mercoledì 7 aprile 2010

Henryk Sienkiewicz e Quo vadis? di Massimo Capuozzo

Quo vadis?, opera letteraria dello scrittore polacco Henryk Sienkiewicz, è un romanzo storico, pubblicato prima a puntate nel 1894 sulla Gazzetta Polacca e quindi raccolto in un unico volume nel 1896, portò a livello internazionale la fama dell'autore, che per questo romanzo divenne premio Nobel per la letteratura nel 1905.
Romanzo storico di alto grado di storicità, narra la storia d'amore contrastato e impossibile fra Licia, una cristiana, e Marco Vinicio, patrizio romano. sullo sfondo della Roma imperiale, soffocata dalla tirannide di Nerone. Il loro amore è solcato dalle differenze ideologiche che dividono i loro mondi: quello pagano, nel suo massimo splendore di gloria e nella sua massima decadenza morale, e quello dei cristiani delle catacombe, impregnato di preghiera e amore fraterno. La loro storia affonda dunque in quella serie di avvenimenti storici che condurranno al Grande incendio di Roma del 64 e, di conseguenza, alla successiva persecuzione anti-cristiana.
Nel 1996 in Polonia, è stato festeggiato l’Anno di Sienkiewicz, per ricordare ed avvicinare la figura ed il retaggio lasciato dall’autore "affinché i Polacchi si facciano animo". Ogni polacco conosce il nome di Henryk Sienkiewicz e lo associa subito al più grande creatore della prosa polacca e mondiale, autore dei romanzi storici compresi nel ciclo detto "La Trilogia", che ritrae il quadro della vita e degli eventi storici nella Polonia del Seicento, di "Cavalieri Teutonici", di "Giovanni il Suonatore" e di "Bartek il Vincitore" di "I Poaniecki" e soprattutto di "Quo vadis?", il romanzo ambientato all’epoca di Nerone, una suggestiva visione del crollo dell’impero romano.
Questo romanzo si aggiudicò nel 1905 il premio Nobel e con questo romanzo Sienkiewicz si fece conoscere dai posteri.
Henryk Sienkiewicz nacque in Polonia nel 1846: per lui la casa nativa era il luogo dove conoscere i veri fatti dalla propria stirpe e della patria. Qui riceveva la lezione della storia del perenne combattimento della Polonia contro i Germani, Tartari, Cavalieri Teutonici, Svedesi, Russi o Prussiani per conservare la propria indipendenza, libertà ed esistenza nazionale.
Nel 1866, Sienkiewicz dette l’esame di maturità e dovette scegliere l’indirizzo di studi superiori. Dapprima si iscrisse al dipartimento di giurisprudenza, in seguito di medicina, ma si laureò alla facoltà di lettere. Sienkiewicz esordì come recensore nelle riviste quali "La Rassegna Settimanale" e "Il Settimanale Illustrato", diventando poco dopo anche un noto articolista della "Gazzetta Polacca" e de "Il Tempo", dove usava i suoi articoli con lo pseudonimo "Litwos".
Dopo il primo romanzo "Invano", Sienkiewicz cominciò a pubblicare a puntate la storia dei protagonisti della sua "Trilogia" fonte di e speranza di indipendenza e liberazione dalla schiavitù nazionale.
Nella sua vita, Sienkiewicz viaggiò moltissimo: visse e fece molti viaggi in Russia, Germania, Francia, Svizzera, Grecia, Turchia, Egitto, Indie e Stati Uniti, ma il paese dove ritornava più spesso e con maggior piacere era l’Italia: nel racconto intitolato "Le chiare sponde" il cui protagonista dice: "E come si potrebbe non amare Italia? (…) Io credo che ogni uomo abbia due patrie; l’una è la sua personale, più vicina, e l’altra: Italia".
