Le reazioni al Romanticismo[1]: la Scapigliatura[2] ed il Verismo[3]
Presentazione
da La scapigliatura milanese di Cletto Arrighi[4]
Nell'introduzione, pubblicata nell'«Almanacco de il Pungolo» del 1857 (prima quindi della pubblicazione del romanzo) scrive: «In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui [...], fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni di ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo; indipendenti come l'aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti, i quali, e per certe contraddizioni fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire tra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere [...] meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre. Questa casta o classe [...], che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io con bella e pretta parola italiana, l'ho battezzata appunto: la Scapigliatura milanese»
Quando una parola nuova o sconosciuta risponde perfettamente ad un’idea, ad una condizione, ad un caso qualunque della vita sociale, che non si potrebbe esprimere altrimenti che con una perifrasi, la fortuna di questa parola dovrebbe essere certa.
In Francia succede infatti così. Ogni mese, si può dire, fa capolino un neologismo, e quantunque l’Accademia, gli faccia il viso dell’arme, esso viene accettato a braccia aperte dal buon senso popolare, ed entra di balzo nella lingua viva appena sia riconosciuto necessario o di buona lega.
Demi-monde? per dirne uno. Trovatemi, di grazia, demi-monde sul vocabolario.
Ma qui da noi gli è un altro pajo di maniche. Da noi, senza ripetere le solite fastidiose canzoni, ognun sa quanto sia pericoloso e difficile l’osare, e tanto più per uno scrittoruccio di primo pelo, come sono io.
Avvenne che, un bel giorno, dovendo pur trovare un titolo - oh! lettori, il titolo d’un libro! Dio vi tenga ben lontani dal cercare un titolo... finchè durano queste condizioni!! - mi trovai nella necessità, o di coniare un neologismo o di andar a pescare nel codice della lingua qualche parola vecchia che rendesse pressapoco il concetto del mio qualsiasi romanzo.
Prima dunque di osare, consultai sua maestà il Vocabolario, se mai nella sua infinita sapienza avesse saputo additarmi un mezzo di salvezza. Cerca e ricerca, finalmente trovai una parola acconcia al caso mio; perchè, s’ha un bel dire, ma la nostra lingua, per chi la vuol frugare un po’ a fondo, non manca proprio di nulla, e sa dar a un bisogno parole vecchie anche per idee nuove, nello stesso modo che i Francesi sanno fabbricar parole nuove per idee che hanno tanto di barba.
Però, in quella maniera che potrei star garante che scapigliatura non è una parola nuova, sarei in un bell’imbarazzo se volessi persuadervi che la è molto usata e conosciuta.
Infatti fra le tante persone a cui domandai che cosa intendessero per scapigliatura, parte inarcò le ciglia, come a dire: non l’ho mai sentita a menzionare, e parte mi rispose così a tentoni, chi: l’atto dello scapigliarsi, chi: una chioma arruffata, e chi, finalmente - e costui fu un letterato - una vita da debauchè; definizioni tutte o false o inesatte e, in ogni modo, lontane le mille miglia da quel significato in cui m’ero proposto di adoperarla io.
Quell’io che credevo di aver rubato il lardo alla gatta, da quelle risposte n’ebbi una delusione che mi afflisse moltissimo - ben inteso, per quanto può affliggere una delusione filologica - e avrei messo il cuore in pace, e lasciato nel dimenticatojo la povera incompresa, se una certa rincalzante smania di spuntar le cose un po’ difficili - confesso un uno debole - non mi ci avesse incaponito sopra.
Ed ecco lettori, se il permettete, ch’io la prendo per mano e ve la presento.
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d’ambo i sessi v’è chi direbbe: una certa razza di gente - fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo; indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti - i quali - e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere, e per... mille e mille altre cause e mille altri effetti il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo - meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre.
Questa casta o classe - che sarà meglio detto - vero pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatojo del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese.
Se tale parola non andasse a genio de’ miei lettori me ne dorrebbe moltissimo, perchè io la trovo assolutamente bella. E posso ripeterlo con franchezza perché appunto non l’ho inventata io. Ed è per me tanto più bella, in quanto che essa mi rende, quasi a capello, il concetto di questa parte della popolazione Milanese tanto diversa dall’altra per i suoi misteri, le sue miserie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi traviamenti, sconosciuti ai giovani morigerati e dabbene, ed agli adulti gravi e posati, che della vita hanno preso la strada maestra, comoda, ombreggiata, senza emozioni, come senza pericoli.
La Scapigliatura Milanese è composta da individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale. Plebe, medio ceto e aristocrazia; foro, letteratura e commercio; celibato e matrimonio, ciascuno vi porta il suo tributo, ciascuno vi conta qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili.
La speranza nell’avvenire è la sua religione; la povertà il suo carattere essenziale. Non la povertà del mendico che stende per Dio la mano all’elemosina, ma la povertà di un Duca a cui tocca di licenziare una dozzina di servitori, vendere molte coppie di cavalli, e ridurre a quattro le portate della sua tavola, perchè, fatti i conti coll’intendente, ha trovato di non aver più che cinquantamila lire di rendita.
Essa è figlia soprattutto di un’epoca non lontana e fatale; figlia generosa, giacché, chi ha traveduto il cielo, è un imbecille od un santo se si rassegna a vivere di nuovo contento e felice sulla terra.
Nè voglio dire con ciò che prima di quell’epoca non ci fossero scapigliati a Milano....... Dio me ne guardi!
Strano paese sarebbe stato questo in cui la gioventù avesse avuto nelle vene tanta pacatezza, e tanto senno in cervello per soffrire con calma e senza riluttanza l’ozio forzoso e la vita monotona e indecorosa che vi si conduceva.....
Come il Mefistofele del Nipote essa ha dunque due aspetti, la Scapigliatura: il buono ed il cattivo.
Da un lato un profilo più Italiano che Meneghino pieno di brio, di speranza e di amore, e rappresenta il lato simpatico e forte di questa numerosa classe, inconscia delle proprie forze, anzi della propria esistenza, propagatrice delle brillanti utopie, focolare delle idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici e politici del proprio paese, che ogni causa o grande o folle fa balzar d’entusiasmo, che conosce della gioja la sfumatura arguta del sorriso, e lo scroscio franco e prolungato, ed ha le lagrime del fanciullo sul ciglio e le memorie feconde nel cuore.
Dall’altro invece un volto smunto, solcato, cadaverico, su cui stanno le impronte delle notti passate nello stravizzo e nel giuoco, su cui si adombra il segreto del dolore infinito, e i sogni tentatori d’una felicità inarrivabile, e le lagrime di sangue, e le tremende sfiducie e la finale disperazione.
Presa in complesso dunque, la Scapigliatura è tutt’altro che disonesta.
Se non che, come accade di tutti i partiti estremi, che accolgono nel loro seno i rifiuti di tutti gli altri, anch’essa conta un buon numero di persone tutt’altro che oneste, le quali finiscono collo screditare la classe intera. Ma cotesti signori sono come nel ferro le scorie, nel demolito il marame; e c’è per essi un nome abbastanza conosciuto senza ricorrere alla scapigliatura; e anch’io sarei tentato di chiamarli cavalieri d’industria e birbanti, se l’educazione di moda non mi vietasse di chiamar chicchessia col suo vero nome. Ma, appunto come tali, essi non hanno una fisionomia particolare e si perdono in quella putrida vegetazione comune a tutti i paesi del mondo come i ladri, e le spie... gente nata per lo più dal fango, e vivente nel fango del proprio mestiere, senza perdono e senza poesia possibile.
Però la Scapigliatura li fugge per la prima e li rinnegherebbe ad alta voce, se ella avesse la coscienza della propria esistenza.
Giacchè la vera... la mia Scapigliatura potrà pentirsi qualche volta de’ fatti proprii, arrossirne giammai.
L’amante di Gramigna
da Vita dei campi[5] (1880) di Giovanni Verga[6]
Questo è un documento nato come momento di scambio d’opinione con un amico letterato, in cui Verga definisce i suoi orientamenti e le sue scelte e ci fornisce indirettamente la strada per arrivare alla definizione dei suoi princìpi teorici.
È la Prefazione a ‘L’amante di Gramigna’, nota anche come ‘Lettera a Salvatore Farina’ perché è in forma epistolare. È un documento di estrema importanza, che contiene tutti gli elementi fondamentali della poetica verista. La lettera ha anche un intento argomentativo, perché Farina si oppone alle nuove tendenze della letteratura verista.
A Salvatore Farina.
Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine.
Introduzione
da I Malavoglia
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno della passione va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perché la produzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale.
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguandosi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada quest’immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi intorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sovravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani.
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione - dall’umile pescatore al nuovo arricchito - alla intrusa nelle alte classi - all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini, di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge - all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.
Presentazione
da La scapigliatura milanese di Cletto Arrighi[4]
Nell'introduzione, pubblicata nell'«Almanacco de il Pungolo» del 1857 (prima quindi della pubblicazione del romanzo) scrive: «In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui [...], fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni di ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo; indipendenti come l'aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti, i quali, e per certe contraddizioni fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire tra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere [...] meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre. Questa casta o classe [...], che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io con bella e pretta parola italiana, l'ho battezzata appunto: la Scapigliatura milanese»
Quando una parola nuova o sconosciuta risponde perfettamente ad un’idea, ad una condizione, ad un caso qualunque della vita sociale, che non si potrebbe esprimere altrimenti che con una perifrasi, la fortuna di questa parola dovrebbe essere certa.
In Francia succede infatti così. Ogni mese, si può dire, fa capolino un neologismo, e quantunque l’Accademia, gli faccia il viso dell’arme, esso viene accettato a braccia aperte dal buon senso popolare, ed entra di balzo nella lingua viva appena sia riconosciuto necessario o di buona lega.
Demi-monde? per dirne uno. Trovatemi, di grazia, demi-monde sul vocabolario.
Ma qui da noi gli è un altro pajo di maniche. Da noi, senza ripetere le solite fastidiose canzoni, ognun sa quanto sia pericoloso e difficile l’osare, e tanto più per uno scrittoruccio di primo pelo, come sono io.
Avvenne che, un bel giorno, dovendo pur trovare un titolo - oh! lettori, il titolo d’un libro! Dio vi tenga ben lontani dal cercare un titolo... finchè durano queste condizioni!! - mi trovai nella necessità, o di coniare un neologismo o di andar a pescare nel codice della lingua qualche parola vecchia che rendesse pressapoco il concetto del mio qualsiasi romanzo.
Prima dunque di osare, consultai sua maestà il Vocabolario, se mai nella sua infinita sapienza avesse saputo additarmi un mezzo di salvezza. Cerca e ricerca, finalmente trovai una parola acconcia al caso mio; perchè, s’ha un bel dire, ma la nostra lingua, per chi la vuol frugare un po’ a fondo, non manca proprio di nulla, e sa dar a un bisogno parole vecchie anche per idee nuove, nello stesso modo che i Francesi sanno fabbricar parole nuove per idee che hanno tanto di barba.
Però, in quella maniera che potrei star garante che scapigliatura non è una parola nuova, sarei in un bell’imbarazzo se volessi persuadervi che la è molto usata e conosciuta.
Infatti fra le tante persone a cui domandai che cosa intendessero per scapigliatura, parte inarcò le ciglia, come a dire: non l’ho mai sentita a menzionare, e parte mi rispose così a tentoni, chi: l’atto dello scapigliarsi, chi: una chioma arruffata, e chi, finalmente - e costui fu un letterato - una vita da debauchè; definizioni tutte o false o inesatte e, in ogni modo, lontane le mille miglia da quel significato in cui m’ero proposto di adoperarla io.
Quell’io che credevo di aver rubato il lardo alla gatta, da quelle risposte n’ebbi una delusione che mi afflisse moltissimo - ben inteso, per quanto può affliggere una delusione filologica - e avrei messo il cuore in pace, e lasciato nel dimenticatojo la povera incompresa, se una certa rincalzante smania di spuntar le cose un po’ difficili - confesso un uno debole - non mi ci avesse incaponito sopra.
Ed ecco lettori, se il permettete, ch’io la prendo per mano e ve la presento.
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d’ambo i sessi v’è chi direbbe: una certa razza di gente - fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo; indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti - i quali - e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere, e per... mille e mille altre cause e mille altri effetti il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo - meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre.
Questa casta o classe - che sarà meglio detto - vero pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatojo del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese.
Se tale parola non andasse a genio de’ miei lettori me ne dorrebbe moltissimo, perchè io la trovo assolutamente bella. E posso ripeterlo con franchezza perché appunto non l’ho inventata io. Ed è per me tanto più bella, in quanto che essa mi rende, quasi a capello, il concetto di questa parte della popolazione Milanese tanto diversa dall’altra per i suoi misteri, le sue miserie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi traviamenti, sconosciuti ai giovani morigerati e dabbene, ed agli adulti gravi e posati, che della vita hanno preso la strada maestra, comoda, ombreggiata, senza emozioni, come senza pericoli.
La Scapigliatura Milanese è composta da individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale. Plebe, medio ceto e aristocrazia; foro, letteratura e commercio; celibato e matrimonio, ciascuno vi porta il suo tributo, ciascuno vi conta qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili.
La speranza nell’avvenire è la sua religione; la povertà il suo carattere essenziale. Non la povertà del mendico che stende per Dio la mano all’elemosina, ma la povertà di un Duca a cui tocca di licenziare una dozzina di servitori, vendere molte coppie di cavalli, e ridurre a quattro le portate della sua tavola, perchè, fatti i conti coll’intendente, ha trovato di non aver più che cinquantamila lire di rendita.
Essa è figlia soprattutto di un’epoca non lontana e fatale; figlia generosa, giacché, chi ha traveduto il cielo, è un imbecille od un santo se si rassegna a vivere di nuovo contento e felice sulla terra.
Nè voglio dire con ciò che prima di quell’epoca non ci fossero scapigliati a Milano....... Dio me ne guardi!
Strano paese sarebbe stato questo in cui la gioventù avesse avuto nelle vene tanta pacatezza, e tanto senno in cervello per soffrire con calma e senza riluttanza l’ozio forzoso e la vita monotona e indecorosa che vi si conduceva.....
Come il Mefistofele del Nipote essa ha dunque due aspetti, la Scapigliatura: il buono ed il cattivo.
Da un lato un profilo più Italiano che Meneghino pieno di brio, di speranza e di amore, e rappresenta il lato simpatico e forte di questa numerosa classe, inconscia delle proprie forze, anzi della propria esistenza, propagatrice delle brillanti utopie, focolare delle idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici e politici del proprio paese, che ogni causa o grande o folle fa balzar d’entusiasmo, che conosce della gioja la sfumatura arguta del sorriso, e lo scroscio franco e prolungato, ed ha le lagrime del fanciullo sul ciglio e le memorie feconde nel cuore.
