Don Abbondio e i bravi
da I promessi sposi di Alessandro Manzoni[1]
· Il primo estratto che ti proponiamo è tratto dal capitolo I de I promessi sposi. Il capitolo si apre con un'ampia e dettagliata contestualizzazione dell'ambiente nel quale si svolgerà la storia e ci fornisce alcune precise indicazioni temporali (è il 7 novembre 1628), ma soprattutto dà avvio alla vicenda, mettendo in scena una delle tematiche che percorreranno l'intero romanzo: lo scontro violentissimo tra povertà e semplicità da un lato, arroganza, prepotenza e ingiustizia dall'altro.
· In primo piano troviamo un povero parroco di campagna, don Abbondio, che non vuole guai con i potenti del circondario e che, anziché stare dalla parte della povera gente e difenderla dai soprusi, si lascia intimidire al punto da far saltare il previsto matrimonio tra quelli che saranno i protagonisti del romanzo, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Contro di lui, due sgherri del signorotto della zona, don Rodrigo: due sicari, dall'aria minacciosa e con le armi bene in vista, che spaventano il povero curato con minacce non troppo velate e con un'arroganza che deriva loro dall'impunità di cui godono e dalla forza bruta con cui sono soliti dirimere le loro questioni, in barba alle leggi. Il loro padrone si è invaghito di Lucia e la vorrebbe per sé: ecco la causa di questo atto di prepotenza; e don Abbondio cederà alle pressioni.
· Il brano appartiene al primo capitolo dei promessi sposi. La storia narrata è molto chiara: siamo nei dintorni del lago di Como e due scagnozzi di un signorotto del luogo, don Rodrigo, abbordano don Abbondio, il curato del paese, minacciandolo di morte se sposerà due giovani popolani suoi parrocchiani, Renzo e Lucia. Il loro padrone si è incapricciato della ragazza e la vuole per sé: il parroco, pauroso e imbelle, cederà.
· La vicenda però ci viene presentata con una gradualità che crea suspense nel lettore; dapprima le esitazioni del parroco che non comprende subito la situazione, poi le minacce, mai troppo esplicite, infine le riflessioni di don Abbondio spaventatissimo, ci permettono di recuperare solo un po' alla volta le coordinate della vicenda, della quale, in partenza, non sappiamo quasi nulla.
· I personaggi che animano la vicenda sono tra loro estremamente differenti. Don Abbondio ci viene presentato con una complessità e un livello di approfondimento psicologico subito molto ampi: il narratore ci informa sia sulla sua condizione sociale e la sua storia personale, sia su tutti i suoi pensieri e stati d'animo. Si capisce immediatamente che il curato è un personaggio negativo, che per paura viene meno ai propri doveri sacerdotali, e per questo lo scrittore lo condanna disegnandone un ritratto spietato e sarcastico; per contro, però, è disposto a comprenderlo, vittima com'è delle difficilissime condizioni nelle quali si viveva in quell'epoca. In fondo, sembra dire Manzoni, non è tutta colpa sua. A lui sono contrapposti i bravi, anch'essi frutto della stessa epoca, ma verso i quali l'atteggiamento dello scrittore è di più netta condanna: il loro atteggiamento, l'arroganza e la protervia, persino il loro pittoresco aspetto fisico ("L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione") ce ne forniscono un'immagine indiscutibilmente negativa. Sono il braccio violento del potere, lo sanno e ne approfittano cinicamente.
· In questo estratto Manzoni mette subito in atto una tecnica che sarà fondamentale nell'impianto dell'intero romanzo, ossia la digressione. Che abbia contenuto descrittivo, narrativo, riflessivo, informativo, la digressione è una parentesi che interrompe il flusso della narrazione per introdurre un argomento che ci fornisce informazioni più ampie e dettagliate su quanto stiamo leggendo, su uno dei personaggi, sul contesto nel quale si svolge la storia. Si tratta di uno strumento funzionale proprio al romanzo storico, che fonda gran parte della propria credibilità sulla ricchezza del lavoro preparatorio e delle fonti di informazione e di documentazione, di cui consente di rendere conto. In questo estratto, la digressione è narrativa e serve a presentarci con particolare ricchezza di dettagli il personaggio più importante di questa parte, don Abbondio, per comprenderne di più la personalità e per contestualizzare meglio la vicenda.
· Lo stile presenta alcune caratteristiche fortemente rilevate. La narrazione è effettuata da un esterno e onnisciente, che però non perde occasione per caratterizzare in modo marcato i propri personaggi. Ad esempio, nel caso dei bravi, i loro interventi diretti sono accompagnati da numerose reticenze, ossia passaggi nei quali, per apparire più minacciosi, essi non dicono tutto ma non lasciano dubbi su ciò che intendono comunicare ("Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende").
· La stessa tecnica viene usata per caratterizzare don Abbondio, ma in maniera assai differente: egli infatti spezzetta le proprie frasi e persino i propri pensieri perché ha paura ed è in preda a un tale stato di agitazione che gli impedisce di connettere in modo compiuto ("e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuoi contraddirgli...ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per non saper che fare, s'innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro").
Per una di queste stradicciole[2], tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato[3] d'una delle terre accennate di sopra[4]: il nome di questa, né il casato[5] del personaggio, non si trovan nel manoscritto[6], né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio[7], e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario[8], tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto[9], si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio[10], giunse a una voltata[11] della stradetta, dov'era solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon[12]: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l'altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all'anche del passeggiero[13]. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo[14], sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell'intenzion dell'artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir[15] fiamme; e, alternate con le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo[16], con qualche scalcinatura[17] qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente[18], per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione[19]. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde[20], che cadeva sull'omero[21] sinistro, terminata in una gran nappa[22], e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi[23] arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere[24], cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d'ottone[25], congegnate come in cifra, forbite e lucenti[26]: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de' bravi[27].
Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica.
[…]
Che i due descritti di sopra stessero ivi[28] ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l'aspettato era lui[29]. Perché, al suo apparire, coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; e tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne[30] subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza[31] lo rassicurava alquanto: i bravi però s'avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità[32] che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini[33], disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi.
- Signor curato, - disse un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia.
- Cosa comanda? - rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
- Lei ha intenzione, - proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia[34], - lei ha intenzione di maritar[35] domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
- Cioè... - rispose, con voce tremolante, don Abbondio: - cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere[36]; e noi... noi siamo i servitori del comune[37].
- Or bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, - questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai.
- Ma, signori miei, - replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, - ma, signori miei, si degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca...
- Orsù, - interruppe il bravo, - se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco[38]. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende.
- Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...
- Ma, - interruppe questa volta l'altro compagnone[39], che non aveva parlato fin allora[40], - ma il matrimonio non si farà, o... - e qui una buona bestemmia, - o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... - un'altra bestemmia.
- Zitto, zitto, - riprese il primo oratore: - il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: - se mi sapessero suggerire...
- Oh! suggerire a lei che sa di latino! - interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. - A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don Rodrigo?
- Il mio rispetto...
- Si spieghi meglio!
-... Disposto... disposto sempre all'ubbidienza -. E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.
- Benissimo, e buona notte, messere, - disse l'un d'essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. - Signori... - cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui gli era toccato di vivere.
Don Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui.
[…]
Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno[41]: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare[42]. Don Abbondio, assorbito continuamente ne' pensieri della propria quiete, non si curava di que' vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d'adoperarsi molto, o d'arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata[43] in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche[44], tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte[45] tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando[46] di far vedere all'altro ch'egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da' prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose[47], corrispondendo con sommissioni[48] a quelle che venissero da un'intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d'inchini e di rispetto gioviale[49], anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl'incontrava per la strada, il pover'uomo era riuscito a passare i sessant'anni, senza gran burrasche.
Non è però che non avesse anche lui il suo po' di fiele in corpo[50]; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que' tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato[51] a segno che[52], se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po' di sfogo, la sua salute n'avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v'eran poi finalmente[53] al mondo, e vicino a lui, persone ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d'essere un po' fantastico[54], e di gridare a torto. Era poi un rigido censore[55] degli uomini che non si regolavan[56] come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto[57] era almeno un imprudente; l'ammazzato era sempre stato un uomo torbido[58]. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi, declamava contro que' suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d'un debole oppresso, contro un soverchiatore potente[59]. Questo chiamava[60] un comprarsi gl'impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch'era un mischiarsi[61] nelle cose profane[62], a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr'occhi, o in un piccolissimo crocchio[63], con tanto più di veemenza[64], quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi[65], in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi panni[66], non accadon mai brutti incontri.
Pensino ora i miei venticinque lettori[67] che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato. Lo spavento di que' visacci e di quelle parolacce, la minaccia d'un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch'era costato tant'anni di studio[68] e di pazienza, sconcertato in un punto[69], e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente[70] nel capo basso di don Abbondio. "Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per non saper che fare, s'innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de' travagli in che[71] mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Son io che voglio maritarmi? Perché non son andati piuttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l'occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro imbasciata[72]..."Ma, a questo punto, s'accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell'iniquità[73] era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de' suoi pensieri contro quell'altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, né aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento[74], e la terra con la punta del suo cappello[75], quelle poche volte che l'aveva incontrato per la strada. Gli era occorso[76] di difendere, in più d'un'occasione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto[77]: aveva detto cento volte ch'era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede in cuor suo tutti que' titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch'era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: - Perpetua[78]! Perpetua! -, avviandosi pure[79] verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena.
Era Perpetua, come ognun se n'avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l'età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche.
- Vengo, - rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch'egli v'entrò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.
- Misericordia! cos'ha, signor padrone?
- Niente, niente, - rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone.
- Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com'è? Qualche gran caso è avvenuto.
- Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire.
- Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?...
- Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.
- E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! - disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.
- Date qui, date qui, - disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina.
- Vuol dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone? - disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.
- Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita!
- La vita!
- La vita.
- Lei sa bene che, ogni volta che m'ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai...
- Brava! come quando...
