Il Selvaggio – Nell’estate del 1989, Mino Maccari (1898 - 1989) si spegneva novantenne nella sua casa romana. Maccari, l’umorista all’acido solforico, noto in tutto il mondo per la sua arte paragonata a Daumier, a Grosz, ad Ensor, che, nell’Italia democratica, aveva scelto la strada della disillusa apoliticità, fu commemorato su tutta la stampa italiana.
Silenzio ed imbarazzate reticenze calarono, però nelle redazioni dei grandi quotidiani su quanto il gruppo di Strapaese aveva rappresentato culturalmente nell’Italia fascista: Maccari aveva rappresentato, infatti, la strada maestra del Fascismo storico italiano, un Fascismo tradizionalista e popolare, cattolico, antiborghese, antiamericano, antidealista e antimodernista, quello dei superstiti della Disperata, che si faceva beffe di pennacchi e di orbaci all’ultima moda, quello contadino e quello strapaesano, che contrastava ogni selvaggia industrializzazione ed ogni forzata urbanizzazione.
Se L’universale di Ricci proponeva un ghibellinismo spiritualista, se 900 di Bontempelli era condizionato da polemiche antitradizionaliste ed europeizzanti, Il Selvaggio (1924-1943) si autoidentificò, invece, in quella cultura post-squadrista, che, però dello squadrismo aveva raccolto solo lo stile aspro a canzonatorio che – come aveva riconosciuto certa intellighenzia di sinistra – «consiste nella guerra ad oltranza al pompierismo littorio e alla vuota magniloquenza».
Il Selvaggio, una delle più rigogliose riviste politico-culturali del secolo, la rivista satirica più raffinata d’Italia, uscì il 13 luglio 1924, ad un mese dall’omicidio di Matteotti ed a due anni dalla marcia su Roma, mentre l’ultimo numero uscì il 15 giugno 1943, a poco meno di un mese dalla caduta del regime.
Costituito da un foglio di quattro pagine, con sede a Colle di Val d’Elsa, Il Selvaggio fu ideato da Angiolo Bencini, detto Giangio, che ne fu il primo direttore.
È interessante osservare da vicino la genesi di questo periodico, per capirne meglio anche l’indole. Bencini era un ex-ufficiale e commerciante di vini, ras di Poggibonsi, che, troppo giovane per partire per il fronte, aveva falsificato i documenti, per partecipare alla Grande Guerra e, quando ritornò in Valdelsa, iniziò la sua rivoluzione a base d’olio di ricino e di manganellate. Il 27 dicembre del 1923, Bencini, che aveva pensato ad un giornale locale, contattò Mino Maccari, giovane giornalista, laureato in giurisprudenza nel 1920, ufficiale di artiglieria durante la guerra e partecipe alla marcia su Roma e gliene affidò la redazione: Maccari, appassionato di disegno, xilografo ed incisore, scrittore e poeta, apprezzò l’iniziativa, accettandola con entusiasmo.
Nel mese di luglio del 1924, Mussolini attraversava un momento difficile: un mese prima, una squadraccia fascista aveva rapito ed ucciso il deputato socialista Giacomo Matteotti, che, alla camera, aveva pronunciato un discorso contro la politica fascista, caratterizzata da brogli elettorali, da intimidazioni e da sistematiche violenze contro le opposizioni mentre, proprio quando, nel Fascismo si svolgeva un’opera di normalizzazione, voluta soprattutto dai suoi sostenitori, che comportava il congedo della parte più violenta del Fascismo, quello provinciale, che ricavava la sua forza dalla violenza squadrista. La morte di Matteotti aveva portato l’Italia a prendere le distanze dal Fascismo e da Mussolini. Gruppi d’opposizione di centro-sinistra si erano ritirati sull’Aventino e protestavano, rifiutandosi di partecipare ai lavori del Parlamento: ampi strati della borghesia, sostenitori del Fascismo, erano rimasti disorientati e molti, pensando di essere saliti troppo in fretta sul carro dei vincitori, gettavano il distintivo del PNF e restituivano la tessera; nelle stesse file del Fascismo si manifestava un certo scollamento e, mentre qualcuno cercava di ritagliarsi una fama di antifascista, i fascisti che avevano fatto la Marcia, per togliere di mezzo il marcio, esortavano Mussolini ad eliminare i politicanti romani ed a sciogliere mani, muscoli e manganelli; si verificarono anche isolate aggressioni ai fascisti stessi.
Il primo numero de Il Selvaggio uscì nel pieno di queste agitazioni: Mussolini appariva incerto, titubante di fronte ad un Fascismo-regime. «Noi – raccontò Maccari ormai vecchio – sapevamo di dovergli dare una scrollata. E per noi intendo la provincia, meglio ancora quella toscana. Bene, dalle parti di Siena, a Colle Val d’Elsa, c’era un vinaio, Angiolo Bencini, che aveva fatto la Marcia su Roma e voleva pubblicare un giornaletto che esprimesse la voglia di rivoluzione che ci bruciava dentro. E per noi gli umori rivoluzionari erano la stessa cosa della risata, della beffa, della caricatura, del ghigno. Volevamo smascherare l’Italia fifona e ruffiana dei cortigiani cacasotto e annunciare l’Italia nuova, gagliarda e anticonformista, delle Camicie Nere». Bencini intuì subito che Maccari era sveglio e che anzi aveva talento e coraggio di dirne tante, a Mussolini, ai gerarchi, ai fascisti indecisi ed a tutti gli italiani. Così, il 13 luglio 1924, nacque Il Selvaggio.
Bencini avrebbe preferito che il giornale si intitolasse Santa Canaglia, ma Maccari obiettò: «Borghesi e sovversivi ci chiamano selvaggi? Ce ne freghiamo. Anzi, dell’epiteto offensivo, faremo un pimpante distintivo di lotta: eccome se siamo selvaggi!»
Mino Maccari, allora ventiseienne, era culturalmente l’uomo forte del Fascismo colligiano ed era soprannominato il Tarpone: mentre combatteva sul Piave, Maccari aveva stampato una raccolta di versi significativamente intitolata Orgia. Maccari scelse come altro compagno di avventura Archimede Callaioli di Monteriggioni, detto Mede Poca Legge, che dapprima era riuscito ad evitare la guerra, ma, successivamente arruolato, combatté sull’altipiano di Asiago e giunse a comandare gli Arditi: tornato dalla guerra, Callaioli, nel 1921, aderì al Fascismo e, a Colle Val d’Elsa conobbe Maccari. Bencini e Callaioli erano figure di spicco dello squadrismo locale. A loro si aggiunse un barrocciaio Armando Salvi, detto il Bove, con cui Maccari intrecciò una salda amicizia.
Cominciò così l’avventura di un giornale destinato ad una vita lunga e talvolta difficile per censure e sequestri, ma indubbiamente appassionata ed appassionante.
Come si evince dalla descrizione dei suoi primi animatori, Il Selvaggio era una rivista di spirito e di umore prettamente toscani, che conservò anche quando si trasferì dalla Toscana a Torino ed in seguito a Roma: le sue pagine abbondavano di nomignoli, stravaganti, ricercati ed in certo qual senso barocchi: Orco Bisorco, Fottivento, Tritamacigni, Nerbolibero, Sugodibosco, Quadramascella, Pizzodiferro.
Quando iniziò le sue pubblicazioni, Il Selvaggio riportava, sotto la testata del primo numero, la definizione di Battagliero fascista, perché i selvaggi erano i fascisti che si consideravano più intransigenti e più puri ed ideologicamente polemici e la rivista aveva un carattere rivoluzionario-fascista. Gli stessi due motti di cui si fregiava, Né speranza né paura e Marciare non marcire, di marinettiana memoria, erano un incitamento ai rivoluzionari ad essere sempre in armi contro l’Italietta dei conservatori e volevano mostrare le idee dei suoi giovani animatori. La prima e la seconda pagina erano dedicate alla politica, la terza riportava notizie di cronaca estera ed interna, dedicando maggior spazio a quella della provincia senese. L’ultima pagina, fino al 21 dicembre del 1924, era completamente occupata dalla pubblicità, unica fonte di finanziamento, insieme alle sottoscrizioni dei fascisti locali.
La realizzazione della rivista, agli inizi settimanale, comportò un notevole sforzo organizzativo, che, però fu subito ripagato perchè essa ottenne presto larga diffusione locale: «Doveva essere – commentò Maccari, molti anni dopo l’uscita del giornale – un giornaletto locale, che so?, raccontare del trasferimento del macellaio e delle corna del farmacista. Eravamo nel 1924, avevano ammazzato Matteotti. Io ero giovane, dannunziano, megalomane, esibizionista, vanitoso. L’idea di fare un giornale mi solleticava. E poi (...) la mettifoglio della tipografia era bella, bianca con gli occhi della Madonna (...) si, la famosa Neve. Insomma mi convinsi. Ma non avevo un’ideologia. Vivevo di sentimenti, di passioni, di scherzi. Hegel e Marx io non gli ho mai letti; di Nietzsche e mi sembra anche di Stirner, che era uno dei maestri del Mussolini rivoluzionario, ci parlò Pellizzi, che era coltissimo. A me piacevano Montaigne, Voltaire, Leopardi e Shopenhauer, gli spiriti liberi (...)».
La rivista era diretta da Bencini, ma la sua anima era Mino Maccari con scritti e disegni e gli articoli, oltre che da Bencini e da Maccari, erano saltuariamente firmati dall’avvocato Sangiorgi, da Antonio Coccheri, da Alfredo Nepi e da altri. Maccari ed i suoi compagni, giovani e forse un po’ ingenui, infatti, pensavano e scrivevano chiaramente nei numeri successivi che il Fascismo era un’ideologia dinamica, capace di evoluzione e di trasformazione.
In questo clima locale e nazionale nacque Il Selvaggio ed il suo scopo, fin dal primo numero, era difendere e diffondere la fede degli squadristi con violenza ed intransigenza: «Noi – dichiarava Maccari nel primo numero – non possiamo adattarci ad una tattica pacifista… noi prepariamo le coscienze ed i muscoli per le lotte future, per immancabili vittorie. Pecoroni rincoglioniti e pavidi, li sentivate cantare botte, botte, botte, botte in quantità ed ora hanno messo a riposo il distintivo. Tu Selvaggio rimettiti il distintivo all’occhiello oggi che i tiepidi se lo tolgono, ricanta le tue canzoni ora che non sono più di moda e vantati di essere uno squadrista ora che si maledice lo squadrismo».
Il periodo sembrava dunque adatto ad un ritorno dello squadrismo ed Il Selvaggio uscì, poiché, dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti, il partito aveva bisogno di riprendere con decisione l’iniziativa politica e di governo con lo scopo di diffondere e di difendere la fede degli squadristi, che, a Colle Val d’Elsa, erano costituiti da reduci alla ricerca di una collocazione nel sistema, da piccoli proprietari terrieri, timorosi di qualche fremito rosso serpeggiante per le campagne da piccoli commercianti da artigiani a caccia di qualche beneficio in compenso dei sacrifici sostenuti durante la guerra ed anche da qualche operaio, ostile ad un certo inurbamento di contadini, forse perchè ritenuto privo di maggiori opportunità di lavoro. In questa miscela di delusione per la politica degli uomini della democrazia parlamentare e per l’ingratitudine nei confronti dei reduci, sulle colonne de Il Selvaggio nacque la campagna contro i liberali, da vecchia data, alfieri più rappresentativi e più noti della democrazia parlamentare.
Il vero nemico, per Maccari, non era, infatti, tanto l’opposizione aventiniana, quanto la vecchia classe dirigente giolittiana, che si era affermata grazie ad alleanze, a compromessi ed il cui unico scopo era stato quello di pensare al proprio interesse personale: tale nemico era pericoloso, perchè cambiava spesso pelle, era soprattutto indefinito e l’unica arma per vincerlo definitivamente rimaneva sempre la violenza, la fermezza e l’intransigenza. Per queste ragioni, dal 1924 al 1925, la posizione de Il Selvaggio fu netta e recisa accanto al Fascismo del Mussolini dalla voce maschia ed autoritaria, perfino nel torbido periodo del delitto Matteotti: nonostante questo, Il Selvaggio, dietro l’aria battagliera e polemica con cui esaltava coraggiosamente i selvaggi eroi del Fascismo, pur essendo una piccola rivista, si lanciò subito in una prepotente affermazione di individualità, ma già molto originale ed anticonformista nei toni e nelle idee, e di aspirazione ad un mutamento della società.