L’Italia diede lo spunto e ispirò lo scrittore a scrivere "Quo vadis?": in occasione delle sue numerose permanenze a Roma, Henryk Sienkiewicz visitava spesso e con molto scrupolo il Foro Romano. Poco prima di iniziare la stesura di "Quo vadis?", nella primavera del 1893, gli faceva da guida il pittore polacco Henryk Siemiradzki (1843 – 1902), che condusse Henryk Sienkiewicz attraverso la Via Appia Antica dove, secondo la tradizione storica, Cristo avrebbe incontrato Pietro in fuga da Roma e risposto al quesito "Domine, quo vadis?". Fu allora – ricordò anni dopo lo scrittore – "che mi venne l’idea di scrivere un romanzo ambientato in quell’epoca, e per approfondire la storia e il clima della Roma dell’epoca, ripercorrevo la città sul Tevere con Tacito in mano".
Quo vadis? è in un certo senso ispirata dalla situazione politica in Polonia contemporanea a Sienkiewicz. Nel primo Novecento,"Quo vadis?" batteva oramai record di popolarità e batté i record mondiali del numero di traduzione fu compiuto in meno di tre anni. Il 18 febbraio 1896, a Nizza, Henryk Sienkiewicz scrisse le ultime parole di "Quo vadis?". «"E così trapassò Nerone, come passa il vento e la tempesta, fuoco, guerra o gelo, e la basilica di San Pietro domina fin allora dalla vette del Vaticano, sulla città e sul mondo».
Apparso per la prima volta tra il 1894 e il 1896, questo romanzo rimasto memorabile per l'abilità dell'intreccio e la suggestione della sua minuziosa ricostruzione storica, impose immediatamente all'attenzione di tutto il mondo il nome di Sienkiewicz.
Il romanzo è, in apparenza, la storia di un amore contrastato tra il nobile patrizio Marco Vinicio e la schiava cristiana Licia, figlia di un re straniero, affidata ad una famiglia cristiana: essi vivono a Roma durante l'impero di Nerone, ma la sofferenza cristiana, le spietate regole della città imperiale, sono lo sfondo del romanzo.
A Petronio, viene a far visita il nipote Marco Vinicio, figlio di sua sorella. Marco spiega il motivo per cui è venuto a chiedere aiuto allo zio: di ritorno da una campagna contro i Parti, è stato costretto a fermarsi lungo la via per essersi slogato un braccio; assistito dall'ex tribuno Aulo Plauzio è ospitato in casa sua dove ha conosciuto Callina e se ne è innamorato. Essendo reso timido dal suo amore per lei, chiede ora allo zio Petronio di aiutarlo.
Petronio e Vinicio, si dirigono in lettiga verso la villa di Aulo Plauzio. Giunti in casa del vecchio tribuno, mentre i due patrizi discutono con Pomponia Grecina, fa la sua prima apparizione la giovane Licia. Vinicio passeggia con lei cercando, di mostrarle il suo amore.
L'enigmatica frase di Pomponia "Io credo in Dio unico, giusto e onnipotente" in risposta alla domanda sugli dei di Petronio, suscita in lui un sarcastico commento. Marco non vuole più attendere, ama Licia ed è disposto a tutto pur di averla. Giunti in casa di Crisotemide, questi ha un colpo di genio: presto Licia sarà in casa di Marco. Il giorno dopo, infatti, il centurione Hasta bussa alla porta di Aulo Plauzio, con l’ordine imperiale di portare via Licia, la quale è proprietà di Cesare. Ursus chiede di poterla seguire al palazzo imperiale, per difenderla dagli abusi, che certamente subirà. Pomponia, spedisce una lettera ad Atte, che ella conosce quale simpatizzante del cristianesimo, che ella, Licia ed Ursus professano.
Plauzio, avendo capito che la causa di questa macchinazione è Petronio, si reca al Palatino, per chiederne la restituzione.
Plauzio raggiunge il palazzo di Seneca, chiedendo al filosofo di difendere la sua causa, ma Seneca non può far nulla, essendo ormai inviso a Nerone, se non lamentarsi con Petronio per il turpe gesto, di certo poco degno d'un arbiter elegantiarum. Plauzio, recatosi presso Marco Vinicio lo rimprovera aspramente per avergli portato via Licia, ma il giovane, ignaro del piano dello zio, corre furibondo al suo palazzo. Plauzio crede di averla vinta, ma a sera gli giunge un messaggio da parte di Vinicio: Cesare ha voluto che la giovane fosse condotta al suo palazzo, la sua volontà è legge.
