Il Ministero della Cultura Popolare, o Min.Cul.Pop., fu lo strumento di manipolazione della cultura, adottata nell’Italia fascista che, attraverso un controllo diretto sulla stampa e, dunque, su ogni forma di notizia circolante, mirava alla diffusione del messaggio fascista, all’abbattimento di ogni forma avversa al regime e, non ultimo, all’esaltazione dell’immagine dello Stato italiano, che appariva ricco di virtù e quasi totalmente privo di lacune.
Il controllo della circolazione delle notizie ed il loro asservimento alla causa fascista, dopo l’iter legislativo ed il controllo sulla Stefani, culminarono con la creazione di un potente apparato di censura, di controllo e di organizzazione propagandistica del Fascismo: il Ministero della Cultura Popolare, conosciuto anche con l’acronimo Min.Cul.Pop.
Il compito del Minculpop, secondo un teorizzatore della funzione del giornalismo nel periodo fascista, era assicurare un’adesione ideale ai principi di cui lo Stato fascista era portatore delle direttive fondamentali della Rivoluzione e, nell’ambito di quest’adesione, facendo in modo che la stampa adempisse veramente alla missione che le era stata affidata e che le competeva: la propaganda ideale, l’educazione popolare (intesa come formazione dell’opinione pubblica), l’elemento di rapporto tra governanti e governati.
In ragione della sua funzione politico-propagandistica, il Ministero fu guidato da personalità che provenivano dalla politica, e di conseguenza da persone maggiormente fidate, piuttosto che dall’amministrazione dello Stato. Questo prova l’importanza che Mussolini diede a questo ministero.
Negli anni, questo strumento di censura e di indirizzo della stampa si radicò a tal punto che costituì un orizzonte da cui i giornali non potevano sottrarsi: sbagliare significava, infatti, rischiare la chiusura.
Il processo di costituzione del Min.Cul.Pop è lungo ed articolato e si compone di diverse tappe. Già da diversi anni, con le norme definitive sull’Ordine dei Giornalisti e sull’Albo Professionale, cui devono essere iscritti tassativamente i direttori responsabili delle testate, il regime aveva cominciato il controllo della stampa.
Sebbene il dicastero sia stato istituito ufficialmente dal regime fascista il 22 maggio 1937 il percorso aveva avuto origine nel 1923, con la riorganizzazione dell’Ufficio Stampa del Capo del governo, con l’obiettivo di conferirgli maggiori poteri rispetto a quelli che aveva nella Stato liberale.
Dal 1924, l’istituzione delle veline gettò un altro fondamento per la costituzione del Min.Cul.Pop. Le veline erano ordini alla stampa, che giungevano quotidianamente alle redazioni di giornali e riviste dall’Ufficio Stampa del governo.
Le veline erano delle vere e proprie note di servizio, cui i giornalisti si dovevano attenere nella stesura dei loro articoli, mirate verso specifici interessi, in particolare verso l’immagine che il regime e Mussolini volevano offrire al paese, ed agivano su vari livelli.
In primo luogo contenevano indicazioni sulle notizie da trasmettere, che dovevano essere favorevoli al regime e all’idea che esso voleva dare dell’Italia; alcune tematiche furono bandite (la cronaca nera non poteva superare le dieci righe per ogni numero; la “vecchia Italia”; l’inflazione; qualsiasi notizia che potesse suscitare pessimismo), mentre altre furono messe in risalto (le opere pubbliche, mostre e fiere organizzate dal regime, le idee di Mussolini).
In secondo luogo le veline impartivano disposizioni specifiche sull’impostazione grafica dei giornali, come il fatto di movimentare tutte le pagine con grandi titoli o di vivacizzare la prima pagina con titoli su sette colonne (quando gli argomenti lo permettevano). Un interesse particolare era riservato al controllo delle fotografie, che iniziavano in quegli anni a riempire le pagine dei quotidiani e delle riviste, soprattutto dopo l’avvento del rotocalco, in cui assunsero in breve un ruolo fondamentale: nel caso di folle, per esempio, bisognava «scartare le fotografie con spazi vuoti», mentre se si trattava di strade e di opere pubbliche, bisognava scartare quelle che davano l’idea di disordine e caos.
Le veline contribuirono quindi ad una «minuziosa costruzione dell’Italia come il regime avrebbe voluto che fosse e che apparisse» e con il passare degli anni la loro frequenza aumentò in modo considerevole, fino a sette volte al giorno.
Nel 1934, l’Ufficio Stampa del Capo del governo fu trasformato in Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda, che aveva competenze in materia di cinematografia e di censura con il R.D. del 18 settembre 1934, prima del Ministero delle Corporazioni e dell’Interno), di turismo con il R.D. del 21 novembre 1934, prima del Commissariato per il Turismo), di teatro, musica e censura teatrale con il R.D. del 1° aprile 1935, prima del Ministero delle Corporazioni, dell’Educazione Nazionale e dell’Interno.