Quando, con il discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini aveva contrattaccato, dichiarando ai deputati che avrebbe potuto fare di quell’aula sorda e grigia un bivacco per i manipoli delle camicie nere, Maccari esultò per la fine dello stato liberale: gli squadristi si riunirono in tribù, paese per paese, per combattere contro «approfittatori, i pompieri, gli accomodanti», firmando in proprio prose, poesiole, battute, epigrammi o ribattezzandosi con quei barocchi pseudonimi come Fottivento, Pratico, Tritamacigni, Orco Bisorco, Nerbolibero, Sugodibosco, Quadramascella, il Tarpone.
Con il numero del 29 settembre 1925, anno della condirezione di Bencini e Maccari, Il Selvaggio modificò il sottotitolo da Battagliero fascista in Battagliero Squadrista: Il Selvaggio presentava caratteri chiaramente squadristi, agrari e bastonatori come si può leggere sul numero del 12 ottobre 1924 nell’editoriale Botte ai liberali, o sul numero del 9 novembre 39 milioni di legnate e ancora sul numero del 18 maggio del 1925 Selvaggia provincia svegliati!
Diversamente da come però aveva auspicato Maccari, Mussolini, con quel discorso, non annunciava, però, la seconda ondata di violenza rivoluzionaria, ma l’inizio di un periodo di normalizzazione, non intesa però come ritorno alla legalità, ma come l’inizio di un regime autoritario e che le leggi fascistissime del 1925 portarono il PNF ad una marcata centralizzazione, con la conseguente emarginazione dei quadri provinciali: da quel momento Mussolini, per reprimere le opposizioni, non si servì più delle squadre fasciste, ma agì attraverso le istituzioni, cioè legalmente attraverso prefetti e carabinieri e riprendendo l’opera normalizzatrice, interrottasi per qualche mese.
La nuova battaglia condotta da Il Selvaggio diventò allora quella contro i normalizzatori, cioè contro quei fascisti che cercavano di contaminare il movimento con i vecchi sistemi. Per Maccari il movimento fascista era il Fascismo delle province, il Fascismo rurale, che doveva continuare ad essere rivoluzione e non restaurazione e che abolisse i vecchi sistemi fatti di clientelismo e di compromesso, sebbene Maccari cominciava a rendersi conto che gli stessi deputati fascisti, una volta sulla poltrone, fossero abbacinati da lauti emolumenti e da sfolgoranti carriere. «Molti si sono corrotti – scrive amaramente Maccari – altri addomesticati, uno scetticismo corrosivo si è impadronito di molte anime schiette. In generale i fascisti deputati si sono allontanati da noi, dalla sana provincia, dal Fascismo rurale e selvaggio. Non ci intendiamo più».
Sebbene deluso, il Fascismo de Il Selvaggio non si rassegnò ad andare in pensione, anzi, nonostante tutto, sperava che prima o poi Mussolini riprendesse la marcia. La posizione di questo stato d’animo è significativa a questo proposito nei versi di Maccari:
«Malinconico il tuo destino
O squadrista dei giorni ardenti
Una seggiola e, un tavolino
Giunta, sindaco e componenti
O squadrista tutto è finito
È passata la fantasia
Tutto il mondo si è rammollito
Non più botte e larga amnistia
O squadrista ti si stringe il cuore
Quando al fascio fai una capata
I fascisti dell’ultim’ore
Gente lurida e disprezzata
Si dividono posti e onori
I più vecchi son tutti fuori
E nessuno li può più vedere
Ma la sveglia fuori ordinanza
Te la suonerà Mussolini
Allora con nuova baldanza
marcerai oltre i confini».
La battaglia contro i normalizzatori continuava con slogan contro il clientelismo, il trasformismo ed il carrierismo, malattie che dilagavano nei palazzi del potere. Ma il movimento fascista si era ormai trasformato in regime ed in quest’ottica nacque Il Selvaggio post squadrista e Maccari si accorgeva che la normalizzazione non si limitava solo ad accantonare manganello ed olio di ricino, ma si adoperava al recupero di uomini e di sistemi del vecchio ordine.
Il 15 Maggio del 1926, quando Maccari assunse la direzione de Il Selvaggio, che mantenne fino al 1943, la sede della rivista fu trasferita a Firenze ed essa fu trasformata in quindicinale con sede in Via dei servi 51, lo stesso indirizzo de La Voce, diretta da Curzio Malaparte: il contatto dei selvaggi con i vociani si rivelò un importante punto di incontro fra la rivista di Maccari e l’ambiente culturale fiorentino.
Ma nel 1926 molte cose erano cambiate: la crisi Matteotti era stata superata e Mussolini, alla Mostra del Novecento, aveva dato la parola d’ordine di normalizzare la vita pubblica. Quando il Fascismo, identificandosi con lo Stato, si era trasformato in regime, Maccari decise di dare una svolta alla sua rivista che si trasformò in foglio prevalentemente culturale ed artistico e la sua politica si trasformò – come afferma Giuliano Manacorda in Storia della letteratura italiana tra le due guerre: 1919-1943 del 1980 – «in diuturna, assillante, spavalda satira di costume», subendo spesso sequestri e censure.
Distaccando il periodico dal gioco politico e dal Fascismo, Mino Maccari, nell’articolo di fondo, intitolato Addio al passato, pubblicò il nuovo indirizzo della rivista, che non doveva più essere portavoce di un Fascismo combattivo, ma doveva dedicarsi all’arte, alla satira ed alla risata politica, ed espresse le sue idee estetiche, cui a poco a poco, diede sempre maggiore importanza. «Gli episodi politici o pseudopolitici – scrive Maccari nel citato articolo – i loro sviluppi e le loro vicende, non ci interessano più: non c’è che l’arte. L’arte è l’espressione suprema dell’intelligenza d’una stirpe. Noi sentiamo bene che oggi non è permesso a chiunque fare della politica. Col Fascismo, la politica è arte di Governo, non di partito Il Selvaggio ha l’onore di far presente alla propria spettabile clientela che a partire dal prossimo numero, la politica sarà relegata nella quarta colonna della quarta pagina. Una rivoluzione è anzitutto e soprattutto un atteggiamento e un orientamento dell’intelligenza. Dunque dalla produzione artistica noi avremo l’indice del valore d’una rivoluzione».
Il discorso di Mussolini alla Mostra del Novecento aveva dunque pesato decisivamente sulla crisi de Il Selvaggio, il cui atteggiamento aveva ormai già tutti i caratteri d’una manifestazione artistica. Rimaneva solo la via dell’intelligenza ed è significativo che, con il numero del 14 marzo 1926, appaia per la prima volta la dicitura leonardesca Salvatico è colui che si salva cioè colui che si salva dalla grettezza, dalla banalità, dalle miserie, dal ridicolo d’una politica spicciola: era un modo per comunicare che i selvatici avevano capito la rotta indicata dal regime.
Chiuso quindi il suo periodo squadristico, Il Selvaggio preferì il compito d’una nuova vita: la coltivazione dell’arte, Bencini sparì e con lui sparì anche l’animo da battagliero fascista.
Il Selvaggio cercava un respiro più ampio, l’uscita dal provincialismo, pur partecipando alle polemiche tra Strapaese e Stracittà. Nel periodo fiorentino, gli pseudonimi Bisomo, Gratta Gropponi, Unghia Tormentata, Tritamacigni, Nerbodibove, Sugo di Bosco, Pistolenzia, Indovinalagrillo, Fottivento furono affiancati da collaboratori più importanti ed apparvero nomi di scrittori e di artisti di grande talento. Dimenticata dunque la rustica ribalderia delle origini, Il Selvaggio si dedicò a scoprire nomi ed esperienze che hanno sfidato le mode effimere. Il giornale, con quanti vi pubblicavano opere o scritti, era diventato ora una delle pubblicazioni più importanti d’Italia: vi gravitavano, infatti, personaggi forti, vivi, entusiasti che ne avevano fatto un vero e proprio libro dei sogni dove predominava la parola creare.
Dal 7 ottobre del 1926 la redazione di Via dei Servi ospitò anche una mostra permanente per la valorizzazione del disegno italiano, mentre l’anno successivo, in Via S. Zanobi 60, si aprì La Stanza del Selvaggio, esposizione perpetua di pitture sculture e disegni.
Con il numero del 1° gennaio 1927, Il Selvaggio rimase soltanto Il Selvaggio, perse ogni sottotitolo, ma questo non significava che la battaglia politica fosse finita, anzi la rivista non aveva perduto il suo spirito mordace. L’arma con cui Maccari combatteva il malcostume, il carrierismo, la politica corrotta non era più l’articolo giornalistico, ma la satira che appariva a volte sottoforma di brevi poesie, a volte sotto forma di disegni, di satira, che si rivelava un’arma ben più affilata e tagliente dell’articolo politico. La svolta artistica comunque prese il sopravvento: in alcuni numeri, la politica era a stento toccata, ma quando questo accadeva, Maccari era sempre coerente all’ideale rivoluzionario. L’irritazione verso le gerarchie ben presto ricomparve irruente, quando Maccari, sempre più disincantato, si rese conto che i posti di comando non erano assegnati secondo un criterio meritocratico e lanciava ogni genere di accuse:
«Chi donne procura
Carriera ha sicura
Sia fatto arrosto
Chi si è messo a posto»
E successivamente:
«se non sei imboscato,
massone, ricattatore
analfabeta o fesso
pretendi pure
di far carriera?»
Nel 1927, la Stanza del Selvaggio organizzò la I Mostra d’Arte del Gruppo del Selvaggio e successivamente una personale di Ardengo Soffici. Nel 1928, Maccari partecipò per la prima volta alla Biennale di Venezia e pubblicò presso Vallecchi Il Trastullo di Strapaese, raccolta di poesie satiriche e di epigrammi. Nel 1929, Maccari trasferì la redazione del giornale a Siena, mentre Malaparte lo invitava a Torino, per assumere il compito di redattore del giornale La Stampa, di cui era direttore.
Nel 1931, Maccari trasferì la redazione de Il Selvaggio a Torino. Sebbene fosse solo una parentesi durata dal 30 gennaio al 30 dicembre 1931 e nuovi collaboratori aderirono alla rivista, L’accoglienza della grande città non fu molto cordiale: «Qui ci sembra il caso di parlare in persona propria – Maccari così scrive sullo stesso numero della rivista – Quando scendemmo a Porta Nuova, un vigile urbano ci avvertì di camminare in punta di piedi, per non svegliare i soliti che dormivano. Erano le tre del pomeriggio, e la cosa ci sembrò piuttosto strana. Quanti sono i torinesi che dormono? domandammo al vigile. Il loro numero, rispose il vigile, varia secondo il numero di quelli che sono svegli. E quanti potranno essere, insistemmo, quelli che sono svegli? Il calcolo è complicato, ci dichiarò il vigile urbano: bisognerebbe cominciare a contare quelli che non dormono. Il guaio è che a Torino dormono tutti. Prima di salire in taxi, si trattò di pagare il facchino. Uno di noi gli mise in mano un pezzo da due lire, di quelli che in Toscana i nostri nonni chiamavano cavourrini, perché erano stati messi in circolazione da Cavour. Il facchino guardò la moneta e sorrise: Non la posso accettare, disse, perché da qualche anno non ha più corso legale, nemmeno in Piemonte».
La rivista si arricchì della collaborazione di Romano Bilenchi, che vi pubblicò a puntate uno dei suoi primi romanzi La vita di Pisto, della collaborazione di Italo Cremona, che con il tempo diventò sempre più intensa, e di quella di Eugenio Galvano, di Velso, di Mucci, di Primo Zeglio, di Enzo Righetti e di Mario Tobino. La rivista pubblicò inoltre frequentemente disegni ed incisioni di Morandi, ancora fedele collaboratore, ma anche qualche disegno di Luigi Spazzapan e di Nicola Galante.