Marco Vinicio raggiunge furioso lo zio, cerca di fargli del male, ma questi sa difendersi con forza. Il giovane era convinto che Petronio avesse fatto rapire Licia perché attratto da lei o per farne dono a Nerone, questi si discolpa e gli spiega la legge secondo la quale un ostaggio imperiale è proprietà dell'imperatore e questi può farne uso, quando meglio vuole.
Non potendo negare nulla al suo fidato amico, Nerone ha concesso a Petronio di portar via la fanciulla dalla casa di Plauzio e condurla, qualche giorno dopo, in casa di Vinicio. Il giovane tribuno scrive la lettera sopraccitata, ad Aulo Plauzio.
Licia è affidata alle cure di Atte, che subito si affeziona a lei per i suoi modi gentili. Gli schiavi preparano un sontuoso banchetto per la sera e Licia dovrà parteciparvi. Sebbene la giovane non voglia mescolarsi ai corrotti cortigiani di Nerone ne è costretta per non attirarsi subito l'ira di Cesare. Al banchetto saranno presenti Petronio e Marco Vinicio: a loro Licia potrà chiedere di intercedere affinché la riconducano a casa. A sera giungono in massa i cortigiani, i clientes e i servitori dei nobili patrizi, raggiunti poco dopo dallo stesso Nerone e da Poppea. Licia siede al fianco di Marco Vinicio, ma questi cerca di farle del male, la giovane spaventata dal patrizio e dalle orge che in quel momento si svolgono al banchetto cerca invano di fuggire. In suo aiuto accorre Ursus, che scaraventa lontano Vinicio e porta via la sua padrona da quel lupanare. Marco non riesce a fermarla.
Fuggiti fuori, Licia e Ursus, decidono di tornare nella loro terra natia, in tal modo la giovane si salverà dai soprusi di Vinicio e lascerà incolumi Aulo e Pomponia. Ursus decide dunque di recarsi dal vescovo di Roma, Lino, e chiedere l'aiuto d'un drappello di cristiani che libereranno Licia, quando questa sarà condotto in casa di Vinicio.
Nonostante sia anch'ella innamorata di Vinicio, Licia è stata delusa da lui e non vuole che egli la sposi. Atte cerca di farla ragionare, ma ella è risoluta e non cede. In quel momento esse sono raggiunte dall'imperatrice Poppea. Sbalordita per la bellezza della giovane cristiana, la sovrana teme che Nerone l'abbia presa a palazzo per sostituire lei. Venuta a sapere che Licia dovrà essere consegnata al giovane Vinicio, va via trionfante, lasciando inascoltate le preghiere della fanciulla. Al tramonto un gruppo di schiavi di Vinicio, guidati dal liberto Atacino, si recano a palazzo per prendere Licia. Mentre Vinicio attende l'arrivo dell'amata fanciulla, Petronio e l'amante Crisotemide ridono per la sua fretta. Per strada la lettiga di Licia è assaltata da un gruppo di cristiani ed è salvata da Ursus. Tornati a casa, gli schiavi di Vinicio chiedono perdono al padrone che, li condanna alla flagellazione e alla prigionia.
Il mattino dopo Marco, credendo che sia stato Cesare a rapire Licia, si reca al palazzo imperiale e chiede sue notizie ad Atte, questa assicura che Nerone non è uscito la sera prima, perché era al capezzale della piccola Augusta moribonda e gli dice che sarebbe meglio per Licia che non si scopra dove sia, poiché Poppea crede che la giovane abbia stregato la figlia, che adesso rischia la vita. Se la principessa sopravvive, tutti riterranno infondata tale ipotesi, ma se la neonata muore allora l'imperatrice cercherà Licia, per ucciderla. Marco certo che né Nerone né Pomponia sono colpevoli del rapimento, si allontana dal palazzo imperiale dove trova Petronio che ha ordinato ai suoi servitori di sorvegliare tutte le porte della città.