Dall’altro invece un volto smunto, solcato, cadaverico, su cui stanno le impronte delle notti passate nello stravizzo e nel giuoco, su cui si adombra il segreto del dolore infinito, e i sogni tentatori d’una felicità inarrivabile, e le lagrime di sangue, e le tremende sfiducie e la finale disperazione.
Presa in complesso dunque, la Scapigliatura è tutt’altro che disonesta.
Se non che, come accade di tutti i partiti estremi, che accolgono nel loro seno i rifiuti di tutti gli altri, anch’essa conta un buon numero di persone tutt’altro che oneste, le quali finiscono collo screditare la classe intera. Ma cotesti signori sono come nel ferro le scorie, nel demolito il marame; e c’è per essi un nome abbastanza conosciuto senza ricorrere alla scapigliatura; e anch’io sarei tentato di chiamarli cavalieri d’industria e birbanti, se l’educazione di moda non mi vietasse di chiamar chicchessia col suo vero nome. Ma, appunto come tali, essi non hanno una fisionomia particolare e si perdono in quella putrida vegetazione comune a tutti i paesi del mondo come i ladri, e le spie... gente nata per lo più dal fango, e vivente nel fango del proprio mestiere, senza perdono e senza poesia possibile.
Però la Scapigliatura li fugge per la prima e li rinnegherebbe ad alta voce, se ella avesse la coscienza della propria esistenza.
Giacchè la vera... la mia Scapigliatura potrà pentirsi qualche volta de’ fatti proprii, arrossirne giammai.
L’amante di Gramigna
da Vita dei campi[5] (1880) di Giovanni Verga[6]
Questo è un documento nato come momento di scambio d’opinione con un amico letterato, in cui Verga definisce i suoi orientamenti e le sue scelte e ci fornisce indirettamente la strada per arrivare alla definizione dei suoi princìpi teorici.
È la Prefazione a ‘L’amante di Gramigna’, nota anche come ‘Lettera a Salvatore Farina’ perché è in forma epistolare. È un documento di estrema importanza, che contiene tutti gli elementi fondamentali della poetica verista. La lettera ha anche un intento argomentativo, perché Farina si oppone alle nuove tendenze della letteratura verista.
A Salvatore Farina.
Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine.
Introduzione
da I Malavoglia
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno della passione va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perché la produzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale.
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguandosi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada quest’immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi intorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sovravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani.
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione - dall’umile pescatore al nuovo arricchito - alla intrusa nelle alte classi - all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini, di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge - all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.
NOTE
[1] L’età del realismo - Nella seconda metà dell’Ottocento il ritmo della storia subì una forte accelerazione, tanto che nel giro di alcuni decenni decisivi mutamenti che cambiarono strutture sociali, economiche, modi di vita.
La borghesia, motore e protagonista dei rivolgimenti politici fino alle rivoluzioni del 1848, si sente minacciata dalle richieste avanzate dalle prime organizzazioni operaie; non accetta le rivendicazioni sociali e le idee che mettono in pericolo i capisaldi stessi del capitalismo, come l’attacco alla proprietà privata e alla libertà d’iniziativa finalizzata al profitto individuale.
Si profilano quindi nuove gerarchie politiche e sociali che vedono da una parte la borghesia impegnata nella conservazione o nel raggiungimento del potere attraverso mediazioni e compromessi con i vecchi gruppi dirigenti, e dall’altra il proletariato pronto ad organizzarsi in partiti ed in sindacati.
Questo processo è indivisibile dall’avanzamento dell’industrializzazione che cambia la fisionomia della società: all’inizio dell’Ottocento il 12% della popolazione viveva in città di almeno 5000 abitanti, mentre nei primi anni del Novecento la percentuale era del 41 %; si era modificato radicalmente il rapporto demografico città-campagna con il crescente trasferimento di manodopera dall’agricoltura ai settori industriali e manifatturieri.
Tutto questo cambia il modo di vivere e di pensare, modifica il panorama delle città, mette in campo nuovi protagonisti della vita politica e sociale: le masse, riunite in organizzazioni che intesero dar voce alle classi lavoratrici nella lotta per la conquista dei pieni diritti civili e politici e per il miglioramento delle condizioni di vita, determinando una permanente situazione di conflittualità sociale.
Questo periodo presenta caratteri nettamente differenti da quelli del periodo romantico-risorgimentale: mentre durante il Risorgimento la preminenza di congiure, moti e guerre creava un clima eroico, offrendo possibilità di spicco ad alcuni protagonisti, nei quali si incarnavano i grandi ideali che erano sottesi al movimento stesso, in quest’epoca predominano i problemi della realtà quotidiana:
· amministrazione,
· economia,
· tensioni sociali che sommuovono le masse che stanno per venire in primo piano.
Dal punto di vista culturale, in connessione con la crisi della cultura romantica e con i nuovi problemi posti dall’industrializzazione, si sviluppò una propensione alla concretezza, un rinnovato interesse all’analisi di dati sicuri per giungere a soluzioni effettivamente praticabili. Questo comportava un radicale mutamento culturale e conferiva alla scienza, che non aveva interrotto il suo sviluppo, un ruolo primario. Essa era in grado di dare un modello culturale che poteva servire da base per la ricostruzione di una scala dì valori utili a indirizzare il comportamento politico, gli atteggiamenti ideologici, le scelte culturali. Da questo nuovo rapporto con la scienza si originò quella cultura che si definisce positivismo e che intendeva estendere il metodo delle scienze naturali atto studio dell’uomo, sia come individuo sia come essere sociale. C’era in questa impostazione un ottimismo difendo: si affermava la possibilità di applicazione del metodo scientifico alle varie branche del sapere e di allargamento all’ambito sociale dei benefici derivati dalle conoscenze sicure e sperimentalmente verificabili.
Negli stessi anni si sviluppò una corrente di pensiero che andava nella direzione opposta, cioè verso l’irrazionalismo e la svalutazione del pensiero scientifico. Mentre il trionfo del positivismo si colloca tra il 1860 e il 1885, le posizioni irrazionalistiche rimasero in quegli anni espressione minoritaria di gruppi intellettuali isolati, per affermarsi quando gli eventi della fine del secolo misero in crisi la visione positivista del mondo, e divenire poi preminenti negli anni precedenti la prima guerra mondiale.
Dal punto di vista culturale, in connessione con la crisi della cultura romantica e con i nuovi problemi posti dall’industrializzazione, si sviluppò una propensione alla concretezza, un rinnovato interesse all’analisi di dati sicuri per giungere a soluzioni effettivamente praticabili. Questo comportava un radicale mutamento culturale e conferiva alla scienza, che non aveva interrotto il suo sviluppo, un ruolo primario. Essa era in grado di dare un modello culturale che poteva servire da base per la ricostruzione di una scala dì valori utili a indirizzare il comportamento politico, gli atteggiamenti ideologici, le scelte culturali. Da questo nuovo rapporto con la scienza si originò quella cultura che si definisce positivismo e che intendeva estendere il metodo delle scienze naturali atto studio dell’uomo, sia come individuo sia come essere sociale. C’era in questa impostazione un ottimismo difendo: si affermava la possibilità di applicazione del metodo scientifico alle varie branche del sapere e di allargamento all’ambito sociale dei benefici derivati dalle conoscenze sicure e sperimentalmente verificabili.
Negli stessi anni si sviluppò una corrente di pensiero che andava nella direzione opposta, cioè verso l’irrazionalismo e la svalutazione del pensiero scientifico. Mentre il trionfo del positivismo si colloca tra il 1860 e il 1885, le posizioni irrazionalistiche rimasero in quegli anni espressione minoritaria di gruppi intellettuali isolati, per affermarsi quando gli eventi della fine del secolo misero in crisi la visione positivista del mondo, e divenire poi preminenti negli anni precedenti la prima guerra mondiale.
Questo clima di abbandono dei grandi disegni assoluti ed astratti e di aderenza alla realtà concreta si riscontra anche nel campo culturale. Alla filosofia spiritualistica dell’età precedente si sostituisce il Positivismo, una corrente filosofica, sociologica e culturale caratterizzata dalla fiducia nel progresso scientifico e dal tentativo di applicare il metodo scientifico a tutte le sfere della conoscenza e della vita umana, sorta in Francia ad opera di Augusto Comte (1798-1857).
Il Positivismo si sviluppò in Europa in un periodo di relativa pace che durerà fino alla prima guerra mondiale. In questo senso la credenza positivista nel progresso scientifico che porta benessere sembra confermata.
Il Positivismo è un approccio filosofico derivato dall’Illuminismo, secondo il quale il metodo scientifico avrebbe dovuto sostituire la metafisica nella storia del pensiero. Caratterizzato da una sconfinata fiducia nelle scienze, il Positivismo voleva essere soprattutto un metodo e, più precisamente, l’applicazione del metodo delle scienze sperimentali al mondo umano. Ne favorì il sorgere l’incremento preso dalle scienze della natura (fisica, chimica, biologia) tanto sul piano teorico, quanto in quello delle applicazioni tecniche che avevano rivoluzionato il mondo della produzione e della vita quotidiana. In Italia, già Cattaneo aveva condiviso la mentalità positivista. Essa però si diffuse da noi solo nell’ultimo ventennio del secolo, ad opera soprattutto del filosofo Ardigò.
Questa mentalità realistica, tesa ai fatti, ebbe la sua espressione in letteratura soprattutto nella corrente del verismo; ma anche altri autori e correnti partecipano in qualche modo dello spirito del realismo.
La crisi della cultura romantica maturò prima nelle cerchie più ristrette degli intellettuali che sentirono l’inadeguatezza e la stanchezza di schemi, temi e linguaggio divenuti ormai tradizionali e iniziarono quelle sperimentazioni che solo verso la fine del secolo ebbero, a loro volta, una larga diffusione e crearono un nuovo gusto.
Quasi a simboleggiare il rinnovamento in atto, nel 1857 a Parigi furono stampati due libri che segnarono l’inizio di nuovi percorsi culturali e letterari Madame Bovary di Gustave Flaubert e I fiorì del male di Charles Baudelaire. Entrambi possono essere considerati, nei campi rispettivamente del romanzo e della poesia, le opere da cui iniziò un nuovo modo di scrivere, di concepire l’arte e il ruolo dello scrittore.
Madame Bovary si segnala immediatamente per il suo carattere antiromantico, sia per il contenuto smitizzante nei confronti degli ideali e del gusto di quella cultura, sia per la formula narrativa, incentrata sulla scomparsa dello scrittore-narratore, sia per il realismo dello stile e l’oggettività scientifica dell’indagine psicologica.
I fiori del male, con scelte del tutto differenti mostrò le potenzialità espressive di una poesia che, attraverso un linguaggio fortemente simbolico, metteva a nudo i tormenti, le ambiguità, le esaltazioni dell’individuo.
La lezione di Baudelaire fu recepita prima in Francia e in seguito in tutta Europa e produsse l’effetto di sospingere i poeti verso un tipo di ricerca espressiva dai forti contenuti intellettualistici, caratterizzata da una raffinatezza stilistica che spesso coincise con il difficile e l’oscuro. Questo fece della poesia una forma di lettura d’elite, esclusa a un pubblico di massa, e diede inizio, anche sotto questo aspetto del consumo, alla poesia moderna destinata a una circolazione quanto mai ristretta.
Al contrario il romanzo veniva a contatto con un pubblico sempre più largo ed eterogeneo e conservava una funzione di mediatore di idee e di ideologie; in questo ampliamento del circuito delle opere narrative si inserivano le scelte dell’industria editoriale.
Un’altra differenza tra le sorti della ormai nata poesia moderna e il romanzo è legata al diverso modo con cui le due forme letterarie entrarono in rapporto con le tendenze del pensiero e della cultura. Mentre il percorso della poesia, che ebbe il momento di maggior identificazione nel simbolismo, avvenne all’interno degli addetti ai lavori, la narrativa si sviluppò in un organico rapporto con le correnti culturali. È significativo, ad esempio, che nel periodo in cui il Positivismo acquistò il peso di cultura egemone si sia sviluppato il Naturalismo, che cercava di unire arte e metodo scientifico per una rappresentazione scientifica della realtà.
Dall’ultimo decennio del secolo, la crisi della visione del mondo di matrice positivista provocò anche quella del Naturalismo: si svilupparono allora, nel clima di sfiducia nella scienza e di riaffermazione della priorità dell’arte, caratteristico della fine del secolo, esperienze narrative ispirate ad un atteggiamento culturale che si può definire estetismo.
La società si complica, l’innegabile sviluppo portato dalla rivoluzione industriale, da un esaltante progresso scientifico e tecnico porta a nuovi squilibri, e si complica nello stesso tempo il sistema politico che vede al suo interno un maggior numero di soggetti: lo Stato, il governo, i partiti, i sindacati, i gruppi di pressione rappresentati dalle lobby, dalle categorie professionali, dalle corporazioni.
[2] La Scapigliatura – La Scapigliatura per l’Italia rappresenta l’antesignana delle cosiddette avanguardie storiche, sorta dal calo di tensione etica postrisorgimentale e, come in altri Paesi europei, dalla dissoluzione critica del Romanticismo.
a) Il nome e la collocazione topografico-cronologica - La Scapigliatura, movimento il cui nome traduce il senso del termine francese bohème, è un movimento che si sviluppò a Milano, fra il 1860 e il 1890, cioè durante i primi trent’anni dell’Italia unita.
b) La Scapigliatura come reazione antiborghese - Gli Scapigliati, che pur appartengono per nascita all’ambiente borghese, si sentono e si dichiarano al di fuori della società borghese quale si è andata consolidando dopo il ‘60, con la raggiunta unità d’Italia. La borghesia infatti, messi ormai da parte gli ideali e le passioni risorgimentali che pure l’avevano animata negli anni del riscatto, mirava ora - e particolarmente a Milano, dove si stava diffondendosi l’industrializzazione - all’espansione economica, e faceva del successo economico il suo metro di valutazione e di giudizio. La sicurezza nella bontà dei propri principi, che è tipica di ogni classe che detenga il potere in modo indiscusso, la rendeva inoltre avversa a tutto ciò che, rappresentando una trasformazione, minacciava la sua sicurezza.
In questo clima si inserisce la rivolta degli Scapigliati, che diventano gli accusatori di una società dedita al «dio metallo», cioè all’avida conquista del denaro, insensibile ai valori dell’arte, ipocritamente decisa a ignorare gli aspetti turpi e squallidi che pure nella realtà esistono. Parallelamente, essi rifiutano, nella vita concreta, l’ordine e gli agi di quella classe borghese cui appartengono per nascita e vivono polemicamente in modo disordinato e anomalo, dediti come sono, spesso, all’alcool e alla droga.
c) Il «realismo» degli Scapigliati - In letteratura, gli Scapigliati si autodefiniscono dei realisti. Ma il loro realismo ha un carattere del tutto particolare, protestatario ed eversivo. Non si propongono, cioè, una interpretazione ed una rappresentazione della realtà in tutti i suoi aspetti, ma vogliono soltanto denunciarne i risvolti turpi, abnormi, quei risvolti che la società dei benpensanti cancellava dalla propria attenzione. Sono quindi i cantori, fondamentalmente anarchici, dell’orrendo, del macabro, delle contraddizioni irrisolte, delle verità squallide che stanno al di sotto delle confortevoli apparenze.
