso della lontananza. La relazione tra il paesaggio e i ritratti è molto stretta anche nel significato: i ritratti, con i loro profili solenni, dominano sul dipinto così come i due soggetti dominavano sulla vastità dei possedimenti. L'audacia della composizione è ulteriormente evidenziata nel passaggio repentino tra i due diversi piani prospettici: i paesaggi erano una novità nella ritrattistica italiana diversamente dalla produzione fiamminga. In Piero della Francesca non sono così meticolosamente elaborati come nei maestri del nord e la lontananza nella quale il pittore li ha posti non crea continuità con lo spazio ravvicinato occupato dalle persone. Allargano però in modo sensibile il raggio d’azione del ritratto, danno alla coppia principesca un valore di fronte al mondo che di rado si sarebbe potuto descrivere in modo così sottile.
I profili dei due personaggi sono posti in posizione affrontata, gli occhi dell’uno fissi in quelli dell’altro, in una comunicazione muta ed austera, dalla quale lo spettatore è implacabilmente escluso; nello stesso tempo tuttavia Piero offre all'occhio impietoso dell'osservatore la cruda fisicità dei personaggi. L'abilità del maestro nella resa dei volumi accompagna la sua attenzione al dettaglio: attraverso un uso sapiente della luce ci dà una descrizione miniaturistica dei gioielli di Battista Sforza, delle grinze e delle verruche sulla pelle olivastra di Federico. La loro immagine è realistica per la verosimiglianza dei dati fisionomici, ma molto idealizzata nella fissità della posa e nello sguardo non rivolto a nulla in particolare. Sono la rappresentazione aulica e cerimoniale di due personaggi che vogliono rappresentare se stessi secondo canoni classici, senza tempo. Le due figure a mezzobusto si stagliano, infatti, su uno sfondo paesaggistico visto dall’alto, che dà ai ritratti una sensazione di incredibile profondità.
Il ritratto di Federico è molto naturalistico.
La sua figura è solida, contornata dall’intenso rosso della veste e del copricapo, semplice e lineare, che conferisce equilibrio e regolarità alla figura ed isola il profilo, mentre l'ispida calotta dei capelli accentua gli effetti di massa volumetrica. I capelli sono irsuti, lo sguardo fiero e lontano.
La posizione di profilo permette di nascondere la parte destra del viso, rovinata durante un torneo: Federico aveva, infatti, perduto l’occhio destro ed il naso adunco era rotto, motivo per il quale si faceva sempre ritrarre di profilo sinistro. Il fatto che Federico sia ritratto di profilo è inoltre da intendere come un riferimento alla numismatica, o in generale alla ritrattistica classica, così come questo riferimento è riscontrabile nell'austerità del viso e nell'assenza di espressione emotiva che nobilita ed idealizza il personaggio, qui rappresentato come i sovrani ritratti nelle medaglie antiche. Riprendendo le maniere dell'arte fiamminga, Piero ha cercato tuttavia di ritrarre l’uomo in modo molto preciso, tanto da descrivere anche particolari che potevano essere considerati meno gradevoli, come il naso adunco, la pelle dipinta nei minimi particolari con distaccata oggettività – dalle rughe evidenti alle quattro piccole verruche, tracce di una malattia della pelle che aveva colpito Federico da giovane – e come il collo grosso e tozzo.
Piero ha voluto essere preciso. È voluto entrare nei particolari, per così dire ha voluto penetrare nei pori della pelle con la stessa maestria dei pittori fiamminghi a lui contemporanei. Dopotutto la corte di Federico proprio negli anni sessanta del Quattrocento viveva l'apice del suo splendore, con artisti italiani e fiamminghi che lavoravano fianco a fianco, influenzandosi reciprocamente. E Piero arriva a sfidare il loro realismo. L’attenzione ai dettagli dei fiamminghi, la loro arte nel mostrare uomini e cose come se fossero reali suscitavano molta ammirazione anche in Italia. L’arte dei fratelli Van Eyck o di Hans Memling dovette impressionare gli uomini dell’epoca, che non sapevano nulla né di fotografia né di cinema. Tuttavia Piero non era una specie di fiammingo toscano. Se la sua rappresentazione del duca di Urbino è ben informata dell’arte nordica, possiede anche tratti peculiari e molto italiani: il colore luminoso ad esempio, lo scarlatto appena sfumato del mantello e del cappello. Di fronte all’azzurro del cielo è il profilo rigoroso, tutto angoli e curve, a dare pregnanza alla testa e persino a mettere in risalto la rientranza del naso. Le linee sono più importanti delle superfici e intrattengono rapporti geometrici fra loro, come se fossero collegate in un reticolo invisibile. È possibile che questo profilo abbia ricordato agli osservatori attenti le rappresentazioni dei sovrani antichi, così come apparivano su monete e medaglie.