Il clima torinese non fu molto favorevole né a Maccari né a Il Selvaggio, che stentava a sopravvivere. La collaborazione più importante per Maccari, durante il periodo torinese, fu quella presso il quotidiano «La Stampa» di Torino, dove fu nominato redattore e successivamente redattore capo da Curzio Malaparte, che a sua volta era un fascista selvaggio.
Questo periodo è molto ben descritto da Romano Bilenchi nel suo volume Amici. Vittorini Rosai e altri incontri, pubblicato da Einaudi nel 1976, fondamentale per una più approfondita conoscenza dei rapporti che Maccari ebbe con Torino: «Torino – scrive Bilenchi nel citato volume – era una città diffidente e difficile a comprendersi anche per una persona che ama il contatto umano come me ed è sempre riuscita a superare barriere che sembrano invalicabili. Ma una volta accolti in una casa, in un gruppo di amici si rimaneva stupiti dalla spigliatezza dei piemontesi, soprattutto delle donne, del loro carattere deciso, forte e coraggioso». Ed altrove nello stesso volume Bilenchi dice: «Da tutti Maccari ascoltava le aspirazioni e i pareri, a tutti dava i consigli, e quando trovava in qualcuno un po’ di autenticità, di freschezza, di talento, ne era felice. Incitava tutti ad un lavoro continuo e serio. Una volta messosi al lavoro, Maccari aiutava questi giovani a scoprire le proprie attitudini in un campo invece che in un altro, li incitava ad approfondire la loro personalità di artisti e di scrittori. Dietro al suo sguardo ironico, alla parola facile, alle battute sprezzanti, c’è sempre stato in Maccari un uomo pieno di tenerezza, di buon senso di amore per il prossimo».
Nel 1931, la satira di Maccari non risparmiò neppure Farinacci, il ras di Cremona che, ai tempi dell’omicidio Matteotti, aveva esaltato l’episodio con lodi e con esortazioni, sostenendo la seconda ondata e continuando a propugnare una politica intransigente ed estrema. Ma, dopo la nomina a segretario nazionale del PNF, Farinacci si era rivelato rozzo, intrigante, prepotente, esibizionista e mitomane, come tanti altri ex squadristi entrati a far parte delle gerarchie del partito. Nel numero 12 del mese di luglio, Maccari prese le distanze da Farinacci e dalla sua politica, ormai insensibile alle istanze provinciali e, dopo averlo ripetutamente criticato per le sue pose da superfascista, lo ridicolizzò in caricatura in prima pagina, accompagnata da una strofetta satirica:
«Farinacci, Farinacci
Così non ci piacci
Parlar sul novecento
Non è del tuo talento
Eri molto più bello
Quando usavi il manganello».
Questa presa di posizione della rivista costò cara a Maccari: il numero fu sequestrato e così a luglio fu pubblicato un secondo numero 12, con variazioni del numero sequestrato.
Nonostante le sue frecciate gli avessero procurato l’espulsione dal partito, Maccari non sapeva tacere di fronte al carrierismo gerarchista: «Ispezionate le provincie, camerata Farinacci, ma ispezionatele a fondo e troverete delle carogne da buttar via e dei buoni da utilizzare. Perché molto spesso la disciplina, localmente, diventa il mezzo col quale un pugno di faziosi stretti da vincoli oscuri, sottomettono i nuclei pensanti e le intelligenze che oltre a portare al partito un contributo di pensiero, di idee e volontà, romperebbero le uova nel paniere misterioso dei sullodati signori».
Con il numero del 31 marzo 1932 la rivista si trasferì a Roma e cominciò così il periodo romano de Il Selvaggio, che giunse fino al 1943; lo stesso Malaparte, che con il suo carattere irruente, da vero toscano, si era presto creato delle inimicizie, lasciò presto Torino.
Maccari dovette tuttavia conservare comunque qualche ricordo nostalgico di Torino se, sul numero del 15 giugno 1932, pubblicò un disegno raffigurante ‘Porta Susa’ e, sul numero del 15 febbraio 1933, un disegno raffigurante Porta Palazzo.
Nel periodo romano, la rivista diventò più colta, giungendo al culmine del suo fervore artistico e culturale, era più aperta ai problemi artistici ed anche alle illustrazioni artistiche, molto più accurate: a Roma si aggiunsero Arrigo Benedetti (1910 – 1976), Gino Visentini, Cesare Brandi (1906 – 1988), Vincenzo Cardarelli (1887 – 1959), Vitaliano Brancati (1907 – 1954), Bruno Barilli (1880 – 1952), Alfredo Mezio (1908 – 1978), Francesco Lanza (1897 – 1933), Carlo Mollino (1905 – 1973), Antonio Baldini (1889 – 1962), Sandro Volta, Antonello Trombadori (Roma, 10 giugno 1917 – Roma, 18 gennaio 1993), Orfeo Tamburi (1910 - 1994), Renato Guttuso (1911 – 1987), Toti Scialoia (1914 – 1998), Arnoldo Chiarrocchi (1916 – 2004), Giuseppe Viviani (1898 – 1965), Carlo Socrate (1889-1967) ed Albino Galvano (1907 – 1990).
A Roma, Il Selvaggio continuò la modesta attività editoriale, cominciata a Torino nel 1931, pubblicando Vita di Pisto di Romano Bilenchi: pubblicò, infatti Tempo di Guerra di Arrigo Benedetti nel 1933, Commiato del Tempo di Pace di Ardengo Soffici nel 1935, Cavalleria di Vittorio Polli nel 1936, Canti Popolari di Ciociaria di Luigi Colacicchi nel 1936 e L’Elegia Romana del padre Latino Maccari nel 1939.
Il Selvaggio era ormai diventata una rivista diversa, sempre più spesso in contrasto con le autorità fasciste, che sopportavano di malavoglia lo spirito di ribellione e d’insofferenza, sebbene essa fosse diventata forse più astuta: faceva moralismo attraverso la citazione di lunghi brani tratti da Leopardi, da Voltaire, da Catullo e da altri. Maccari ormai partecipava a numerose ed a sempre più importanti manifestazioni artistiche, anche oltreoceano ed il suo nome si legava sempre più alla sua arte che non alla sua penna, pur non abbandonando il suo impegno giornalistico. Ma anche il Fascismo era cambiato: sul numero del 10 ottobre 1938, appare un sottotitolo che la dice lunga sul cambiamento d’umore di Maccari Se tu sarai tutto solo sarai tutto tuo, mentre il sottotitolo del 15 novembre 1939 andava ancora oltre: La vita è sogno. Molte cose erano cambiate nella coscienza di Maccari e dei suoi amici. Il numero del 30 novembre 1939 fu interamente dedicato ai disegni di Guttuso, con un testo del pittore stesso; quello del 31 maggio 1940 fu dedicato ai disegni di Orfeo Tamburi, con un testo introduttivo di Antonello Trombadori e di Renato Guttuso; nel 1941, oltre al nome del direttore responsabile Mino Maccari, comparve quello del redattore capo Enrico Galluppi; il numero del 15 giugno 1942 fu dedicato ai disegni di Leo Longanesi, presentati da Giuseppe Raimondi. Cesare Brandi e Corrado Alvaro su Il Selvaggio scrivono poesie, ma la rivista, pubblicata ormai irregolarmente, si avviava verso la sua inesorabile fine.
L’ultimo numero è del 15 giugno 1943: pubblicava ancora disegni e testi di Mario Tobino, Giuseppe Raimondi, Toti Scialoia, De Pisis, Latino Maccari, e di altri. Un mese prima della caduta del Fascismo il 25 luglio 1943 quando l’ordine del giorno Grandi, approvato dal Gran Consiglio del Fascismo, sfiduciò Mussolini, riconsegnando i poteri dello Stato al re, Maccari aveva fiutato la congiura in atto ed in copertina appariva il volto piangente di Edmondo De Amicis. Ne adopera il nome per comporre un distico che avrebbe dovuto mettere in guardia Mussolini da coloro che lo circondavano e che di lì a poco l’avrebbero tradito.
«Dai De Amicis mi guardi iddio
Che dai De Nemicis mi guardo io».
Il Selvaggio aveva compiuto ormai il suo lunghissimo ciclo, passando dalla impertinenza iniziale ad una più matura riflessione, ma, da ogni suo periodo, era riuscito a trarre un intelligente vigore per le sue battaglie, che, tra tolleranza e censura, difendevano l’autonomia dell’arte ed il diritto dell’attività culturale e quello di ridere della politica, fatto quest’ultimo che costò alla rivista numerosi casi di sequestro.
Nei suoi circa 250 numeri, Il Selvaggio, da zotico organo di una rivolta antiborghese di spirito fascista, nato come foglio politico a sostegno dello squadrismo, era diventato progressivamente un luogo d’incontro svincolato dagli umori della politica e, privilegiando successivamente gli argomenti ed i dibattiti letterari e artistici, era diventato sostenitore del nazionalismo italico e rurale, che animò la corrente Strapaese e di una certa mitologia picaresca del Fascismo, non dispensando attacchi né contro i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Croce, né contro l’antisemitismo di Ardengo Soffici e polemizzando contro i redattori di Solaria. Ma la sua lunga storia non fu fatta solo dalla battaglia politica ed etica, sebbene nel periodo di Colle Val d’Elsa questi due aspetti fossero preponderanti: negli anni trenta Il Selvaggio diventò una rivista di notevole spessore artistico e letterario e, per questo suo orientamento, tralasciò i protagonisti dell’arte di Stato come Oppo, Marinetti ed Ojetti e puntò su veri artisti, anche se poco graditi al regime o addirittura sconosciuti. Le annate del giornale sono pagine piene di brio, di genialità, di irriverenza scanzonata, con una grafica superba, battute, caricature ed incisioni d’autore. Sui suoi fogli collaborarono infatti scrittori ed artisti di grande animo e talento: in questo periodo Maccari individuò gli ingegni nascenti, gli albeggianti, sia nell’arte sia nella letteratura, quando la rivista aprì le porte a pittori come: Orfeo Tamburi, Luigi Bartolini, Mario Mafai, Luigi Spazzapan, Ottone Rosai, Achille Lega, Giorgio Morandi, Carlo Carrà, Pio Semeghini, Medardo Rosso, Quinto Martini, Renato Guttuso, Italo Cremona, Orfeo Tamburi, a scrittori come Enrico Pea, Piero Bargellini, Vitaliano Brancati, Vincenzo Cardarelli, Guglielmo Petroni, Berto Ricci, Aldo Buzzi, Eugenio Montale, Ardengo Soffici, Fernando Agnoletti, Leo Longanesi, Arrigo Benedetti, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Mario Tobino, Curzio Malaparte, Giuseppe Prezzolini, Giuseppe Ungaretti, Elsa Morante ed al colligiano Romano Bilenchi, ad intellettuali come Camillo Pellizzi, e oltre ad intellettuali aderenti a La ronda ed a L’Italiano.
Qualcuno ha voluto vedere ne Il Selvaggio la testimonianza di uno spirito di fronda all’interno del Fascismo, che aveva ormai disatteso ogni promessa rivoluzionaria, ma non fu così: tranne che nella tagliente satira di costume degli scritti e dei disegni di Maccari, l’estremismo militante, più apparente che sostanziale, de Il Selvaggio restò sempre entro i limiti di un utopistico ed innocuo dissenso politico.