Al Romanticismo, il grande movimento letterario che lì aveva preceduti, e allo stesso Manzoni gli Scapigliati furono avversi, anche se sentirono l’influsso di alcuni scrittori romantici stranieri.
d) L’influenza di Baudelaire - Recepirono invece, almeno embrionalmente, la lezione del decadentismo, il movimento che andava affermandosi in Francia, e soprattutto la lezione di Baudelaire dal quale derivarono temi e tecniche innovatrici. L’opera maggiore di Baudelaire, I fiori del male, uscita nel 1857, diventò il loro breviario poetico. Fra gli scrittori scapigliati ricordiamo Emilio Praga, Arrigo Boito, Iginio Ugo Tarchetti, Giovanni Camerana, milanese dì nascita il primo, gravitanti tutti sull’area milanese gli altri o perché avevano fatto di Milano la loro città di adozione, o perché mettevano capo culturalmente all’ambiente milanese.
[3] Dal Naturalismo al Verismo:L’estetica naturalista - Il grande prestigio che il pensiero scientifico acquistò nel corso del secondo Ottocento si fece sentire anche nel campo letterario. In particolare i narratori avvertirono l’importanza di accordare il processo creativo sul modello del metodo della ricerca scientifica, giungendo alla formulazione di alcuni criteri generali:
1. il narratore non deve inventare una storia più o meno interessante, ma rappresentare la vera vita dell’individuo e della società;
2. la narrazione si qualifica come studio di un fenomeno di cui si indicano le cause, così che l’arte si risolve, in ultima analisi, in un processo di conoscenza;
3. muta il rapporto tra narratore e opera, nel senso che l’autore è necessariamente portato a far parlare i fatti più che a darne una spiegazione attraverso interventi diretti nella narrazione;
4. l’espressione dei sentimenti si trasforma in spiegazione dei sentimenti, sfruttando a tal fine ciò che in quel periodo veniva scoperto nell’ambito della fisiologia.
Tutte queste istanze, presenti nella narrativa francese che si disse naturalista, vennero ordinate in una teoria del romanzo da Emile Zola, il quale tra il 1868 e il 1893 si impegnò nella scrittura di una ventina di romanzi del ciclo dei Rougon-Macquart che, secondo l’indicazione dello stesso autore, è fa «storia naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero».
Zola espresse le sue idee sul romanzo in uno scritto teorico che ebbe grande rilievo e che fu anche in Italia al centro dell’attenzione. Il titolo dell’opera, Il romanzo sperimentale, annuncia già la tesi di fondo: il romanziere è come lo sperimentatore scientifico, non si limita ad osservare, ma deve scegliere l’argomento, collocare i personaggi in situazioni determinate, studiarne, secondo l’esperienza, le reazioni, farli agire secondo la loro indole. In questo modo egli può rendere chiari i meccanismi dei comportamenti umani e creare in laboratorio una scienza umana che sia in grado di guarire la società dai suoi mali. Egli indica pertanto nel Naturalismo un metodo e non una scuola, e quindi non rivolge la sua attenzione ai problemi di stile; si limita a dire che la lingua deve essere omogenea all’ambiente rappresentato e che il romanziere-sperimentatore non deve in alcun caso comparire all’interno dell’opera.
L’Italia dei veristi e il regionalismo - Il Verismo nasce in Italia intorno al 1870, sulla scia di certa narrativa inglese e russa e soprattutto del naturalismo francese. Fu Luigi Capuana lo scrittore e critico che diffuse in Italia i princìpi del naturalismo francese e pose i presupposti teorici e pratici del verismo. Capuana attenua alcuni aspetti delle tesi di Zola, in particolare l’identificazione tra scrittore e sperimentatore scientifico e imita il carattere di denuncia del romanzo.
Contemporaneamente rivolge un’attenzione particolare ai problemi della forma, che ritiene centrali, e individua il carattere precipuo del romanzo naturalista proprio in un aspetto costitutivo della forma del romanzo, vale a dire nel concetto di impersonalità e di scomparsa dell’autore. Secondo la sua teorizzazione, il romanzo verista dovrebbe essere in grado di ritrarre ogni realtà sociale, non solo la vita semplice e schematizzabile delle classi inferiori, ma anche la vita complessa, soprattutto a livello psicologico, della borghesia, adeguando ogni volta lo stile e il linguaggio al contenuto.
La realtà del proprio tempo, che essi vogliono ritrarre in presa diretta, costituisce abitualmente e programmaticamente la materia dei veristi. Ma in essa il loro interesse si rivolge non già alle classi egemoni, ma ai ceti poveri e frustrati, soprattutto a quel quarto stato che era rimasto ai margini del moto risorgimentale, non educato a parteciparvi, e a cui l’unità d’Italia aveva recato più disagi che vantaggi, aggiungendo nuove imposizioni (tasse, leva militare obbligatoria) alle vessazioni antiche.
Poiché mancava all’Italia, dove l’industrializzazione era ancora agli inizi, quel proletariato operaio delle grandi città che in Francia offre materia ai romanzi di Zola, il mondo che essi ritraggono è quello dei ceti subalterni delle varie regioni italiane, che sono poi le loro regioni d’origine e che essi più profondamente conoscono: i vaccari e i mandriani della Toscana in Fucini, i pescatori, i pastori, i contadini siciliani in Verga e in Capuana.
Di qui il carattere regionalistico che connota il verismo, e che corrisponde alla reale fisionomia del nostro Paese, dove nonostante la raggiunta unità ogni regione aveva continuato a mantenere le sue caratteristiche specifiche e diversificanti.
Le tecniche narrative del verismo - Come i naturalisti francesi, anche i veristi italiani sostengono il principio che lo scrittore deve essere distaccato e obiettivo nei confronti della materia che rappresenta e non deve interferire in essa né col suo giudizio né con la sua sensibilità. «La mano dell’artista» - scrive Verga nella prefazione a una sua novella, L’amante di Gramigna - deve rimanere «assolutamente invisibile», così che l’opera d’arte sembri «essersi fatta da sé, esser sorta ed esser maturata spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore».
Per aderire al reale e per adeguarsi alla «verità» della materia rappresentata, anche la lingua che i personaggi parlano dovrà mantenere caratteri regionali.
Il romanzo del secondo Ottocento – La seconda metà dell’Ottocento, in Italia, come nel resto dell’occidente, è il momento del trionfo della narrativa. Il pubblico della letteratura è in maggioranza composto da lettori di opere narrative come novelle e romanzi e, con la diminuzione dell’analfabetismo, buona parte delle masse capaci di leggere entra in contatto con le idee e i problemi del momento attraverso le pagine dei narratori.
Ciò che più colpisce della produzione narrativa di questo periodo è la varietà, difficilmente ricondurre a filoni o categorie, anche perché accanto alle tendenze e alle scuole che si sviluppano in questo periodo, bisogna tener conto del distribuirsi della produzione su diversi livelli verticali.
Un fenomeno di carattere generale è il convergere dell’attenzione sulle tematiche sociali, la scelta di raccontare il presente, di rappresentare un ambiente, secondo un atteggiamento nuovo che potremmo chiamare realismo descrittivo.
Con la diffusione del realismo, le novelle naturaliste e veriste, la narrazione diventa specchio ed interpretazione della realtà, con l’esplicito intento di riprodurre tranches de vie (scorci di vita) borghesi, popolari e contadini. L’intento dell’autore è quello di rispecchiare la realtà per rendere palesi le ingiustizie sociali, mettere in discussione i luoghi comuni, svelare le incongruenze del reale e le contraddizioni dell’individuo. Tali testi rappresentano, dunque, un impietoso spaccato di vita sociale da ritrarre in modo oggettivo ed impassibile: di qui il principio di impersonalità dello scrittore e dell’opera, anche se non mancano spunti di analisi psicologica. In altri testi la narrazione è più attenta a cogliere le minime sfumature dell’animo, privilegiando moduli di analisi psicologica e ponendo in secondo piano l’intreccio e l’azione.
Il secondo Ottocento vide anche una ricchissima produzione di novelle: non esiste romanziere che non si sia cimentato anche nel genere narrativo di minore dimensione, spesso utilizzandolo come «laboratorio sperimentale» per trovare nuovi linguaggi e nuove soluzioni narrative.
Nell’ultimo decennio del secolo cominciò la crisi del verismo, la letteratura italiana visse un’epoca di profonda crisi della narrativa, la cui tradizione, già debole per motivi storici, venne ulteriormente compromessa dalle scelte antinarrative della letteratura decadente.
Ciò nonostante, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, sempre maggiori furono le influenze delle grandi letterature europee e dei grandi autori d’avanguardia.
Per orientarsi in un quadro caratterizzato dalla pluralità e dalla varietà, si prova a schematizzare la produzione narrativa:
1. narrativa scapigliata fu un’esperienza sviluppatasi soprattutto a Milano a partire dagli anni Sessanta a opera di un gruppo di intellettuali (i fratelli Camillo e Arrigo Boito, Ugo Tarchetti, Emilio Praga) in polemica con l’attardata cultura romantica e con il modello del romanzo manzoniano; ad essa si affianca la scapigliatura piemontese (Giovanni Faldella, Giovanni Camerana). Questi autori, accomunati dalla ricerca della novità sia tematica che formale, sperimentarono strade fra loro diverse. Introdussero il fantastico, l’onirico, la satira d’ambiente, il divertimento ironico, prediligendo forme narrative inusitate come il romanzo breve e la novella lunga.
2. narrativa verista è il filone più importante della seconda metà del secolo. Al modello del naturalismo di Zola si rifece il verismo italiano, teorizzato da Luigi Capuana, che ebbe nei romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1889) e nelle novelle Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883) di Giovanni Verga le sue opere maggiori distinte da tutte le altre per la qualità artistica e per la coerenza delle scelte; vanno comunque segnalati anche i nomi di Luigi Capuana, Federico De Roberto.
3. narrativa d’ispirazione genericamente realista fu legata a molti autori di fine Ottocento che, pur non seguendo un metodo rigoroso come quello dei veristi, si richiamarono ad una solida tendenza realistica ritraendo nei loro romanzi e nelle loro novelle le realtà socio-culturali della regione cui appartengono. Ad esempio gli aspetti sociali del capitalismo nascente si riflettono negli scrittori d’area piemontese Gerolamo Rovetta ed Emilio De Marchi, mentre i romanzieri toscani come Renato Fucini e Mario Pratesi sono soprattutto attenti al mondo contadino e ai problemi della mezzadria colti in una fase di trasformazione sociale ed economica. Diversa ancora la narrativa degli scrittori dell’area napoletana (Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio) per i quali lo scenario naturale è Napoli, la grande metropoli meridionale, caratterizzata da una situazione particolare per la presenza di una cultura popolare di grandi tradizioni. È una realtà di miseria e di degrado.
4. · romanzo d’appendice è propriamente quel romanzo che, a cavallo fra Otto e Novecento, veniva pubblicato a puntate sui giornali, solitamente nella parte inferiore della pagina dove occupava lo spazio rimasto libero dopo l’impaginazione degli articoli. L’espressione che nacque per indicare un dato oggettivo più tardi venne a coincidere con una definizione di valori e di qualità per distinguere una forma narrativa con una distinta fisionomia e una qualità minore. Il romanzo d’appendice che si rivolge a un pubblico popolare, non proponeva nuove invenzioni narrative ma temi, personaggi, schemi già collaudati. Tra gli autori di maggior successo Carolina Invernizio, Neera, Francesco Mastriani.
bisogna, infine, ricordare alcuni scrittori che non rientrano nelle tendenze elencate:
5. Le voci di un’Italia bambina: Cuore e Pinocchio. Due romanzi che raggiunsero il maggior successo di pubblico furono due libri per l’infanzia: Cuore di De Amìcis che raggiunse un vastissimo pubblico e Pinocchio di Carlo Collodi, il libro più letto di tutto il secondo Ottocento. Cuore di Edmondo De Amìcis si colloca in un momento cruciale della storia italiana, quando la nazione appena nata stava ancora cercando principi comuni in cui identificarsi. Gli alunni del maestro Perboni rappresentano un inventario di modelli ideali del futuro cittadino perfetto, ad uso e consumo dei piccoli italiani: nella prospettiva risorgimentale di De Amicis, il bambino è visto come adulto in miniatura, già impegnato con i propri minuscoli mezzi nell’eterna lotta tra il bene e il male. Nulla è lasciato alla fantasia, all’illogicità magica e ammaliante propria della visione infantile. Anche Le avventure di Pinocchio di Collodi sembra sostenersi su un progetto di tipo pedagogico. La celebre favola mette in scena la trasformazione di un burattino in bambino vero, metafora del passaggio dall’età informe e irrazionale dell’infanzia al tempo regolato e maturo dell’età adulta. Eppure, se il capolavoro di Collodi è ancora attuale, è perché Pinocchio, con la sua credulità, la furbizia disinteressata, la pigrizia e gli slanci di affetto, rappresenta in modo geniale il mondo di ogni bambino. Così come tutti i personaggi che accompagnano il burattino nelle sue avventure, dalla Fata Turchina a Mangiafuoco, dal Grillo Parlante al Gatto e la Volpe, sono un riflesso della sua paura, dei sogni e dei più folli e irrealizzabili desideri. Il libro Cuore di De Amicis è, realista e urbano, quanto Pinocchio è fiabesco e contadino. Pinocchio è una favola rispetto al libro Cuore, perché vi troviamo elementi fantastici che nell’altro non vi sono. Il libro Cuore parla di ragazzi e non di burattini. Quello di De Amicis è un libro dove si parla di fatti concreti, reali, di giovani di scuola, di rapporti fra ragazzi e di sentimenti mentre in Pinocchio vengono raccontati fatti che sono frutto di una fantasia, talvolta sfrenata e spesso surreale.
6. Paolo Valera, l’unico scrittore militante socialista che fece della sua narrativa uno strumento di propaganda, fu autore de La folla. Protagonista di questo studio, allo stesso tempo psicologico e sociale, è la galleria dolente e multiforme di oppressi che popolavano il Casone del Terraggio di Porta Magenta. A questa folla ai margini appartiene Annunciata, esuberante popolana che per anni ha ovviato con disinvoltura a gravidanze indesiderate e che poi non ha pace al ricordo dei suoi delitti materni; Agata Maddaloni, madre di undici figli affamati che, nei momenti lugubri, è assalita dal pensiero spaventoso di gettarne uno dalla ringhiera “per far sapere con una tragedia che i suoi figli muoiono di fame”; indimenticabile anche la famiglia Cristaboni, che riassumeva tutto ciò che vi era di tragico e deforme nel Casone.