Rispetto al marito, Battista è rappresentata come specchiata. Il ritratto di Battista ha una colorazione chiara, con la pelle di un candore ceruleo come imponeva l'etichetta del tempo: una pelle chiara era, infatti, segno di nobiltà, in contrapposizione all'abbronzatura dei contadini che dovevano stare all'aperto. Il volto, dalla forma particolarmente tondeggiante e con un’ampia fronte, con i capelli che erano rasati col fuoco di una candela secondo la moda del tempo che imponeva un'attaccatura molto alta, è incorniciato da una ricca ed elaborata acconciatura, intessuta di panni e gioielli. Piero, al pari dei fiamminghi, riproduce con attenzione i veli trasparenti, i riccioli, la brillantezza delle perle e delle gemme e il loro gioco di luci, gli splendidi gioielli dell’epoca, restituendo, grazie all'uso delle velature a olio, il "lustro" (riflesso) peculiare di ciascuna superficie, a seconda del materiale.
Gli studiosi ritengono che il ritratto di Battista sia stato eseguito dopo la morte della donna, per un dittico insieme al ritratto del marito. Il volto senza espressione della duchessa sembra confermare quest’ipotesi: più che un ritratto dal vivo, sembra, infatti, una maschera funebre. Il pittore, con la stessa cura, nel paesaggio che fa da sfondo al ritratto, disegna poi i castelli, le strade e i campi arati delimitati da siepi, simbolo del dominio dell’uomo sulla natura.
Il volto della duchessa Battista è imperturbabile e sereno, raffigurato con un incarnato pallido e levigato, cui fa contrasto un’elaborata acconciatura alla moda. Nel paesaggio vediamo una morfologia analoga, più o meno, a quella del paesaggio del primo ritratto, a simboleggiare l'eterna vicinanza dei due sposi.

giovedì 28 febbraio 2013

Niccolò Machiavelli: nota bio-bibliografica di Massimo Capuozzo


Niccolò Machiavelli – Acuto testimone della storia del suo tempo e uno dei maggiori prosatori italiani, è il teorico di una politica rigorosamente razionale, come unica risposta possibile all'egoismo degli uomini.
Machiavelli nacque a Firenze nel 1469 quando la città di Lorenzo de' Medici era all'apice della potenza e del prestigio culturale, da una famiglia di nobili origini – i Machiavelli erano stati signori di Montespertoli trasferitisi a Firenze, sottomettendosi alla sua legge e dividendone le glorie – famiglia guelfa che diede alla città di Firenze ben tredici Gonfalonieri di giustizia e una cinquantina di Priori; la stirpe della madre originaria di Fucecchio era altresì di antica nobiltà e la famiglia diede a Firenze un Gonfaloniere e cinque priori.
La madre rimasta vedova con Niccolò in giovane età, si risposò con Francesco di Nello che era giureconsulto e tesoriere della Marca. Machiavelli ricevette un'educazione di tipo umanistico, inizialmente dalla madre che era anche poetessa.
La formazione di Machiavelli, come quella di tutti i giovani di buona famiglia del suo tempo, fu di tipo umanistico: studiò il latino e lesse i classici. Fin da allora, però, il suo interesse non era di natura estetico-letteraria, ma contenutistico; i classici lo interessavano non per il loro pregio artistico, ma nella misu­ra in cui trovava riflessi nelle loro opere i propri sentimenti e le proprie emozioni, e gli offrivano esperienze utili per la vita pratica. Questo spiega la sua predilezione per gli storici.
Nel 1494 fu allievo di Marcello Virgilio Adriani; la sua educazione fu caratterizzata dalla presenza del latino, ma non del greco antico. Va poi considerato che lesse opere come il De rerum natura di Lucrezio, allora quasi clandestine.
Interessato alla politica già nella giovinezza, approfittò della costituzione della Repubblica di Firenze per cercare di partecipare alla vita politica della sua città.