Maccari fu fascista convinto e, per motivi di coerenza, non osteggiò mai il Fascismo, sotto il profilo politico, proclamando se stesso ed i selvaggi nati nel Fascismo e dal Fascismo e se Il Selvaggio durò vent’anni fu perché non mise mai in dubbio i cardini fondamentali del Fascismo, non ne discusse mai le scelte politiche ed economiche. Il Selvaggio si sentì sempre difensore della rivoluzione ossia custode della carica rivoluzionaria antiliberale, tipica del primo Fascismo e fu sempre contrario ad ogni istanza normalizzatrice, contro ogni inserimento del vecchio regime, contro ogni tentativo di trasformare il movimento in blocco d’ordine, contrario allo spegnersi dello slancio iniziale in un ristagno di conformismo e di malcostume, sia sul piano politico sia su quello dell’arte e del costume. La devozione di Maccari a Mussolini, “il più salvatico degli italiani” fu sempre totale: egli non aveva tradito la rivoluzione, l’avevano tradita gli uomini che gli stavano accanto ed il malcostume connaturato nei palazzi del potere. L’incrollabile fede in Mussolini, il suo talvolta ingenuo e fiducioso affidarsi all’intervento demiurgico di Mussolini, non si indebolirono mai nelle pagine della rivista, che spesso finiva per prendere alla lettera gli slogan propagandistici di Mussolini.
La sua critica fu volta a colpire aspetti ed uomini del Fascismo, ma non mise mai in discussione il Fascismo, di cui aveva abbracciato in pieno la causa fin dall’origine, fu piuttosto il Fascismo, divenuto regime, che tradì Maccari, che si oppose tenacemente al malcostume conformista del regime, al servilismo, alla demagogia, per non parlare della critica costante alla minaccia tedesca ed al razzismo. Quando si cercò di scimmiottare certe risibili tesi razziste giunte dal Germania,Il Selvaggio assunse una posizione di rottura, e lo stesso Telesio Interlandi fu ampiamente ridicolizzato da Maccari con una serie interminabile di battute, al punto che gli fu dedicata una quarta di copertina con la didascalia:
«A Telesio Interlandi
Or ciascun si raccomandi
presentando com’è logico
l’albero genealogico».
Questo antirazzismo controcorrente, è stato riconosciuto a Maccari dalla stessa critica antifascista, che pure aveva denunciato «la ben più grave adesione alle squadracce delle cui prodezze il nostro fu spesso appassionato protagonista».
Quando a Bologna nel Novembre del 1924, Maccari conobbe Leo Longanesi, i due nani animatori di Strapaese si incontrarono ed un anno dopo Leo Longanesi era a Colle di Val d’Elsa, per tracciare i piani dei due giornali Il Selvaggio e L’Italiano, che uscì a Bologna il 14 gennaio 1926. Longanesi rievocò con queste parole la visita fatta a Colle: «Sono trascorsi tre mesi dalla notte che venni su a Colle a trovarti, ricordi? Parlammo degli odi e dei amori dei nostri Ras, dei soliti maiali che ognuno di noi si trova sempre fra i piedi, della pittura di Ardengo, della rivoluzione, del Mussolini e della famiglia de Medici che forse ci avrebbero valorizzati (...). Dalla famiglia de’Medici passammo alla rivoluzione francese, e lì fatta una sosta ideale, costruimmo castelli in aria illudendoci di essere due capoccia in stivaloni, berretto frigio e sciarpa nazionale».
Il Selvaggio fu un fervido laboratorio di Strapaese, una delle creazioni più originali di Maccari, un movimento di idee e di costume, che identificava i più autentici valori della cultura nazionale nelle radici rurali: in questo modo era costruito il mito dell’italiano vero, dalla genuina e rozza brutalità, in polemica con i modelli della civiltà borghese ed urbana e soprattutto con i tentativi di sprovincializzazione della cultura letteraria ed artistica italiana, proposti in quegli stessi anni da analoghe riviste come Il Baretti e soprattutto come 900, di cui contestava il modernismo stracittadino allora imperante.
Maccari come Leo Longanesi, suo grande amico e collaboratore, è sostanzialmente un goliardo strafottente e Strapaese, la tendenza che si opponeva a quegli intellettuali che cercavano un rapporto con le avanguardie europee e che si atteggiava a popolaresco ed a plebeo, a spregiatore di ogni moda e di ogni corrente che venisse d’oltre confine, fu creata dai selvaggi ed Il Selvaggio ne fu l’organo. Ma sebbene Maccari ed suoi amici esprimessero un pensiero intellettualmente raffinato perchè trovava punti di riferimento in artisti sofisticati, fuori del coro, come Papini e Rosai, sulle radici della toscanità ironica e trasgressiva, mantennero deliberatamente nella rivista la vena selvaggia, attraverso detti, motti, articoli e pagine, incise di straordinaria espressione ed ancora oggi attuali.
Intonando l’inno di Strapaese, metafora della provincia sana, incorrotta e rabbiosa
«Strapaese non muta bandiera
Il nostro ponte è un ponte di testa
Strapaese non teme tempesta
Soffia il vento, bubbola il tuono
Noi aspettiamo il momento buono»,
Maccari ed i selvaggi si battevano dunque in difesa di Mussolini e del Fascismo duro nei tempi bui del delitto Matteotti, sfidando gli oppositori e i fascisti pavidi e tiepidi.
Sul numero del 30 giugno 1926, Maccari scrive: «Qui o signori, incomincia la storia di Strapaese, di uno strano luogo un poco più giù di Firenze, un poco più su di Siena, dove il sindaco veste di fustagno, non c’è la tassa sui cani e non ci sono orinatoi, perchè la gente piscia al muro(...) (...)dove si fa e non si dice(...) (...)dove i moccoloni ruzzano e le donne son sempre gravide (...) situato (...) un po’ più giù di Firenze un po’ più su di Siena (...)»
Maccari descrive raffinatamente, nel corso dei successivi numeri, usi e costumi, leggi e dicerie, al punto che sembra quasi di vederlo, questo strano posto, questo luogo ideale e fucina dei valori legati alla vita semplice, schietta ed agreste: Maccari non dice esplicitamente Colle Val d’Elsa, ma il riferimento era piuttosto evidente. La fictio di Strapaese servì a Maccari per raffigurare un paese a cui si accede solo dopo essersi liberati dai fardelli (tale e tanta è la fatica per arrivarci), per essere così in grado di dare attualità alla tradizione. Un’attualità ben affermata nella lunga disputa politica, artistica e di costume che vide impegnati gli ideatori di Strapaese contro coloro ritenuti responsabili dell’anima di Stracittà, che rappresentava il nuovo, l’America ed il liberalismo.
Strapaese è un Novecento del tutto privo della retorica del regime, uno spazio intellettuale, una comunità di spiriti, che si batteva per un’identità dell’arte capace di unire la misura di una «moderna classicità italiana» al culto delle radici, che attaccava la retorica, l’ufficialità littoria, i compromessi, che se la prendeva con i funzionari di partito, con borghesi, con i moderati, con la destra conservatrice, che cercava di normalizzare Mussolini, con i clericali, con i massoni, con i gerarchi impataccati, con la Roma ministeriale e maneggiona, che tutto voleva corrompere, che trasformava in icona politico-culturale la cultura contadina toscana, con campi, colli, casolari, cipressi, campanili come bandiere di battaglia.
Naturalmente non è un fatto letterario fine a se stesso: la campagna culturale di Strapaese e de Il Selvaggio aveva risvolti politici e mirava ad esaltare la forza rinnovatrice del Fascismo, proprio nella sua riscoperta delle antiche virtù italiche e latine.
Nessuno potè considerarsi immune dall’aggressività strapaesana. Nemmeno uomini come Gentile e Evola, Spirito e Chiurlo, Pende e De Stefani, Volpe e Ansaldo furono risparmiati dalle raffiche antimoderniste dei “selvaggi”. Nessuna istituzione di regime, per quanto intoccabile, fu considerata “città aperta”:
«che seccatura
l’istituto fascista di cultura».
Il suo ruralismo, termine mai accostato ad un aspetto economico, ma sempre ad una coraggiosa difesa della campagna nei confronti della città, apparve su Il Selvaggio nel 1927, grazie alla rubrica cronache strapaesane, attraverso cui la rivista continuava a combattere la sua battaglia politica attraverso la satira, sebbene la battaglia avesse un carattere prevalentemente morale. In questo luogo ideale, Maccari esprimeva il profondo legame alla terra ed al paese, dove si ribadiva il carattere rurale e paesano della gente italiana, che discendeva dagli antichi romani che sapevano usare con la stessa destrezza la spada e l’aratro. Strapaese rappresenta l’espressione più genuina e più schietta della razza italica.
Orco Bisorco è lo pseudonimo che Maccari usa quando si parla di Strapaese, perché riesce a sottrarsi da Stracittà, simbolo di tutto ciò che mira ad inquinare le tradizioni del mondo rurale, su cui si deve fondare l’Italia, è tutto ciò che antepone l’effimero alla sostanza, la finzione alla realtà, la corruzione all’onestà, la sincerità all’inganno: «L’America – emblema di Stracittà – è entrata nel vecchio pollaio europeo ed ha introdotto fra noi tutto il modo di intendere la vita, di vestire, di muoversi, di darsi la mano, di lavorare, di divertirsi. L’America ha comprato dall’Europa le opere d’arte e le ha venduto la schiuma da barba».
Quando Federico Agnolotti dice che quel ruscello che Dante chiamava Arno, in un anno qualunque della vita d’Italia, ha specchiato più gloria di tutto il Mississipi da due secoli a questa parte non fa retorica, ma mostra l’orgoglio dell’appartenenza ad una magnifica civiltà di cui hanno fatto parte Dante, Petrarca, Boccaccio, Michelangelo, Leonardo, Machiavelli, civiltà da cui i selvaggi prendono spunto per un rinascimento dei costumi che restituisca giusta dignità morale.
Anche riguardo al problema del lavoro Maccari oppone la visione italiana, umanista a quella americana meccanicista. L’uomo conta molto di più del calcolo freddo, della produzione massima, del taylorismo, l’uomo avrà sempre un valore superiore alla macchina. Per gli strapaesani a Stracittà invece abbondano le attrazioni che prendono con l’inganno i contadini più deboli, che si spostano verso le città e che non resistono all’aria malsana e si intisichiscono per questo è necessario difendersi da questo urbanesimo, combattendo le abitudini che la cultura anglosassone impone. Da queste correnti pericolose della civiltà contemporanea dovranno guardarsi soprattutto i giovani, che hanno invece bisogno di modelli culturali ben più radicati e sani soprattutto più sani e veri.
«Gente che ha messo al mondo dei bei figlioloni – scrive Maccari, descrivendo il profilo del perfetto strapaesano – e mangia accanto alla cucina, beve vino pretto, va a vedere il bruscello e balla il trescone». Questa visione può apparire angusta, ma: «amare la terra ed il paese – precisa Maccari – custodire le tradizioni non significa impoltrirsi e impiccinirsi entro insormontabili confini, ma trovare, gustare e selezionare gli elementi di cui necessariamente si compone la nostra personalità, per portarli con le opere ad una vita attuale…dare quindi alle cose che si fanno il sapore di tutta una storia e di tutta una civiltà. Strapaese ama l’Italia popolana e rurale perché è restia all’influenza di una civiltà dove non si riconosce: l’America scende a suon di dollari, cogli idoli negri, il cocktail, il jazz e il luccichio abbagliante di una civiltà tutta spuma e niente terra, tutta macchina e niente cuore».
Maccari evidenzia il suo interesse per i borghi, che gli apparivano i luoghi ideali di una vita concentrata e austera, meno nervosa e meno ossessionata di quelle proposte negli anni Trenta in conformità a mal interpretati modelli di modernità.
La proposta di Strapaese è vera e sentita e, come nella battaglia politica, Maccari non scende ad accordi con i normalizzatori così nella battaglia etica disprezza profondamente qualsiasi compromesso con una civiltà nociva e pericolosa. «Mai addomesticarsi ammonisce» ed Orco Biforco, paragonando il selvatico cinghiale all’addomesticato porco, si esprime:
«La macchia è la mia patria e qui selvatico
Vivo con la cinghiala e i cinghialini
Qui trovo amore, pane e companatico
Alla città vo in tasca e ai cittadini
Odio il porco, nemico osceno e vile
Che da selvaggio s’addomesticò
Lasciò le zanne pel brago e il porcile
E per finir prosciutto s’ingrassò»
E quando Orco Bisorco muore Maccari lo saluta così:
«Qui giace Orco Bisorco
Che morì da cinghiale.