7. Antonio Fogazzaro ebbe idee decisamente contrarie alla poetica del Verismo. Risalendo alle esperienze idealistiche del primo romanticismo nordico, Fogazzaro propose un’arte che recuperasse alle radici, nella sua primordiale sublimità, la natura umana, sostenendola nella incessante e drammatica lotta contro la “bestia oscura che sopravvive in noi”. Fogazzaro sposta l’attenzione dalla realtà esterna a quella interiore e tenta le vie della scoperta del subconscio, rientrando per questo nell’area del decadentismo. I suoi romanzi, da Malombra, il primo ed il più esemplare, a Piccolo mondo antico, il suo capolavoro, e Piccolo mondo moderno, sono testimonianza di una vita tormentata, vissuta nella solitudine della propria coscienza. Spirito profondamente religioso, visse la sua religiosità con scarso equilibrio, ma con intenso fervore, pervaso spesso da una sorta di esasperato misticismo che più volte lo fece deviare dall’ortodossia cattolica. Smanioso di liberarsi dalle pastoie di un conformismo borghese opprimente, fu però incapace di formulare in termini di chiarezza una nuova visione della società, delle sue regole, della sua cultura. Le caratteristiche più salienti della sua arte sono da individuare appunto nel costante turbamento derivante dal contrasto insolubile tra la sua sensualità e il suo misticismo, nei continui tentativi di mettere a nudo tutto quanto è riposto nel più profondo dell’animo, nella tendenza a forgiarsi uno stile quanto più possibile alieno dalla tradizione.
8. Gabriele D’Annunzio fu autore di vari romanzi, in alcuni dei quali tuttavia è abbastanza visibile la traccia dell’esperienza naturalista e verista anche se per lo più la sua narrativa si svolse nell’ambito del Decadentismo. Il suo primo romanzo, Il piacere del 1889, mentre da un lato sembra indulgere all’analisi psicologica dell’amore secondo il metodo seguito da Flaubert e da Maupassant, dall’altro si compiace di esasperare l’egocentrismo del protagonista, Andrea Sperelli e la sua tendenza estetizzante nel godimento del piacere. E così pure nei due successivi romanzi, Giovanni Episcopo del 1891 e L’innocente del 1892, mentre è evidente che intende rifarsi al realismo di Dostoevskij e Tolstoj, dal primo soprattutto riprende il metodo di scandagliare fino in fondo la coscienza umana, riprende cioè quell’atteggiamento che lo avvicina ai decadenti. Insomma quello che maggiormente risalta nei suoi primi romanzi è una sorta di pendolarismo fra realismo e decadentismo, con la tendenza però a liberarsi gradualmente del primo per approdare con maggiore consapevolezza al secondo. Difatti è singolare l’esaltazione che il D’Annunzio fa del protagonista de L’innocente, Tullio Hermil, e finanche del suo terribile delitto: lo scrittore, con la chiara volontà di destare scandalo, fa dire a Tullio che “la giustizia degli uomini non lo tocca”, avvicinandosi così sempre più alla creazione del suo ideale di uomo, il superuomo. Altro passo innanzi in questa direzione si ha con il Trionfo della morte del 1894, il cui protagonista, non potendo possedere della sua donna anche l’anima, procura la morte ad entrambi. L’immagine del superuomo è finalmente compiuta nei tre romanzi successivi: Le vergini delle rocce, Il fuoco e Forse che sì, forse che no, rispettivamente del 1895, del 1898 e del 1910.
La lirica del secondo Ottocento – Accanto alla multiforme vitalità del romanzo la produzione lirica continuò ad avere un posto di prestigio, anche se non poteva certo competere con le capacità di farsi leggere del romanzo. Come per la prosa, bisogna allargare lo sguardo alle esperienze straniere che offrono modelli nuovi ai nostri poeti. In primo luogo va però ricordata la diversità della situazione italiana rispetto a quella europea: mentre in Europa l’esperienza della lirica romantica era stata ricca di opere e di autori che avevano dato vita a una nuova poesia, in Italia emergeva da un panorama piuttosto piatto, altissima ma inimitabile, la voce poetica di Leopardi. Questo ci aiuta a spiegare perché i grandi mutamenti che caratterizzarono il genere lirico nella seconda metà del secolo avvengono al di là delle Alpi, in Francia in particolare e solo più tardi giungono anche da noi. Si trattò di un processo rilevante nella storia della lirica, una vera e propria svolta che segnò la nascita della lirica moderna. In questo processo il linguaggio lirico divenne più difficile e la poesia si trasformò in genere d’elite nel momento in cui gli altri generi andavano invece conquistando un pubblico più vasto. Mutarono in primo luogo la figura del poeta e l’idea stessa di poesia: il poeta non sentì più se stesso come portavoce dei valori e dei sentimenti generali colti nella eccezionalità della sua esperienza individuale, rifiutò ogni funzione di «poeta-vate», depositario e trasmettitore di messaggi, per rivendicare invece un’estraneità rispetto al proprio tempo, il rifiuto di una società rispetto alla quale si sentiva diverso.
Questo atteggiamento, che contrasta decisamente con l’idea romantica, venne teorizzato per la prima volta dal poeta francese Charles Baudelaire che ispirò la sua stessa vita alla irregolarità, al disordine, all’eccentricità, divenendo il modello per molti altri artisti e letterati sia francesi sia europei. Insieme a Baudelaire, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé diedero vita ad un movimento detto simbolismo, che ebbe una nascita ufficiale col Manifesto del simbolismo pubblicato nel 1886. Il dato che più colpisce nell’opera di questi poeti è il carattere inconsueto dei loro versi: essi teorizzano la libertà d’invenzione, l’importanza decisiva del suono, la rottura della sintassi e delle forme metriche tradizionali fino alla disarmonia. Il linguaggio poetico abbandona ogni modo descrittivo per cercare l’espressione più elaborata, soggettiva, oscura; la struttura prevalente è analogica, abolisce cioè i nessi logici espliciti e procede per accostamenti, parallelismi, contrapposizioni. S’impose anche l’inconsueta scelta tematica: in parte si trattò di temi nuovi quali le immagini della città caotica, lo spettacolo della folla, il vagheggiamento di evasioni esotiche oppure lo smascheramento polemico delle apparenze, del perbenismo; in altri casi i temi nascevano dall’introspezione ed erano quelli da sempre presenti nella poesia, quali la memoria, il sogno, i dissidi interiori, ma trasformati in esperienze eccezionali, estreme, e trasfigurate in simboli. In questo modo entrarono nella poesia anche il brutto, il demoniaco, il peccato, e più in generale cadde la convenzione per la quale i temi bassi erano esclusi dall’espressione lirica. La poesia e le teorizzazioni dei simbolisti francesi furono presto note in Italia ed esercitarono un’influenza sui nostri poeti. Tuttavia i veri eredi del movimento furono gli scrittori del Novecento, nel senso che soltanto allora si colse la globalità di quell’esperienza.
In particolare il quadro della produzione lirica dalla metà dell’Ottocento fino al primo decennio del secolo successivo può essere così disegnato:
1. la tradizione classicista: ha un momento di rinascita e di rinnovamento nell’opera di Giosuè Carducci, che la rivitalizza riproponendo la missione etico-civile del poeta e l’esaltazione del lavoro rigoroso sulla forma. Carducci, che scriveva negli stessi anni di Baudelaire, fu maestro di una tendenza che, se oggi è poco apprezzata, sicuramente ebbe un peso rilevante nella cultura del tempo ed ebbe i seguaci più illustri in Severino Ferrari, Enrico Panzacchi, Giovanni Marradi;
2. la poesia scapigliata: Emilio Praga, Arrigo Boito, Giovanni Camerana, Ugo Tarchetti produssero una poesia che rappresenta la punta avanzata verso il nuovo, ma che si esaurisce nel rinnovamento tematico e in qualche limitata sperimentazione formale. Essi furono affascinati dai temi audaci e inconsueti dei simbolisti, e li assunsero come propri svuotandoli dei significati più profondi e inquietanti e riducendoli a espressioni di bizzarria, di originalità, di anticonformismo;
3. l’esperienza poetica legata al verismo: alcuni scrittori trasportarono in versi l’idea di una nuda e veritiera rappresentazione della realtà; ricordiamo qui il nome di Olindo Guerrini, che usava lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti;
4. la poesia dialettale: spiccano, fra gli altri, i nomi del romano Cesare Pascarella e del napoletano Salvatore di Giacomo;
5. la poesia crepuscolare: è un fenomeno abbastanza circoscritto che si sviluppò tra il 1903 e il 1911 e coinvolse un gruppo di poeti che, schiacciati tra l’eredità pascoliana e quella dannunziana, presero una strada comune e furono in genere uniti da rapporti di amicizia e di solidarietà nelle scelte letterarie e negli atteggiamenti esistenziali. Il termine crepuscolare nacque in sede critica e fu scelto perché indica sia la luce dell’alba sia quella del tramonto e rimanda quindi ai significati di estenuazione, fine, ma anche a quelli di alba, di realtà nuova che sorge. Si tratta di una poesia costruita intorno a terni ricorrenti: le piccole cose, il quotidiano, l’intimo, il ritorno all’infanzia, le lacrime, la malattia, la noia, l’indifferenza. Altrettanto costanti i caratteri della lingua e dello stile: una generale facilità di linguaggio, l’abbassamento dei lessico, l’accentuazione della rima o al contrario la ricerca di un andamento del verso che si avvicina alla prosa. Tra i poeti crepuscolari si può distinguere un gruppo romano, nel quale spicca la figura di Sergio Corazzini, e un gruppo torinese, del quale fa parte, oltre al maggiore di loro Guido Gozzano, autore del poemetto La signorina Felicita ovvero la felicità, Carlo Chiaves. Iniziatore del modo crepuscolare di far poesia si considerò il ferrarese Corrado Govoni.
6. la poesia di Giovanni Pascoli e di Gabriele D’Annunzio: le loro voci s’impongono tra la fine del secolo e i primi anni del Novecento e riportano su un piano più alto la storia della lirica. Iscrivendosi in un panorama di respiro europeo, segnano la fine del classicismo e il vero inizio della lirica moderna nella tradizione italiana
[4] Cletto Arrighi – Cletto Arrighi, pseudonimo anagrammato dal vero nome di Carlo Righetti, nacque a Milano nel 1828 (nel 1830 secondo altre fonti).
Fu ufficiale dei dragoni lombardi durante la prima guerra di indipendenza. Si dimise dopo la sconfitta di Novara e partecipò alla seconda guerra di indipendenza come soldato semplice dell'esercito piemontese. Di questa esperienza abbiamo notizia dal suo Memorie di un soldato lombardo pubblicato a Milano nel 1863, insieme ad un’altra opera di genere autobiografico: Memorie di un ex-repubblicano del 1864.
Laureato in legge, si dedicò però principalmente al giornalismo e alla letteratura. Nel 1860 fondò la «Cronaca Grigia» uno dei periodici più significativi della Scapigliatura, interamente compilato da lui stesso. Eletto deputato nel 1867 per il collegio di Guastalla, rinunciò alla carica prima dello scadere del mandato per protesta contro il malcostume parlamentare, da lui satireggiato nel suddetto periodico. In seguito, nel periodo di avvento al potere della Sinistra, fu direttore del giornale «L’Unione» (1876). Collaborazioni saltuarie ebbe anche con altri periodici satirici come «L'uomo di pietra» e «La farfalla».
Il matrimonio contratto nel 1872 fu di breve durata a causa della prematura morte della moglie nel 1876.
Fu un tipico rappresentante della Scapigliatura milanese, la quale deve a lui il suo nome; pubblicò infatti il romanzo La scapigliatura e il 6 febbraio: un dramma in famiglia (1862) ispirato a una rivolta dei giovani mazziniani a Milano nel 1853.
Anche se artisticamente inferiore rispetto ai maggiori scapigliati, dimostrò sensibilità e acume critico nello scoprire e incoraggiare giovani scrittori, tra i quali prima di tutto C. Dossi.
Il suo primo romanzo, Gli ultimi coriandoli, riecheggia le tematiche patriottico-sociali di Rovani, di cui era amico e ammiratore; uscì censurato nel 1857 e in edizione integrale dieci anni dopo.
La giornata di Tagliacozzo (1858) è un romanzo storico (il seguito, in pratica, de La battaglia di Benevento del Guerrazzi), ripubblicato col titolo Il diavolo rosso nel 1863; sempre del 1863 è la parodia del capolavoro di Manzoni Gli sposi non promessi.
Scrisse romanzi scandalistici in seguito alla diffusione in Italia del "naturalismo" francese, come I quattro amori di Claudia, (1877), Nanà a Milano (1880), La mano nera (1883), La canaglia felice (1885). Questa produzione fu da lui sconfessata due anni prima della morte di fronte al vescovo di Milano, insieme alle concezioni materialistiche e anticlericali prima professate.
Come commediografo diede forte impulso al teatro dialettale, organizzando una compagnia che ebbe una sede stabile, "Il Teatro milanese", e della quale fecero parte attori celebri come G. Sbodio e E. Ferravilla. Scrisse circa quaranta commedie in dialetto milanese; tra le più importanti El barchett de Buffalora; On milanes in mar; il Dì de Natal e Un pret che sent de vess omm. I suoi tentativi teatrali in italiano furono invece totalmente fallimentari. Il suo Dizionario milanese-italiano fu premiato nel concorso 1890-93 indetto dal ministero della pubblica istruzione. La cessazione dell'impresa teatrale, alla quale aveva contribuito anche finanziariamente, e la mania del gioco lo ridussero in gravi ristrettezze economiche. Grazie anche all'intervento di Francesco Crispi trovò impiego all'archivio di Stato, ma questo non gli impedì di finire i suoi giorni dedito all'alcol e in grande miseria.
Morì a Milano il 3 novembre 1906.
[5] Vita dei campi – Questa raccolta del 1880, comprende le seguenti novelle: Cavalleria rusticana; Fantasticheria; Guerra di santi; Jeli il pastore; Pentolaccia; Rosso Malpelo; La Lupa; L’amante di Gramigna.
L’ambiente è quello della Sicilia dei pastori, dei contadini, dei pescatori, dei minatori, che strappano alla vita, appena il necessario per vivere. Gran parte delle novelle ruotano intorno al cardine tematico dell’amore-passione, indagato nelle sue espressioni più accese e sanguigne, in quanto riflesso di una elementare comunità rusticana (L’amante di Gramigna, Pentolaccia, Cavalleria rusticana, La Lupa).