Nel 1498, dopo la cacciata dei Medici da Firenze e dopo il rogo di Savonarola, Niccolò Machiavelli fu eletto segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina, assumendo importanti funzioni, tra cui quella di viaggiare all'estero per informare la città sui principali provvedimenti presi dai più importanti governi europei. L'entrare direttamente a contatto con le varie forme di governo, assieme alla sua passione per i classici, contribuirono alla formazione del suo pensiero.
Nel 1499 Machiavelli scrisse il Discorso fatto al magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa.
Dal 1500 al 1511 fu incaricato di svolgere diverse missioni diplomatiche per conto della Repubblica e del Papato. Negli anni passati al servizio della Repubblica partecipò a parecchie ambascerie: fra queste se ne ricordano due presso Cesare Borgia, due alla Corte papale, quattro presso Luigi XII re di Francia, una presso l’imperatore Massimiliano. Erano contatti che gli davano modo di osservare il comportamento, le astu­zie, le abilità di molti uomini politici e di acquisire quell’esperienza diretta della poli­tica che gli sarebbe stata preziosa poi nella composizione delle sue opere di teoria poli­tica.
Nel 1503, Machiavelli scrisse la Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, una breve opera storica in cui sono ripercorse le vicende di Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, Paolo e Francesco Orsini, quarto duca di Gravina, che avevano partecipato ad una congiura contro Cesare Borgia, la cosiddetta congiura della Magione, nell’ottobre del 1502, e credendo di rappacificarsi con lui furono da questi catturati e uccisi mentre si trovavano a Senigallia e ne stavano assediando la cittadella difesa da Andrea Doria. In quest’opera è già visibile il suo interesse per Cesare Bor­gia che nel Principe sarà poi proposto come modello ai politici italiani.
Nel 1510, Machiavelli scrisse il Ritratto delle cose di Francia in cui rileva che la corona di Francia è molto potente. Il primo luogo per l’ereditarietà della corona, le migliori terre di Francia sono in mano alla corona, in secondo luogo perché c'è un potere monarchico personalizzato: le terre appartengono alla corona ed essendo un’istituzione passano ai singoli re, che le trasmettono ai successori. In terzo luogo perché la corona francese mise fine alle autonomie e alle guerre feudali (accadevano quando il barone pensava di essere un piccolo monarca). Adesso c'è solo un re e i baroni ubbidiscono e lo difendono. In quarto luogo per il principio del maggiorascato: solo il figlio maschio maggiore eredità le proprietà di famiglia.
Nel 1512, con la caduta della Repubblica fiorentina e con il ritorno dei Medici a Firenze, le cariche tenute da Machiavelli nell’amministrazione repubblicana gli suscitarono contro i sospetti del nuovo governo e fu allontanato dal suo ufficio; in questo stesso anno scrisse il Ritratto delle cose della Magna in cui rileva il particolarismo e l'inesistenza di un potere centrale. C'erano conflitti tra Imperatore contro principi e città, fra Principi contro città. Questi conflitti, più il desiderio di indipendenza e lo spirito anti nobiliare portò la Germania a una situazione esattamente contraria da quella francese. Lo stato tedesco infatti non riesce ad emergere dalla frammentazione feudale.