Nel 1935 fu elevato a Ministero per la Stampa e la Propaganda con il R.D. del 24 giugno 1935, con a capo il ministro Galeazzo Ciano e con una struttura articolata in sette direzioni generali (servizi amministrativi, stampa italiana, stampa estera, propaganda, cinematografia, teatro e turismo) e di un ispettorato per la radio. Sotto la sua vigilanza operano, tra gli altri, l'EIAR (l'attuale RAI), la SIAE (Società Italiana Autori ed Editori) ed altri enti, tra cui anche l'Automobile Club.
Nella Germania nazista, il suo ministero corrispondente fu più semplicemente chiamato Ministero della Propaganda, attivo fin dall'inizio, intorno al 1933: Joseph Goebbels ne fu il responsabile.
Con il con il R.D. del 27 maggio 1937, sul modello tedesco, prese infine il nome di Ministero della Cultura Popolare, alle cui dipendenze nel 1940 furono messe anche l’Ente Stampa, creato per coordinare l’insieme dei giornali, e l’Ente Radio. La centralizzazione delle attività culturali si completò così: «la direzione generale per la stampa italiana controllava 81 quotidiani, 132 periodici di carattere politico, 3860 periodici vari, 7000 bollettini parrocchiali, 32 agenzie di informazione».
Il Ministero della Cultura Popolare aveva le seguenti direzioni generali:
· Direzione Generale per la Stampa Italiana;
· Direzione Generale per la Stampa Estera;
· Direzione Generale per la Propaganda;
· Direzione Generale per la Cinematografia (cui erano collegati Cinecittà, ed il Centro Sperimentale di Cinematografia);
· Direzione Generale per l'Ente Nazionale per le Industrie Turistiche (conosciuto con l'acronimo ENIT),
· Enti Provinciali per il Turismo;
· Direzione Generale per il Teatro (che diventerà nel 1942 l'Ente Teatrale Italiano);
· Direzione Generale per l'Istituto Luce;
· Direzione Generale per l'Istituto Nazionale del Dramma Antico , il cosiddetto INDA;
· Direzione Generale per la Discoteca di Stato;
· Direzione Generale per il Comitato per il Credito Alberghiero.
Il Ministero della Cultura Popolare fu la più poderosa arma del Partito Nazionale Fascista per il controllo delle coscienze degli italiani.
La base giuridica per il bavaglio alla stampa è rappresentata dall'art. 5 del R.D. del 26 febbraio 1928 num. 384. L’Albo dei giornalisti fu istituito il 26 febbraio 1928, con il predetto R. D., in funzione dei fini repressivi che il regime si proponeva e l’Albo era gestito da un comitato di 5 giornalisti operante all'interno dei sindacati regionali fascisti dei giornalisti. L' articolo 7 della legge 2307/1925, che prefigurava la nascita di un Ordine dei Giornalisti, che non fu mai attuato dal regime, perché, con la nascita delle Corporazioni nel 1926, la rappresentanza delle professioni fu affidata ai sindacati fascisti.
Il secondo capoverso dell’articolo 5 del R.D. recita: «Non possono in alcun caso essere iscritti (all'Albo dei Giornalisti) e, qualora vi si trovino iscritti devono essere cancellati, chi av. svolto attività in contraddizione con gli interessi della nazione». Le domande di iscrizione erano prese in esame da una commissione composta di cinque membri, nominati dal Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro per l'Interno e con il Ministro per le Corporazioni. La commissione esprimeva il giudizio dopo aver ricevuto dalla Prefettura un'attestazione sulla ‘condotta politica’ del richiedente.
Il meccanismo di controllo della stampa era stato già efficacemente spiegato dallo stesso Mussolini in un discorso del 10 Ottobre del 1928, ad un raduno di 60 direttori di giornale: «Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime: è libero perché, nell'ambito delle leggi del regime, può esercitare, e le esercita, funzioni di controllo, di critica, di propulsione». In questo discorso Mussolini esigeva ancora dalla stampa nazionale un’opera di autodisciplina, definendola un’orchestra che, per funzionare bene doveva riuscire a dirigersi da sola: «un’orchestra in cui il la non è dato dal governo... è un la che il giornalismo fascista dà a se stesso». Un concetto di libertà piuttosto originale. D'altra parte Mussolini, giornalista egli stesso, aveva intuito l'importanza vitale, per la gestione del potere, del controllo di quelli che oggi definiamo "mass-media". Con l’arrivo delle leggi razziali nel 1938, l’obiettivo diventò infine la creazione del nemico, promuovere l’antisemitismo e la difesa della razza.
Superati i problemi iniziali, di ottenere l’appoggio di quotidiani e di riviste non fascisti, di eliminare i giornali d’opposizione, di assicurare il controllo dello Stato su quelli fascisti, restava il compito di forgiare un nuovo metodo di giornalismo con l’obiettivo di costruire le informazioni da fornire ai lettori, le posizioni politiche e culturali che si volevano imporre, gli imperativi del regime su tutti i problemi che attenevano alla società italiana, senza limitarsi alla semplice censura.
Il Ministero aveva l'incarico di controllare ogni pubblicazione, sequestrando tutti quei documenti ritenuti pericolosi o contrari al regime e diffondendo i cosiddetti ordini di stampa o ‘veline’ con i quali s'impartivano precise disposizioni circa il contenuto degli articoli, l'importanza dei titoli e la loro grandezza.