Perpetua s'avvide d'aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, - signor padrone, - disse, con voce commossa e da commovere, - io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l'animo...
Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: - per amor del cielo!
- Delle sue! - esclamò Perpetua. - Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!
- Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?
- Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?
- Oh vedete, - disse don Abbondio, con voce stizzosa: - vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell'impiccio, e toccasse a me di levarnela.
- Ma! io l'avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi...
- Ma poi, sentiamo.
- Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant'uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente...
- Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover'uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l'arcivescovo me la leverebbe?
- Eh! le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a...
- Volete tacere?
- Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s'accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le...
- Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?
- Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.
- Ci penserò io, - rispose, brontolando, don Abbondio: - sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare - E s'alzò, continuando: - non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch'io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l'appunto a me.
- Mandi almen giù quest'altro gocciolo, - disse Perpetua, mescendo. - Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.
- Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: - una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com'andrà? - e altre simili lamentazioni, s'avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne : - per amor del cielo! -, e disparve.
Raccordo capp 1-5
Al mattino successivo, quando Renzo si reca alla chiesa, apprende che per alcune formalità il matrimonio deve rinviarsi. Poco convinto, sul punto di allontanarsi, incontra Perpetua che non può fare a meno di fargli intendere che le ragioni sono ben altre. Nuovo colloquio tempestoso con don Abbondio, costretto da Renzo a rivelare che l'impedimento è don Rodrigo, il signorotto del paese. Renzo, disperato, corre alla casa di Lucia.
Lucia, rimasta sola con la madre e con Renzo, racconta di avere suscitato l’interesse di don Rodrigo, e allora i tre decidono di rivolgersi ad un avvocato, l’Azzecca-garbugli. L’avvocato, durante l’incontro con Renzo, pensa, sbagliando, che invece di avere subito un torto, è Renzo un bravo che ha fatto qualcosa di brutto e che cerca di evitare la punizione andando da un avvocato. Perciò pensa di aiutarlo, ma quando scopre che invece Renzo è la vittima di don Rodrigo, allora rifiuta l’incarico e non gli da neanche spiegazioni, perchè si spaventa della potenza di don Rodrigo. Intanto Lucia insiste con sua madre per parlare con fra Cristoforo, un frate cappuccino in cui ha molta fiducia. Mentre le due donne pensano come fare a parlare con fra Cristoforo, arriva fra Galdino, che chiede delle noci per il suo convento e che racconta alle donne una fiaba. Lucia decide di dare a fra Galdino un messaggio per fra Cristoforo. Renzo ritorna intanto deluso per l’incontro con l’avvocato, e le due donne cercano di calmarlo e gli dicono che hanno chiesto l’intervento di fra Cristoforo. Intanto è già sera e i tre devono separarsi.
Padre Cristoforo, avvertito da Lucia, esce dal suo convento di Pescarenico e si reca alla casa delle due donne. Il capitolo è in gran parte occupato dalla narrazione della giovinezza del frate: figlio di un facoltoso mercante, aveva ricevuto una raffinata educazione. Venuto un giorno a diverbio con un nobile, l'aveva ucciso in duello; quindi, per espiazione, s'era fatto frate, mutando il nome di Lodovico in quello di Cristoforo.
Fra Cristoforo, dopo aver parlato con le due donne, decide di recarsi da don Rodrigo, per convincerlo a desistere dal suo proposito. Si reca al palazzo del signorotto, dove è ricevuto nella sala da pranzo: è in corso infatti un banchetto, cui il padrone di casa ha invitato un suo cugino, il conte Attilio, e alcuni personaggi importanti del paese. Si discute della guerra in corso per la successione del ducato di Mantova, si brinda all'abbondanza (mentre nelle campagne infuria la fame) e si disserta su futili questioni d'onore. Padre Cristoforo è chiamato a dir la sua.
Il colloquio fra Don Rodrigo e fra’ Cristoforo (dal Cap 6)
- In che posso ubbidirla? - disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva dir chiaramente: bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati.
Per dar coraggio al nostro fra Cristoforo, non c'era mezzo più sicuro e più spedito, che prenderlo con maniera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le parole, e facendo scorrere tra le dita le ave marie della corona che teneva a cintola, come se in qualcheduna di quelle sperasse di trovare il suo esordio; a quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò ch'era assai più, i fatti altrui, corresse e temperò le frasi che gli si eran presentate alla mente, e disse, con guardinga umiltà: - vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d'una carità. Cert'uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti. Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza, e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e potendolo... la coscienza, l'onore...
- Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario che l'offende.
Fra Cristoforo, avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al peggio le sue, per volgere il discorso in contesa, e non dargli luogo di venire alle strette, s'impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di mandar giù qualunque cosa piacesse all'altro di dire, e rispose subito, con un tono sommesso: - se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda, se non so parlare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio, al cui cospetto dobbiam tutti comparire... - e, così dicendo, aveva preso tra le dita, e metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di legno attaccato alla sua corona, - non s'ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a de' poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. L'innocenza è potente al suo...
- Eh, padre! - interruppe bruscamente don Rodrigo: - il rispetto ch'io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.
Questa parola fece venir le fiamme sul viso del frate: il quale però, col sembiante di chi inghiottisce una medicina molto amara, riprese: - lei non crede che un tal titolo mi si convenga. Lei sente in cuor suo, che il passo ch'io fo ora qui, non è né vile né spregevole. M'ascolti, signor don Rodrigo; e voglia il cielo che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia metter la sua gloria... qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Lei può molto quaggiù; ma...
- Sa lei, - disse don Rodrigo, interrompendo, con istizza, ma non senza qualche raccapriccio, - sa lei che, quando mi viene lo schiribizzo di sentire una predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia! Oh! - e continuò, con un sorriso forzato di scherno: - lei mi tratta da più di quel che sono. Il predicatore in casa! Non l'hanno che i principi.
- E quel Dio che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle loro regge; quel Dio le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per una innocente...
- In somma, padre, - disse don Rodrigo, facendo atto d'andarsene, - io non so quel che lei voglia dire: non capisco altro se non che ci dev'essere qualche fanciulla che le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le piace; e non si prenda la libertà d'infastidir più a lungo un gentiluomo.
Al moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s'era messo davanti, ma con gran rispetto; e, alzate le mani, come per supplicare e per trattenerlo ad un punto, rispose ancora: - la mi preme, è vero, ma non più di lei; son due anime che, l'una e l'altra, mi premon più del mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far altro per lei, che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non voglia tener nell'angoscia e nel terrore una povera innocente. Una parola di lei può far tutto.
- Ebbene, - disse don Rodrigo, - giacché lei crede ch'io possa far molto per questa persona; giacché questa persona le sta tanto a cuore...
- Ebbene? - riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l'atto e il contegno di don Rodrigo non permettevano d'abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare quelle parole.
- Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà d'inquietarla, o ch'io non son cavaliere.
A siffatta proposta, l'indegnazione del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò. Tutti que' bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l'uomo vecchio si trovò d'accordo col nuovo; e, in que' casi, fra Cristoforo valeva veramente per due.
- La vostra protezione! - esclamò, dando indietro due passi, postandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull'anca, alzando la sinistra con l'indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: - la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.
- Come parli, frate?...
- Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la fronte alta, e con gli occhi immobili.
- Come! in questa casa...!
- Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch'io vi prometto. Verrà un giorno...
Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s'aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento.
Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quella dell'infausto profeta, gridò: - escimi di tra' piedi, villano temerario, poltrone incappucciato.
Queste parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All'idea di strapazzo e di villania, era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo, associata l'idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel complimento, gli cadde ogni spirito d'ira e d'entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che quella d'udir tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse d'aggiungere. Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il ciel la manda.
- Villano rincivilito! - proseguì don Rodrigo: - tu tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno a' tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa volta; e la vedremo. Così dicendo, additò, con impero sprezzante, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e se n'andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia.
APPLICAZIONE
Esercizio E. L. 1: individua il numero delle sequenze del brano e classificale secondo la loro natura.
Esercizio E. L. 2: dai un titolo breve a ciascuna sequenza.
Esercizio E. L 3: individua tutti i personaggi presenti nel brano.
Esercizio E L 4: I personaggi principali che agiscono nel brano sono presentati in maniera diretta o indiretto, (attraverso le loro azioni, i loro comportamenti, i loro discorsi)? Argomenta la tua risposta delineando il modo di essere dei personaggi con i tratti caratterizzanti del suo aspetto fisico, psicologico, sociale, culturale, ideologico.
Esercizio E. L. 5: Individua dell’epoca storica in cui si svolgono i fatti (se non vi sono indicazioni dell’epoca per quale motivo) se il tempo è:
Indeterminato,
Chiaramente espresso,
Individuabile tramite elementi interni al testo.
Esercizio E. L. 6: Individua degli indicatori temporali precisi, le unità di tempo (giorni, mesi, ecc.) se vi sono:
Datazioni esplicite,
Riferimenti a personaggi realmente esistiti,
Descrizione di abitudini e modi di vivere propri di una certa epoca;
Esercizio E. L. 7: Individua l’ordine del tempo e per quale motivo vi sono delle variazioni rispetto all’Ordine cronologico, Retrospettive, Anticipazioni.
Esercizio E. L. 8: Individua lo spazio geografico in cui è ambientata la vicenda (e se questo non è indicato per quale motivo)
Esercizio E. L. 9: Individua la descrizione dei luoghi se essi sono:
· Luoghi reali o immaginari
· Chiusi o aperti
· Limitati o illimitati
· Ristretti o ampi
· Quali oggetti si trovano
Esercizio E.L. 10: Trova eventuali collegamenti tra situazioni (di tensione, gioia, aspettativa) e spazi., Relazioni tra luoghi e personaggi (come i personaggi vivono il luogo, vi sono analogie o discordanze tra i tipi di personaggio e il luogo in cui si trovano), Relazioni tra i luoghi (ad esempio opposizione tra spazi vicino/lontano, aperto/chiuso, ecc.)