Nel 1513, con il ritorno dei Medici a Firenze in seguito ad accordi presi con il re di Spagna, Machiavelli fu sospettato di aver partecipato ad una congiura antimedicea, incarcerato e sottoposto a tortura e nuovamente condannato al confino. Fu amnistiato poco dopo con l'elezione di papa Leone X dei Medici. Nello stesso anno si ritirò in completo isolamento nelle sue proprietà a San Casciano in Val di Pesa e qui, nell’ozio forzato, facendo tesoro delle esperienze acquisite e degli am­maestramenti che gli venivano dalle amate letture degli storici latini, i compose le sue maggiori opere di riflessione politica, il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Nel 1513, Machiavelli scrisse Il Principe, scritto di getto nel 1513, interrompendo la stesura dei Discorsi, in cui si propone di mettere al servizio di un principe che abbia la ca­pacità di creare a un vasto e forte stato in Italia, la propria esperienza politica e di illustrargli le leggi che devono guidare la sua azione. L'opera nasce come approfondimento delle riflessioni su quell’esperienza e sul suo fallimento, riflessioni che andavano trovando, nei diciotto capitoli già stesi dei Discorsi, il filo di una problematica incentrata sui principi che reggono le repubbliche e le cause per cui esse cedono e volgono a un ordinamento monarchico. L'interruzione di questo lavoro, ancora improntato dall'apparato della tradizionale etica politica, è segnato dalla necessità che spinge Machiavelli a volgersi verso le immediate esigenze della politica attuale, a sollecitarne le forze in gestazione affrontando direttamente il grande problema del suo tempo: quello del principato. Il 10 dicembre del 1513 Machiavelli dà all'amico Vettori notizia del compimento dell'opera, iniziata probabilmente nel luglio dello stesso anno. Machiavelli sembra muovere, infatti, da una classificazione puramente scientifica, distinguendo le monarchie in tre specie: quelle ereditarie, quelle nuove e quelle miste. Ma subito la trattazione si focalizza sul nucleo di problemi che si va ponendo; cioè come si formano, al di fuori di ogni tradizione di prestigio e dignità, i principati nuovi; come si conquistano, o con armi proprie o con truppe mercenarie, con la fortuna o con la virtù; come, comunque conquistati, possano essere conservati. Più che i modelli canonici degli antichi fondatori di Stati, da Mosè a Romolo, a Machiavelli interessa però chiamare in causa quei particolari protagonisti di capitali vicende politico-militari che erano stati i capitani di ventura, dal vittorioso Francesco Sforza fino al più recente Cesare Borgia, quel Valentino che gli appare meglio incarnare l'ideale figura del principe:
«... io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua; e se li ordini suoi non profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna».
Il limite permanente dell'azione individuale è, infatti, la necessità dell'ordine delle cose, ordine naturale e non più trascendente e provvidenziale: la “virtù” del principe non riveste quindi caratteri etici, ma piuttosto psicologici, e si sostanzia di abilità, potenza individuale, fiuto delle situazioni e misura delle proprie possibilità. Al principe si richiede la virtù congiunta della volpe e del leone, intelligenza delle situazioni e istintività di intuito ferino che solo può indicargli le vie della “fortuna”; la sua natura deve quindi essere duplice come quella del centauro, metà uomo e metà bestia. Esistono però alcuni principi generali nell'organizzazione degli Stati, e a questi fondamenti, “le buone leggi e le buone armi”, il principe deve anzitutto attenersi. È per averli trascurati, quindi per la loro “ignavia”, che i principi italiani, privi di eserciti cittadini fidati da contrapporre ai nemici, hanno dovuto pensare “a fuggirsi, e non a difendersi”: poiché “non può essere buone leggi dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene che sieno buone leggi”. Due anni più tardi Machiavelli indirizzò l'operetta a Lorenzo de' Medici, duca di Urbino, aggiungendo un XXVI capitolo di esortazione al Medici a farsi “principe nuovo”, a intraprendere l'opera di unificazione delle province italiane e “liberarle dai barbari”. Si sarebbe così realizzato quel disegno monarchico-unitario che Machiavelli aveva ben individuato come moderno orientamento della politica europea. Al carattere politico-militare di questo scritto corrisponde la precisa invenzione di uno stile enunciativo, sciolto dalle forme scolastiche del sillogismo, ma che procede invece per interne concatenazioni con andamento analogo a quello che sarà proprio di tutta la prosa scientifica moderna.
Negli anni di isolamento si dedica anche alla stesura di opere letterarie e filosofiche.
Il successo ottenuto in una rappresentazione della sua commedia La Mandragola, scritta nel 1518, gli consentì di smussare il clima di sospetto nei suoi confronti. La visione pessimistica del comportamento umano, che si acuì nel periodo in cui non partecipò alla vita politica e si manifestò nella Mandragola, tagliente e amara satira della corruzione dei costumi contemporanei, dove l'essere umano è rappresentato come incapace di andare oltre il meschino interesse personale. Racconta la beffa, di sapore boccaccesco, giocata dal giovane Callimaco e dal suo servo Ligurio al vecchio e balordo messer Nicia, sposo della bella Lucrezia e desideroso di avere a ogni costo da lei un figlio. Fingendosi esperto di medicina, Callimaco gli fa credere che, per vincere la sterilità della moglie, è necessaria una pozione di mandragola, i cui effetti però sono letali per chi, per primo, si congiunge con colei che l'ha bevuta: occorre pertanto trovare una persona che per una notte sostituisca il marito. L'inganno sarà effettuato grazie alla complicità di Sostrata, madre della giovane, e dell'avido e cinico fra' Timoteo, suo confessore, che mettono a tacere gli scrupoli dell'onesta Lucrezia, la quale, arrendendosi all'immoralità altrui, finirà con il diventare l'amante di Callimaco. Capolavoro del teatro italiano del Rinascimento, La Mandragola rispecchia un'umanità negata a ogni trascendenza ed esclusivamente volta a soddisfare i propri istinti, contemplata con spietata e impassibile ironia da Machiavelli, che in quell'inganno amoroso, comico risvolto degli inganni politici de Il Principe, trova la conferma della sua pessimistica massima secondo cui “nel mondo non è se non vulgo”.La protagonista femminile della commedia, Lucrezia, è ingannata al fine di essere conquistata, è vittima di intrighi, ma poi riesce a cogliere un'occasione fortunata ed a diventare artefice del proprio destino.