Vinicio e Petronio ipotizzano che la fanciulla sia stata rapita dai suoi correligionari: Pomponia tempo prima era stata accusata di essere una cristiana, parecchi schiavi abbracciavano quella fede. Per distrarre il giovane nipote, Petronio lo invita ad unirsi ad una delle sue schiave, Eunice. Vinicio rifiuta la proposta ed esce fuori alla ricerca di Licia, Petronio ordina che la schiava sia condotta in casa del nipote, questa chiede implorante di rimanere con lui. Dopo averla punita l'atriense ricorda al padrone che un giorno Eunice gli aveva parlato d'un tale capace di trovare chiunque e dovunque, che sarebbe riuscito a trovare, Licia.
Il tale è subito convocato, il suo nome è Chilone Chilonide. Conosce già tutto ciò che riguarda Licia e Vinicio, con un buon prezzo la troverà in poco tempo. Unico indizio datogli da Vinicio è il simbolo d'un pesce. Corso in una locanda della Suburra, comincia subito a chiedere informazioni.
Grandi e solenni celebrazioni accompagnano le esequie della principessa Augusta, Nerone ne piange la perdita. L'imperatore, al vedere Petronio, lo maledice perché, secondo sua moglie, era stata Licia ad ucciderla. Il cinico patrizio usa subito la sua arte oratoria, per cancellare dalla sua mente quel pericoloso sospetto; per distrarsi gli consiglia di fare un viaggio in Grecia, dove potrà dare sfogo alla sua arte poetica. Qualche giorno dopo Chilone torna da Vinicio e gli comunica di aver trovato il significato del simbolo del pesce: le prime lettere della parola greca Icthùs non sono altro che le iniziali delle parole Iesoùs Christòs Theoù Uiòs Sotèr, ciò dimostra che la fanciulla è una cristiana e che i suoi correligionari sono complici della sua fuga. Per l'occasione Chilone ha ingannato un gruppo di cristiani, facendo credere di essere un loro presbitero, presto troverà Licia.
Petronio invia una lettera al nipote, spiegando come la corte imperiale passa le giornate ad Azio. Vinicio risponde commentando le notizie ricevute da Chilone: Licia è a Roma e presto sarà con gli altri cristiani ad una riunione nella quale predicherà il famoso Pescatore, uno degli apostoli di Gesù.
Chilone raggiunge Vinicio e gli rivela che fra i cristiani vi è un certo Glauco, il quale l'ha tradito, vendendo sua moglie e i suoi figli, ora lo cerca anche lui per ucciderlo. Il millantatore chiede aiuto al giovane patrizio, che gli offre del denaro per trovare sicari ed uccidere il pericoloso Glauco: in realtà non è Glauco ad aver venduto i figli e la moglie di Chilone, ma viceversa; questi era convinto di averlo ucciso e adesso non sa cosa fare per difendersi, se il vecchio amico lo trova senza dubbio lo avrebbe ucciso per vendetta.
Messosi alla ricerca d'un cristiano che lo aiuti nel suo intento di eliminarlo incontra un tale Urbano, lavorante al mulino. Questi è il nome cristiano di Ursus, Chilone gli fa credere che Glauco sia un traditore, che vuole condannare i suoi correligionari, consegnare Licia a Marco Vinicio. Ursus inizialmente non vuole ascoltarlo, ma alla fine cede e promette che eliminerà il traditore, Chilone gli assicura che il vescovo Lino e il Grande apostolo lo perdoneranno.
Sembrerebbe il trionfo del vizio sulla virtù: sennonché, seguendo la ragazza, Marco entra in contatto con la comunità cristiana che si riunisce nelle catacombe guidata dall’apostolo Pietro e, colpito dalla loro capacità di perdonare i malvagi e di non rispondere al male con il male, Vinicio subisce il fascino di questa religione per lui ignota e rinuncia ai suoi propositi ed in seguito finisce per convertirsi a sua volta al Cristianesimo.