Esercizio E.L. 11: Individua la funzione rivestita nella descrizione degli spazi: se si tratta di:
· Ambientazione
· Narrativa
· Simbolica
spiegando le ragioni della tua scelta.
Raccordo cap. 6-7
Il frate prima di lasciare il palazzo ha la promessa di un vecchio e buon servitore che sarà avvertito degli eventuali progetti infami del suo padrone. Intanto, in casa di Lucia, Agnese espone ai due giovani un suo progetto: quello di strappare il matrimonio a don Abbondio, presentandosi a lui con due testimoni e dichiarando l'intenzione di sposarsi. Sembra che secondo l'uso il matrimonio sarà così ugualmente valido. Lucia è riluttante; Renzo, entusiasta, esce in cerca dei due testimoni e li trova in Tonio, cui promette di pagare un debito che costui ha col curato, e nel fratello di lui, Gervaso.
Padre Cristoforo annuncia desolato alle due donne il fallimento della sua missione. Furore di Renzo, Lucia acconsente all'idea della madre. Intanto nel paese si vede gente strana, e un mendicante va alla casetta di Lucia a chiedere l'elemosina con l'aria di esplorare il luogo. Sono gli uomini di don Rodrigo che studiano il modo di rapire Lucia, agli ordini del capo dei bravi, il Griso. A sera, i due giovani, Agnese e i testimoni s'avviano in silenzio verso la casa di don Abbondio.
La notte degli imbrogli
Dal Capitolo VIII de I promessi sposi.
· Romanzo storico o d'avventura? Storia d'amore o di denuncia? Vicenda a sfondo religioso o politico? I promessi sposi sono, in un certo senso, un po' tutto questo e probabilmente molto altro. L'episodio che ti proponiamo, uno dei più famosi del romanzo, è significativo soprattutto dal punto di vista delle tecniche narrative che si dipanano creando uno dei punti di maggiore tensione drammatica della vicenda. Si tratta della cosiddetta "notte degli imbrogli".
· Agnese, la madre di Lucia, di sposarsi in modo "fraudolento", cioè ingannando don Abbondio con l'aiuto di due compari, Ionio e Gervaso, cugini di Renzo. Ma contemporaneamente in paese si sono infiltrati i bravi di don Rodrigo che, guidati dal Griso, hanno intenzione di rapire Lucia per permettere a don Rodrigo di averla per sé. I due gruppi si muovono l'uno all'insaputa dell'altro, vanificando i rispettivi progetti: la reazione inconsulta di don Abbondio, l'arrivo del piccolo Menico, un ragazzetto mandato ai due fidanzati da fra Cristoforo che aveva scoperto le intenzioni di don Rodrigo, l'intervento della gente del paese scatenano una rapida e confusa serie di azioni che creano uno stato di scompiglio generale nel piccolo borgo e che daranno una svolta determinante alla vicenda. Renzo, Lucia e Agnese saranno costretti a fuggire e a separarsi, per ritrovarsi soltanto dopo la terribile pestilenza.
· L'episodio occupa ben due capitoli del romanzo: nel VII vengono narrati, alternandoli, i preparativi che i due gruppi fanno per allestire le due spedizioni. Noi ti proponiamo la lettura di buona parte del capitolo VIII, nel quale la tensione narrativa culmina in una serie di azioni sempre più rapide e frenetiche, sino all'epilogo.
«Cameade[80]! Chi era costui?» ruminava[81] tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone[82], in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua[83] entrò a portargli l'imbasciata[84]. «Cameade! questo nome mi par bene d'averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?» Tanto il poveruomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!
^ Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po' di libreria[85], gli prestava un libro dopo l'altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento[86], anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima[87]. Il santo v'era paragonato, per l'amore allo studio, ad Archimede[88]; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c'è bisogno d'un'erudizione[89] molto vasta. Ma, dopo Archimede, l'oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato[90]. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio[91].
«A quest'ora?» disse anche don Abbondio, com'era naturale.
«Cosa vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo...»
«Già: se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo venire... Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui?»
«Diavolo!» rispose Perpetua, e scese; aprì l'uscio, e disse: «dove siete?» Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese[92], e salutò Perpetua per nome.
«Buona sera, Agnese,» disse Perpetua: «di dove si viene, a quest'ora?»
«Vengo da...» e nominò un paesetto vicino. «E se sapeste...» continuò: «mi son fermata di più, appunto in grazia vostra.»
«Oh perché?» domandò Perpetua; e voltandosi a' due fratelli[93], «entrate,» disse, «che vengo anch'io».
«Perché,» rispose Agnese, «una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare... credereste? s'ostinava a dire che voi non vi siete maritata[94] con Beppe Suolavecchia, né con Anselmo Lunghigna, perché non v'hanno voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l'uno e l'altro...»
«Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?»
«Non me lo domandate, che non mi piace metter male[95].»
«Me lo direte, me l'avete a dire: oh la bugiarda!»
«Basta... ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder[96] colei.»
«Guardate se si può inventare, a questo modo!» esclamò di nuovo Perpetua; e riprese subito: «in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere... Ehi, Tonio! accostate l'uscio, e salite pure, che vengo.» Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata.
In faccia all'uscio di don Abbondio, s'apriva, tra due casipole, una stradetta, che, finite quelle, voltava in un campo. Agnese vi s'avviò, come se volesse tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro. Quand'ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che accadesse i davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt'e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all'uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti[97] e chinati, entraron nell'andito[98], dov'erano i due fratelli ad aspettarli. Renzo accostò di nuovo l'uscio pian piano; e tutt'e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno[99]. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s'avvicinarono all'uscio della stanza, ch'era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro.
«Deo gratias[100]» disse Tonio, a voce chiara.
«Tonio, eh? Entrate,» rispose la voce di dentro.
Il chiamato aprì l'uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d'improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter[101] Lucia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l'uscio: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l'orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.
Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra[102], con in capo una vecchia papalina[103], che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d'una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti[104], e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi[105] a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna.
«Ah! ah! » fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo.
«Dirà il signor curato, che son venuto tardi,» disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso.
«Sicuro ch'è tardi: tardi in tutte le maniere[106]. Lo sapete, che sono ammalato?»
«Oh! mi dispiace.»
«L'avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere... Ma perché vi siete condotto dietro quel... quel figliuolo?»
«Così per compagnia, signor curato.»
«Basta, vediamo.»
«Son venticinque berlinghe[107] nuove, di quelle col sant'Ambrogio a cavallo,» disse Tonio, levandosi un involtino[108] di tasca.
«Vediamo,» replicò don Abbondio: e, preso l'involtino, si rimesse gli occhiali, l'aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto.
«Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla[109].»
«È giusto,» rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l'apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l'armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: «va bene?»
«Ora,» disse Tonio, «si contenti di mettere un po' di nero sul bianco.»
«Anche questa!» don Abbondio: «le pensan tutte, Ih! com'è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?»
«Come, signor curato! s'io mi fido? Lei mi fa torto. Ma siccome il mio nome è sul suo libracolo[110], dalla parte del debito... dunque, giacché ha già avuto l'incomodo di scrivere una volta, così... dalla vita alla morte[111]...»
«Bene bene,» interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta[112] del tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in maniera d'impedire allo scrivente la vista dell'uscio; e, come per ozio[113], andavano stropicciando[114], co' piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch'erano fuori, d'entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro pedate. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo stropiccìo de' quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sé non vi sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo[115] il respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: «ora, sarete contento?» e, levatosi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l'altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall'altra; e, nel mezzo, come al dividersi d'una scena[116], apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire[117] le parole: «signor curato, in presenza di questi testimoni, quest'è mia moglie». Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina[118], la lucerna, ghermito, con la diritta[119], il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino[120]; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s'era avvicinato a Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: «e questo...» che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola[121]. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell'altra mano, s'aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava[122]; e intanto gridava quanto n'aveva in canna[123]: «Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto!» Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita[124], non tentava neppure di svolgersi[125], e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l'artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tastoni l'uscio che metteva a una stanza più interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: «Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa!» Nell'altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato, e remando con le mani[126], come se facesse a mosca cieca, era arrivato all'uscio, e picchiava, gridando: «apra, apra; non faccia schiamazzo[127]», Lucia chiamava Renzo, con voce ricca, e diceva, pregando: «andiamo, andiamo, per l'amor di Dio». Tonio, carpone[128], andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare[129] la sua ricevuta. Gervaso, spiritato[130], gridava e saltellava, cercando l'uscio di scala, per uscire a salvamento[131].
In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar[132] di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s'era introdotto di soppiatto[133], e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza d'un oppressore; eppure, alla fin de' fatti, era l'oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva[134] tranquillamente a' fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.
L'assediato, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: «aiuto! aiuto!» Era il più bel chiaro di luna; l'ombra della chiesa, e più in fuori l'ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza; ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo[135] però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva[136] verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo[137], dove dormiva il sagrestano. Fu questo riscosso[138] da quel disordinato grido, fece un salto, scese il letto in furia, aprì l'impannata[139] d'una sua finestrina, mise fuori la testa, con gli occhi tra' peli[140], e disse: «cosa c'è?»
«Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa,» gridò verso lui don Abbondio. «Vengo subito,» rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e, quantunque mezzo tra '1 sonno, e più che mezzo sbigottito, trovò su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiedeva, senza mettersi lui nel tafferuglio, quale si fosse[141]. Da di piglio alle brache[142], che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di gala[143], e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che c'erano, e suona a martello[144].
Ton, ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fenile[145], tendon l'orecchio, si rizzano, «Cos'è? Cos'è? Campana a martello! fuoco? ladri? banditi?» Molte donne consigliano, pregano i mariti, di non moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s'alzano, e vanno alla finestra: i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, ritornan sotto: i più curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi[146], per correre al rumore: altri stanno a vedere.