Le novelle migliori della raccolta sono Jeli il pastore e Rosso Malpelo, fondate entrambe sul motivo dell’estraneità dei protagonisti rispetto ad un determinato ambiente.
Con "Vita dei Campi", Verga inaugura la stagione dei capolavori, mostrando una profonda adesione alla tecnica verista del racconto. Egli scrive che l’opera d’arte deve sembrare "essersi fatta da sé", deve essere "spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore".
[6] Giovanni Verga vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, è il massimo esponente del Verismo italiano.
La vita - Nato nel 1840 a Catania da una famiglia di proprietari terrieri di spiriti liberali, compì in questa città gli studi medi.
Negli anni della giovinezza si entusiasmò per gli ideali risorgimentali e si appassionò alla letteratura e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza catanese ai quali era stato avviato dal padre senza peraltro pervenire alla laurea.
Lasciati gli studi giuridici, iniziò la sua attività di narratore componendo romanzi storici e patriottici e si impegnò nel giornalismo politico.
Dal 1865 al 1871 soggiornò a Firenze, dove venne a contatto con un ambiente letterario più aperto di quello siciliano. Ivi conobbe il conterraneo Capuana che, ammiratore dei naturalisti francesi, ne fece conoscere in Italia l’insegnamento, elaborando la poetica del verismo, cui più tardi Verga doveva aderire.
Dal 1872 al 1893 visse a Milano, dove frequentò l’ambiente degli Scapigliati, dove compose, dopo una vasta e mediocre produzione tardo-romantica (romanzi e novelle), e dove cominciò a respirare l’aria della cultura europea e accolse gradatamente i principi del Naturalismo. A questa realtà Verga rivolse la sua attenzione dal 1874 con il bozzetto Nedda, che segnò la cosiddetta «svolta al Verismo». Da quel momento compose prevalentemente novelle e romanzi ambientati in Sicilia, fra cui i romanzi I Malavoglia e Mastro don Gesualdo.
Deluso dallo scarso successo dei suoi romanzi e dalla sempre maggiore diffusione, all’interno della società, della logica dell’utile e dell’egoismo, Verga tornò a Catania cessò quasi del tutto l’attività letteraria dedicandosi negli ultimi venti anni della sua vita alla fotografia e abbandonando la letteratura.
Mori a Catania nel 1922.
L’opera - La produzione letteraria di Verga è molto ricca e varia: spazia dal romanzo storico-patriottico alla narrativa verista.
a) I tre momenti della narrativa verghiana - Nella produzione narrativa di Verga sono distinguibili tre momenti:
1. in un primo tempo, mediocri romanzi storici.
2. Successivamente romanzi che rappresentano situazioni languide e lacrimose, come la vicenda di una giovinetta che diventa monaca a forza e che si conclude con la pazzia e la morte della protagonista (Storia di una capinera), oppure presentano personaggi d’eccezione, come artisti, donne bellissime e fatali, a volte non prive dell’alone fascinoso dell’esotismo (Una peccatrice, Eva, Eros, Tigre reale).
3. Il terzo tempo, quello verista, nasce da una decisa svolta sia morale sia artistica dello scrittore. Stanco ormai del mondo egocentrico e superficiale rappresentato nei romanzi del secondo periodo, Verga torna col pensiero all’umile gente della sua Sicilia: pescatori, contadini, pastori, piccola borghesia di provincia, e alla loro vita dura e stentata, segnata da fatiche e dolori. Le opere più significative sono le raccolte di novelle, Vita dei campi (1880) che precede il romanzo I Malavoglia (1881) e le Novelle rusticane (1883), che precede Mastro-don Gesualdo (1889).
b) La grande stagione verista - La tecnica del verismo, col principio dell’adesione al reale e col rifiuto della interferenza e degli abbandoni emotivi dello scrittore, appare al Verga la migliore per rappresentare l’amara esistenza degli umili della sua terra.
Il momento verista di Verga è preannunciato da una novella, Nedda, composta nel 1874. Nedda è la storia di una povera ragazza siciliana, raccoglitrice di olive, oppressa dalla miseria anche nei suoi affetti, e la sua vita è narrata secondo la tecnica veristica di lasciare che le cose parlino da sé.
Su questa direttiva lo scrittore compone successivamente le sue opere maggiori: le novelle delle raccolte Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883) in cui sono rappresentati situazioni e ambienti siciliani, sentimenti e passioni elementari vissute spesso con drammatica violenza e i due romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1888).
Di questi, il primo narra le vicissitudini di una famiglia, i Malavoglia, che abitano ad Aci Trezza, un paesino vicino a Catania. Una tempesta ha distrutto la barca che era il loro mezzo di sostentamento, ed essi sono costretti, per pagare i debiti contratti, a vendere la casa, la «casa del nespolo», che è il simbolo della loro unione familiare.
Segue la storia delle loro fatiche per resistere al bisogno; il cedimento di alcuni di loro, che abbandonano la famiglia e il paese per cercare altrove fortuna; le rinunce di tutti quelli che restano, che non saranno a sufficienza compensate dalla casa finalmente riacquistata, perché la famiglia non è ormai più quella di un tempo a causa di chi se ne è andato e di chi è morto.
Intorno ai Malavoglia si muovono, sfondo e coro a un tempo, gli abitanti di Aci Trezza, con le loro beghe, i loro sentimenti, le sofferenze, le chiacchiere, i pettegolezzi.
Il protagonista del secondo romanzo è Mastro don Gesualdo, un muratore di Vizzini, paese alle falde dell’Etna, dove il Verga aveva lungamente soggiornato da ragazzo.
Mastro don Gesualdo, lavorando fino a stremarsi, è uscito dalla miseria ed è diventato un ricco imprenditore; vuole perciò elevarsi socialmente col matrimonio e il suo denaro gli permette di sposare l’ultima discendente di una famiglia nobile ormai decaduta, i Trao. Ma la donna, che lo ha accettato per necessità, non lo ama; la figlia, che egli fa educare nei collegi più esclusivi di Palermo, si vergogna dell’umile origine paterna.
Gesualdo morirà solo, in una fredda mattina, trascurato da tutti, nel palazzo palermitano del genero, dove ha assistito allo sperpero di quella ricchezza, della roba, per cui si è logorato la vita.
Tanto i Malavoglia quanto Mastro don Gesualdo sono, in modo diverso, dei vinti, ed il Ciclo dei vinti è stata chiamata da Verga la serie che essi aprono (gli altri tre romanzi, che dovevano completarlo, non furono mai scritti).
Con questa opera Verga si proponeva di rappresentare le manifestazioni, diverse a seconda dei gradini della scala sociale, di quelle irrequietudini per il benessere che spingono gli uomini a mutare stato, a uscire dall’ambiente in cui sono nati per migliorare le proprie condizioni economiche e sociali. In qualunque modo si manifestino, queste aspirazioni sono destinate al fallimento, i più deboli, incapaci di adeguarsi alle ferree leggi dell’utile e dell’interesse, sono travolti, vinti dalla fiumana incessante del progresso; d’altra parte i vincitori di oggi saranno vinti domani e pagheranno il benessere materiale con la perdita della propria dimensione umana.
Nel suo radicale pessimismo, Verga considera queste sconfitte come fatalmente legate al destino degli uomini.
Nonostante l’impegno veristico di obiettività e di distacco, la pietas dello scrittore, di fronte a questa condizione umana, traspare, in modo implicito, nei gesti, negli atteggiamenti, nei pensieri dei personaggi e nel ritmo stesso del dialogo e del racconto. L’alta poesia di queste due opere nasce proprio dalla controllata emozione tradotta in «cose».
c) Il linguaggio verghiano - Per aderire alla realtà rappresentata, Verga dà alla sua lingua una coloritura regionale, ottenuta qualche volta introducendo vocaboli dialettali siciliani, ma più spesso costruendo il periodo sulle strutture e sul ritmo del periodo dialettale. Inoltre, lo scrittore si sforza di trasferire nel linguaggio la «forma mentale» dei suoi personaggi, sia che essi parlino in discorso diretto, sia che i loro pensieri e le loro parole vengano riferiti nel discorso indiretto.
In questa direzione è significativo l’uso frequente dei proverbi, attraverso i quali essi esprimono la loro atavica tradizione sapienziale, la loro «cultura».
Allo stesso modo, per filtrare i concetti attraverso la levatura mentale, le abitudini dei suoi personaggi, lo scrittore ricorre alle similitudini tratte dall’umile esperienza quotidiana che essi vivono. Per esempio, il vecchio padron ‘Ntoni, parlando del giovane nipote che è andato a fare il soldato e che si lascia ingenuamente affascinare dalle meraviglie della città, dice che «è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero a un chiodo arrugginito». E sono esempi che possono abbondantemente moltiplicarsi.
[1] L’età del realismo - Nella seconda metà dell’Ottocento il ritmo della storia subì una forte accelerazione, tanto che nel giro di alcuni decenni decisivi mutamenti che cambiarono strutture sociali, economiche, modi di vita.
La borghesia, motore e protagonista dei rivolgimenti politici fino alle rivoluzioni del 1848, si sente minacciata dalle richieste avanzate dalle prime organizzazioni operaie; non accetta le rivendicazioni sociali e le idee che mettono in pericolo i capisaldi stessi del capitalismo, come l’attacco alla proprietà privata e alla libertà d’iniziativa finalizzata al profitto individuale.
Si profilano quindi nuove gerarchie politiche e sociali che vedono da una parte la borghesia impegnata nella conservazione o nel raggiungimento del potere attraverso mediazioni e compromessi con i vecchi gruppi dirigenti, e dall’altra il proletariato pronto ad organizzarsi in partiti ed in sindacati.
Questo processo è indivisibile dall’avanzamento dell’industrializzazione che cambia la fisionomia della società: all’inizio dell’Ottocento il 12% della popolazione viveva in città di almeno 5000 abitanti, mentre nei primi anni del Novecento la percentuale era del 41 %; si era modificato radicalmente il rapporto demografico città-campagna con il crescente trasferimento di manodopera dall’agricoltura ai settori industriali e manifatturieri.
Tutto questo cambia il modo di vivere e di pensare, modifica il panorama delle città, mette in campo nuovi protagonisti della vita politica e sociale: le masse, riunite in organizzazioni che intesero dar voce alle classi lavoratrici nella lotta per la conquista dei pieni diritti civili e politici e per il miglioramento delle condizioni di vita, determinando una permanente situazione di conflittualità sociale.
Questo periodo presenta caratteri nettamente differenti da quelli del periodo romantico-risorgimentale: mentre durante il Risorgimento la preminenza di congiure, moti e guerre creava un clima eroico, offrendo possibilità di spicco ad alcuni protagonisti, nei quali si incarnavano i grandi ideali che erano sottesi al movimento stesso, in quest’epoca predominano i problemi della realtà quotidiana:
· amministrazione,
· economia,
· tensioni sociali che sommuovono le masse che stanno per venire in primo piano.
Dal punto di vista culturale, in connessione con la crisi della cultura romantica e con i nuovi problemi posti dall’industrializzazione, si sviluppò una propensione alla concretezza, un rinnovato interesse all’analisi di dati sicuri per giungere a soluzioni effettivamente praticabili. Questo comportava un radicale mutamento culturale e conferiva alla scienza, che non aveva interrotto il suo sviluppo, un ruolo primario. Essa era in grado di dare un modello culturale che poteva servire da base per la ricostruzione di una scala dì valori utili a indirizzare il comportamento politico, gli atteggiamenti ideologici, le scelte culturali. Da questo nuovo rapporto con la scienza si originò quella cultura che si definisce positivismo e che intendeva estendere il metodo delle scienze naturali atto studio dell’uomo, sia come individuo sia come essere sociale. C’era in questa impostazione un ottimismo difendo: si affermava la possibilità di applicazione del metodo scientifico alle varie branche del sapere e di allargamento all’ambito sociale dei benefici derivati dalle conoscenze sicure e sperimentalmente verificabili.
Negli stessi anni si sviluppò una corrente di pensiero che andava nella direzione opposta, cioè verso l’irrazionalismo e la svalutazione del pensiero scientifico. Mentre il trionfo del positivismo si colloca tra il 1860 e il 1885, le posizioni irrazionalistiche rimasero in quegli anni espressione minoritaria di gruppi intellettuali isolati, per affermarsi quando gli eventi della fine del secolo misero in crisi la visione positivista del mondo, e divenire poi preminenti negli anni precedenti la prima guerra mondiale.
Dal punto di vista culturale, in connessione con la crisi della cultura romantica e con i nuovi problemi posti dall’industrializzazione, si sviluppò una propensione alla concretezza, un rinnovato interesse all’analisi di dati sicuri per giungere a soluzioni effettivamente praticabili. Questo comportava un radicale mutamento culturale e conferiva alla scienza, che non aveva interrotto il suo sviluppo, un ruolo primario. Essa era in grado di dare un modello culturale che poteva servire da base per la ricostruzione di una scala dì valori utili a indirizzare il comportamento politico, gli atteggiamenti ideologici, le scelte culturali. Da questo nuovo rapporto con la scienza si originò quella cultura che si definisce positivismo e che intendeva estendere il metodo delle scienze naturali atto studio dell’uomo, sia come individuo sia come essere sociale. C’era in questa impostazione un ottimismo difendo: si affermava la possibilità di applicazione del metodo scientifico alle varie branche del sapere e di allargamento all’ambito sociale dei benefici derivati dalle conoscenze sicure e sperimentalmente verificabili.
Negli stessi anni si sviluppò una corrente di pensiero che andava nella direzione opposta, cioè verso l’irrazionalismo e la svalutazione del pensiero scientifico. Mentre il trionfo del positivismo si colloca tra il 1860 e il 1885, le posizioni irrazionalistiche rimasero in quegli anni espressione minoritaria di gruppi intellettuali isolati, per affermarsi quando gli eventi della fine del secolo misero in crisi la visione positivista del mondo, e divenire poi preminenti negli anni precedenti la prima guerra mondiale.
Questo clima di abbandono dei grandi disegni assoluti ed astratti e di aderenza alla realtà concreta si riscontra anche nel campo culturale. Alla filosofia spiritualistica dell’età precedente si sostituisce il Positivismo, una corrente filosofica, sociologica e culturale caratterizzata dalla fiducia nel progresso scientifico e dal tentativo di applicare il metodo scientifico a tutte le sfere della conoscenza e della vita umana, sorta in Francia ad opera di Augusto Comte (1798-1857).
Il Positivismo si sviluppò in Europa in un periodo di relativa pace che durerà fino alla prima guerra mondiale. In questo senso la credenza positivista nel progresso scientifico che porta benessere sembra confermata.