Fra il 1513 e il 1519, Machiavelli scrisse i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in cui, com­mentando i primi dieci libri delle Storie di Livio, trae da esse riflessioni che reputa ancora attuali e valide per i suoi tempi. L'opera, concepita come una serie di considerazioni in margine al testo liviano (la prima decade dei libri Ab urbe condita, dall'origine di Roma all'anno 293 a. C.), è ordinata senza sistematico rigore in tre libri: il primo tratta dell'origine e della costituzione interna dello Stato, il secondo della sua struttura militare e delle conquiste per l'espansione del dominio, il terzo delle cause che ne determinano la stabilità o la decadenza.
Nel 1516, Machiavelli iniziò a frequentare le riunioni nei giardini del Palazzo Rucellai – gli Orti Oricellari – dove discuteva di argomenti letterari, filosofici e politici.
Fra il 1516 e il 1520, Machiavelli scrisse Dell'arte della guerra, dove sono trattati pro­blemi di tecnica militare, ed è ribadita la superiorità delle milizie cittadine su quelle mercenarie.
Nel 1520, Machiavelli scrisse la Vita di Castruccio Castracani da Lucca è un'operetta letteraria ispirata alla vita dell'uomo d'arme lucchese Castruccio Antelminelli, condottiero ghibellino del Trecento. Machiavelli. Riprende il modello delle biografie di stampo classico e umanistico dei cosiddetti uomini Illustri, descrizione dell'aspetto fisico e del carattere, discorsi e aneddoti. Il Personaggio in sé assume rilievo di tono narrativo e drammatico ma comunque di forte stampo politico, L'autore riflette nel condottiero del '300 l'ideale del Principe virtuoso. Riacquistata la fiducia dei Medici, ebbe da loro qualche piccolo inca­rico pubblico.
Fra il 1520 e il 1525 scrisse su commissione del cardinale Giulio dei Medici le Istorie fiorentine che espongono la storia di Firenze fino alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492.
Nel 1521 a Carpi conosce personalmente Francesco Guicciardini con cui stringe un'amicizia testimoniata da molte lettere.
Nel 1525, Machiavelli portò in scena a Firenze la commedia grottesca Clizia. Nello stesso anno ottenne la revoca dall'interdizione agli incarichi pubblici e tornò a svolgere un'attività politico-diplomatica al servizio dei Medici nella lega anti imperiale, formata da Firenze, il Papato e la Francia.
Nel 1527, la discesa in Italia dell'esercito imperiale di Carlo V travolse la lega e la stessa città di Firenze, dove fu restaurata la repubblica democratica in seguito alla gravissima crisi sorta nei rapporti tra Papa Clemente VII de' Medici) e Carlo V, conclusasi con il Sacco di Roma. Il popolo fiorentino credette che fosse venuto il momento opportuno per cacciare i Medici e restaurare la Repubblica da esponenti savonaroliani e la famiglia dei Medici fu costretta alla fuga: la presenza di Machiavelli fu sgradita al nuovo governo repubblicano che guardava con sospetto al suo passato svolto dapprima al servizio della Repubblica fiorentina e successivamente della famiglia dei Medici e per tali motivi fu allontanato nuovamente da ogni incarico pubblico.
Tra il 1518 e il 1527 Machiavelli scrisse la novella Belfagor arcidiavolo
Fra il 1497 – 1527 scrisse un Epistolario.
Nel 1527, Niccolò Machiavelli morì improvvisamente a Firenze a cinquantotto anni in condizioni di povertà.

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