Ma, prima che quelli fossero all'ordine[147], prima anzi che fosser ben desti, il rumore era giunto agli orecchi d'altre persone che vegliavano, non lontano, ritte e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro. Diremo prima brevemente ciò che facesser coloro, dal momento in cui gli[148] abbiamo lasciati, parte nel casolare e parte all'osteria. Questi tre, quando videro tutti gli usci chiusi e la strada deserta, uscirono in fretta, come se si fossero avvisti[149] d'aver fatto tardi, e dicendo di voler andar subito a casa; diedero una giravolta per il paese, per venire in chiaro[150] se tutti eran ritirati; e in fatti, non incontrarono anima vivente, né sentirono il più piccolo strepito. Passarono anche, pian piano, davanti alla nostra povera casetta: la più quieta di tutte, giacché non c'era più nessuno. Andarono allora diviato[151] al casolare, e fecero la loro relazione al signor Griso. Subito, questo si mise in testa un cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino[152] di tela incerata, sparso di conchiglie[153]; prese un bordone[154] da pellegrino, disse: «andiamo da bravi: zitti, e attenti agli ordini,» s'incamminò il primo, gli altri dietro; e, in un momento, arrivarono alla casetta, per una strada opposta a quella per cui se n'era allontanata la nostra brigatella[155], andando anch'essa alla sua spedizione. Il Griso trattenne la truppa[156], alcuni passi lontano, andò innanzi solo ad esplorare, e, visto tutto deserto e tranquillo di fuori fece venire avanti due di quei tristi, diede loro ordine di scalar adagino il muro che chiudeva il cortiletto, e, calati dentro, nascondersi in un angolo, dietro un folto fico, sul quale aveva messo l'occhio, la mattina. Ciò fatto, picchiò pian piano, con intenzione di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero, fino a giorno. Nessun risponde: ripicchia un po' più forte; nemmeno uno zitto[157]. Allora, va a chiamare un terzo malandrino[158], lo fa scendere nel cortiletto, come gli altri due, con l'ordine di sconficcare[159] adagio il paletto, per aver libero l'ingresso e la ritirata. Tutto s'eseguisce con gran cautela, e con prospero successo. Va a chiamar gli altri, li fa entrar con sé, li manda a nascondersi accanto ai primi; accosta adagio adagio l'uscio di strada, vi posta due sentinelle di dentro; e va diritto all'uscio del terreno. Picchia anche lì, e aspetta: e' poteva ben aspettare. Sconficca pian pianissimo anche quell'uscio: nessuno di dentro dice: chi va là?; nessuno si fa sentire: meglio non può andare. Avanti dunque: «st», chiama quei del fico, entra con loro nella stanza terrena, dove, la mattina, aveva scelleratamente accattato[160] quel pezzo di pane. Cava fuori esca, pietra, acciarino e zolfanelli[161], accende un suo lanternino, entra nell'altra stanza più interna, per accertarsi che nessun ci sia: non c'è nessuno. Torna indietro, va all'uscio di scala, guarda, porge l'orecchio: solitudine e silenzio. Lascia due altre sentinelle a terreno, si fa venir dietro il Grignapoco, ch'era un bravo del contado di Bergamo, il quale solo doveva minacciare, acchetare[162], comandare, essere in somma il dicitore[163], affinchè il suo linguaggio potesse far credere ad Agnese che la spedizione veniva da quella parte. Con costui al fianco, e gli altri dietro, il Griso sale adagio adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni passo di que' mascalzoni che facesse rumore. Finalmente è in cima. Qui giace la lepre[164]. Spinge mollemente l'uscio che mette alla prima stanza; l'uscio cede, si fa spiraglio: vi mette l'occhio; è buio: vi mette l'orecchio, per sentire se qualcheduno russa, fiata, brulica[165] là dentro; niente. Dunque avanti: si mette la lanterna davanti al viso, per vedere, senza esser veduto, spalanca l'uscio, vede un letto; addosso: il letto è fatto e spianato, con la rimboccatura arrovesciata, e composta sul capezzale[166]. Si stringe nelle spalle, si volta alla compagnia, accenna loro che va a vedere nell'altra stanza, e che gli vengan dietro pian piano; entra, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. «Che diavolo è questo?» dice allora: «che qualche cane traditore abbia fatto la spia?» Si metton tutti, con men cautela, a guardare, a tastare per ogni canto, buttan sottosopra la casa. Mentre costoro sono in tali faccende, i due che fan la guardia all'uscio di strada, sentono un calpestìo di passini frettolosi, che s'avvicinano in fretta; s'immaginano che, chiunque sia, passerà diritto; stan quieti, e, a buon conto, si mettono all'erta. In fatti, il calpestìo si ferma appunto all'uscio. Era Menico[167] che veniva di corsa, mandato dal padre Cristoforo ad avvisar le due donne che, per l'amor del cielo, scappassero subito di casa, e si rifugiassero al convento, perché... il perché lo sapete. Prende la maniglia del paletto, per picchiare, e se lo sente tentennare in mano, schiodato e sconficcato. "Che è questo?" pensa; e spinge l'uscio con paura: quello s'apre. Menico mette il piede dentro, in gran sospetto, e si sente a un punto acchiappar per le braccia, e due voci sommesse, a destra e a sinistra, che dicono, in tono minaccioso: «zitto! o sei morto». Lui in vece caccia un urlo: uno di que' malandrini gli mette una mano alla bocca; l'altro tira fuori un coltellaccio, per fargli paura. Il garzoncello[168] trema come una foglia, e non tenta neppur di gridare; ma, tutt'a un tratto, in vece di lui, e con ben altro tono, si fa sentir quel primo tocco di campana così fatto, e dietro una tempesta di rintocchi in fila. ^ Chi è in difetto è in sospetto[169], dice il proverbio milanese: all'uno e all'altro furfante parve di sentire in que' tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andar le braccia di Menico, ritirano le loro in furia, spalancan la mano e la bocca, si guardano in viso, e corrono alla casa, dov'era il grosso della compagnia. Menico, via a gambe per la strada, alla volta del campanile, dove a buon conto qualcheduno ci doveva essere. Agli altri furfanti che frugavan la casa, dall'alto al basso, il terribile tocco fece la stessa impressione: si confondono, si scompigliano, s'urtano a vicenda: ognuno cerca la strada più corta, per arrivare all'uscio. Eppure era tutta gente provata e avvezza a mostrare il viso[170]; ma non poterono star saldi contro un pericolo indeterminato, e che non s'era fatto vedere un po' da lontano, prima di venir loro addosso. Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Come il cane che scorta una mandra92 di porci, corre or qua or là a quei che si sbandano; ne addenta uno per un orecchio, e lo tira in ischiera93; ne spinge un altro col muso; abbaia a un altro che esce di fila in quel
Raccordo
Tra i due gruppi in fuga, s'inserisce l'agitazione del paese che, svegliato, non riesce a capire che cosa stia succedendo. Renzo e le due donne giungono al convento dove trovano già organizzata da padre Cristoforo la loro fuga dal paese, per sottrarsi alle minacce di don Rodrigo. Le due donne andranno a Monza, Renzo a Milano, muniti di lettere di presentazione per cappuccini, amici del padre. I fuggiaschi s'imbarcano e in piena notte attraversano il lago.
Addio ai Monti
dal capitolo VIII de "I promessi sposi"
Addio monti sorgenti dall'acque ed elevati al cielo cime inuguali note a chi è cresciuto tra voi e impresse nella sua mente non meno che l’aspetto de' suoi familiari torrenti de' quali si distingue lo scroscio come il suono delle voci domestiche ville sparse e biancheggianti sul pendìo come branchi di pecore pascenti addio! Quanto è tristo il passo di chi cresciuto tra voi se ne allontana!
Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente tratto dalla speranza di fare altrove fortuna si disabbelliscono in quel momento i sogni della ricchezza egli si maraviglia d'essersi potuto risolvere e tornerebbe allora indietro se non pensasse che, un giorno- tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano il suo occhio si ritira disgustato e stanco da quell'ampiezza uniforme l'aria gli par gravosa e morta s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose le case aggiunte a case le strade che sboccano nelle strade pare che gli levino il respiro e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero pensa con desiderio inquieto al campicello del suo paese alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso da gran tempo e che comprerà tornando ricco a' suoi monti.
Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire e n'è sbalzato lontano da una forza perversa! Chi staccato a un tempo dalle più care abitudini e disturbato nelle più care speranze lascia que' monti per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere e non può con l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio casa natia dove sedendo con un pensiero occulto s'imparò a distinguere dal rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore. Addio casa ancora straniera casa sogguardata tante volte alla sfuggita nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa Addio chiesa dove l'animo tornò tante volte sereno cantando le lodi del Signore dov'era promesso preparato un rito dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto e l'amore venir comandato e chiamarsi santo addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto e non turba mai la gioia de' suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande.
APPLICAZIONE
Esercizio E. L. 1: individua il numero delle sequenze del brano e classificale secondo la loro natura.
Esercizio E. L. 2: dai un titolo breve a ciascuna sequenza.
Esercizio E. L 3: individua tutti i personaggi presenti nel brano.
Esercizio E L 4: I personaggi principali che agiscono nel brano sono presentati in maniera diretta o indiretto, (attraverso le loro azioni, i loro comportamenti, i loro discorsi)? Argomenta la tua risposta delineando il modo di essere dei personaggi con i tratti caratterizzanti del suo aspetto fisico, psicologico, sociale, culturale, ideologico.
Esercizio E. L. 5: Individua dell’epoca storica in cui si svolgono i fatti (se non vi sono indicazioni dell’epoca per quale motivo) se il tempo è:
Indeterminato,
Chiaramente espresso,
Individuabile tramite elementi interni al testo.
Esercizio E. L. 6: Individua degli indicatori temporali precisi, le unità di tempo (giorni, mesi, ecc.) se vi sono:
Datazioni esplicite,
Riferimenti a personaggi realmente esistiti,
Descrizione di abitudini e modi di vivere propri di una certa epoca;
Esercizio E. L. 7: Individua l’ordine del tempo e per quale motivo vi sono delle variazioni rispetto all’Ordine cronologico, Retrospettive, Anticipazioni.