La stampa doveva sempre ricordarsi che la figura centrale del regime era il Duce (e nessun altro!) e ciò doveva essere espresso a grandi lettere e in maniera frequente, martellante. Ecco quindi che appariva come colui che portava l’Italia verso la modernizzazione, che difendeva l’orgoglio nazionale, che era amato dal popolo; i gerarchi fascisti dovevano sembrare solo i gregari di un capo senza macchia - come mette in evidenza Nicola Tranfaglia in ‘La stampa del regime 1932-1943’ - che governava il paese con il polso di ferro.
È ormai celebre l’affermazione di matrice longanesiana, diventata quasi una parola d’ordine, “Mussolini ha sempre ragione”.
Mussolini riteneva importante, per quanto gli fosse possibile, controllare di persona gli ordini alla stampa, eventualmente modificandoli a suo piacere, e ciò è testimoniato dal fatto che riservava un’udienza quotidiana al Ministro della Cultura Popolare, fino al maggio 1943.
Infine il giornalismo, grazie all’ammodernamento tecnico dei giornali (servizi fotografici, colore, caratteri nuovi, titoli a macchina) ma soprattutto al contratto giornalistico, che era il migliore al mondo, con alti stipendi, ferie in abbondanza, assicurazioni e indennità, fu sempre carriera ambita nel Ventennio Fascista. Non stupisce quindi che i giovani che dimostravano di avere attitudini giornalistiche fossero incoraggiati ed aiutati nei loro intenti, tramite contratti di lavoro, collaborazioni, sovvenzioni. Mussolini si costruiva in quel modo una schiera di adepti che, penna (o macchina da scrivere) alla mano, gli sarebbero certamente stati fedeli.
Il "Minculpop" divenne il regolatore delle coscienze degli italiani, stabilendo che cosa si doveva sapere e che cosa no e, se si spigola qua e là, dall'ottimo libro di Ricciotti Lazzero "Il Partito Nazionale Fascista" del 1985, si trovano ‘veline’ anche divertenti per quella mancanza di senso del ridicolo che caratterizza ogni dittatura e ogni censura. Qualche esempio: 28/6/35: vietato pubblicare le fotografie di Carnera a terra. 14/8/37: il Duce ha fatto un viaggio in Sicilia. Vietato pubblicare le foto che lo ritraevano mentre ballava. 26/8/38: revisionare attentamente le foto di parate militari e premilitari: pubblicare solo quelle dalle quali risultano allineamenti impeccabili. 13/6/39: ignorare la Francia. Non scrivere nulla su questo paese. Criticare invece sempre e comunque l'Inghilterra. Non prendere per buono nulla che ci venga da quel paese. 13/7/39: vietato pubblicare foto di donne in costume da bagno.
Il 31 ottobre 1939, in uno dei tanti rimpasti governativi in cui alcuni ministri apprendevano il giorno dopo, dalla stampa, che "le loro dimissioni erano state accettate da S. M. il Re e Imperatore", Alessandro Pavolini, che di lì a poco diede alle stampe con successo il suo ultimo romanzo, "Scomparsa d'Angela", diventò Ministro della Cultura Popolare: egli era il vero potere, probabilmente la posizione più importante dopo quella di Mussolini.
Con l'incarico ministeriale Pavolini iniziò, infatti, la sua metamorfosi, perché diventò, di fatto, il principale responsabile dell'alluvione di bugie con le quali il popolo italiano fu avviato alle armi e ad una tragedia che non poteva essere peggiore. Quando il brillante giornalista fiorentino assunse l'incarico ministeriale, il mondo era ormai in fermento, perché l'aggressiva politica hitleriana e le incertezze di Francia e Inghilterra erano già al punto di non ritorno; è chiaro che difficilmente l'Italia poteva mantenersi estranea (anche per la sua posizione geografica) alla tempesta che stava per travolgere l'Europa.