Il Positivismo è un approccio filosofico derivato dall’Illuminismo, secondo il quale il metodo scientifico avrebbe dovuto sostituire la metafisica nella storia del pensiero. Caratterizzato da una sconfinata fiducia nelle scienze, il Positivismo voleva essere soprattutto un metodo e, più precisamente, l’applicazione del metodo delle scienze sperimentali al mondo umano. Ne favorì il sorgere l’incremento preso dalle scienze della natura (fisica, chimica, biologia) tanto sul piano teorico, quanto in quello delle applicazioni tecniche che avevano rivoluzionato il mondo della produzione e della vita quotidiana. In Italia, già Cattaneo aveva condiviso la mentalità positivista. Essa però si diffuse da noi solo nell’ultimo ventennio del secolo, ad opera soprattutto del filosofo Ardigò.
Questa mentalità realistica, tesa ai fatti, ebbe la sua espressione in letteratura soprattutto nella corrente del verismo; ma anche altri autori e correnti partecipano in qualche modo dello spirito del realismo.
La crisi della cultura romantica maturò prima nelle cerchie più ristrette degli intellettuali che sentirono l’inadeguatezza e la stanchezza di schemi, temi e linguaggio divenuti ormai tradizionali e iniziarono quelle sperimentazioni che solo verso la fine del secolo ebbero, a loro volta, una larga diffusione e crearono un nuovo gusto.
Quasi a simboleggiare il rinnovamento in atto, nel 1857 a Parigi furono stampati due libri che segnarono l’inizio di nuovi percorsi culturali e letterari Madame Bovary di Gustave Flaubert e I fiorì del male di Charles Baudelaire. Entrambi possono essere considerati, nei campi rispettivamente del romanzo e della poesia, le opere da cui iniziò un nuovo modo di scrivere, di concepire l’arte e il ruolo dello scrittore.
Madame Bovary si segnala immediatamente per il suo carattere antiromantico, sia per il contenuto smitizzante nei confronti degli ideali e del gusto di quella cultura, sia per la formula narrativa, incentrata sulla scomparsa dello scrittore-narratore, sia per il realismo dello stile e l’oggettività scientifica dell’indagine psicologica.
I fiori del male, con scelte del tutto differenti mostrò le potenzialità espressive di una poesia che, attraverso un linguaggio fortemente simbolico, metteva a nudo i tormenti, le ambiguità, le esaltazioni dell’individuo.
La lezione di Baudelaire fu recepita prima in Francia e in seguito in tutta Europa e produsse l’effetto di sospingere i poeti verso un tipo di ricerca espressiva dai forti contenuti intellettualistici, caratterizzata da una raffinatezza stilistica che spesso coincise con il difficile e l’oscuro. Questo fece della poesia una forma di lettura d’elite, esclusa a un pubblico di massa, e diede inizio, anche sotto questo aspetto del consumo, alla poesia moderna destinata a una circolazione quanto mai ristretta.
Al contrario il romanzo veniva a contatto con un pubblico sempre più largo ed eterogeneo e conservava una funzione di mediatore di idee e di ideologie; in questo ampliamento del circuito delle opere narrative si inserivano le scelte dell’industria editoriale.
Un’altra differenza tra le sorti della ormai nata poesia moderna e il romanzo è legata al diverso modo con cui le due forme letterarie entrarono in rapporto con le tendenze del pensiero e della cultura. Mentre il percorso della poesia, che ebbe il momento di maggior identificazione nel simbolismo, avvenne all’interno degli addetti ai lavori, la narrativa si sviluppò in un organico rapporto con le correnti culturali. È significativo, ad esempio, che nel periodo in cui il Positivismo acquistò il peso di cultura egemone si sia sviluppato il Naturalismo, che cercava di unire arte e metodo scientifico per una rappresentazione scientifica della realtà.
Dall’ultimo decennio del secolo, la crisi della visione del mondo di matrice positivista provocò anche quella del Naturalismo: si svilupparono allora, nel clima di sfiducia nella scienza e di riaffermazione della priorità dell’arte, caratteristico della fine del secolo, esperienze narrative ispirate ad un atteggiamento culturale che si può definire estetismo.
La società si complica, l’innegabile sviluppo portato dalla rivoluzione industriale, da un esaltante progresso scientifico e tecnico porta a nuovi squilibri, e si complica nello stesso tempo il sistema politico che vede al suo interno un maggior numero di soggetti: lo Stato, il governo, i partiti, i sindacati, i gruppi di pressione rappresentati dalle lobby, dalle categorie professionali, dalle corporazioni.
[2] La Scapigliatura – La Scapigliatura per l’Italia rappresenta l’antesignana delle cosiddette avanguardie storiche, sorta dal calo di tensione etica postrisorgimentale e, come in altri Paesi europei, dalla dissoluzione critica del Romanticismo.
a) Il nome e la collocazione topografico-cronologica - La Scapigliatura, movimento il cui nome traduce il senso del termine francese bohème, è un movimento che si sviluppò a Milano, fra il 1860 e il 1890, cioè durante i primi trent’anni dell’Italia unita.
b) La Scapigliatura come reazione antiborghese - Gli Scapigliati, che pur appartengono per nascita all’ambiente borghese, si sentono e si dichiarano al di fuori della società borghese quale si è andata consolidando dopo il ‘60, con la raggiunta unità d’Italia. La borghesia infatti, messi ormai da parte gli ideali e le passioni risorgimentali che pure l’avevano animata negli anni del riscatto, mirava ora - e particolarmente a Milano, dove si stava diffondendosi l’industrializzazione - all’espansione economica, e faceva del successo economico il suo metro di valutazione e di giudizio. La sicurezza nella bontà dei propri principi, che è tipica di ogni classe che detenga il potere in modo indiscusso, la rendeva inoltre avversa a tutto ciò che, rappresentando una trasformazione, minacciava la sua sicurezza.
In questo clima si inserisce la rivolta degli Scapigliati, che diventano gli accusatori di una società dedita al «dio metallo», cioè all’avida conquista del denaro, insensibile ai valori dell’arte, ipocritamente decisa a ignorare gli aspetti turpi e squallidi che pure nella realtà esistono. Parallelamente, essi rifiutano, nella vita concreta, l’ordine e gli agi di quella classe borghese cui appartengono per nascita e vivono polemicamente in modo disordinato e anomalo, dediti come sono, spesso, all’alcool e alla droga.
c) Il «realismo» degli Scapigliati - In letteratura, gli Scapigliati si autodefiniscono dei realisti. Ma il loro realismo ha un carattere del tutto particolare, protestatario ed eversivo. Non si propongono, cioè, una interpretazione ed una rappresentazione della realtà in tutti i suoi aspetti, ma vogliono soltanto denunciarne i risvolti turpi, abnormi, quei risvolti che la società dei benpensanti cancellava dalla propria attenzione. Sono quindi i cantori, fondamentalmente anarchici, dell’orrendo, del macabro, delle contraddizioni irrisolte, delle verità squallide che stanno al di sotto delle confortevoli apparenze.
Al Romanticismo, il grande movimento letterario che lì aveva preceduti, e allo stesso Manzoni gli Scapigliati furono avversi, anche se sentirono l’influsso di alcuni scrittori romantici stranieri.
d) L’influenza di Baudelaire - Recepirono invece, almeno embrionalmente, la lezione del decadentismo, il movimento che andava affermandosi in Francia, e soprattutto la lezione di Baudelaire dal quale derivarono temi e tecniche innovatrici. L’opera maggiore di Baudelaire, I fiori del male, uscita nel 1857, diventò il loro breviario poetico. Fra gli scrittori scapigliati ricordiamo Emilio Praga, Arrigo Boito, Iginio Ugo Tarchetti, Giovanni Camerana, milanese dì nascita il primo, gravitanti tutti sull’area milanese gli altri o perché avevano fatto di Milano la loro città di adozione, o perché mettevano capo culturalmente all’ambiente milanese.
[3] Dal Naturalismo al Verismo:L’estetica naturalista - Il grande prestigio che il pensiero scientifico acquistò nel corso del secondo Ottocento si fece sentire anche nel campo letterario. In particolare i narratori avvertirono l’importanza di accordare il processo creativo sul modello del metodo della ricerca scientifica, giungendo alla formulazione di alcuni criteri generali:
1. il narratore non deve inventare una storia più o meno interessante, ma rappresentare la vera vita dell’individuo e della società;
2. la narrazione si qualifica come studio di un fenomeno di cui si indicano le cause, così che l’arte si risolve, in ultima analisi, in un processo di conoscenza;
3. muta il rapporto tra narratore e opera, nel senso che l’autore è necessariamente portato a far parlare i fatti più che a darne una spiegazione attraverso interventi diretti nella narrazione;
4. l’espressione dei sentimenti si trasforma in spiegazione dei sentimenti, sfruttando a tal fine ciò che in quel periodo veniva scoperto nell’ambito della fisiologia.
Tutte queste istanze, presenti nella narrativa francese che si disse naturalista, vennero ordinate in una teoria del romanzo da Emile Zola, il quale tra il 1868 e il 1893 si impegnò nella scrittura di una ventina di romanzi del ciclo dei Rougon-Macquart che, secondo l’indicazione dello stesso autore, è fa «storia naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero».
Zola espresse le sue idee sul romanzo in uno scritto teorico che ebbe grande rilievo e che fu anche in Italia al centro dell’attenzione. Il titolo dell’opera, Il romanzo sperimentale, annuncia già la tesi di fondo: il romanziere è come lo sperimentatore scientifico, non si limita ad osservare, ma deve scegliere l’argomento, collocare i personaggi in situazioni determinate, studiarne, secondo l’esperienza, le reazioni, farli agire secondo la loro indole. In questo modo egli può rendere chiari i meccanismi dei comportamenti umani e creare in laboratorio una scienza umana che sia in grado di guarire la società dai suoi mali. Egli indica pertanto nel Naturalismo un metodo e non una scuola, e quindi non rivolge la sua attenzione ai problemi di stile; si limita a dire che la lingua deve essere omogenea all’ambiente rappresentato e che il romanziere-sperimentatore non deve in alcun caso comparire all’interno dell’opera.
L’Italia dei veristi e il regionalismo - Il Verismo nasce in Italia intorno al 1870, sulla scia di certa narrativa inglese e russa e soprattutto del naturalismo francese. Fu Luigi Capuana lo scrittore e critico che diffuse in Italia i princìpi del naturalismo francese e pose i presupposti teorici e pratici del verismo. Capuana attenua alcuni aspetti delle tesi di Zola, in particolare l’identificazione tra scrittore e sperimentatore scientifico e imita il carattere di denuncia del romanzo.
Contemporaneamente rivolge un’attenzione particolare ai problemi della forma, che ritiene centrali, e individua il carattere precipuo del romanzo naturalista proprio in un aspetto costitutivo della forma del romanzo, vale a dire nel concetto di impersonalità e di scomparsa dell’autore. Secondo la sua teorizzazione, il romanzo verista dovrebbe essere in grado di ritrarre ogni realtà sociale, non solo la vita semplice e schematizzabile delle classi inferiori, ma anche la vita complessa, soprattutto a livello psicologico, della borghesia, adeguando ogni volta lo stile e il linguaggio al contenuto.
La realtà del proprio tempo, che essi vogliono ritrarre in presa diretta, costituisce abitualmente e programmaticamente la materia dei veristi. Ma in essa il loro interesse si rivolge non già alle classi egemoni, ma ai ceti poveri e frustrati, soprattutto a quel quarto stato che era rimasto ai margini del moto risorgimentale, non educato a parteciparvi, e a cui l’unità d’Italia aveva recato più disagi che vantaggi, aggiungendo nuove imposizioni (tasse, leva militare obbligatoria) alle vessazioni antiche.
Poiché mancava all’Italia, dove l’industrializzazione era ancora agli inizi, quel proletariato operaio delle grandi città che in Francia offre materia ai romanzi di Zola, il mondo che essi ritraggono è quello dei ceti subalterni delle varie regioni italiane, che sono poi le loro regioni d’origine e che essi più profondamente conoscono: i vaccari e i mandriani della Toscana in Fucini, i pescatori, i pastori, i contadini siciliani in Verga e in Capuana.
Di qui il carattere regionalistico che connota il verismo, e che corrisponde alla reale fisionomia del nostro Paese, dove nonostante la raggiunta unità ogni regione aveva continuato a mantenere le sue caratteristiche specifiche e diversificanti.
Le tecniche narrative del verismo - Come i naturalisti francesi, anche i veristi italiani sostengono il principio che lo scrittore deve essere distaccato e obiettivo nei confronti della materia che rappresenta e non deve interferire in essa né col suo giudizio né con la sua sensibilità. «La mano dell’artista» - scrive Verga nella prefazione a una sua novella, L’amante di Gramigna - deve rimanere «assolutamente invisibile», così che l’opera d’arte sembri «essersi fatta da sé, esser sorta ed esser maturata spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore».
Per aderire al reale e per adeguarsi alla «verità» della materia rappresentata, anche la lingua che i personaggi parlano dovrà mantenere caratteri regionali.
Il romanzo del secondo Ottocento – La seconda metà dell’Ottocento, in Italia, come nel resto dell’occidente, è il momento del trionfo della narrativa. Il pubblico della letteratura è in maggioranza composto da lettori di opere narrative come novelle e romanzi e, con la diminuzione dell’analfabetismo, buona parte delle masse capaci di leggere entra in contatto con le idee e i problemi del momento attraverso le pagine dei narratori.
Ciò che più colpisce della produzione narrativa di questo periodo è la varietà, difficilmente ricondurre a filoni o categorie, anche perché accanto alle tendenze e alle scuole che si sviluppano in questo periodo, bisogna tener conto del distribuirsi della produzione su diversi livelli verticali.
Un fenomeno di carattere generale è il convergere dell’attenzione sulle tematiche sociali, la scelta di raccontare il presente, di rappresentare un ambiente, secondo un atteggiamento nuovo che potremmo chiamare realismo descrittivo.
Con la diffusione del realismo, le novelle naturaliste e veriste, la narrazione diventa specchio ed interpretazione della realtà, con l’esplicito intento di riprodurre tranches de vie (scorci di vita) borghesi, popolari e contadini. L’intento dell’autore è quello di rispecchiare la realtà per rendere palesi le ingiustizie sociali, mettere in discussione i luoghi comuni, svelare le incongruenze del reale e le contraddizioni dell’individuo. Tali testi rappresentano, dunque, un impietoso spaccato di vita sociale da ritrarre in modo oggettivo ed impassibile: di qui il principio di impersonalità dello scrittore e dell’opera, anche se non mancano spunti di analisi psicologica. In altri testi la narrazione è più attenta a cogliere le minime sfumature dell’animo, privilegiando moduli di analisi psicologica e ponendo in secondo piano l’intreccio e l’azione.
Il secondo Ottocento vide anche una ricchissima produzione di novelle: non esiste romanziere che non si sia cimentato anche nel genere narrativo di minore dimensione, spesso utilizzandolo come «laboratorio sperimentale» per trovare nuovi linguaggi e nuove soluzioni narrative.