Esercizio E. L. 8: Individua lo spazio geografico in cui è ambientata la vicenda (e se questo non è indicato per quale motivo)
Esercizio E. L. 9: Individua la descrizione dei luoghi se essi sono:
· Luoghi reali o immaginari
· Chiusi o aperti
· Limitati o illimitati
· Ristretti o ampi
· Quali oggetti si trovano
Esercizio E.L. 10: Trova eventuali collegamenti tra situazioni (di tensione, gioia, aspettativa) e spazi., Relazioni tra luoghi e personaggi (come i personaggi vivono il luogo, vi sono analogie o discordanze tra i tipi di personaggio e il luogo in cui si trovano), Relazioni tra i luoghi (ad esempio opposizione tra spazi vicino/lontano, aperto/chiuso, ecc.)
Esercizio E.L. 11: Individua la funzione rivestita nella descrizione degli spazi: se si tratta di:
· Ambientazione
· Narrativa
· Simbolica
spiegando le ragioni della tua scelta.
Raccordo cap. 9-11
Renzo, Lucia e Agnese raggiungono la parte orientale del lago di Como, poi Monza, e lì si separano. Renzo va a Milano, le donne al convento dei cappuccini, dove incontrano il padre guardiano, al quale fra Cristoforo le ha raccomandate. Si dirigono quindi al monastero di Santa Margherita, dove vive una monaca di nobile famiglia che ha molti privilegi. L’aspetto fisico della monaca non è proprio quello di una religiosa e cosi Manzoni racconta la sua storia. Gertrude, figlia di un nobile spagnolo, è destinata fin da piccola a vita religiosa. Da piccola non si oppone, ma poi prova a ribellarsi. Ma la reazione dei parenti è dura, con una specie di guerra psicologica basata soprattutto sul silenzio. Allora Geltrude dichiara di accettare il volere dei suoi genitori.
Gertrude viene ricevuta dal padre, che ritiene che la ribellione della figlia sia gravissima, e le impone di farsi monaca. Da questo momento la sua vita cambia: prima era rifiutata dai parenti, ora è circondata di affetto; prima era sola e prigioniera, adesso può fare tutto in libertà. Comincia la sua vita religiosa, e ogni volta che potrebbe ritirarsi non ha il coraggio di farlo. Diventa così monaca. Ma non è contenta e si dispera. Ha una relazione con un vicino, Egidio, e per nasconderla arrivano a commettere un omicidio.
Conclusa la storia della monaca di Monza, tornano in scena Lucia e Agnese, che sono accolte da Gertrude con molta generosità. Ma don Rodrigo prepara già una vendetta.
Don Rodrigo, attendendo con inquietudine il ritorno dei bravi, pensa alle possibili conseguenze del rapimento di Lucia, ma sa di non correre grossi rischi. Al suo ritorno, Griso annuncia il fallimento della spedizione e riceve severi rimproveri da Don Rodrigo. Dopo aver discusso dei fatti della nottata, i due concordano una strategia per scoprire se vi siano state fughe di notizie sul progetto di rapimento. Il conte Attilio viene informato dal cugino del fallito rapimento di Lucia e attribuisce la responsabilità a fra Cristoforo. I due cugini stabiliscono poi di intimorire il console del villaggio, di convincere il podestà a non intervenire, e di far pressioni sul Conte zio, affinché faccia trasferire il frate. Il Griso si reca in paese per cercare di comprendere ciò che è successo la notte precedente. Nel villaggio c'è un fitto intrecciarsi di voci: tutti i protagonisti di quei fatti turbolenti commentano l'accaduto. Il bravo riferisce al padrone quelle voci e insieme escludono l'ipotesi di una spia interna al palazzotto. Al termine del colloquio, don Rodrigo incarica il proprio uomo di fiducia di scoprire dove si sono rifugiati Renzo e Lucia. Grazie alle chiacchiere del barocciaio, passate di bocca in bocca, il bravo è in grado di informare il suo signore che Lucia si trova a Monza. Il nobile incarica allora il sicario di proseguire là le ricerche: il Griso, che proprio in Monza è maggiormente ricercato dalla giustizia, cerca di sottrarsi, ma alla fine obbedisce agli ordini. Renzo, colmo di tristezza per la separazione da Lucia e per la partenza dal paese, procede verso Milano. Giunto alle porte della città chiede ad un passante indicazioni per raggiungere il convento cui è destinato. Entrato in città, il giovane scopre con sorpresa della farina e del pane gettati a terra. Pur con timore raccoglie tre pani. Proseguendo poi verso il centro della città, incontra parecchia gente che trasporta affannosamente pane e farina. Viene colpito dalla vista di una famigliola particolarmente impegnata nel trasporto. Il giovane comprende finalmente che è in atto una rivolta e che la gente sta dando l'assalto ai forni: la sua prima sensazione è di piacere. Renzo decide di star fuori dal tumulto e si reca al convento, ma il frate portinaio gli nega l'ingresso. Il giovane va così a curiosare tra la folla e si lascia attrarre dal tumulto.
La vicenda romanzata, a questo punto, a dar sempre più l'impressione di una «storia vera», s'innesta in un fatto storico realmente accaduto: la rivolta milanese di San Martino, dell'11 novembre 1628, quando, esasperato dalla fame e dalla politica inetta del vicegovernatore Ferrer, il popolo dette l'assalto ai forni. Renzo s'inserisce così nell'avvenimento e assiste al saccheggio del «forno delle grucce».
La sommossa del pane
Dal cap XII de I promessi sposi,
· Siamo nel capitolo XII de I promessi sposi: Renzo è ormai giunto a Milano, ma il momento non è dei più propizi, perché proprio allora si sta scatenando una violenta rivolta popolare contro il governo spagnolo, colpevole di aver ridotto alla miseria l'intera regione con il suo secolare malgoverno, le vessazioni e il peso di una intollerabile pressione fiscale. La carestia degli ultimi anni, cui si somma un'ennesima tassa sul macinato, che fa salire alle stelle il prezzo del pane, sono la goccia che fa traboccare il vaso.
· La sì e i forni, fa di può trovare, devasta e saccheggia i negozi, sorprendendo con la propria violenza e i propri eccessi anche le guarnigioni che avrebbero dovuto difendere l'ordine pubblico. Il narratore disegna un grandioso quadro di furore collettivo, nel quale, pur condividendo le ragioni di fondo della protesta, egli mostra di non giustificare in alcun modo le violenze e le sopraffazioni.
· Testimone del tumulto, uno smarrito Renzo, ingenuo spettatore campagnolo, ignaro di tutto e animato soltanto da uno schietto senso della giustizia.
· L'episodio della sommossa del pane è interamente costruito sulla base di un ritmo narrativo molto incalzante. La successione delle sequenze narrative fa sì che il lettore venga introdotto alla scena quasi come se fosse al fianco di Renzo, che la osserva con gli occhi stupiti del contadino appena giunto in città. Dapprima gli accenni alla rivolta, la sera prima dell'arrivo di Renzo, quindi il primo assalto ai garzoni con le gerle colme di pane, quindi l'assedio al forno, infine il saccheggio vero e proprio e il propagarsi delle violenze a tutta la città: gli avvenimenti si susseguono rapidamente, creando un effetto di grande presa, e tengono il lettore con il fiato sospeso sino al drammatico epilogo.
· In un simile contesto, non emergono personaggi dotati di particolare personalità, e anche i pochi che spiccano tra la folla (come ad esempio il capitano di giustizia che difende il forno) non hanno uno spessore tale da renderli più che semplici comparse, se non addirittura delle maschere. L'episodio invece è interamente dominato da un vero e proprio personaggio collettivo, che si muove all'unisono con straordinaria vivacità e foga. Si tratta di una massa senza volto, descritta come un unico enorme corpo che si muove con compattezza e travolgente foga, nonostante la presenza, al suo interno, di tensioni contrastanti ("La gente comincia a affollarsi di fuori e a gridare: 'pane! pane! aprite! aprite!'").
· Il punto di vista adottato per produrre questo vero e proprio effetto sinfonico è quello di un narratore onnisciente, in grado di vedere l'intera scena e di dominarne il movimento complessivo. A lui sono affidati i movimenti dell'ideale obiettivo che riprende la vicenda: inquadrature generali, rapidissime zoomate, improvvisi allontanamenti o avvicinamenti, e così via. È sempre questo punto di vista a fornirci un giudizio molto marcato su quanto stiamo vedendo; se pure le ragioni del popolo sono tante, esso ci viene ritratto come una massa che si affida scriteriatamente a pochi agitatori senza alcuno scrupolo, e da fondo, senza alcuna capacità di discernimento, a tutti i propri peggiori istinti, scatenando un'energia bruta e insensata che non può che portare morte e distruzione, a dispetto delle buone ragioni che stanno a monte.
· Lo stile di questo estratto è particolarmente accurato. Manzoni ci propone una narrazione che segue un vero e proprio crescendo sinfonico di intensità drammatica e ritmica e che viene prodotto attraverso l'utilizzo, in accumulo, di una serie di tecniche ben precise.
· In primo luogo, la sintassi si fa progressivamente sempre più semplice e frantumata da un gran numero di segni di interpunzione, ricca di frasi brevissime, fitte di verbi, spesso impersonali, a indicare la straordinaria concitazione della situazione e il grande concorso alla rivolta. In secondo luogo, numerosissime sono le frasi interrogative ed esclamative, o addirittura le interiezioni semplici, in larghissima misura all'interno di discorsi diretti, che danno grande enfasi alla narrazione. Infine, la narrazione passa dal passato al presente (si definisce presente narrativo) per dare al racconto un'immediatezza e una presa maggiore.
La sera avanti questo giorno[171] in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano d'uomini[172], che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi[173], senza essersi dati l'intesa[174], quasi senza avvedersene[175], come gocciole i sparse sullo stesso pendìo. Ogni discorso accresceva la persuasione[176] e la passione degli uditori, come di colui che l'aveva proferito[177]. Tra tanti appassionati, c'eran pure alcuni più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l'acqua s'andava intorbidando[178]; e s'ingegnavano[179] d'intorbidarla di più, con que' ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare[180], quell'acqua, senza farci un po' di pesca[181]. Migliaia d'uomini andarono a letto col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe[182]. Avanti giorno[183], le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte[184]: qui era un bisbiglio confuso di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questo faceva al più vicino la stessa domanda ch'era allora stata fatta a lui; quest'altro ripeteva l’esclamazione che s'era sentita risonare agli orecchi; per tutto[185] lamenti, minacce, maraviglie[186]: un piccol numero di vocaboli era il materiale di tanti discorsi.