Per non diventar porco».
Massimo Capuozzo
Silenzio ed imbarazzate reticenze calarono, però nelle redazioni dei grandi quotidiani su quanto il gruppo di Strapaese aveva rappresentato culturalmente nell’Italia fascista: Maccari aveva rappresentato, infatti, la strada maestra del Fascismo storico italiano, un Fascismo tradizionalista e popolare, cattolico, antiborghese, antiamericano, antidealista e antimodernista, quello dei superstiti della Disperata, che si faceva beffe di pennacchi e di orbaci all’ultima moda, quello contadino e quello strapaesano, che contrastava ogni selvaggia industrializzazione ed ogni forzata urbanizzazione.
Se L’universale di Ricci proponeva un ghibellinismo spiritualista, se 900 di Bontempelli era condizionato da polemiche antitradizionaliste ed europeizzanti, Il Selvaggio (1924-1943) si autoidentificò, invece, in quella cultura post-squadrista, che, però dello squadrismo aveva raccolto solo lo stile aspro a canzonatorio che – come aveva riconosciuto certa intellighenzia di sinistra – «consiste nella guerra ad oltranza al pompierismo littorio e alla vuota magniloquenza».
Il Selvaggio, una delle più rigogliose riviste politico-culturali del secolo, la rivista satirica più raffinata d’Italia, uscì il 13 luglio 1924, ad un mese dall’omicidio di Matteotti ed a due anni dalla marcia su Roma, mentre l’ultimo numero uscì il 15 giugno 1943, a poco meno di un mese dalla caduta del regime.
Costituito da un foglio di quattro pagine, con sede a Colle di Val d’Elsa, Il Selvaggio fu ideato da Angiolo Bencini, detto Giangio, che ne fu il primo direttore.
È interessante osservare da vicino la genesi di questo periodico, per capirne meglio anche l’indole. Bencini era un ex-ufficiale e commerciante di vini, ras di Poggibonsi, che, troppo giovane per partire per il fronte, aveva falsificato i documenti, per partecipare alla Grande Guerra e, quando ritornò in Valdelsa, iniziò la sua rivoluzione a base d’olio di ricino e di manganellate. Il 27 dicembre del 1923, Bencini, che aveva pensato ad un giornale locale, contattò Mino Maccari, giovane giornalista, laureato in giurisprudenza nel 1920, ufficiale di artiglieria durante la guerra e partecipe alla marcia su Roma e gliene affidò la redazione: Maccari, appassionato di disegno, xilografo ed incisore, scrittore e poeta, apprezzò l’iniziativa, accettandola con entusiasmo.
Nel mese di luglio del 1924, Mussolini attraversava un momento difficile: un mese prima, una squadraccia fascista aveva rapito ed ucciso il deputato socialista Giacomo Matteotti, che, alla camera, aveva pronunciato un discorso contro la politica fascista, caratterizzata da brogli elettorali, da intimidazioni e da sistematiche violenze contro le opposizioni mentre, proprio quando, nel Fascismo si svolgeva un’opera di normalizzazione, voluta soprattutto dai suoi sostenitori, che comportava il congedo della parte più violenta del Fascismo, quello provinciale, che ricavava la sua forza dalla violenza squadrista. La morte di Matteotti aveva portato l’Italia a prendere le distanze dal Fascismo e da Mussolini. Gruppi d’opposizione di centro-sinistra si erano ritirati sull’Aventino e protestavano, rifiutandosi di partecipare ai lavori del Parlamento: ampi strati della borghesia, sostenitori del Fascismo, erano rimasti disorientati e molti, pensando di essere saliti troppo in fretta sul carro dei vincitori, gettavano il distintivo del PNF e restituivano la tessera; nelle stesse file del Fascismo si manifestava un certo scollamento e, mentre qualcuno cercava di ritagliarsi una fama di antifascista, i fascisti che avevano fatto la Marcia, per togliere di mezzo il marcio, esortavano Mussolini ad eliminare i politicanti romani ed a sciogliere mani, muscoli e manganelli; si verificarono anche isolate aggressioni ai fascisti stessi.
Il primo numero de Il Selvaggio uscì nel pieno di queste agitazioni: Mussolini appariva incerto, titubante di fronte ad un Fascismo-regime. «Noi – raccontò Maccari ormai vecchio – sapevamo di dovergli dare una scrollata. E per noi intendo la provincia, meglio ancora quella toscana. Bene, dalle parti di Siena, a Colle Val d’Elsa, c’era un vinaio, Angiolo Bencini, che aveva fatto la Marcia su Roma e voleva pubblicare un giornaletto che esprimesse la voglia di rivoluzione che ci bruciava dentro. E per noi gli umori rivoluzionari erano la stessa cosa della risata, della beffa, della caricatura, del ghigno. Volevamo smascherare l’Italia fifona e ruffiana dei cortigiani cacasotto e annunciare l’Italia nuova, gagliarda e anticonformista, delle Camicie Nere». Bencini intuì subito che Maccari era sveglio e che anzi aveva talento e coraggio di dirne tante, a Mussolini, ai gerarchi, ai fascisti indecisi ed a tutti gli italiani. Così, il 13 luglio 1924, nacque Il Selvaggio.
Bencini avrebbe preferito che il giornale si intitolasse Santa Canaglia, ma Maccari obiettò: «Borghesi e sovversivi ci chiamano selvaggi? Ce ne freghiamo. Anzi, dell’epiteto offensivo, faremo un pimpante distintivo di lotta: eccome se siamo selvaggi!»
Mino Maccari, allora ventiseienne, era culturalmente l’uomo forte del Fascismo colligiano ed era soprannominato il Tarpone: mentre combatteva sul Piave, Maccari aveva stampato una raccolta di versi significativamente intitolata Orgia. Maccari scelse come altro compagno di avventura Archimede Callaioli di Monteriggioni, detto Mede Poca Legge, che dapprima era riuscito ad evitare la guerra, ma, successivamente arruolato, combatté sull’altipiano di Asiago e giunse a comandare gli Arditi: tornato dalla guerra, Callaioli, nel 1921, aderì al Fascismo e, a Colle Val d’Elsa conobbe Maccari. Bencini e Callaioli erano figure di spicco dello squadrismo locale. A loro si aggiunse un barrocciaio Armando Salvi, detto il Bove, con cui Maccari intrecciò una salda amicizia.
Cominciò così l’avventura di un giornale destinato ad una vita lunga e talvolta difficile per censure e sequestri, ma indubbiamente appassionata ed appassionante.
Come si evince dalla descrizione dei suoi primi animatori, Il Selvaggio era una rivista di spirito e di umore prettamente toscani, che conservò anche quando si trasferì dalla Toscana a Torino ed in seguito a Roma: le sue pagine abbondavano di nomignoli, stravaganti, ricercati ed in certo qual senso barocchi: Orco Bisorco, Fottivento, Tritamacigni, Nerbolibero, Sugodibosco, Quadramascella, Pizzodiferro.
Quando iniziò le sue pubblicazioni, Il Selvaggio riportava, sotto la testata del primo numero, la definizione di Battagliero fascista, perché i selvaggi erano i fascisti che si consideravano più intransigenti e più puri ed ideologicamente polemici e la rivista aveva un carattere rivoluzionario-fascista. Gli stessi due motti di cui si fregiava, Né speranza né paura e Marciare non marcire, di marinettiana memoria, erano un incitamento ai rivoluzionari ad essere sempre in armi contro l’Italietta dei conservatori e volevano mostrare le idee dei suoi giovani animatori. La prima e la seconda pagina erano dedicate alla politica, la terza riportava notizie di cronaca estera ed interna, dedicando maggior spazio a quella della provincia senese. L’ultima pagina, fino al 21 dicembre del 1924, era completamente occupata dalla pubblicità, unica fonte di finanziamento, insieme alle sottoscrizioni dei fascisti locali.
La realizzazione della rivista, agli inizi settimanale, comportò un notevole sforzo organizzativo, che, però fu subito ripagato perchè essa ottenne presto larga diffusione locale: «Doveva essere – commentò Maccari, molti anni dopo l’uscita del giornale – un giornaletto locale, che so?, raccontare del trasferimento del macellaio e delle corna del farmacista. Eravamo nel 1924, avevano ammazzato Matteotti. Io ero giovane, dannunziano, megalomane, esibizionista, vanitoso. L’idea di fare un giornale mi solleticava. E poi (...) la mettifoglio della tipografia era bella, bianca con gli occhi della Madonna (...) si, la famosa Neve. Insomma mi convinsi. Ma non avevo un’ideologia. Vivevo di sentimenti, di passioni, di scherzi. Hegel e Marx io non gli ho mai letti; di Nietzsche e mi sembra anche di Stirner, che era uno dei maestri del Mussolini rivoluzionario, ci parlò Pellizzi, che era coltissimo. A me piacevano Montaigne, Voltaire, Leopardi e Shopenhauer, gli spiriti liberi (...)».
La rivista era diretta da Bencini, ma la sua anima era Mino Maccari con scritti e disegni e gli articoli, oltre che da Bencini e da Maccari, erano saltuariamente firmati dall’avvocato Sangiorgi, da Antonio Coccheri, da Alfredo Nepi e da altri. Maccari ed i suoi compagni, giovani e forse un po’ ingenui, infatti, pensavano e scrivevano chiaramente nei numeri successivi che il Fascismo era un’ideologia dinamica, capace di evoluzione e di trasformazione.
In questo clima locale e nazionale nacque Il Selvaggio ed il suo scopo, fin dal primo numero, era difendere e diffondere la fede degli squadristi con violenza ed intransigenza: «Noi – dichiarava Maccari nel primo numero – non possiamo adattarci ad una tattica pacifista… noi prepariamo le coscienze ed i muscoli per le lotte future, per immancabili vittorie. Pecoroni rincoglioniti e pavidi, li sentivate cantare botte, botte, botte, botte in quantità ed ora hanno messo a riposo il distintivo. Tu Selvaggio rimettiti il distintivo all’occhiello oggi che i tiepidi se lo tolgono, ricanta le tue canzoni ora che non sono più di moda e vantati di essere uno squadrista ora che si maledice lo squadrismo».
Il periodo sembrava dunque adatto ad un ritorno dello squadrismo ed Il Selvaggio uscì, poiché, dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti, il partito aveva bisogno di riprendere con decisione l’iniziativa politica e di governo con lo scopo di diffondere e di difendere la fede degli squadristi, che, a Colle Val d’Elsa, erano costituiti da reduci alla ricerca di una collocazione nel sistema, da piccoli proprietari terrieri, timorosi di qualche fremito rosso serpeggiante per le campagne da piccoli commercianti da artigiani a caccia di qualche beneficio in compenso dei sacrifici sostenuti durante la guerra ed anche da qualche operaio, ostile ad un certo inurbamento di contadini, forse perchè ritenuto privo di maggiori opportunità di lavoro. In questa miscela di delusione per la politica degli uomini della democrazia parlamentare e per l’ingratitudine nei confronti dei reduci, sulle colonne de Il Selvaggio nacque la campagna contro i liberali, da vecchia data, alfieri più rappresentativi e più noti della democrazia parlamentare.
Il vero nemico, per Maccari, non era, infatti, tanto l’opposizione aventiniana, quanto la vecchia classe dirigente giolittiana, che si era affermata grazie ad alleanze, a compromessi ed il cui unico scopo era stato quello di pensare al proprio interesse personale: tale nemico era pericoloso, perchè cambiava spesso pelle, era soprattutto indefinito e l’unica arma per vincerlo definitivamente rimaneva sempre la violenza, la fermezza e l’intransigenza. Per queste ragioni, dal 1924 al 1925, la posizione de Il Selvaggio fu netta e recisa accanto al Fascismo del Mussolini dalla voce maschia ed autoritaria, perfino nel torbido periodo del delitto Matteotti: nonostante questo, Il Selvaggio, dietro l’aria battagliera e polemica con cui esaltava coraggiosamente i selvaggi eroi del Fascismo, pur essendo una piccola rivista, si lanciò subito in una prepotente affermazione di individualità, ma già molto originale ed anticonformista nei toni e nelle idee, e di aspirazione ad un mutamento della società.