Ma sta per accadere il peggio: scoppia il Grande incendio di Roma, del quale sono incolpati i cristiani e Nerone ne ordina allora la persecuzione, ed essi sono catturati e massacrati nei più vari modi nel circo Massimo, contro fiere e gladiatori, crocifissi o bruciati), per il divertimento e il sollazzo del popolo.
L'apostolo Pietro, per sfuggire alle persecuzioni contro i cristiani, tenta di fuggire da Roma, ma gli appare Gesù che cammina nella direzione opposta. Stupito gli chiede: "Quo vadis, Domine?", "Dove vai, o Signore?". E Gesù gli risponde che va a farsi crocifiggere un'altra volta, visto che i suoi fedeli lo abbandonano.
Pietro capisce l'altissima lezione, torna sui suoi passi e subisce il martirio ed è crocefisso a testa in giù.
Proprio Licia compare sull'arena, legata al dorso di un bufalo selvaggio.
E' una scena grandiosa, poi riprodotta in innumerevoli quadri e film: il fortissimo Ursus afferra la bestia per le corna, la blocca, la schianta al suolo.
La folla, colpita dall'incredibile spettacolo, chiede che la fanciulla e il suo salvatore siano liberati.
Licia è spinta nell’arena legata per essere uccisa da un toro inferocito, ma è salvata dal fortissimo schiavo Ursus, che ingaggia una furibonda lotta con l’animale e lo abbatte spezzandogli le corna a mani nude.
Il pubblico, entusiasmato dallo spettacolo, chiede e ottiene la grazia per Ursus e per Licia Nerone è costretto a consentire: Vinicio e Licia possono finalmente unirsi in matrimonio, che con Vinicio lascia Roma e si mette in salvo, ma del resto, sono, gli ultimi giorni del suo regno perché dopo poco il folle imperatore è detronizzato e ucciso.
Una passione drammatica e tormentata su cui la storia rovescia tutta la folle ferocia della prima grande persecuzione contro i fedeli del nuovo culto.
L’intero romanzo è un trionfo del cristianesimo, come solo un autore polacco poteva concepire: il finale con la basilica di San Pietro che domina ancora il mondo grazie al sangue dei martiri.
Protagonisti della vicenda, il nobile patrizio Marco Vinicio e la schiava cristiana Licia. Non è da sottovalutare il fatto che Licia è la figlia del re dei Lici, popolazione da cui Sienkiewicz fa discendere i polacchi: Licia è il personaggio positivo, da prendere a modello, pura nel suo candore virginale e nella sua devozione spontanea, capace di trascinare alla fede l’uomo che ama, ma non aliena ai desideri della carne, che ella per prima prova durante il banchetto alla corte di Nerone.
Protagonista oscuro dell’intera vicenda, colui che si erge maleficamente sopra di tutto e cui è dedicata la conclusione, lo sciagurato Nerone, e di riflesso il suo braccio destro, lo sciagurato Tigellino, prefetto del pretorio, matricida, uxoricida, pervaso di ogni possibile vizio, cialtronesco nella sua ostentazione delle virtù poetiche e teatrali, quasi ridotto al rango di buffone.
Suo contraltare un personaggio enigmatico, Petronio, l’arbiter elegantiarum che la tradizione vuole autore del Satyricon: un filosofo gaudente, dedito al piacere e alla dissimulazione dei vizi, pigro ma integro, che paga di persona la sua indolenza pavida, ma in grado però di mantenere tutto il rigore della classe aristocratica romana contro lo sfacelo provocato da un tiranno decadente.
Quello che stupisce di questo romanzo è comunque la descrizione della Roma dei Cesari, con la sua nomenclatura, con la sua toponomastica e con i suoi riti, l’atmosfera di cui l’autore riesce a pervadere la sua narrazione, rendendo il tutto vivo e accattivante al tempo stesso.