Diversamente da altri paesi, in Italia la corrispondenza di guerra non era sottoposta alla censura militare, ora era sempre l'onnipotente Minculpop ad indirizzare ed a stabilire anche le terminologie: iniziarono così le preparazioni in armi che sono "entusiastiche". Quando si parlava di sconfitte alleate, non bisognava parlare di "catastrofi" per non svalutare le successive battaglie. Ben presto iniziarono anche gli "arretramenti sulle posizioni prestabilite", eufemismo per indicare una ritirata dopo una sconfitta. Tutto ciò in una nazione dove comunque tutto andava bene, per questo alla cronaca nera si stabilì che sarebbe stata dedicata al massimo una colonna in quinta pagina. Se nei primi anni di regime l’idea dell’Italia che si voleva imporre attraverso i mezzi di comunicazione, era quella di un paese ben governato, civile, tradizionalista, che non aveva bisogno di usare la violenza sui suoi cittadini per ottenere quello che voleva, in cui la malavita era stata eliminata dalle cronache, come i suicidi e gli omicidi, e che non sussisteva alcuna “questione meridionale”, quando nel 1934 emerse l’idea dell’impresa africana (e successivamente, durante la guerra civile spagnola del 1936-39), tutto cambiò radicalmente: la violenza fu esaltata, come l’esigenza di creare un impero e di prepararsi alla guerra, i giornali si riempirono di fotografie di truppe in partenza, di soldati, di armi. Le cronache di guerra, imbevute di retorica e di pomposità, esaltavano l’Impero Fascista: piccole scaramucce si trasformavano in epiche battaglie, l’uso dei gas come armi di distruzione di massa era taciuto, il popolo italiano era galvanizzato da sogni di gloria: sono gli anni di massimo consenso verso il regime. In Italia, tutto è ribadito dal Minculpop: non esistono, inoltre, problemi con il razionamento, perché eravamo pieni di inventiva e alternative valide, anzi, avevamo addirittura dei vantaggi alimentari se, al posto del caffè, si iniziavano ad usare vari surrogati le cui ‘virtù‘ erano state finora poco sfruttate. E se le città conoscevano la tragedia dei bombardamenti, niente paura: la prima cosa da fare era stendere strisce di nastro adesivo sui vetri delle finestre, per impedirne lo scoppio e queste strisce si potevano mettere sia in orizzontale sia in verticale, o addirittura potevano essere l'occasione per formare disegni ornamentali.
Ma una domanda urge inevitabilmente: come può un uomo di cultura come Alessandro Pavolini divenire ad un certo punto l'organizzatore dell'inganno di tutta una nazione?
La guerra, con i suoi primi insuccessi, cominciava però a rendere inutile e precaria la credibilità e l’azione di quest’organo ministeriale, nonostante tutti gli sforzi da parte di Pavolini, che si illudeva di arrivare ad un totale asservimento al regime della stampa e della cultura in generale. Ma se molti giornali erano passati sotto il controllo del regime, un’altra parte, che n’era rimasta fuori, sfuggiva all’imposizione dell’ortodossia fascista. Il sequestro di alcuni settimanali, in sospetto di eresia – fra questi Omnibus, diretto da Leo Longanesi, ed Oggi diretto da Arrigo Benedetti, che furono spesso censurati e sequestrati – era la prova evidente di una crisi in atto che non si sarebbe più arrestata. Anche se il regime si era prodigato a far largo uso dei mass media, come il cinema e la radio, un diffuso malumore incominciava a serpeggiare in mezzo al popolo, già provato dai bombardamenti e da una miseria controllata e razionalizzata dalla tessera annonaria che, a stento, riusciva a preservarne la sopravvivenza.
A dar man forte al Minculpop ci aveva pensato Giuseppe Bottai con la rivista Primato, che durò dal 1° marzo 1940 al 15 agosto 1943. Altri uomini di grande cultura – quali Carlo Morandi e Galvano Della Volpe – si prestarono a collaborare a Primato e con una certa assiduità, in particolare Morandi ne fu uno dei più solerti ed attivi collaboratori. Non c’era numero in cui non compariva un suo articolo. In uno dei tanti diceva: «Senza dubbio il richiamo al Risorgimento corrisponde ad un intimo bisogno di tradizione, di continuità ideale e desiderio di riconoscersi nel passato per attingere forza e procedere oltre» ed ancora parlava del concetto di «Risorgimento nazionale incompiuto», di un’opera rimasta in tronco che esigeva ed attendeva di essere completata, e quindi postulava l’idea di un processo storico ancora aperto nei termini stessi dell’Occidente.
Anche se Primato si poteva considerare come il tentativo di una cultura nuova, esso andava sempre visto entro i limiti consentiti dal Fascismo o come il tentativo della sua ultima difesa di un triste e misero passato che ormai si avviava ad un’ingloriosa fine. I vari collaboratori di Primato, anche se in misura diversa, non si potevano considerare esenti da certe responsabilità, al contrario dei giovani, sui quali non pesava nessuna responsabilità del passato, molti dei quali cesseranno la collaborazione alla rivista per darsi alla lotta antifascista: alcuni di loro furono arrestati ed altri presero parte attiva alla Resistenza armata.
Un esempio molto significativo c’è dato da Giaime Pintor che saltò su una mina mentre passava la linea del fronte. La sua collaborazione a Primato non si era mai nascosta dietro l’equivoco e il doppiogiochismo come avevano fatto tanti altri. Egli si esprimeva in modo chiaro, deciso ed inequivocabile. Di lui rimane famoso l’articolo sul Nuovo romanticismo, pubblicato su Primato il 15 agosto 1941, che ebbe una vastissima eco in tutto il mondo culturale. Esso suonava condanna di quel Romanticismo che aveva alimentato tutte quelle correnti irrazionaliste che avevano portato al Fascismo. Da ciò la necessità di un ritorno all’Illuminismo. «Sono proprio i residui – diceva Pintor – di quel pathos romantico, il più grave peso morto che l’Europa intellettuale si trascina. I moti romantici splendono con tutto il loro vigore sul nostro cielo; e romantici sono gli idoli cui sacrifica la parte più corrotta d’Europa.