Nell’ultimo decennio del secolo cominciò la crisi del verismo, la letteratura italiana visse un’epoca di profonda crisi della narrativa, la cui tradizione, già debole per motivi storici, venne ulteriormente compromessa dalle scelte antinarrative della letteratura decadente.
Ciò nonostante, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, sempre maggiori furono le influenze delle grandi letterature europee e dei grandi autori d’avanguardia.
Per orientarsi in un quadro caratterizzato dalla pluralità e dalla varietà, si prova a schematizzare la produzione narrativa:
1. narrativa scapigliata fu un’esperienza sviluppatasi soprattutto a Milano a partire dagli anni Sessanta a opera di un gruppo di intellettuali (i fratelli Camillo e Arrigo Boito, Ugo Tarchetti, Emilio Praga) in polemica con l’attardata cultura romantica e con il modello del romanzo manzoniano; ad essa si affianca la scapigliatura piemontese (Giovanni Faldella, Giovanni Camerana). Questi autori, accomunati dalla ricerca della novità sia tematica che formale, sperimentarono strade fra loro diverse. Introdussero il fantastico, l’onirico, la satira d’ambiente, il divertimento ironico, prediligendo forme narrative inusitate come il romanzo breve e la novella lunga.
2. narrativa verista è il filone più importante della seconda metà del secolo. Al modello del naturalismo di Zola si rifece il verismo italiano, teorizzato da Luigi Capuana, che ebbe nei romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1889) e nelle novelle Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883) di Giovanni Verga le sue opere maggiori distinte da tutte le altre per la qualità artistica e per la coerenza delle scelte; vanno comunque segnalati anche i nomi di Luigi Capuana, Federico De Roberto.
3. narrativa d’ispirazione genericamente realista fu legata a molti autori di fine Ottocento che, pur non seguendo un metodo rigoroso come quello dei veristi, si richiamarono ad una solida tendenza realistica ritraendo nei loro romanzi e nelle loro novelle le realtà socio-culturali della regione cui appartengono. Ad esempio gli aspetti sociali del capitalismo nascente si riflettono negli scrittori d’area piemontese Gerolamo Rovetta ed Emilio De Marchi, mentre i romanzieri toscani come Renato Fucini e Mario Pratesi sono soprattutto attenti al mondo contadino e ai problemi della mezzadria colti in una fase di trasformazione sociale ed economica. Diversa ancora la narrativa degli scrittori dell’area napoletana (Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio) per i quali lo scenario naturale è Napoli, la grande metropoli meridionale, caratterizzata da una situazione particolare per la presenza di una cultura popolare di grandi tradizioni. È una realtà di miseria e di degrado.
4. · romanzo d’appendice è propriamente quel romanzo che, a cavallo fra Otto e Novecento, veniva pubblicato a puntate sui giornali, solitamente nella parte inferiore della pagina dove occupava lo spazio rimasto libero dopo l’impaginazione degli articoli. L’espressione che nacque per indicare un dato oggettivo più tardi venne a coincidere con una definizione di valori e di qualità per distinguere una forma narrativa con una distinta fisionomia e una qualità minore. Il romanzo d’appendice che si rivolge a un pubblico popolare, non proponeva nuove invenzioni narrative ma temi, personaggi, schemi già collaudati. Tra gli autori di maggior successo Carolina Invernizio, Neera, Francesco Mastriani.
bisogna, infine, ricordare alcuni scrittori che non rientrano nelle tendenze elencate:
5. Le voci di un’Italia bambina: Cuore e Pinocchio. Due romanzi che raggiunsero il maggior successo di pubblico furono due libri per l’infanzia: Cuore di De Amìcis che raggiunse un vastissimo pubblico e Pinocchio di Carlo Collodi, il libro più letto di tutto il secondo Ottocento. Cuore di Edmondo De Amìcis si colloca in un momento cruciale della storia italiana, quando la nazione appena nata stava ancora cercando principi comuni in cui identificarsi. Gli alunni del maestro Perboni rappresentano un inventario di modelli ideali del futuro cittadino perfetto, ad uso e consumo dei piccoli italiani: nella prospettiva risorgimentale di De Amicis, il bambino è visto come adulto in miniatura, già impegnato con i propri minuscoli mezzi nell’eterna lotta tra il bene e il male. Nulla è lasciato alla fantasia, all’illogicità magica e ammaliante propria della visione infantile. Anche Le avventure di Pinocchio di Collodi sembra sostenersi su un progetto di tipo pedagogico. La celebre favola mette in scena la trasformazione di un burattino in bambino vero, metafora del passaggio dall’età informe e irrazionale dell’infanzia al tempo regolato e maturo dell’età adulta. Eppure, se il capolavoro di Collodi è ancora attuale, è perché Pinocchio, con la sua credulità, la furbizia disinteressata, la pigrizia e gli slanci di affetto, rappresenta in modo geniale il mondo di ogni bambino. Così come tutti i personaggi che accompagnano il burattino nelle sue avventure, dalla Fata Turchina a Mangiafuoco, dal Grillo Parlante al Gatto e la Volpe, sono un riflesso della sua paura, dei sogni e dei più folli e irrealizzabili desideri. Il libro Cuore di De Amicis è, realista e urbano, quanto Pinocchio è fiabesco e contadino. Pinocchio è una favola rispetto al libro Cuore, perché vi troviamo elementi fantastici che nell’altro non vi sono. Il libro Cuore parla di ragazzi e non di burattini. Quello di De Amicis è un libro dove si parla di fatti concreti, reali, di giovani di scuola, di rapporti fra ragazzi e di sentimenti mentre in Pinocchio vengono raccontati fatti che sono frutto di una fantasia, talvolta sfrenata e spesso surreale.
6. Paolo Valera, l’unico scrittore militante socialista che fece della sua narrativa uno strumento di propaganda, fu autore de La folla. Protagonista di questo studio, allo stesso tempo psicologico e sociale, è la galleria dolente e multiforme di oppressi che popolavano il Casone del Terraggio di Porta Magenta. A questa folla ai margini appartiene Annunciata, esuberante popolana che per anni ha ovviato con disinvoltura a gravidanze indesiderate e che poi non ha pace al ricordo dei suoi delitti materni; Agata Maddaloni, madre di undici figli affamati che, nei momenti lugubri, è assalita dal pensiero spaventoso di gettarne uno dalla ringhiera “per far sapere con una tragedia che i suoi figli muoiono di fame”; indimenticabile anche la famiglia Cristaboni, che riassumeva tutto ciò che vi era di tragico e deforme nel Casone.
7. Antonio Fogazzaro ebbe idee decisamente contrarie alla poetica del Verismo. Risalendo alle esperienze idealistiche del primo romanticismo nordico, Fogazzaro propose un’arte che recuperasse alle radici, nella sua primordiale sublimità, la natura umana, sostenendola nella incessante e drammatica lotta contro la “bestia oscura che sopravvive in noi”. Fogazzaro sposta l’attenzione dalla realtà esterna a quella interiore e tenta le vie della scoperta del subconscio, rientrando per questo nell’area del decadentismo. I suoi romanzi, da Malombra, il primo ed il più esemplare, a Piccolo mondo antico, il suo capolavoro, e Piccolo mondo moderno, sono testimonianza di una vita tormentata, vissuta nella solitudine della propria coscienza. Spirito profondamente religioso, visse la sua religiosità con scarso equilibrio, ma con intenso fervore, pervaso spesso da una sorta di esasperato misticismo che più volte lo fece deviare dall’ortodossia cattolica. Smanioso di liberarsi dalle pastoie di un conformismo borghese opprimente, fu però incapace di formulare in termini di chiarezza una nuova visione della società, delle sue regole, della sua cultura. Le caratteristiche più salienti della sua arte sono da individuare appunto nel costante turbamento derivante dal contrasto insolubile tra la sua sensualità e il suo misticismo, nei continui tentativi di mettere a nudo tutto quanto è riposto nel più profondo dell’animo, nella tendenza a forgiarsi uno stile quanto più possibile alieno dalla tradizione.
8. Gabriele D’Annunzio fu autore di vari romanzi, in alcuni dei quali tuttavia è abbastanza visibile la traccia dell’esperienza naturalista e verista anche se per lo più la sua narrativa si svolse nell’ambito del Decadentismo. Il suo primo romanzo, Il piacere del 1889, mentre da un lato sembra indulgere all’analisi psicologica dell’amore secondo il metodo seguito da Flaubert e da Maupassant, dall’altro si compiace di esasperare l’egocentrismo del protagonista, Andrea Sperelli e la sua tendenza estetizzante nel godimento del piacere. E così pure nei due successivi romanzi, Giovanni Episcopo del 1891 e L’innocente del 1892, mentre è evidente che intende rifarsi al realismo di Dostoevskij e Tolstoj, dal primo soprattutto riprende il metodo di scandagliare fino in fondo la coscienza umana, riprende cioè quell’atteggiamento che lo avvicina ai decadenti. Insomma quello che maggiormente risalta nei suoi primi romanzi è una sorta di pendolarismo fra realismo e decadentismo, con la tendenza però a liberarsi gradualmente del primo per approdare con maggiore consapevolezza al secondo. Difatti è singolare l’esaltazione che il D’Annunzio fa del protagonista de L’innocente, Tullio Hermil, e finanche del suo terribile delitto: lo scrittore, con la chiara volontà di destare scandalo, fa dire a Tullio che “la giustizia degli uomini non lo tocca”, avvicinandosi così sempre più alla creazione del suo ideale di uomo, il superuomo. Altro passo innanzi in questa direzione si ha con il Trionfo della morte del 1894, il cui protagonista, non potendo possedere della sua donna anche l’anima, procura la morte ad entrambi. L’immagine del superuomo è finalmente compiuta nei tre romanzi successivi: Le vergini delle rocce, Il fuoco e Forse che sì, forse che no, rispettivamente del 1895, del 1898 e del 1910.
La lirica del secondo Ottocento – Accanto alla multiforme vitalità del romanzo la produzione lirica continuò ad avere un posto di prestigio, anche se non poteva certo competere con le capacità di farsi leggere del romanzo. Come per la prosa, bisogna allargare lo sguardo alle esperienze straniere che offrono modelli nuovi ai nostri poeti. In primo luogo va però ricordata la diversità della situazione italiana rispetto a quella europea: mentre in Europa l’esperienza della lirica romantica era stata ricca di opere e di autori che avevano dato vita a una nuova poesia, in Italia emergeva da un panorama piuttosto piatto, altissima ma inimitabile, la voce poetica di Leopardi. Questo ci aiuta a spiegare perché i grandi mutamenti che caratterizzarono il genere lirico nella seconda metà del secolo avvengono al di là delle Alpi, in Francia in particolare e solo più tardi giungono anche da noi. Si trattò di un processo rilevante nella storia della lirica, una vera e propria svolta che segnò la nascita della lirica moderna. In questo processo il linguaggio lirico divenne più difficile e la poesia si trasformò in genere d’elite nel momento in cui gli altri generi andavano invece conquistando un pubblico più vasto. Mutarono in primo luogo la figura del poeta e l’idea stessa di poesia: il poeta non sentì più se stesso come portavoce dei valori e dei sentimenti generali colti nella eccezionalità della sua esperienza individuale, rifiutò ogni funzione di «poeta-vate», depositario e trasmettitore di messaggi, per rivendicare invece un’estraneità rispetto al proprio tempo, il rifiuto di una società rispetto alla quale si sentiva diverso.
Questo atteggiamento, che contrasta decisamente con l’idea romantica, venne teorizzato per la prima volta dal poeta francese Charles Baudelaire che ispirò la sua stessa vita alla irregolarità, al disordine, all’eccentricità, divenendo il modello per molti altri artisti e letterati sia francesi sia europei. Insieme a Baudelaire, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé diedero vita ad un movimento detto simbolismo, che ebbe una nascita ufficiale col Manifesto del simbolismo pubblicato nel 1886. Il dato che più colpisce nell’opera di questi poeti è il carattere inconsueto dei loro versi: essi teorizzano la libertà d’invenzione, l’importanza decisiva del suono, la rottura della sintassi e delle forme metriche tradizionali fino alla disarmonia. Il linguaggio poetico abbandona ogni modo descrittivo per cercare l’espressione più elaborata, soggettiva, oscura; la struttura prevalente è analogica, abolisce cioè i nessi logici espliciti e procede per accostamenti, parallelismi, contrapposizioni. S’impose anche l’inconsueta scelta tematica: in parte si trattò di temi nuovi quali le immagini della città caotica, lo spettacolo della folla, il vagheggiamento di evasioni esotiche oppure lo smascheramento polemico delle apparenze, del perbenismo; in altri casi i temi nascevano dall’introspezione ed erano quelli da sempre presenti nella poesia, quali la memoria, il sogno, i dissidi interiori, ma trasformati in esperienze eccezionali, estreme, e trasfigurate in simboli. In questo modo entrarono nella poesia anche il brutto, il demoniaco, il peccato, e più in generale cadde la convenzione per la quale i temi bassi erano esclusi dall’espressione lirica. La poesia e le teorizzazioni dei simbolisti francesi furono presto note in Italia ed esercitarono un’influenza sui nostri poeti. Tuttavia i veri eredi del movimento furono gli scrittori del Novecento, nel senso che soltanto allora si colse la globalità di quell’esperienza.
In particolare il quadro della produzione lirica dalla metà dell’Ottocento fino al primo decennio del secolo successivo può essere così disegnato:
1. la tradizione classicista: ha un momento di rinascita e di rinnovamento nell’opera di Giosuè Carducci, che la rivitalizza riproponendo la missione etico-civile del poeta e l’esaltazione del lavoro rigoroso sulla forma. Carducci, che scriveva negli stessi anni di Baudelaire, fu maestro di una tendenza che, se oggi è poco apprezzata, sicuramente ebbe un peso rilevante nella cultura del tempo ed ebbe i seguaci più illustri in Severino Ferrari, Enrico Panzacchi, Giovanni Marradi;
2. la poesia scapigliata: Emilio Praga, Arrigo Boito, Giovanni Camerana, Ugo Tarchetti produssero una poesia che rappresenta la punta avanzata verso il nuovo, ma che si esaurisce nel rinnovamento tematico e in qualche limitata sperimentazione formale. Essi furono affascinati dai temi audaci e inconsueti dei simbolisti, e li assunsero come propri svuotandoli dei significati più profondi e inquietanti e riducendoli a espressioni di bizzarria, di originalità, di anticonformismo;
3. l’esperienza poetica legata al verismo: alcuni scrittori trasportarono in versi l’idea di una nuda e veritiera rappresentazione della realtà; ricordiamo qui il nome di Olindo Guerrini, che usava lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti;
4. la poesia dialettale: spiccano, fra gli altri, i nomi del romano Cesare Pascarella e del napoletano Salvatore di Giacomo;
5. la poesia crepuscolare: è un fenomeno abbastanza circoscritto che si sviluppò tra il 1903 e il 1911 e coinvolse un gruppo di poeti che, schiacciati tra l’eredità pascoliana e quella dannunziana, presero una strada comune e furono in genere uniti da rapporti di amicizia e di solidarietà nelle scelte letterarie e negli atteggiamenti esistenziali. Il termine crepuscolare nacque in sede critica e fu scelto perché indica sia la luce dell’alba sia quella del tramonto e rimanda quindi ai significati di estenuazione, fine, ma anche a quelli di alba, di realtà nuova che sorge. Si tratta di una poesia costruita intorno a terni ricorrenti: le piccole cose, il quotidiano, l’intimo, il ritorno all’infanzia, le lacrime, la malattia, la noia, l’indifferenza. Altrettanto costanti i caratteri della lingua e dello stile: una generale facilità di linguaggio, l’abbassamento dei lessico, l’accentuazione della rima o al contrario la ricerca di un andamento del verso che si avvicina alla prosa. Tra i poeti crepuscolari si può distinguere un gruppo romano, nel quale spicca la figura di Sergio Corazzini, e un gruppo torinese, del quale fa parte, oltre al maggiore di loro Guido Gozzano, autore del poemetto La signorina Felicita ovvero la felicità, Carlo Chiaves. Iniziatore del modo crepuscolare di far poesia si considerò il ferrarese Corrado Govoni.