Quando, con il discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini aveva contrattaccato, dichiarando ai deputati che avrebbe potuto fare di quell’aula sorda e grigia un bivacco per i manipoli delle camicie nere, Maccari esultò per la fine dello stato liberale: gli squadristi si riunirono in tribù, paese per paese, per combattere contro «approfittatori, i pompieri, gli accomodanti», firmando in proprio prose, poesiole, battute, epigrammi o ribattezzandosi con quei barocchi pseudonimi come Fottivento, Pratico, Tritamacigni, Orco Bisorco, Nerbolibero, Sugodibosco, Quadramascella, il Tarpone.
Con il numero del 29 settembre 1925, anno della condirezione di Bencini e Maccari, Il Selvaggio modificò il sottotitolo da Battagliero fascista in Battagliero Squadrista: Il Selvaggio presentava caratteri chiaramente squadristi, agrari e bastonatori come si può leggere sul numero del 12 ottobre 1924 nell’editoriale Botte ai liberali, o sul numero del 9 novembre 39 milioni di legnate e ancora sul numero del 18 maggio del 1925 Selvaggia provincia svegliati!
Diversamente da come però aveva auspicato Maccari, Mussolini, con quel discorso, non annunciava, però, la seconda ondata di violenza rivoluzionaria, ma l’inizio di un periodo di normalizzazione, non intesa però come ritorno alla legalità, ma come l’inizio di un regime autoritario e che le leggi fascistissime del 1925 portarono il PNF ad una marcata centralizzazione, con la conseguente emarginazione dei quadri provinciali: da quel momento Mussolini, per reprimere le opposizioni, non si servì più delle squadre fasciste, ma agì attraverso le istituzioni, cioè legalmente attraverso prefetti e carabinieri e riprendendo l’opera normalizzatrice, interrottasi per qualche mese.
La nuova battaglia condotta da Il Selvaggio diventò allora quella contro i normalizzatori, cioè contro quei fascisti che cercavano di contaminare il movimento con i vecchi sistemi. Per Maccari il movimento fascista era il Fascismo delle province, il Fascismo rurale, che doveva continuare ad essere rivoluzione e non restaurazione e che abolisse i vecchi sistemi fatti di clientelismo e di compromesso, sebbene Maccari cominciava a rendersi conto che gli stessi deputati fascisti, una volta sulla poltrone, fossero abbacinati da lauti emolumenti e da sfolgoranti carriere. «Molti si sono corrotti – scrive amaramente Maccari – altri addomesticati, uno scetticismo corrosivo si è impadronito di molte anime schiette. In generale i fascisti deputati si sono allontanati da noi, dalla sana provincia, dal Fascismo rurale e selvaggio. Non ci intendiamo più».
Sebbene deluso, il Fascismo de Il Selvaggio non si rassegnò ad andare in pensione, anzi, nonostante tutto, sperava che prima o poi Mussolini riprendesse la marcia. La posizione di questo stato d’animo è significativa a questo proposito nei versi di Maccari:
«Malinconico il tuo destino
O squadrista dei giorni ardenti
Una seggiola e, un tavolino
Giunta, sindaco e componenti
O squadrista tutto è finito
È passata la fantasia
Tutto il mondo si è rammollito
Non più botte e larga amnistia
O squadrista ti si stringe il cuore
Quando al fascio fai una capata
I fascisti dell’ultim’ore
Gente lurida e disprezzata
Si dividono posti e onori
I più vecchi son tutti fuori
E nessuno li può più vedere
Ma la sveglia fuori ordinanza
Te la suonerà Mussolini
Allora con nuova baldanza
marcerai oltre i confini».
La battaglia contro i normalizzatori continuava con slogan contro il clientelismo, il trasformismo ed il carrierismo, malattie che dilagavano nei palazzi del potere. Ma il movimento fascista si era ormai trasformato in regime ed in quest’ottica nacque Il Selvaggio post squadrista e Maccari si accorgeva che la normalizzazione non si limitava solo ad accantonare manganello ed olio di ricino, ma si adoperava al recupero di uomini e di sistemi del vecchio ordine.
Il 15 Maggio del 1926, quando Maccari assunse la direzione de Il Selvaggio, che mantenne fino al 1943, la sede della rivista fu trasferita a Firenze ed essa fu trasformata in quindicinale con sede in Via dei servi 51, lo stesso indirizzo de La Voce, diretta da Curzio Malaparte: il contatto dei selvaggi con i vociani si rivelò un importante punto di incontro fra la rivista di Maccari e l’ambiente culturale fiorentino.
Ma nel 1926 molte cose erano cambiate: la crisi Matteotti era stata superata e Mussolini, alla Mostra del Novecento, aveva dato la parola d’ordine di normalizzare la vita pubblica. Quando il Fascismo, identificandosi con lo Stato, si era trasformato in regime, Maccari decise di dare una svolta alla sua rivista che si trasformò in foglio prevalentemente culturale ed artistico e la sua politica si trasformò – come afferma Giuliano Manacorda in Storia della letteratura italiana tra le due guerre: 1919-1943 del 1980 – «in diuturna, assillante, spavalda satira di costume», subendo spesso sequestri e censure.
Distaccando il periodico dal gioco politico e dal Fascismo, Mino Maccari, nell’articolo di fondo, intitolato Addio al passato, pubblicò il nuovo indirizzo della rivista, che non doveva più essere portavoce di un Fascismo combattivo, ma doveva dedicarsi all’arte, alla satira ed alla risata politica, ed espresse le sue idee estetiche, cui a poco a poco, diede sempre maggiore importanza. «Gli episodi politici o pseudopolitici – scrive Maccari nel citato articolo – i loro sviluppi e le loro vicende, non ci interessano più: non c’è che l’arte. L’arte è l’espressione suprema dell’intelligenza d’una stirpe. Noi sentiamo bene che oggi non è permesso a chiunque fare della politica. Col Fascismo, la politica è arte di Governo, non di partito Il Selvaggio ha l’onore di far presente alla propria spettabile clientela che a partire dal prossimo numero, la politica sarà relegata nella quarta colonna della quarta pagina. Una rivoluzione è anzitutto e soprattutto un atteggiamento e un orientamento dell’intelligenza. Dunque dalla produzione artistica noi avremo l’indice del valore d’una rivoluzione».
Il discorso di Mussolini alla Mostra del Novecento aveva dunque pesato decisivamente sulla crisi de Il Selvaggio, il cui atteggiamento aveva ormai già tutti i caratteri d’una manifestazione artistica. Rimaneva solo la via dell’intelligenza ed è significativo che, con il numero del 14 marzo 1926, appaia per la prima volta la dicitura leonardesca Salvatico è colui che si salva cioè colui che si salva dalla grettezza, dalla banalità, dalle miserie, dal ridicolo d’una politica spicciola: era un modo per comunicare che i selvatici avevano capito la rotta indicata dal regime.
Chiuso quindi il suo periodo squadristico, Il Selvaggio preferì il compito d’una nuova vita: la coltivazione dell’arte, Bencini sparì e con lui sparì anche l’animo da battagliero fascista.
Il Selvaggio cercava un respiro più ampio, l’uscita dal provincialismo, pur partecipando alle polemiche tra Strapaese e Stracittà. Nel periodo fiorentino, gli pseudonimi Bisomo, Gratta Gropponi, Unghia Tormentata, Tritamacigni, Nerbodibove, Sugo di Bosco, Pistolenzia, Indovinalagrillo, Fottivento furono affiancati da collaboratori più importanti ed apparvero nomi di scrittori e di artisti di grande talento. Dimenticata dunque la rustica ribalderia delle origini, Il Selvaggio si dedicò a scoprire nomi ed esperienze che hanno sfidato le mode effimere. Il giornale, con quanti vi pubblicavano opere o scritti, era diventato ora una delle pubblicazioni più importanti d’Italia: vi gravitavano, infatti, personaggi forti, vivi, entusiasti che ne avevano fatto un vero e proprio libro dei sogni dove predominava la parola creare.
Dal 7 ottobre del 1926 la redazione di Via dei Servi ospitò anche una mostra permanente per la valorizzazione del disegno italiano, mentre l’anno successivo, in Via S. Zanobi 60, si aprì La Stanza del Selvaggio, esposizione perpetua di pitture sculture e disegni.
Con il numero del 1° gennaio 1927, Il Selvaggio rimase soltanto Il Selvaggio, perse ogni sottotitolo, ma questo non significava che la battaglia politica fosse finita, anzi la rivista non aveva perduto il suo spirito mordace. L’arma con cui Maccari combatteva il malcostume, il carrierismo, la politica corrotta non era più l’articolo giornalistico, ma la satira che appariva a volte sottoforma di brevi poesie, a volte sotto forma di disegni, di satira, che si rivelava un’arma ben più affilata e tagliente dell’articolo politico. La svolta artistica comunque prese il sopravvento: in alcuni numeri, la politica era a stento toccata, ma quando questo accadeva, Maccari era sempre coerente all’ideale rivoluzionario. L’irritazione verso le gerarchie ben presto ricomparve irruente, quando Maccari, sempre più disincantato, si rese conto che i posti di comando non erano assegnati secondo un criterio meritocratico e lanciava ogni genere di accuse:
«Chi donne procura
Carriera ha sicura
Sia fatto arrosto
Chi si è messo a posto»
E successivamente:
«se non sei imboscato,
massone, ricattatore
analfabeta o fesso
pretendi pure
di far carriera?»
Nel 1927, la Stanza del Selvaggio organizzò la I Mostra d’Arte del Gruppo del Selvaggio e successivamente una personale di Ardengo Soffici. Nel 1928, Maccari partecipò per la prima volta alla Biennale di Venezia e pubblicò presso Vallecchi Il Trastullo di Strapaese, raccolta di poesie satiriche e di epigrammi. Nel 1929, Maccari trasferì la redazione del giornale a Siena, mentre Malaparte lo invitava a Torino, per assumere il compito di redattore del giornale La Stampa, di cui era direttore.
Nel 1931, Maccari trasferì la redazione de Il Selvaggio a Torino. Sebbene fosse solo una parentesi durata dal 30 gennaio al 30 dicembre 1931 e nuovi collaboratori aderirono alla rivista, L’accoglienza della grande città non fu molto cordiale: «Qui ci sembra il caso di parlare in persona propria – Maccari così scrive sullo stesso numero della rivista – Quando scendemmo a Porta Nuova, un vigile urbano ci avvertì di camminare in punta di piedi, per non svegliare i soliti che dormivano. Erano le tre del pomeriggio, e la cosa ci sembrò piuttosto strana. Quanti sono i torinesi che dormono? domandammo al vigile. Il loro numero, rispose il vigile, varia secondo il numero di quelli che sono svegli. E quanti potranno essere, insistemmo, quelli che sono svegli? Il calcolo è complicato, ci dichiarò il vigile urbano: bisognerebbe cominciare a contare quelli che non dormono. Il guaio è che a Torino dormono tutti. Prima di salire in taxi, si trattò di pagare il facchino. Uno di noi gli mise in mano un pezzo da due lire, di quelli che in Toscana i nostri nonni chiamavano cavourrini, perché erano stati messi in circolazione da Cavour. Il facchino guardò la moneta e sorrise: Non la posso accettare, disse, perché da qualche anno non ha più corso legale, nemmeno in Piemonte».
La rivista si arricchì della collaborazione di Romano Bilenchi, che vi pubblicò a puntate uno dei suoi primi romanzi La vita di Pisto, della collaborazione di Italo Cremona, che con il tempo diventò sempre più intensa, e di quella di Eugenio Galvano, di Velso, di Mucci, di Primo Zeglio, di Enzo Righetti e di Mario Tobino. La rivista pubblicò inoltre frequentemente disegni ed incisioni di Morandi, ancora fedele collaboratore, ma anche qualche disegno di Luigi Spazzapan e di Nicola Galante.