Al Min.cul.pop alcune case editrici rispondevano con la pubblicazione di libri che continuavano la nostra migliore tradizione culturale. Nel 1940 la casa Laterza ristampava i due libri di Antonio Labriola Discorrendo di socialismo e filosofia e La concezione materialistica della storia a cura di Benedetto Croce. Nel 1942 la stessa casa editrice Laterza aveva pubblicato Silvio Spaventa di Paolo Romano, pseudonimo di Paolo Alatri. Precedentemente nel 1937 aveva ristampato Uomini di Destra di Giuseppe Massari, in cui si esaltavano i grandi valori laici della cultura risorgimentale, interpretati da alcuni uomini della Destra come Bettino Ricasoli, Massimo D’Azeglio e Giovanni Lanza. Einaudi, negli anni Trenta, aveva dato inizio alla collana dei saggi, come il ‘Voltaire politico dell’Illuminismo’ di Riccardo Craveri.
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In ragione della sua funzione politico-propagandistica, il Ministero fu guidato da personalità che provenivano dalla politica, e di conseguenza da persone maggiormente fidate, piuttosto che dall’amministrazione dello Stato. Questo prova l’importanza che Mussolini diede a questo ministero.
Negli anni, questo strumento di censura e di indirizzo della stampa si radicò a tal punto che costituì un orizzonte da cui i giornali non potevano sottrarsi: sbagliare significava, infatti, rischiare la chiusura.
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Sebbene il dicastero sia stato istituito ufficialmente dal regime fascista il 22 maggio 1937 il percorso aveva avuto origine nel 1923, con la riorganizzazione dell’Ufficio Stampa del Capo del governo, con l’obiettivo di conferirgli maggiori poteri rispetto a quelli che aveva nella Stato liberale.
Dal 1924, l’istituzione delle veline gettò un altro fondamento per la costituzione del Min.Cul.Pop. Le veline erano ordini alla stampa, che giungevano quotidianamente alle redazioni di giornali e riviste dall’Ufficio Stampa del governo.
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In primo luogo contenevano indicazioni sulle notizie da trasmettere, che dovevano essere favorevoli al regime e all’idea che esso voleva dare dell’Italia; alcune tematiche furono bandite (la cronaca nera non poteva superare le dieci righe per ogni numero; la “vecchia Italia”; l’inflazione; qualsiasi notizia che potesse suscitare pessimismo), mentre altre furono messe in risalto (le opere pubbliche, mostre e fiere organizzate dal regime, le idee di Mussolini).
In secondo luogo le veline impartivano disposizioni specifiche sull’impostazione grafica dei giornali, come il fatto di movimentare tutte le pagine con grandi titoli o di vivacizzare la prima pagina con titoli su sette colonne (quando gli argomenti lo permettevano). Un interesse particolare era riservato al controllo delle fotografie, che iniziavano in quegli anni a riempire le pagine dei quotidiani e delle riviste, soprattutto dopo l’avvento del rotocalco, in cui assunsero in breve un ruolo fondamentale: nel caso di folle, per esempio, bisognava «scartare le fotografie con spazi vuoti», mentre se si trattava di strade e di opere pubbliche, bisognava scartare quelle che davano l’idea di disordine e caos.
Le veline contribuirono quindi ad una «minuziosa costruzione dell’Italia come il regime avrebbe voluto che fosse e che apparisse» e con il passare degli anni la loro frequenza aumentò in modo considerevole, fino a sette volte al giorno.
Nel 1934, l’Ufficio Stampa del Capo del governo fu trasformato in Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda, che aveva competenze in materia di cinematografia e di censura con il R.D. del 18 settembre 1934, prima del Ministero delle Corporazioni e dell’Interno), di turismo con il R.D. del 21 novembre 1934, prima del Commissariato per il Turismo), di teatro, musica e censura teatrale con il R.D. del 1° aprile 1935, prima del Ministero delle Corporazioni, dell’Educazione Nazionale e dell’Interno.
Nel 1935 fu elevato a Ministero per la Stampa e la Propaganda con il R.D. del 24 giugno 1935, con a capo il ministro Galeazzo Ciano e con una struttura articolata in sette direzioni generali (servizi amministrativi, stampa italiana, stampa estera, propaganda, cinematografia, teatro e turismo) e di un ispettorato per la radio. Sotto la sua vigilanza operano, tra gli altri, l'EIAR (l'attuale RAI), la SIAE (Società Italiana Autori ed Editori) ed altri enti, tra cui anche l'Automobile Club.
Nella Germania nazista, il suo ministero corrispondente fu più semplicemente chiamato Ministero della Propaganda, attivo fin dall'inizio, intorno al 1933: Joseph Goebbels ne fu il responsabile.
Con il con il R.D. del 27 maggio 1937, sul modello tedesco, prese infine il nome di Ministero della Cultura Popolare, alle cui dipendenze nel 1940 furono messe anche l’Ente Stampa, creato per coordinare l’insieme dei giornali, e l’Ente Radio. La centralizzazione delle attività culturali si completò così: «la direzione generale per la stampa italiana controllava 81 quotidiani, 132 periodici di carattere politico, 3860 periodici vari, 7000 bollettini parrocchiali, 32 agenzie di informazione».