Non mancava altro che un'occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per ridurre le parole a fatti[187]; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de' fornai i garzoni[188] che, con una gerla[189] carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d'uno di que' malcapitati ragazzi dov'era un crocchio di gente, fu come il cadere d'un salterello acceso in una polveriera[190]. «Ecco se c'è il pane!» gridarono cento voci insieme. «Sì, per i tiranni, che notano[191] nell'abbondanza, e voglion far morir noi di fame,» dice uno; s'accosta al ragazzetto, avventa[192] la mano all'orlo della gerla, da una stratta[193], e dice: «lascia vedere». Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne[194]. «Giù quella gerla,» si grida intanto. Molte mani l'afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio[195] che la copre: una tepida fragranza[196] si diffonde all'intorno. «Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi,» dice il primo; prende un pan tondo, l'alza, facendolo vedere alla folla, l'addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato[197]. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell'impresa, si mossero a branchi, in cerca d'altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c'era neppur bisogno di dar l'assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista la mala parata[198], posavano volontariamente il carico, e via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c'eran coloro che avevan fatto disegno sopra un disordine più co' fiocchi[199]. «Al forno! al forno!» si grida.
Nella strada chiamata la Corsia de' Servi[200], c'era, e c'è tuttavia[201] un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire[202] il forno delle grucce[203], e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche[204], che l'alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono. A quella parte s'avventò[205] la gente. Quelli della bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto sbigottito e abbaruffato[206], riferiva balbettando la sua trista avventura; quando si sente un calpestìo e un urlìo insieme; cresce e s'avvicina; compariscono i forieri della masnada[207].
Serra, serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia[208]; gli altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti[209]. La gente comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: «pane! pane! aprite! aprite[210]!».
Pochi momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta d'alabardieri[211]. «Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia,» grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un po' di luogo[212]; dimodoché quelli poterono arrivare, e postarsi42, insieme, se non in ordine, davanti alla porta della bottega.
«Ma figliuoli,» predicava di lì il capitano, «che fate qui? A casa, a casa. Dov'è il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, così ammontati[213]? Niente di bene, ne per l'anima, né per il corpo. A casa, a casa».
Ma quelli che vedevan la faccia del dicitore[214], e sentivan le sue parole, quand'anche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber potuto, spinti com'erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch'essi da altri, come flutti da flutti, via via fino all'estremità della folla, che andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. «Fateli dare addietro[215] ch'io possa riprender fiato,» diceva agli alabardieri: «ma non fate male a nessuno. Vediamo d'entrare in bottega: picchiate; fateli stare indietro».
«Indietro! indietro!» gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso ai primi, e respingendoli con l'aste dell'alabarde. Quelli urlano, si tirano indietro, come possono; danno con le schiene ne' petti, co' gomiti nelle pance, co' calcagni sulle punte de' piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un pigìo[216], una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato qualcosa a essere altrove. Intanto un po' di vóto[217] s'è fatto davanti alla porta: il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli alabardieri, che si ficcan dentro anch'essi l'un dopo l'altro, gli ultimi rattenendo[218] la folla con l'alabarde. Quando sono entrati tutti, si mette tanto di catenaccio, si riappuntella[219]; il capitano sale di corsa, e s'affaccia a una finestra. Uh, che formicolaio[220]!
«Figliuoli,» grida: molti si voltano in su; «figliuoli, andate a casa. Perdono generale a chi torna subito a casa».
«Pane! pane! aprite! aprite!» eran le parole più distinte nell'urlìo[221] orrendo, che la folla mandava in risposta.
«Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!... eh! che fate laggiù! Eh! a quella porta! oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora[222] vengo io. Eh! eh! smettete con que' ferri; giù quelle mani. Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! ^ Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi... Ah canaglia!»
Questa rapida mutazione di stile fu cagionata[223] da una pietra che, uscita dalle mani d'uno di que' buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica[224]. «Canaglia! canaglia!» continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma quantunque avesse gridato quanto n'aveva in canna[225], le sue parole, buone e cattive, s'eran tutte dileguate e disfatte a mezz'aria, nella tempesta delle grida che venivan di giù. Quello poi che diceva di vedere, era un gran lavorare di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere l'inferriate: e già l'opera era molto avanzata.
Intanto, padroni e garzoni della bottega, ch'erano alle finestre de' piani di sopra, con una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato[226] un cortile), urlavano e facevan versacci a quelli di giù, perché smettessero; facevan vedere le pietre, accennavano[227] di volerle buttare. Visto ch'era tempo perso, cominciarono a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo[228]; giacché la calca era i tale, che un granello di miglio, come si suoi dire, non sarebbe andato in terra.
«Ah birboni! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente? Ahi! Ahimè! Ohi! Ora, ora!» s'urlava di giù. Più d'uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l'inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi[229]. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne' cantucci[230]; altri, uscendo per gli abbaini[231], andavano su pe' tetti, come i gatti.
La vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno in vece corre ; al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole[232], piglia a manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se ne rimarrà. La folla si sparge ne' magazzini. Metton mano ai sacchi, li strascicano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della farina: chi, gridando: «aspetta, aspetta,» si china a parare il grembiule[233], un fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia I di Dio; uno corre a una madia[234], e prende un pezzo di pasta, che s'allunga, e già scappa da ogni parte; un altro, che ha conquistato un burattello[235], lo porta per aria: chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverìo[236] che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori, una calca composta di due processioni opposte, che si rompono e s'intralciano a vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuoi entrare a farne.
Mentre quel forno veniva così messo sottosopra, nessun altro della città era quieto e senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausiliari[237], e stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a patti: distribuivan pane a quelli che s'eran cominciati a affollare davanti alle botteghe, con questo che se n'andassero. E quelli se n'andavano, non tanto perché fosser soddisfatti, quanto perché gli alabardieri e la sbirraglia[238], stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere altrove, in forza bastante a i tenere in rispetto i tristi che non fossero una folla[239]. Cosili trambusto andava i sempre crescendo a quel primo disgraziato forno; perché tutti coloro che gli pizzicavan le mani[240] di far qualche bell'impresa, correvan là, dove gli amici erano i più forti, e l'impunità[241] sicura.
A questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e s'avviava, senza saperlo, j proprio al luogo centrale del tumulto.
Raccordo cap. 13-21
Saccheggiato il forno, la folla si rivolta contro il vicario di provvisione, cioè il funzionario addetto al vettovagliamento della città. Inferocita si getta contro il suo palazzo e soltanto l'intervento del Ferrer giova a salvare il vicario dal linciaggio.
Eccitato da questi fatti, Renzo, trovatosi in mezzo a un crocchio di gente, fa un discorsetto sulle ingiustizie dei potenti, a sfogo delle proprie pene. Uno sbirro in borghese lo porta all'osteria, lo fa bere e riesce anche a carpirgli le sue generalità. Del tutto ubriaco, Renzo va a dormire.
Renzo, essendo ubriaco, abbandona la sala dell'osteria, tra saluti e risa. Con l’aiuto dell'oste raggiunge poi la sua camera .L'oste tenta nuovamente di far declinare a Renzo le proprie generalità, ma alle nuove proteste rinuncia. L'oste decide di andare al palazzo di giustizia per denunciare Renzo . Arrivato , denuncia al notaio criminale la presenza nella sua osteria di un giovane che non ha voluto rivelare le generalità. Il funzionario, che conosce già il nome di Renzo, mostra però di non accontentarsi delle informazioni fornite dal padrone dell'osteria e sottopone l'uomo ad un interrogatorio.
Il notaio criminale e due birri penetrano nella camera di Renzo e gli dicono di seguirli. Intimorito dal rumore che viene dalla strada e che sembra annunciare nuovi tumulti, il notaio abbandona subito l'atteggiamento autoritario e, con le buone, cerca di indurre Renzo a seguirli. Il funzionario si mostra eccessivamente gentile ed afferma che si tratta di una pura formalità, ma il giovane non gli presta fede e comincia ad elaborare un piano per essere liberato dalla folla.
Il giovane chiede aiuto. Per sfuggire al linciaggio, i birri e il notaio, abbandonano il prigioniero e si confondono tra la folla.
Uscito fortunosamente da Milano, si incammina per la strada di Bergamo, dove spera di trovare aiuto dal cugino Bortolo, fuori dei confini dello Stato. A Gorgonzola, mentre sta mangiando un boccone in una osteria, apprende che quel giorno la giustizia milanese s'è lasciata sfuggire dalle mani uno dei responsabili della rivolta; e capisce che quel tale è lui. Riprende al più presto la strada, sempre più atterrito per il rischio gravissimo che ha corso.
Uscito dall'osteria di Gorgonzola, Renzo prosegue il suo cammino nell'oscurità, lungo le strade verso l’Adda. Durante il tragitto, i suoi pensieri vanno al mercante e al suo resoconto calunnioso. Dopo alcuni paesi , Renzo si inoltra in una zona non coltivata e poi in un bosco. Qui viene colto da un oscuro timore, ma sente il rumore dell'Adda e si precipita verso il fiume. Non potendo attraversare il fiume, si rifugia in una capanna abbandonata. Tenta di addormentarsi, ma alla sua mente si affacciano ricordi dolorosi. Verso le sei del mattino riprende il cammino verso l'Adda. Traghettato da un pescatore , passa sulla sponda di Bergamo dirigendosi verso il paese del cugino.Giunto nel paese di Bortolo, Renzo individua immediatamente il filatoio e lì trova il cugino, il quale lo accoglie festosamente, dichiarandosi disposto ad aiutarlo. I due cugini si informano reciprocamente sulla rispettiva situazione e sulle vicende politiche dei propri paesi. Dopo essere stato avvertito dell'uso bergamasco di chiamare baggiani i milanesi, Renzo viene presentato al padrone del filatoio e assunto come lavorante.