Il clima torinese non fu molto favorevole né a Maccari né a Il Selvaggio, che stentava a sopravvivere. La collaborazione più importante per Maccari, durante il periodo torinese, fu quella presso il quotidiano «La Stampa» di Torino, dove fu nominato redattore e successivamente redattore capo da Curzio Malaparte, che a sua volta era un fascista selvaggio.
Questo periodo è molto ben descritto da Romano Bilenchi nel suo volume Amici. Vittorini Rosai e altri incontri, pubblicato da Einaudi nel 1976, fondamentale per una più approfondita conoscenza dei rapporti che Maccari ebbe con Torino: «Torino – scrive Bilenchi nel citato volume – era una città diffidente e difficile a comprendersi anche per una persona che ama il contatto umano come me ed è sempre riuscita a superare barriere che sembrano invalicabili. Ma una volta accolti in una casa, in un gruppo di amici si rimaneva stupiti dalla spigliatezza dei piemontesi, soprattutto delle donne, del loro carattere deciso, forte e coraggioso». Ed altrove nello stesso volume Bilenchi dice: «Da tutti Maccari ascoltava le aspirazioni e i pareri, a tutti dava i consigli, e quando trovava in qualcuno un po’ di autenticità, di freschezza, di talento, ne era felice. Incitava tutti ad un lavoro continuo e serio. Una volta messosi al lavoro, Maccari aiutava questi giovani a scoprire le proprie attitudini in un campo invece che in un altro, li incitava ad approfondire la loro personalità di artisti e di scrittori. Dietro al suo sguardo ironico, alla parola facile, alle battute sprezzanti, c’è sempre stato in Maccari un uomo pieno di tenerezza, di buon senso di amore per il prossimo».
Nel 1931, la satira di Maccari non risparmiò neppure Farinacci, il ras di Cremona che, ai tempi dell’omicidio Matteotti, aveva esaltato l’episodio con lodi e con esortazioni, sostenendo la seconda ondata e continuando a propugnare una politica intransigente ed estrema. Ma, dopo la nomina a segretario nazionale del PNF, Farinacci si era rivelato rozzo, intrigante, prepotente, esibizionista e mitomane, come tanti altri ex squadristi entrati a far parte delle gerarchie del partito. Nel numero 12 del mese di luglio, Maccari prese le distanze da Farinacci e dalla sua politica, ormai insensibile alle istanze provinciali e, dopo averlo ripetutamente criticato per le sue pose da superfascista, lo ridicolizzò in caricatura in prima pagina, accompagnata da una strofetta satirica:
«Farinacci, Farinacci
Così non ci piacci
Parlar sul novecento
Non è del tuo talento
Eri molto più bello
Quando usavi il manganello».
Questa presa di posizione della rivista costò cara a Maccari: il numero fu sequestrato e così a luglio fu pubblicato un secondo numero 12, con variazioni del numero sequestrato.
Nonostante le sue frecciate gli avessero procurato l’espulsione dal partito, Maccari non sapeva tacere di fronte al carrierismo gerarchista: «Ispezionate le provincie, camerata Farinacci, ma ispezionatele a fondo e troverete delle carogne da buttar via e dei buoni da utilizzare. Perché molto spesso la disciplina, localmente, diventa il mezzo col quale un pugno di faziosi stretti da vincoli oscuri, sottomettono i nuclei pensanti e le intelligenze che oltre a portare al partito un contributo di pensiero, di idee e volontà, romperebbero le uova nel paniere misterioso dei sullodati signori».
Con il numero del 31 marzo 1932 la rivista si trasferì a Roma e cominciò così il periodo romano de Il Selvaggio, che giunse fino al 1943; lo stesso Malaparte, che con il suo carattere irruente, da vero toscano, si era presto creato delle inimicizie, lasciò presto Torino.
Maccari dovette tuttavia conservare comunque qualche ricordo nostalgico di Torino se, sul numero del 15 giugno 1932, pubblicò un disegno raffigurante ‘Porta Susa’ e, sul numero del 15 febbraio 1933, un disegno raffigurante Porta Palazzo.
Nel periodo romano, la rivista diventò più colta, giungendo al culmine del suo fervore artistico e culturale, era più aperta ai problemi artistici ed anche alle illustrazioni artistiche, molto più accurate: a Roma si aggiunsero Arrigo Benedetti (1910 – 1976), Gino Visentini, Cesare Brandi (1906 – 1988), Vincenzo Cardarelli (1887 – 1959), Vitaliano Brancati (1907 – 1954), Bruno Barilli (1880 – 1952), Alfredo Mezio (1908 – 1978), Francesco Lanza (1897 – 1933), Carlo Mollino (1905 – 1973), Antonio Baldini (1889 – 1962), Sandro Volta, Antonello Trombadori (Roma, 10 giugno 1917 – Roma, 18 gennaio 1993), Orfeo Tamburi (1910 - 1994), Renato Guttuso (1911 – 1987), Toti Scialoia (1914 – 1998), Arnoldo Chiarrocchi (1916 – 2004), Giuseppe Viviani (1898 – 1965), Carlo Socrate (1889-1967) ed Albino Galvano (1907 – 1990).
A Roma, Il Selvaggio continuò la modesta attività editoriale, cominciata a Torino nel 1931, pubblicando Vita di Pisto di Romano Bilenchi: pubblicò, infatti Tempo di Guerra di Arrigo Benedetti nel 1933, Commiato del Tempo di Pace di Ardengo Soffici nel 1935, Cavalleria di Vittorio Polli nel 1936, Canti Popolari di Ciociaria di Luigi Colacicchi nel 1936 e L’Elegia Romana del padre Latino Maccari nel 1939.
Il Selvaggio era ormai diventata una rivista diversa, sempre più spesso in contrasto con le autorità fasciste, che sopportavano di malavoglia lo spirito di ribellione e d’insofferenza, sebbene essa fosse diventata forse più astuta: faceva moralismo attraverso la citazione di lunghi brani tratti da Leopardi, da Voltaire, da Catullo e da altri. Maccari ormai partecipava a numerose ed a sempre più importanti manifestazioni artistiche, anche oltreoceano ed il suo nome si legava sempre più alla sua arte che non alla sua penna, pur non abbandonando il suo impegno giornalistico. Ma anche il Fascismo era cambiato: sul numero del 10 ottobre 1938, appare un sottotitolo che la dice lunga sul cambiamento d’umore di Maccari Se tu sarai tutto solo sarai tutto tuo, mentre il sottotitolo del 15 novembre 1939 andava ancora oltre: La vita è sogno. Molte cose erano cambiate nella coscienza di Maccari e dei suoi amici. Il numero del 30 novembre 1939 fu interamente dedicato ai disegni di Guttuso, con un testo del pittore stesso; quello del 31 maggio 1940 fu dedicato ai disegni di Orfeo Tamburi, con un testo introduttivo di Antonello Trombadori e di Renato Guttuso; nel 1941, oltre al nome del direttore responsabile Mino Maccari, comparve quello del redattore capo Enrico Galluppi; il numero del 15 giugno 1942 fu dedicato ai disegni di Leo Longanesi, presentati da Giuseppe Raimondi. Cesare Brandi e Corrado Alvaro su Il Selvaggio scrivono poesie, ma la rivista, pubblicata ormai irregolarmente, si avviava verso la sua inesorabile fine.
L’ultimo numero è del 15 giugno 1943: pubblicava ancora disegni e testi di Mario Tobino, Giuseppe Raimondi, Toti Scialoia, De Pisis, Latino Maccari, e di altri. Un mese prima della caduta del Fascismo il 25 luglio 1943 quando l’ordine del giorno Grandi, approvato dal Gran Consiglio del Fascismo, sfiduciò Mussolini, riconsegnando i poteri dello Stato al re, Maccari aveva fiutato la congiura in atto ed in copertina appariva il volto piangente di Edmondo De Amicis. Ne adopera il nome per comporre un distico che avrebbe dovuto mettere in guardia Mussolini da coloro che lo circondavano e che di lì a poco l’avrebbero tradito.
«Dai De Amicis mi guardi iddio
Che dai De Nemicis mi guardo io».
Il Selvaggio aveva compiuto ormai il suo lunghissimo ciclo, passando dalla impertinenza iniziale ad una più matura riflessione, ma, da ogni suo periodo, era riuscito a trarre un intelligente vigore per le sue battaglie, che, tra tolleranza e censura, difendevano l’autonomia dell’arte ed il diritto dell’attività culturale e quello di ridere della politica, fatto quest’ultimo che costò alla rivista numerosi casi di sequestro.
Nei suoi circa 250 numeri, Il Selvaggio, da zotico organo di una rivolta antiborghese di spirito fascista, nato come foglio politico a sostegno dello squadrismo, era diventato progressivamente un luogo d’incontro svincolato dagli umori della politica e, privilegiando successivamente gli argomenti ed i dibattiti letterari e artistici, era diventato sostenitore del nazionalismo italico e rurale, che animò la corrente Strapaese e di una certa mitologia picaresca del Fascismo, non dispensando attacchi né contro i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Croce, né contro l’antisemitismo di Ardengo Soffici e polemizzando contro i redattori di Solaria. Ma la sua lunga storia non fu fatta solo dalla battaglia politica ed etica, sebbene nel periodo di Colle Val d’Elsa questi due aspetti fossero preponderanti: negli anni trenta Il Selvaggio diventò una rivista di notevole spessore artistico e letterario e, per questo suo orientamento, tralasciò i protagonisti dell’arte di Stato come Oppo, Marinetti ed Ojetti e puntò su veri artisti, anche se poco graditi al regime o addirittura sconosciuti. Le annate del giornale sono pagine piene di brio, di genialità, di irriverenza scanzonata, con una grafica superba, battute, caricature ed incisioni d’autore. Sui suoi fogli collaborarono infatti scrittori ed artisti di grande animo e talento: in questo periodo Maccari individuò gli ingegni nascenti, gli albeggianti, sia nell’arte sia nella letteratura, quando la rivista aprì le porte a pittori come: Orfeo Tamburi, Luigi Bartolini, Mario Mafai, Luigi Spazzapan, Ottone Rosai, Achille Lega, Giorgio Morandi, Carlo Carrà, Pio Semeghini, Medardo Rosso, Quinto Martini, Renato Guttuso, Italo Cremona, Orfeo Tamburi, a scrittori come Enrico Pea, Piero Bargellini, Vitaliano Brancati, Vincenzo Cardarelli, Guglielmo Petroni, Berto Ricci, Aldo Buzzi, Eugenio Montale, Ardengo Soffici, Fernando Agnoletti, Leo Longanesi, Arrigo Benedetti, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Mario Tobino, Curzio Malaparte, Giuseppe Prezzolini, Giuseppe Ungaretti, Elsa Morante ed al colligiano Romano Bilenchi, ad intellettuali come Camillo Pellizzi, e oltre ad intellettuali aderenti a La ronda ed a L’Italiano.
Qualcuno ha voluto vedere ne Il Selvaggio la testimonianza di uno spirito di fronda all’interno del Fascismo, che aveva ormai disatteso ogni promessa rivoluzionaria, ma non fu così: tranne che nella tagliente satira di costume degli scritti e dei disegni di Maccari, l’estremismo militante, più apparente che sostanziale, de Il Selvaggio restò sempre entro i limiti di un utopistico ed innocuo dissenso politico.