Il Ministero della Cultura Popolare aveva le seguenti direzioni generali:
· Direzione Generale per la Stampa Italiana;
· Direzione Generale per la Stampa Estera;
· Direzione Generale per la Propaganda;
· Direzione Generale per la Cinematografia (cui erano collegati Cinecittà, ed il Centro Sperimentale di Cinematografia);
· Direzione Generale per l'Ente Nazionale per le Industrie Turistiche (conosciuto con l'acronimo ENIT),
· Enti Provinciali per il Turismo;
· Direzione Generale per il Teatro (che diventerà nel 1942 l'Ente Teatrale Italiano);
· Direzione Generale per l'Istituto Luce;
· Direzione Generale per l'Istituto Nazionale del Dramma Antico , il cosiddetto INDA;
· Direzione Generale per la Discoteca di Stato;
· Direzione Generale per il Comitato per il Credito Alberghiero.
Il Ministero della Cultura Popolare fu la più poderosa arma del Partito Nazionale Fascista per il controllo delle coscienze degli italiani.
La base giuridica per il bavaglio alla stampa è rappresentata dall'art. 5 del R.D. del 26 febbraio 1928 num. 384. L’Albo dei giornalisti fu istituito il 26 febbraio 1928, con il predetto R. D., in funzione dei fini repressivi che il regime si proponeva e l’Albo era gestito da un comitato di 5 giornalisti operante all'interno dei sindacati regionali fascisti dei giornalisti. L' articolo 7 della legge 2307/1925, che prefigurava la nascita di un Ordine dei Giornalisti, che non fu mai attuato dal regime, perché, con la nascita delle Corporazioni nel 1926, la rappresentanza delle professioni fu affidata ai sindacati fascisti.
Il secondo capoverso dell’articolo 5 del R.D. recita: «Non possono in alcun caso essere iscritti (all'Albo dei Giornalisti) e, qualora vi si trovino iscritti devono essere cancellati, chi av. svolto attività in contraddizione con gli interessi della nazione». Le domande di iscrizione erano prese in esame da una commissione composta di cinque membri, nominati dal Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro per l'Interno e con il Ministro per le Corporazioni. La commissione esprimeva il giudizio dopo aver ricevuto dalla Prefettura un'attestazione sulla ‘condotta politica’ del richiedente.
Il meccanismo di controllo della stampa era stato già efficacemente spiegato dallo stesso Mussolini in un discorso del 10 Ottobre del 1928, ad un raduno di 60 direttori di giornale: «Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime: è libero perché, nell'ambito delle leggi del regime, può esercitare, e le esercita, funzioni di controllo, di critica, di propulsione». In questo discorso Mussolini esigeva ancora dalla stampa nazionale un’opera di autodisciplina, definendola un’orchestra che, per funzionare bene doveva riuscire a dirigersi da sola: «un’orchestra in cui il la non è dato dal governo... è un la che il giornalismo fascista dà a se stesso». Un concetto di libertà piuttosto originale. D'altra parte Mussolini, giornalista egli stesso, aveva intuito l'importanza vitale, per la gestione del potere, del controllo di quelli che oggi definiamo "mass-media". Con l’arrivo delle leggi razziali nel 1938, l’obiettivo diventò infine la creazione del nemico, promuovere l’antisemitismo e la difesa della razza.
Superati i problemi iniziali, di ottenere l’appoggio di quotidiani e di riviste non fascisti, di eliminare i giornali d’opposizione, di assicurare il controllo dello Stato su quelli fascisti, restava il compito di forgiare un nuovo metodo di giornalismo con l’obiettivo di costruire le informazioni da fornire ai lettori, le posizioni politiche e culturali che si volevano imporre, gli imperativi del regime su tutti i problemi che attenevano alla società italiana, senza limitarsi alla semplice censura.
Il Ministero aveva l'incarico di controllare ogni pubblicazione, sequestrando tutti quei documenti ritenuti pericolosi o contrari al regime e diffondendo i cosiddetti ordini di stampa o ‘veline’ con i quali s'impartivano precise disposizioni circa il contenuto degli articoli, l'importanza dei titoli e la loro grandezza.
La stampa doveva sempre ricordarsi che la figura centrale del regime era il Duce (e nessun altro!) e ciò doveva essere espresso a grandi lettere e in maniera frequente, martellante. Ecco quindi che appariva come colui che portava l’Italia verso la modernizzazione, che difendeva l’orgoglio nazionale, che era amato dal popolo; i gerarchi fascisti dovevano sembrare solo i gregari di un capo senza macchia - come mette in evidenza Nicola Tranfaglia in ‘La stampa del regime 1932-1943’ - che governava il paese con il polso di ferro.
È ormai celebre l’affermazione di matrice longanesiana, diventata quasi una parola d’ordine, “Mussolini ha sempre ragione”.
Mussolini riteneva importante, per quanto gli fosse possibile, controllare di persona gli ordini alla stampa, eventualmente modificandoli a suo piacere, e ciò è testimoniato dal fatto che riservava un’udienza quotidiana al Ministro della Cultura Popolare, fino al maggio 1943.