6. la poesia di Giovanni Pascoli e di Gabriele D’Annunzio: le loro voci s’impongono tra la fine del secolo e i primi anni del Novecento e riportano su un piano più alto la storia della lirica. Iscrivendosi in un panorama di respiro europeo, segnano la fine del classicismo e il vero inizio della lirica moderna nella tradizione italiana
[4] Cletto Arrighi – Cletto Arrighi, pseudonimo anagrammato dal vero nome di Carlo Righetti, nacque a Milano nel 1828 (nel 1830 secondo altre fonti).
Fu ufficiale dei dragoni lombardi durante la prima guerra di indipendenza. Si dimise dopo la sconfitta di Novara e partecipò alla seconda guerra di indipendenza come soldato semplice dell'esercito piemontese. Di questa esperienza abbiamo notizia dal suo Memorie di un soldato lombardo pubblicato a Milano nel 1863, insieme ad un’altra opera di genere autobiografico: Memorie di un ex-repubblicano del 1864.
Laureato in legge, si dedicò però principalmente al giornalismo e alla letteratura. Nel 1860 fondò la «Cronaca Grigia» uno dei periodici più significativi della Scapigliatura, interamente compilato da lui stesso. Eletto deputato nel 1867 per il collegio di Guastalla, rinunciò alla carica prima dello scadere del mandato per protesta contro il malcostume parlamentare, da lui satireggiato nel suddetto periodico. In seguito, nel periodo di avvento al potere della Sinistra, fu direttore del giornale «L’Unione» (1876). Collaborazioni saltuarie ebbe anche con altri periodici satirici come «L'uomo di pietra» e «La farfalla».
Il matrimonio contratto nel 1872 fu di breve durata a causa della prematura morte della moglie nel 1876.
Fu un tipico rappresentante della Scapigliatura milanese, la quale deve a lui il suo nome; pubblicò infatti il romanzo La scapigliatura e il 6 febbraio: un dramma in famiglia (1862) ispirato a una rivolta dei giovani mazziniani a Milano nel 1853.
Anche se artisticamente inferiore rispetto ai maggiori scapigliati, dimostrò sensibilità e acume critico nello scoprire e incoraggiare giovani scrittori, tra i quali prima di tutto C. Dossi.
Il suo primo romanzo, Gli ultimi coriandoli, riecheggia le tematiche patriottico-sociali di Rovani, di cui era amico e ammiratore; uscì censurato nel 1857 e in edizione integrale dieci anni dopo.
La giornata di Tagliacozzo (1858) è un romanzo storico (il seguito, in pratica, de La battaglia di Benevento del Guerrazzi), ripubblicato col titolo Il diavolo rosso nel 1863; sempre del 1863 è la parodia del capolavoro di Manzoni Gli sposi non promessi.
Scrisse romanzi scandalistici in seguito alla diffusione in Italia del "naturalismo" francese, come I quattro amori di Claudia, (1877), Nanà a Milano (1880), La mano nera (1883), La canaglia felice (1885). Questa produzione fu da lui sconfessata due anni prima della morte di fronte al vescovo di Milano, insieme alle concezioni materialistiche e anticlericali prima professate.
Come commediografo diede forte impulso al teatro dialettale, organizzando una compagnia che ebbe una sede stabile, "Il Teatro milanese", e della quale fecero parte attori celebri come G. Sbodio e E. Ferravilla. Scrisse circa quaranta commedie in dialetto milanese; tra le più importanti El barchett de Buffalora; On milanes in mar; il Dì de Natal e Un pret che sent de vess omm. I suoi tentativi teatrali in italiano furono invece totalmente fallimentari. Il suo Dizionario milanese-italiano fu premiato nel concorso 1890-93 indetto dal ministero della pubblica istruzione. La cessazione dell'impresa teatrale, alla quale aveva contribuito anche finanziariamente, e la mania del gioco lo ridussero in gravi ristrettezze economiche. Grazie anche all'intervento di Francesco Crispi trovò impiego all'archivio di Stato, ma questo non gli impedì di finire i suoi giorni dedito all'alcol e in grande miseria.
Morì a Milano il 3 novembre 1906.
[5] Vita dei campi – Questa raccolta del 1880, comprende le seguenti novelle: Cavalleria rusticana; Fantasticheria; Guerra di santi; Jeli il pastore; Pentolaccia; Rosso Malpelo; La Lupa; L’amante di Gramigna.
L’ambiente è quello della Sicilia dei pastori, dei contadini, dei pescatori, dei minatori, che strappano alla vita, appena il necessario per vivere. Gran parte delle novelle ruotano intorno al cardine tematico dell’amore-passione, indagato nelle sue espressioni più accese e sanguigne, in quanto riflesso di una elementare comunità rusticana (L’amante di Gramigna, Pentolaccia, Cavalleria rusticana, La Lupa).
Le novelle migliori della raccolta sono Jeli il pastore e Rosso Malpelo, fondate entrambe sul motivo dell’estraneità dei protagonisti rispetto ad un determinato ambiente.
Con "Vita dei Campi", Verga inaugura la stagione dei capolavori, mostrando una profonda adesione alla tecnica verista del racconto. Egli scrive che l’opera d’arte deve sembrare "essersi fatta da sé", deve essere "spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore".
[6] Giovanni Verga vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, è il massimo esponente del Verismo italiano.
La vita - Nato nel 1840 a Catania da una famiglia di proprietari terrieri di spiriti liberali, compì in questa città gli studi medi.
Negli anni della giovinezza si entusiasmò per gli ideali risorgimentali e si appassionò alla letteratura e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza catanese ai quali era stato avviato dal padre senza peraltro pervenire alla laurea.
Lasciati gli studi giuridici, iniziò la sua attività di narratore componendo romanzi storici e patriottici e si impegnò nel giornalismo politico.
Dal 1865 al 1871 soggiornò a Firenze, dove venne a contatto con un ambiente letterario più aperto di quello siciliano. Ivi conobbe il conterraneo Capuana che, ammiratore dei naturalisti francesi, ne fece conoscere in Italia l’insegnamento, elaborando la poetica del verismo, cui più tardi Verga doveva aderire.
Dal 1872 al 1893 visse a Milano, dove frequentò l’ambiente degli Scapigliati, dove compose, dopo una vasta e mediocre produzione tardo-romantica (romanzi e novelle), e dove cominciò a respirare l’aria della cultura europea e accolse gradatamente i principi del Naturalismo. A questa realtà Verga rivolse la sua attenzione dal 1874 con il bozzetto Nedda, che segnò la cosiddetta «svolta al Verismo». Da quel momento compose prevalentemente novelle e romanzi ambientati in Sicilia, fra cui i romanzi I Malavoglia e Mastro don Gesualdo.
Deluso dallo scarso successo dei suoi romanzi e dalla sempre maggiore diffusione, all’interno della società, della logica dell’utile e dell’egoismo, Verga tornò a Catania cessò quasi del tutto l’attività letteraria dedicandosi negli ultimi venti anni della sua vita alla fotografia e abbandonando la letteratura.
Mori a Catania nel 1922.
L’opera - La produzione letteraria di Verga è molto ricca e varia: spazia dal romanzo storico-patriottico alla narrativa verista.
a) I tre momenti della narrativa verghiana - Nella produzione narrativa di Verga sono distinguibili tre momenti:
1. in un primo tempo, mediocri romanzi storici.
2. Successivamente romanzi che rappresentano situazioni languide e lacrimose, come la vicenda di una giovinetta che diventa monaca a forza e che si conclude con la pazzia e la morte della protagonista (Storia di una capinera), oppure presentano personaggi d’eccezione, come artisti, donne bellissime e fatali, a volte non prive dell’alone fascinoso dell’esotismo (Una peccatrice, Eva, Eros, Tigre reale).
3. Il terzo tempo, quello verista, nasce da una decisa svolta sia morale sia artistica dello scrittore. Stanco ormai del mondo egocentrico e superficiale rappresentato nei romanzi del secondo periodo, Verga torna col pensiero all’umile gente della sua Sicilia: pescatori, contadini, pastori, piccola borghesia di provincia, e alla loro vita dura e stentata, segnata da fatiche e dolori. Le opere più significative sono le raccolte di novelle, Vita dei campi (1880) che precede il romanzo I Malavoglia (1881) e le Novelle rusticane (1883), che precede Mastro-don Gesualdo (1889).
b) La grande stagione verista - La tecnica del verismo, col principio dell’adesione al reale e col rifiuto della interferenza e degli abbandoni emotivi dello scrittore, appare al Verga la migliore per rappresentare l’amara esistenza degli umili della sua terra.
Il momento verista di Verga è preannunciato da una novella, Nedda, composta nel 1874. Nedda è la storia di una povera ragazza siciliana, raccoglitrice di olive, oppressa dalla miseria anche nei suoi affetti, e la sua vita è narrata secondo la tecnica veristica di lasciare che le cose parlino da sé.
Su questa direttiva lo scrittore compone successivamente le sue opere maggiori: le novelle delle raccolte Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883) in cui sono rappresentati situazioni e ambienti siciliani, sentimenti e passioni elementari vissute spesso con drammatica violenza e i due romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1888).
Di questi, il primo narra le vicissitudini di una famiglia, i Malavoglia, che abitano ad Aci Trezza, un paesino vicino a Catania. Una tempesta ha distrutto la barca che era il loro mezzo di sostentamento, ed essi sono costretti, per pagare i debiti contratti, a vendere la casa, la «casa del nespolo», che è il simbolo della loro unione familiare.
Segue la storia delle loro fatiche per resistere al bisogno; il cedimento di alcuni di loro, che abbandonano la famiglia e il paese per cercare altrove fortuna; le rinunce di tutti quelli che restano, che non saranno a sufficienza compensate dalla casa finalmente riacquistata, perché la famiglia non è ormai più quella di un tempo a causa di chi se ne è andato e di chi è morto.
Intorno ai Malavoglia si muovono, sfondo e coro a un tempo, gli abitanti di Aci Trezza, con le loro beghe, i loro sentimenti, le sofferenze, le chiacchiere, i pettegolezzi.
Il protagonista del secondo romanzo è Mastro don Gesualdo, un muratore di Vizzini, paese alle falde dell’Etna, dove il Verga aveva lungamente soggiornato da ragazzo.
Mastro don Gesualdo, lavorando fino a stremarsi, è uscito dalla miseria ed è diventato un ricco imprenditore; vuole perciò elevarsi socialmente col matrimonio e il suo denaro gli permette di sposare l’ultima discendente di una famiglia nobile ormai decaduta, i Trao. Ma la donna, che lo ha accettato per necessità, non lo ama; la figlia, che egli fa educare nei collegi più esclusivi di Palermo, si vergogna dell’umile origine paterna.
Gesualdo morirà solo, in una fredda mattina, trascurato da tutti, nel palazzo palermitano del genero, dove ha assistito allo sperpero di quella ricchezza, della roba, per cui si è logorato la vita.
Tanto i Malavoglia quanto Mastro don Gesualdo sono, in modo diverso, dei vinti, ed il Ciclo dei vinti è stata chiamata da Verga la serie che essi aprono (gli altri tre romanzi, che dovevano completarlo, non furono mai scritti).
Con questa opera Verga si proponeva di rappresentare le manifestazioni, diverse a seconda dei gradini della scala sociale, di quelle irrequietudini per il benessere che spingono gli uomini a mutare stato, a uscire dall’ambiente in cui sono nati per migliorare le proprie condizioni economiche e sociali. In qualunque modo si manifestino, queste aspirazioni sono destinate al fallimento, i più deboli, incapaci di adeguarsi alle ferree leggi dell’utile e dell’interesse, sono travolti, vinti dalla fiumana incessante del progresso; d’altra parte i vincitori di oggi saranno vinti domani e pagheranno il benessere materiale con la perdita della propria dimensione umana.
Nel suo radicale pessimismo, Verga considera queste sconfitte come fatalmente legate al destino degli uomini.
Nonostante l’impegno veristico di obiettività e di distacco, la pietas dello scrittore, di fronte a questa condizione umana, traspare, in modo implicito, nei gesti, negli atteggiamenti, nei pensieri dei personaggi e nel ritmo stesso del dialogo e del racconto. L’alta poesia di queste due opere nasce proprio dalla controllata emozione tradotta in «cose».
c) Il linguaggio verghiano - Per aderire alla realtà rappresentata, Verga dà alla sua lingua una coloritura regionale, ottenuta qualche volta introducendo vocaboli dialettali siciliani, ma più spesso costruendo il periodo sulle strutture e sul ritmo del periodo dialettale. Inoltre, lo scrittore si sforza di trasferire nel linguaggio la «forma mentale» dei suoi personaggi, sia che essi parlino in discorso diretto, sia che i loro pensieri e le loro parole vengano riferiti nel discorso indiretto.
In questa direzione è significativo l’uso frequente dei proverbi, attraverso i quali essi esprimono la loro atavica tradizione sapienziale, la loro «cultura».
Allo stesso modo, per filtrare i concetti attraverso la levatura mentale, le abitudini dei suoi personaggi, lo scrittore ricorre alle similitudini tratte dall’umile esperienza quotidiana che essi vivono. Per esempio, il vecchio padron ‘Ntoni, parlando del giovane nipote che è andato a fare il soldato e che si lascia ingenuamente affascinare dalle meraviglie della città, dice che «è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero a un chiodo arrugginito». E sono esempi che possono abbondantemente moltiplicarsi.
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