Maccari fu fascista convinto e, per motivi di coerenza, non osteggiò mai il Fascismo, sotto il profilo politico, proclamando se stesso ed i selvaggi nati nel Fascismo e dal Fascismo e se Il Selvaggio durò vent’anni fu perché non mise mai in dubbio i cardini fondamentali del Fascismo, non ne discusse mai le scelte politiche ed economiche. Il Selvaggio si sentì sempre difensore della rivoluzione ossia custode della carica rivoluzionaria antiliberale, tipica del primo Fascismo e fu sempre contrario ad ogni istanza normalizzatrice, contro ogni inserimento del vecchio regime, contro ogni tentativo di trasformare il movimento in blocco d’ordine, contrario allo spegnersi dello slancio iniziale in un ristagno di conformismo e di malcostume, sia sul piano politico sia su quello dell’arte e del costume. La devozione di Maccari a Mussolini, “il più salvatico degli italiani” fu sempre totale: egli non aveva tradito la rivoluzione, l’avevano tradita gli uomini che gli stavano accanto ed il malcostume connaturato nei palazzi del potere. L’incrollabile fede in Mussolini, il suo talvolta ingenuo e fiducioso affidarsi all’intervento demiurgico di Mussolini, non si indebolirono mai nelle pagine della rivista, che spesso finiva per prendere alla lettera gli slogan propagandistici di Mussolini.
La sua critica fu volta a colpire aspetti ed uomini del Fascismo, ma non mise mai in discussione il Fascismo, di cui aveva abbracciato in pieno la causa fin dall’origine, fu piuttosto il Fascismo, divenuto regime, che tradì Maccari, che si oppose tenacemente al malcostume conformista del regime, al servilismo, alla demagogia, per non parlare della critica costante alla minaccia tedesca ed al razzismo. Quando si cercò di scimmiottare certe risibili tesi razziste giunte dal Germania,Il Selvaggio assunse una posizione di rottura, e lo stesso Telesio Interlandi fu ampiamente ridicolizzato da Maccari con una serie interminabile di battute, al punto che gli fu dedicata una quarta di copertina con la didascalia:
«A Telesio Interlandi
Or ciascun si raccomandi
presentando com’è logico
l’albero genealogico».
Questo antirazzismo controcorrente, è stato riconosciuto a Maccari dalla stessa critica antifascista, che pure aveva denunciato «la ben più grave adesione alle squadracce delle cui prodezze il nostro fu spesso appassionato protagonista».
Quando a Bologna nel Novembre del 1924, Maccari conobbe Leo Longanesi, i due nani animatori di Strapaese si incontrarono ed un anno dopo Leo Longanesi era a Colle di Val d’Elsa, per tracciare i piani dei due giornali Il Selvaggio e L’Italiano, che uscì a Bologna il 14 gennaio 1926. Longanesi rievocò con queste parole la visita fatta a Colle: «Sono trascorsi tre mesi dalla notte che venni su a Colle a trovarti, ricordi? Parlammo degli odi e dei amori dei nostri Ras, dei soliti maiali che ognuno di noi si trova sempre fra i piedi, della pittura di Ardengo, della rivoluzione, del Mussolini e della famiglia de Medici che forse ci avrebbero valorizzati (...). Dalla famiglia de’Medici passammo alla rivoluzione francese, e lì fatta una sosta ideale, costruimmo castelli in aria illudendoci di essere due capoccia in stivaloni, berretto frigio e sciarpa nazionale».
Il Selvaggio fu un fervido laboratorio di Strapaese, una delle creazioni più originali di Maccari, un movimento di idee e di costume, che identificava i più autentici valori della cultura nazionale nelle radici rurali: in questo modo era costruito il mito dell’italiano vero, dalla genuina e rozza brutalità, in polemica con i modelli della civiltà borghese ed urbana e soprattutto con i tentativi di sprovincializzazione della cultura letteraria ed artistica italiana, proposti in quegli stessi anni da analoghe riviste come Il Baretti e soprattutto come 900, di cui contestava il modernismo stracittadino allora imperante.
Maccari come Leo Longanesi, suo grande amico e collaboratore, è sostanzialmente un goliardo strafottente e Strapaese, la tendenza che si opponeva a quegli intellettuali che cercavano un rapporto con le avanguardie europee e che si atteggiava a popolaresco ed a plebeo, a spregiatore di ogni moda e di ogni corrente che venisse d’oltre confine, fu creata dai selvaggi ed Il Selvaggio ne fu l’organo. Ma sebbene Maccari ed suoi amici esprimessero un pensiero intellettualmente raffinato perchè trovava punti di riferimento in artisti sofisticati, fuori del coro, come Papini e Rosai, sulle radici della toscanità ironica e trasgressiva, mantennero deliberatamente nella rivista la vena selvaggia, attraverso detti, motti, articoli e pagine, incise di straordinaria espressione ed ancora oggi attuali.
Intonando l’inno di Strapaese, metafora della provincia sana, incorrotta e rabbiosa
«Strapaese non muta bandiera
Il nostro ponte è un ponte di testa
Strapaese non teme tempesta
Soffia il vento, bubbola il tuono
Noi aspettiamo il momento buono»,
Maccari ed i selvaggi si battevano dunque in difesa di Mussolini e del Fascismo duro nei tempi bui del delitto Matteotti, sfidando gli oppositori e i fascisti pavidi e tiepidi.
Sul numero del 30 giugno 1926, Maccari scrive: «Qui o signori, incomincia la storia di Strapaese, di uno strano luogo un poco più giù di Firenze, un poco più su di Siena, dove il sindaco veste di fustagno, non c’è la tassa sui cani e non ci sono orinatoi, perchè la gente piscia al muro(...) (...)dove si fa e non si dice(...) (...)dove i moccoloni ruzzano e le donne son sempre gravide (...) situato (...) un po’ più giù di Firenze un po’ più su di Siena (...)»
Maccari descrive raffinatamente, nel corso dei successivi numeri, usi e costumi, leggi e dicerie, al punto che sembra quasi di vederlo, questo strano posto, questo luogo ideale e fucina dei valori legati alla vita semplice, schietta ed agreste: Maccari non dice esplicitamente Colle Val d’Elsa, ma il riferimento era piuttosto evidente. La fictio di Strapaese servì a Maccari per raffigurare un paese a cui si accede solo dopo essersi liberati dai fardelli (tale e tanta è la fatica per arrivarci), per essere così in grado di dare attualità alla tradizione. Un’attualità ben affermata nella lunga disputa politica, artistica e di costume che vide impegnati gli ideatori di Strapaese contro coloro ritenuti responsabili dell’anima di Stracittà, che rappresentava il nuovo, l’America ed il liberalismo.
Strapaese è un Novecento del tutto privo della retorica del regime, uno spazio intellettuale, una comunità di spiriti, che si batteva per un’identità dell’arte capace di unire la misura di una «moderna classicità italiana» al culto delle radici, che attaccava la retorica, l’ufficialità littoria, i compromessi, che se la prendeva con i funzionari di partito, con borghesi, con i moderati, con la destra conservatrice, che cercava di normalizzare Mussolini, con i clericali, con i massoni, con i gerarchi impataccati, con la Roma ministeriale e maneggiona, che tutto voleva corrompere, che trasformava in icona politico-culturale la cultura contadina toscana, con campi, colli, casolari, cipressi, campanili come bandiere di battaglia.
Naturalmente non è un fatto letterario fine a se stesso: la campagna culturale di Strapaese e de Il Selvaggio aveva risvolti politici e mirava ad esaltare la forza rinnovatrice del Fascismo, proprio nella sua riscoperta delle antiche virtù italiche e latine.
Nessuno potè considerarsi immune dall’aggressività strapaesana. Nemmeno uomini come Gentile e Evola, Spirito e Chiurlo, Pende e De Stefani, Volpe e Ansaldo furono risparmiati dalle raffiche antimoderniste dei “selvaggi”. Nessuna istituzione di regime, per quanto intoccabile, fu considerata “città aperta”:
«che seccatura
l’istituto fascista di cultura».
Il suo ruralismo, termine mai accostato ad un aspetto economico, ma sempre ad una coraggiosa difesa della campagna nei confronti della città, apparve su Il Selvaggio nel 1927, grazie alla rubrica cronache strapaesane, attraverso cui la rivista continuava a combattere la sua battaglia politica attraverso la satira, sebbene la battaglia avesse un carattere prevalentemente morale. In questo luogo ideale, Maccari esprimeva il profondo legame alla terra ed al paese, dove si ribadiva il carattere rurale e paesano della gente italiana, che discendeva dagli antichi romani che sapevano usare con la stessa destrezza la spada e l’aratro. Strapaese rappresenta l’espressione più genuina e più schietta della razza italica.
Orco Bisorco è lo pseudonimo che Maccari usa quando si parla di Strapaese, perché riesce a sottrarsi da Stracittà, simbolo di tutto ciò che mira ad inquinare le tradizioni del mondo rurale, su cui si deve fondare l’Italia, è tutto ciò che antepone l’effimero alla sostanza, la finzione alla realtà, la corruzione all’onestà, la sincerità all’inganno: «L’America – emblema di Stracittà – è entrata nel vecchio pollaio europeo ed ha introdotto fra noi tutto il modo di intendere la vita, di vestire, di muoversi, di darsi la mano, di lavorare, di divertirsi. L’America ha comprato dall’Europa le opere d’arte e le ha venduto la schiuma da barba».
Quando Federico Agnolotti dice che quel ruscello che Dante chiamava Arno, in un anno qualunque della vita d’Italia, ha specchiato più gloria di tutto il Mississipi da due secoli a questa parte non fa retorica, ma mostra l’orgoglio dell’appartenenza ad una magnifica civiltà di cui hanno fatto parte Dante, Petrarca, Boccaccio, Michelangelo, Leonardo, Machiavelli, civiltà da cui i selvaggi prendono spunto per un rinascimento dei costumi che restituisca giusta dignità morale.
Anche riguardo al problema del lavoro Maccari oppone la visione italiana, umanista a quella americana meccanicista. L’uomo conta molto di più del calcolo freddo, della produzione massima, del taylorismo, l’uomo avrà sempre un valore superiore alla macchina. Per gli strapaesani a Stracittà invece abbondano le attrazioni che prendono con l’inganno i contadini più deboli, che si spostano verso le città e che non resistono all’aria malsana e si intisichiscono per questo è necessario difendersi da questo urbanesimo, combattendo le abitudini che la cultura anglosassone impone. Da queste correnti pericolose della civiltà contemporanea dovranno guardarsi soprattutto i giovani, che hanno invece bisogno di modelli culturali ben più radicati e sani soprattutto più sani e veri.
«Gente che ha messo al mondo dei bei figlioloni – scrive Maccari, descrivendo il profilo del perfetto strapaesano – e mangia accanto alla cucina, beve vino pretto, va a vedere il bruscello e balla il trescone». Questa visione può apparire angusta, ma: «amare la terra ed il paese – precisa Maccari – custodire le tradizioni non significa impoltrirsi e impiccinirsi entro insormontabili confini, ma trovare, gustare e selezionare gli elementi di cui necessariamente si compone la nostra personalità, per portarli con le opere ad una vita attuale…dare quindi alle cose che si fanno il sapore di tutta una storia e di tutta una civiltà. Strapaese ama l’Italia popolana e rurale perché è restia all’influenza di una civiltà dove non si riconosce: l’America scende a suon di dollari, cogli idoli negri, il cocktail, il jazz e il luccichio abbagliante di una civiltà tutta spuma e niente terra, tutta macchina e niente cuore».
Maccari evidenzia il suo interesse per i borghi, che gli apparivano i luoghi ideali di una vita concentrata e austera, meno nervosa e meno ossessionata di quelle proposte negli anni Trenta in conformità a mal interpretati modelli di modernità.
La proposta di Strapaese è vera e sentita e, come nella battaglia politica, Maccari non scende ad accordi con i normalizzatori così nella battaglia etica disprezza profondamente qualsiasi compromesso con una civiltà nociva e pericolosa. «Mai addomesticarsi ammonisce» ed Orco Biforco, paragonando il selvatico cinghiale all’addomesticato porco, si esprime:
«La macchia è la mia patria e qui selvatico
Vivo con la cinghiala e i cinghialini
Qui trovo amore, pane e companatico
Alla città vo in tasca e ai cittadini
Odio il porco, nemico osceno e vile
Che da selvaggio s’addomesticò
Lasciò le zanne pel brago e il porcile
E per finir prosciutto s’ingrassò»
E quando Orco Bisorco muore Maccari lo saluta così:
«Qui giace Orco Bisorco
Che morì da cinghiale.
Per non diventar porco».
Massimo Capuozzo
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