Infine il giornalismo, grazie all’ammodernamento tecnico dei giornali (servizi fotografici, colore, caratteri nuovi, titoli a macchina) ma soprattutto al contratto giornalistico, che era il migliore al mondo, con alti stipendi, ferie in abbondanza, assicurazioni e indennità, fu sempre carriera ambita nel Ventennio Fascista. Non stupisce quindi che i giovani che dimostravano di avere attitudini giornalistiche fossero incoraggiati ed aiutati nei loro intenti, tramite contratti di lavoro, collaborazioni, sovvenzioni. Mussolini si costruiva in quel modo una schiera di adepti che, penna (o macchina da scrivere) alla mano, gli sarebbero certamente stati fedeli.
Il "Minculpop" divenne il regolatore delle coscienze degli italiani, stabilendo che cosa si doveva sapere e che cosa no e, se si spigola qua e là, dall'ottimo libro di Ricciotti Lazzero "Il Partito Nazionale Fascista" del 1985, si trovano ‘veline’ anche divertenti per quella mancanza di senso del ridicolo che caratterizza ogni dittatura e ogni censura. Qualche esempio: 28/6/35: vietato pubblicare le fotografie di Carnera a terra. 14/8/37: il Duce ha fatto un viaggio in Sicilia. Vietato pubblicare le foto che lo ritraevano mentre ballava. 26/8/38: revisionare attentamente le foto di parate militari e premilitari: pubblicare solo quelle dalle quali risultano allineamenti impeccabili. 13/6/39: ignorare la Francia. Non scrivere nulla su questo paese. Criticare invece sempre e comunque l'Inghilterra. Non prendere per buono nulla che ci venga da quel paese. 13/7/39: vietato pubblicare foto di donne in costume da bagno.
Il 31 ottobre 1939, in uno dei tanti rimpasti governativi in cui alcuni ministri apprendevano il giorno dopo, dalla stampa, che "le loro dimissioni erano state accettate da S. M. il Re e Imperatore", Alessandro Pavolini, che di lì a poco diede alle stampe con successo il suo ultimo romanzo, "Scomparsa d'Angela", diventò Ministro della Cultura Popolare: egli era il vero potere, probabilmente la posizione più importante dopo quella di Mussolini.
Con l'incarico ministeriale Pavolini iniziò, infatti, la sua metamorfosi, perché diventò, di fatto, il principale responsabile dell'alluvione di bugie con le quali il popolo italiano fu avviato alle armi e ad una tragedia che non poteva essere peggiore. Quando il brillante giornalista fiorentino assunse l'incarico ministeriale, il mondo era ormai in fermento, perché l'aggressiva politica hitleriana e le incertezze di Francia e Inghilterra erano già al punto di non ritorno; è chiaro che difficilmente l'Italia poteva mantenersi estranea (anche per la sua posizione geografica) alla tempesta che stava per travolgere l'Europa.
Diversamente da altri paesi, in Italia la corrispondenza di guerra non era sottoposta alla censura militare, ora era sempre l'onnipotente Minculpop ad indirizzare ed a stabilire anche le terminologie: iniziarono così le preparazioni in armi che sono "entusiastiche". Quando si parlava di sconfitte alleate, non bisognava parlare di "catastrofi" per non svalutare le successive battaglie. Ben presto iniziarono anche gli "arretramenti sulle posizioni prestabilite", eufemismo per indicare una ritirata dopo una sconfitta. Tutto ciò in una nazione dove comunque tutto andava bene, per questo alla cronaca nera si stabilì che sarebbe stata dedicata al massimo una colonna in quinta pagina. Se nei primi anni di regime l’idea dell’Italia che si voleva imporre attraverso i mezzi di comunicazione, era quella di un paese ben governato, civile, tradizionalista, che non aveva bisogno di usare la violenza sui suoi cittadini per ottenere quello che voleva, in cui la malavita era stata eliminata dalle cronache, come i suicidi e gli omicidi, e che non sussisteva alcuna “questione meridionale”, quando nel 1934 emerse l’idea dell’impresa africana (e successivamente, durante la guerra civile spagnola del 1936-39), tutto cambiò radicalmente: la violenza fu esaltata, come l’esigenza di creare un impero e di prepararsi alla guerra, i giornali si riempirono di fotografie di truppe in partenza, di soldati, di armi. Le cronache di guerra, imbevute di retorica e di pomposità, esaltavano l’Impero Fascista: piccole scaramucce si trasformavano in epiche battaglie, l’uso dei gas come armi di distruzione di massa era taciuto, il popolo italiano era galvanizzato da sogni di gloria: sono gli anni di massimo consenso verso il regime. In Italia, tutto è ribadito dal Minculpop: non esistono, inoltre, problemi con il razionamento, perché eravamo pieni di inventiva e alternative valide, anzi, avevamo addirittura dei vantaggi alimentari se, al posto del caffè, si iniziavano ad usare vari surrogati le cui ‘virtù‘ erano state finora poco sfruttate. E se le città conoscevano la tragedia dei bombardamenti, niente paura: la prima cosa da fare era stendere strisce di nastro adesivo sui vetri delle finestre, per impedirne lo scoppio e queste strisce si potevano mettere sia in orizzontale sia in verticale, o addirittura potevano essere l'occasione per formare disegni ornamentali.