È lampante che Sienkiewicz si sia basato sulla storiografia romana per la costruzione dei personaggi e sul Nuovo Testamento per la predicazione apostolica, ma lo scrittore ha una grande intuizione: che la società romana, eminentemente pagana, fosse basata sul concetto spietato del “mors tua, vita mea”, e che i romani fossero profondamente superstiziosi.
Nella Roma decadente e crudele dell'epoca di Nerone, agisce un universo di personaggi che ruotano intorno alla storia dell’amore difficile e contrastato di Marco Vinicio, giovane tribuno, intraprendente, coraggioso, l'emblema del romano per eccellenza, dedito alla guerra e poco avvezzo alle arti che innamora di Licia e cerca in tutti i modi di poterla avere al proprio fianco.
Licia è una principessa di stirpe reale, figlia del re dei Lici, di indescrivibile bellezza bella come l'aurora, anch’ella ama Marco, ma non potrebbe vivere con un pagano perché tutta la sua vita, tutti i suoi pensieri sono ispirati all'insegnamento cristiano ed anche quando Marco resta ferito, la giovane lo cura con passione, ma respinge le sue offerte. Solo quando il suo innamorato si fa cristiano, Licia si abbandona alla pienezza dei sentimenti. Nel romanzo la sua figura non è approfondita e finisce con l'assomigliare ad altre eroine del medesimo stampo: più che un personaggio Licia è l'emblema della purezza del messaggio cristiano, una giovane timida e candida, sensibile, amorevole, forte nella sua fede.
Nerone, imperatore di Roma, svolge nel romanzo il ruolo di antagonista. Appare spietato, sanguinario, brutale, incarna in sé la decadenza morale della Roma di cui è signore: Nerone si crede un dio, un genio, un poeta migliore di Omero, è odiato dai suoi sudditi, ma riesce facilmente a corromperli con larghi donativi. Ama viaggiare per dar sfogo al suo fuoco d'artista. Fa incendiare Roma per ricostruirla con nuovo splendore e accusa i cristiani del suo crimine. Perde però il controllo della situazione e sfoga la sua rabbia emettendo sentenze di morte. Oggi alcuni studiosi stanno cercando di riabilitare, almeno in parte, questo imperatore rimasto nella storia come un pazzo criminale, che si esibiva come mediocre artista e suonava la lira mentre Roma era divorata dall'incendio. Sono stati soprattutto Tacito e Svetonio a costruire questa fama, che nel Quo vadis? in realtà appare più sfumata. Per Sienkiewicz, Nerone sarebbe migliore della sua leggenda, ed avrebbe il torto di farsi influenzare da consiglieri come la dissoluta e perversa moglie Poppea, o come Tigellino, prefetto del pretorio, e dallo scettico Petronio.
Ursus svolge la funzione di aiutante egli infatti è la guardia del corpo ed il servitore fedele di Licia. Dalla forza prodigiosa è un gigante in grado di uccidere qualunque uomo a mani nude, ha comunque il cuore puro d'un bambino, ingenuo e buono, protegge colei che ancora onora come sua principessa. Ursus impersona la forza, la fedeltà: se ha dei pensieri, questi rimangono nascosti dietro la sua fronte taurina. L'unico dato sempre presente è che lo schiavo, insieme mite e terribile, difende in ogni occasione la padrona che il destino gli ha assegnato: convertito al cristianesimo salva Licia dall'assalto di Marco Vinicio nel banchetto di Nerone, catturato anch’egli in seguito alle persecuzioni anticristiane, sostiene la padrona in cella, dove una grave febbre sta per ucciderla, nell’arena ingaggia una furibonda lotta con il toro ed infine lo abbatte spezzandogli le corna a mani nude. Alla fine del romanzo del romanzo Ursus si trasferisce con Marco e Licia in Sicilia Come Licia è tutta sentimento e fede, così Ursus è tutto muscoli ed azione.
L’attenzione dell’autore non è concentrata solo sui due protagonisti, ma su tutti i personaggi che animano il racconto.