Al paesello, gli sbirri ricercano inutilmente Renzo. Don Rodrigo apprende così le disavventure del suo rivale; e intenzionato sempre di più a rapire Lucia, pensa di ricorrere a un uomo più potente di lui per giungere al rifugio della ragazza. Agnese, preoccupata per la mancanza di notizie, cerca anch'essa Renzo al paese, dove apprende che padre Cristoforo è stato trasferito a Rimini.
Responsabile della sua partenza è il conte Attilio, che a Milano è riuscito a convincere il conte zio, importante personaggio, a chiedere al padre provinciale dei cappuccini l'allontanamento del frate per una missione di parecchi mesi. Don Rodrigo agisce a sua volta recandosi dal potente signore che lo aiuterà a rapire Lucia, l'Innominato.
Don Rodrigo convince all'impresa l'Innominato che manda il capo dei suoi bravi, il Nibbio, da quell'Egidio, che sa in relazione con la monaca di Monza. Gertrude, sollecitata dall'amante, fa uscire con una scusa Lucia dal convento, sicché i bravi, guidati dal Nibbio, possono rapirla e portarla al castello del loro signore.
Il racconto che il Nibbio fa al padrone sul rapimento di Lucia scuote l'Innominato già da tempo scontento della sua vita; le lacrime di Lucia lo turbano.
La conversione dell’innominato
Cap 21 da I promessi sposi,
· La notte trascorsa da Lucia e dall’Innominato, in luoghi separati del castello, è attraversata per entrambi da sogni angosciosi e dubbi, incubi e paure che si alternano alle lucide scelte.
· Nulla è veramente lasciato all’irrazionalità dell’inconscio dei due personaggi, essi attraverso le loro visioni notturne, approderanno a decisioni importanti: Lucia esprimerà il voto di rinunciare a Renzo in caso di liberazione e l’Innominato deciderà la liberazione di Lucia attuando la conversione che si compirà grazie al colloquio con Federigo Borromeo.
· Le tenebre della notte, quindi, corrispondono simbolicamente al momento della prova, cioè al tempo dell’angoscia, dell’offuscarsi della coscienza che riaffiorerà gradualmente in corrispondenza del sorgere del sole.
· Nella rappresentazione di questa notte ricca di turbamenti affiora, inoltre, una strana e duplice convergenza / divergenza di sentimenti dei due personaggi, attraverso l’uso della simmetria in tre successivi momenti. Dapprima Lucia e l’Innominato, non riuscendo a prendere sonno, cadono in preda ad angosce spaventose, provando un forte senso di vuoto. In un secondo momento, invece, le loro emozioni divergono. Mentre Lucia - attraverso la fede - ritrova se stessa, riuscendo a dare un senso alle proprie sofferenze, offrendole a Dio, l’Innominato, ripercorrendo la propria vita, non prova altro che un senso acuto di colpa che lo porta a concepire il tempo trascorso e futuro come vuoto e orribile. Infine una nuova convergenza, data dal conforto che ognuno dei due ha nell’immagine dell’altro: Lucia ricorda la promessa di liberazione dell’Innominato e quest’ultimo le parole di lei, parole di grazia e consolazione.
· Manzoni, attraverso la drammatica notte dei due personaggi, si propone di dimostrare come la coscienza cristiana sia più forte dei misteri dell’animo; il turbamento generato dalle visioni e dai sogni, è solo il mezzo per assumere maggior consapevolezza di sé.
· Il brano è tratto del capitolo XXI de I promessi sposi, che vede come protagonista l'innominato, uno dei personaggi chiave dell'intero romanzo: famoso fuorilegge (forse realmente esistito), potentissimo e temuto in tutta la regione, egli rappresenta l'ultima speranza di don Rodrigo, che a lui si rivolge per far rapire Lucia. Ma il rapimento della giovane scatena in quest'uomo crudo e violento una crisi che era già latente nel suo animo. Le richieste di pietà, in nome di Dio e della sua misericordia, che Lucia gli rivolge da prigioniera, sviluppano in lui una profondissima trasformazione, che culminerà in una vera e propria conversione, al cospetto del cardinale Federigo Borromeo.
· Uno dei brani più famosi de I promessi sposi è il racconto della notte nel corso della quale l'uomo matura il proprio pentimento: Lucia è prigioniera nelle segrete del suo castello, ed egli vaga inquieto come una belva in gabbia nelle stanze del palazzo, in preda a dubbi e angosce e a un tremendo tormento interiore. Il buio, il silenzio, la memoria delle proprie terribili gesta, creano un clima di profonda e crescente inquietudine, finché all'alba egli non vede la gente accorrere a frotte verso il centro abitato per rendere omaggio al cardinale in visita pastorale e sente sorgere dentro di sé un sentimento mai provato prima.
· La crisi interiore dell'innominato è un episodio chiave del romanzo. Il brano che hai letto ne rappresenta il momento decisivo, che lo scrittore ha accuratamente preparato in precedenza: è evidente infatti che la conversione non avviene all'improvviso, ma stava già maturando, al punto tale da coinvolgere un po' tutto l'ambiente che circonda l'uomo. Persino il Nibbio, il capo dei bravi, era giunto al castello profondamente turbato dalla ragazza che aveva appena rapito e dalla sua accorata disperazione. E l'incontro con Lucia prigioniera non aveva che acuito l'inquietudine che sconvolgeva l'animo del tremendo fuorilegge.
· "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!"; queste parole di Lucia sintetizzano efficacemente il significato dell'episodio: nella conversione dell'innominato Manzoni ha riposto uno dei messaggi principali del suo romanzo, la presenza provvidenziale, nel mondo, della grazia di Dio, sempre pronta a concedersi laddove c'è qualcuno che le si offra con convinzione.
· La notte dell'innominato è suddivisa sapientemente in tre grandi fasi. Nella prima l'uomo è in preda alla più cupa disperazione, che nasce dal non riconoscersi più, dall'aver smarrito la propria identità di delinquente, che si credeva invincibile e immodificabile ("A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!"). Nella seconda crede di poter trovare sollievo rimuovendo il problema, cioè liberando Lucia senza consegnarla a don Rodrigo: l'errore è ancora quello di attribuire a una forza esterna che va in qualche modo placata quanto invece scaturisce dall'interno del proprio animo ("La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate"). Nella terza, il sorgere dell'alba chiarisce ogni dubbio: la luce che entra dalla finestra è la grazia di Dio, che ci dice che durante la notte è avvenuto un miracolo, e un uomo che era perduto è stato recuperato all'umanità.
· In questo episodio lo scrittore alterna alla narrazione in terza persona numerose parti in cui utilizza la tecnica del monologo interiore, che consiste nel riportare i pensieri del personaggio come se fossero parole effettivamente pronunciate ad alta voce. Si tratta di un linguaggio frantumato, ricchissimo di domande, di esclamazioni in serie, di puntini di sospensione, e soprattutto di frasi spezzate, inconcluse, spesso nominali, che devono riprodurre efficacemente i pensieri confusi del protagonista e il suo stato d'animo, che è altrettanto inquieto, frantumato e sovreccitato.
Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri, d'immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a se stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, s'applicava dolorosamente alle circostanze dell'oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dall'incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest'angoscia; alfine, più che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma tutt'a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perché. Tese l'orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il venire e l'andare dell'onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l'aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. L'infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell'orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell'avvenire, l'assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell'abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un'improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutt'a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l'animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio. S'alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: - o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m'avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d'altri che vostra.
Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un'armatura della nuova milizia a cui s'era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì entrar nell'animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati da tanta guerra s'assopirono a poco a poco in quell'acquietamento di pensieri: e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia s'addormentò d'un sonno perfetto e continuo.
Ma c'era qualchedun altro[242] in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non potè mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell'immagine viva nella mente, e con quelle parole[243] risonanti all'orecchio, il signore s'era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, in era a Ma quell’immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. "Che sciocca curiosità da donnicciola," pensava, "m'è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio[244]; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!... Io?... io non son più uomo, io? Cos'è stato? che diavolo m'è venuto addosso? che c'è di nuovo? Non lo sapevo io prima d'ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne[245]?"
E qui, senza che s'affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d'un caso in cui né preghi[246] né lamenti non l'avevano punto[247] smosso dal compire le sue risoluzioni[248]. Ma la rimembranza[249] di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell'animo quella molesta[250] pietà; vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. "È viva costei," pensava, "è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi... Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io...! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d'addosso un po' di questa diavoleria[251], la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!... Via!" disse poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti i pesanti: «via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa».
E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarcelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desideri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt'a un tratto restìo[252] per un'ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all'imprese avviate e non finite, in vece d'animarsi al compimento[253], in vece d'irritarsi degli ostacoli (che l'ira in quel momento gli sarebbe parsa soave[254]), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de' passi già fatti. ^ Il tempo gli s'affacciò davanti voto d'ogni intento[255], d'ogni occupazione, d'ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l'ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini[256], e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl'importasse; anzi l'idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un'idea di schifo e d'impiccio[257]. E se volle trovare un'occupazione per l'indomani, un'opera fattibile, dovette pensare che all'indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.
"La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare... E la promessa? e l'impegno? e don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo?"
A guisa di chi[258] è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d'un superiore, l'innominato pensò subito a rispondere a questa che s'era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l'antico[259]. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d'esser pregato, s'era potuto risolvere a prender l'impegno di far tanto patire, senz'odio, senza timore, un'infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse indotto[260]. Quel volere, piuttosto che una deliberazione[261], era stato un movimento istantaneo dell'animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se stesso, per rendersi ragione d'un sol fatto, si trovò ingolfato[262] nell'esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all'animo consapevole e nuovo, separata da' sentimenti che l'avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que' sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un'inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe[263] a scorrere dopo la sua fine. S'immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d'intorno, lontano; la gioia de' suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all'aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice[264], il cane[265] della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. "Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c'è, se è un'invenzione de' preti; che fo io? perché morire? cos'importa quello che ho fatto? cos'importa? è una pazzia la mia... E se c'è quest'altra vita...!"