Ma una domanda urge inevitabilmente: come può un uomo di cultura come Alessandro Pavolini divenire ad un certo punto l'organizzatore dell'inganno di tutta una nazione?
La guerra, con i suoi primi insuccessi, cominciava però a rendere inutile e precaria la credibilità e l’azione di quest’organo ministeriale, nonostante tutti gli sforzi da parte di Pavolini, che si illudeva di arrivare ad un totale asservimento al regime della stampa e della cultura in generale. Ma se molti giornali erano passati sotto il controllo del regime, un’altra parte, che n’era rimasta fuori, sfuggiva all’imposizione dell’ortodossia fascista. Il sequestro di alcuni settimanali, in sospetto di eresia – fra questi Omnibus, diretto da Leo Longanesi, ed Oggi diretto da Arrigo Benedetti, che furono spesso censurati e sequestrati – era la prova evidente di una crisi in atto che non si sarebbe più arrestata. Anche se il regime si era prodigato a far largo uso dei mass media, come il cinema e la radio, un diffuso malumore incominciava a serpeggiare in mezzo al popolo, già provato dai bombardamenti e da una miseria controllata e razionalizzata dalla tessera annonaria che, a stento, riusciva a preservarne la sopravvivenza.
A dar man forte al Minculpop ci aveva pensato Giuseppe Bottai con la rivista Primato, che durò dal 1° marzo 1940 al 15 agosto 1943. Altri uomini di grande cultura – quali Carlo Morandi e Galvano Della Volpe – si prestarono a collaborare a Primato e con una certa assiduità, in particolare Morandi ne fu uno dei più solerti ed attivi collaboratori. Non c’era numero in cui non compariva un suo articolo. In uno dei tanti diceva: «Senza dubbio il richiamo al Risorgimento corrisponde ad un intimo bisogno di tradizione, di continuità ideale e desiderio di riconoscersi nel passato per attingere forza e procedere oltre» ed ancora parlava del concetto di «Risorgimento nazionale incompiuto», di un’opera rimasta in tronco che esigeva ed attendeva di essere completata, e quindi postulava l’idea di un processo storico ancora aperto nei termini stessi dell’Occidente.
Anche se Primato si poteva considerare come il tentativo di una cultura nuova, esso andava sempre visto entro i limiti consentiti dal Fascismo o come il tentativo della sua ultima difesa di un triste e misero passato che ormai si avviava ad un’ingloriosa fine. I vari collaboratori di Primato, anche se in misura diversa, non si potevano considerare esenti da certe responsabilità, al contrario dei giovani, sui quali non pesava nessuna responsabilità del passato, molti dei quali cesseranno la collaborazione alla rivista per darsi alla lotta antifascista: alcuni di loro furono arrestati ed altri presero parte attiva alla Resistenza armata.
Un esempio molto significativo c’è dato da Giaime Pintor che saltò su una mina mentre passava la linea del fronte. La sua collaborazione a Primato non si era mai nascosta dietro l’equivoco e il doppiogiochismo come avevano fatto tanti altri. Egli si esprimeva in modo chiaro, deciso ed inequivocabile. Di lui rimane famoso l’articolo sul Nuovo romanticismo, pubblicato su Primato il 15 agosto 1941, che ebbe una vastissima eco in tutto il mondo culturale. Esso suonava condanna di quel Romanticismo che aveva alimentato tutte quelle correnti irrazionaliste che avevano portato al Fascismo. Da ciò la necessità di un ritorno all’Illuminismo. «Sono proprio i residui – diceva Pintor – di quel pathos romantico, il più grave peso morto che l’Europa intellettuale si trascina. I moti romantici splendono con tutto il loro vigore sul nostro cielo; e romantici sono gli idoli cui sacrifica la parte più corrotta d’Europa.
Al Min.cul.pop alcune case editrici rispondevano con la pubblicazione di libri che continuavano la nostra migliore tradizione culturale. Nel 1940 la casa Laterza ristampava i due libri di Antonio Labriola Discorrendo di socialismo e filosofia e La concezione materialistica della storia a cura di Benedetto Croce. Nel 1942 la stessa casa editrice Laterza aveva pubblicato Silvio Spaventa di Paolo Romano, pseudonimo di Paolo Alatri. Precedentemente nel 1937 aveva ristampato Uomini di Destra di Giuseppe Massari, in cui si esaltavano i grandi valori laici della cultura risorgimentale, interpretati da alcuni uomini della Destra come Bettino Ricasoli, Massimo D’Azeglio e Giovanni Lanza. Einaudi, negli anni Trenta, aveva dato inizio alla collana dei saggi, come il ‘Voltaire politico dell’Illuminismo’ di Riccardo Craveri.
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l'articolo è interessante, ma sarebbe opportuno che si fossero messe meglio in rilievo le ricadute che il Min.cul.pop. ha avuto sulla stampa italiana
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