Non passano inosservate, in questo romanzo di caratteri. Poppea Sabina: Imperatrice di Roma, seconda moglie di Nerone. Maligna e spregiudicata, ha in odio Licia poiché è convinta che sua figlia, la piccola Claudia Augusta, sia morta per causa sua. Tenta di sedurre Marco Vinicio nascosta dietro un velo, ma il giovane, non riconoscendola, fugge via inorridito. Convertita al giudaismo consiglia Nerone, in combutta con Tigellino, di perseguitare i cristiani. A lei chiede aiuto Petronio per salvare Licia, sfruttando la sua superstizione e muore durante un impeto d'ira del marito stesso.
Il cinismo e la grazia di Petronio, zio di Marco Vinicio. Aristocratico, raffinato nei gusti, scettico e cinico, molle e sempre annoiato, Petronio giudica tutto seguendo unicamente le leggi dell'estetica. È uno fra i maggiori cortigiani di Nerone. Si prende a cuore la questione del nipote e, dapprima, l'aiuta ad ottenere Licia, in seguito cerca il metodo migliore per fargliela dimenticare, quando ella fugge. Deciso ad usare ogni carta pur di salvare la sposa del nipote, Petronio perderà totalmente la sua influenza sull'imperatore, che lo condanna a morte. Prima però che giunga la sentenza, Petronio organizza un fastoso banchetto durante il quale si taglia le vene, l’arbiter elegantiae della corte di Nerone.
La lealtà di Eunice, schiava greca, di bellissimo aspetto. Ama il padrone Caio Petronio, ma questi, in un primo momento, non si accorge di lei, ma egli è colpito dal suo coraggio, quando questa si ribella a lui. Petronio si accorge così di lei e se ne innamora. Morirà con lui, quando questi preferirà uccidersi piuttosto che divenire divertimento per Nerone e Tigellino.
Al di sopra della plebe, dei cristiani, dei singoli personaggi del romanzo aleggia la figura di Nerone: il signore del mondo, il padrone della vita e della morte. L’imperatore di Roma, che dovrebbe fare le veci del grande burattinaio, che tiene le fila del racconto, altro non è che un commediante.
La satira che caratterizza l'intera narrazione si infittisce nella descrizione di quest’uomo bugiardo, arrogante e presuntuoso.
Particolare importanza è lo sfondo storico entro cui l’azione si svolge. L’autore realizza un’analisi precisa e dettagliata del mondo romano: dell’imperatore e della corte che lo circondava, del lusso in cui vivevano i patrizi, della religiosità dei primi cristiani, tutto collocato entro il quadro della prima persecuzione e dell’incendio di Roma. Argomenti noti a tutti, ma arricchiti dall’autore di un fascino senza pari.
L’opera si presenta, dunque, come un capolavoro realizzato grazie ad una singolare miscela di storia e fantasia, di realtà ed immaginazione.
A nove anni dalla conclusione del manoscritto, il 10 dicembre 1905, la Regia Accademia svedese di Stoccolma riconobbe a Sienkiewicz il premio Nobel per la letteratura. Nel ritirare il premio Nobel, pronunciò il discorso nella qualità di cittadino del paese che non esisteva sulla carta mondiale, eppure vivo.
Nel 1915, durante prima guerra mondiale, Sienkiewicz annunciò a Vevery in Svizzera "L’Appello ai popoli civili", esortandoli a soccorrere il Polonia, che era da 110 anni sotto la dominazione straniera.
Sienkiewicz morì il 15 novembre 1916 nell’hotel Du Lac nella città svizzera di Vevery, pronunciando le sue ultime parole: «Io non potrò più vedere il Polonia indipendente». Solo dopo il 1918, infatti, il Polonia divenne libera. Nell’autunno del 1924 le spoglie di Sienkiewicz, furono portate a Varsavia ed il 27 ottobre dello stesso anno, la bara con le spoglie dello scrittore fu deposta nel sottosuolo della Cattedrale di Varsavia. Il genio polacco raggiunse così la sua patria libera, avendo infine la risposta alla domanda "Quo vadis?".
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