A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l'arme, e stava con le mani ne' capelli, battendo i denti, tremando. Tutt'a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima[266]: "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!". E non gli tornavan già con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano state proferite[267]; ma con un suono pieno d'autorità, e che insieme induceva[268] una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle terapie, e, in un'attitudine[269] più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s'immaginava di condurla lui stesso alla madre. "E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l'altro? che farò dopo doman l'altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!" E ricaduto nel vóto penoso dell'avvenire, cercava indarno[270] un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d'abbandonare il castello, e d'andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe[271] sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l'animo antico[272], le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a' suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne' suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull'albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s'era addormentata, ecco che, stando così immoto[273] a sedere, sentì arrivarsi all'orecchio come un'onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d'allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l'eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento[274], e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. "Che allegria c'è? cos'hanno di bello tutti costoro?" Saltò fuori da quel covile di pruni[275]; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola[276]; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s'avviava, tutti dalla i stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un'alacrità[277] straordinaria.
"Che diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia[278]?" E data una voce a un bravo fidato[279] che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione[280] di quel movimento.
Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe[281] subito a informarsene.
Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile[282] spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate[283], a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s'univa col primo che rintoppasse[284]; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto[285]. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo[286] delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que' gesti, e il supplimento[287] delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa[288].
Raccordo cap. 22 - 30
L’innominato, viene informato da un bravo che tutta quella gente, così festosa, va verso un paese vicino, per vedere il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano. La popolarità, il rispetto e la venerazione che il popolo dimostra verso il cardinale, fa nascere nell’innominato la speranza, parlandogli " a quattr’occhi, " che egli possa curare il suo spirito tanto in crisi, che possa pronunciare parole rasserenatrici. Presa, quindi, la decisione di parlare con il cardinale, si reca prima nella camera di Lucia, che intanto sta dormendo in un cantuccio; rimprovera la vecchia, per non aver saputo convincere Lucia a dormire sul letto, le raccomanda di lasciarla riposare in pace, e di riferirle, quando si sarà svegliata " che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà e che... farò tutto quello che lei vorrà. ". E’ superfluo dire che la donna resta sbalordita per lo strano e insolito comportamento del suo padrone, che intanto mette di guardia un bravo, davanti alla porta della camera di Lucia, perché nessuno la disturbi; quindi, risoluto, si dirige verso il paese, dove si trova il cardinale; e giuntovi, avuta indicazione che egli si trova in casa del curato, va là, entra in un cortiletto, dove sono riuniti molti preti che lo guardano con aria di meraviglia e di sospetto, e chiede di voler parlare al cardinale. Prima che si svolga il colloquio tra l’innominato e l’arcivescovo, l’autore traccia un profilo di Federigo Borromeo; la descrizione, fatta con calore in tutta la sua splendida grandezza, risulta veramente efficace. Ancora giovinetto, manifestata la vocazione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, oltre a dedicarsi alle occupazioni prescritte, decide di sua spontanea volontà " di insegnare la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’in fermi. ". Quantunque discenda da nobile famiglia, tutto il suo comportamento è improntato alla più servile umiltà; teme le dignità, anzi cerca di evitarle, non per sottrarsi al servizio altrui, ma perché non si stima " abbastanza degno, né capace di così alto e pericoloso servizio". Poco più che trentenne, infatti, ricusa l’arcivescovado di Milano, successivamente costretto ad accettare su ordine del papa. Riduce al minimo le sue esigenze, ed offre tutto ai poveri; per lui, infatti, " le rendite ecclesiastiche sono patrimonio dei poveri". E’ merito suo la fondazione della biblioteca ambrosiana. Ma quel che più spicca in lui è la bontà, la giovialità, la cortesia verso gli umili. Quanto scrive il Manzoni, per magnificare questo uomo di virtù predare, non è un parto di fantasia, ma realtà evidente, tanto è vero che riuscirà a convertire, come per grazia divina, chi si era macchiato di tanti infami crimini: l’innominato.
Incontro tra l'Innominato e Federigo e abbraccio di riconciliazione. Il cardinale, conosciuta la vicenda di Lucia, fa chiamare don Abbondio, presente con gli altri parroci della zona. e gli dà l'incarico di provvedere al recupero della ragazza. Viaggio di don Abbondio, terrorizzato, in compagnia del terribile signore, fino al castello.
Lucia è liberata e condotta provvisoriamente in paese, nella casa di un buon sarto, dove subito giunge Agnese e poco dopo il cardinale, cui Agnese racconta le loro vicende. L'Innominato, al castello, avverte i suoi uomini che potranno restare al suo servizio solo se intenzionati come lui a mutar vita.
Don Rodrigo pensa bene di lasciare il paese e tornarsene a Milano, prima d'essere costretto a incontrare il cardinale. Il prelato viene accolto da don Abbondio al quale chiede informazioni su Renzo. Lucia viene ospitata da una ricca signora, donna Prassede, col beneplacito del cardinale, il quale finalmente chiede a don Abbondio perché non abbia celebrato le nozze dei due giovani.
Celebre dialogo tra Federigo e don Abbondio, che sembra ravvedersi, anche se non nasconde le sue buone ragioni. L'Innominato regala a Lucia una dote di cento scudi d'oro; ma ad Agnese che porta alla figlia la buona notizia, Lucia rivela il voto fatto la notte del rapimento. Decidono così di mandare metà della somma a Renzo e di pregarlo di non pensar più al matrimonio. Ma non riescono a mettersi in comunicazione con lui: il giovane ha mutato il proprio nome in quello di Antonio Rivolta e ha cambiato filanda.
La guerra per la successione del ducato di Mantova, che aveva visto di giorno in giorno l'Italia settentrionale coinvolta nella guerra europea che prende il nome di guerra dei trent'anni, impegnava del tutto l'attenzione del governatore don Gonzalo. Temeva questi che anche Venezia volesse scendere in campo contro la Spagna: bisognava cercare di distoglierla facendo la voce forte contro la Repubblica veneta. E l'occasione fu fornita a don Gonzalo dalla notizia che Renzo si era rifugiato nel territorio bergamasco. Di qui la finzione delle ricerche condotte per accertare se Renzo era veramente a Bergamo. Era una formalità: Renzo diventò una pratica burocratica. Il potere, di lui non s'accorse, perché era sola un pretesto. Ma Renzo, pur cambiando residenza e nome, continuava a nascondersi: sapeva per esperienza che del potere politico non ci si poteva fidare. Una sola cosa lo tormenta: quella di mettersi in contatto con Agnese e Lucia. Riesce a trovare una fidata trafila e un giorno riceve insieme con una lettera di Agnese cinquanta scudi: Lucia, era detto nella lettera, non poteva sposarlo più perché aveva fatto voto di castità. Si mettesse il cuore in pace e attendesse agli affari suoi. Cosa che Renzo si dichiarò non disposto a fare. Il suo unico proposito ora sarebbe stato di indurre Lucia al matrimonio. Lucia, intanto, aveva trovato ospitalità in casa di donna Prassede, una donna che poco poteva sul marito, don Ferrante, un intellettuale che da lei si difendeva chiudendosi tra i suoi libri. Così donna Prassede sfogava la sua volontà di strafare e la sua voglia di fare del bene ad ogni costo (ma il bene coincideva stranamente col suo concetto piuttosto storto di bene) alle persone come Lucia che si erano lasciate traviare. Non altrimenti si poteva e doveva spiegare l'innamoramento della giovane per uno come Renzo che per poco era sfuggito alla forca e che sicuramente doveva essere un poco di buono, se era ricercato dalla polizia. Pensiero dominante di donna Prassede era di liberare la mente di Lucia dall'immagine di Renzo e perciò a lei parlava spesso e in termini duri ed ingiusti: Lucia per forza di cose doveva difenderlo da tanta aggressività e così il suo Renzo se lo confermava sempre più dentro. E sempre più intensamente l'immagine di lui l'assediava, sempre come risultato dei metodi educativi di donna Prassede. Nulla c'era da temere dal marito di lei, don Ferrante, un letterato di grande classe: aveva tanti libri e la sua attenzione si fermava su scienze come l'astrologia e la duellistica, dove era diventato un'autorità. Era il tipo di letterato astratto, inutile, formalistica, che non sa legare scienza e realtà, cultura e società.
Questo è un capitolo, in cui Manzoni abbandona di nuovo i suoi personaggi, per tracciare un quadro storico degli avvenimenti successivi alla sedizione di San Martino, che ebbe come conseguenza un ribasso del prezzo del pane; un ribasso che risultò fatale, in quanto la plebe, affamata, si abbandonò ad uno sfrenato consumo, e troppo tardi se ne avvide delle conseguenze disastrose, perché così facendo, non solo rendeva impossibile una lunga durata " a goder del buon mercato presente", ma addirittura ne impediva "una continuazione momentanea. ". Anche i contadini abbandonavano la campagna e si riversavano in città; la situazione era destinata a precipitare; i tentativi di porvi rimedio non ottenevano alcun risultato efficace. Consumate le scorte, la fame divenne un male disastroso, pericoloso e inevitabile.
In città, chiusi negozi e fabbriche, la disoccupazione imperversa e la miseria si spande a macchia d’olio. Accattoni di mestiere e mendicanti formano una lugubre e grossa schiera. Il cardinale Federigo in questa circostanza organizza i suoi soccorsi; forma tre coppie di preti che, seguiti da facchini carichi di cibi e di vesti, girano per la città, per ristorare chi è più bisognevole. Ma l’interessamento caritatevole del cardinale, unito alla generosità dei privati e ai provvedimenti dell’autorità della città, si dimostra inadeguato rispetto alla vastità del male.
Per tutto il giorno nelle strade si ode " un ronzio confuso di voci supplichevoli, la notte, un sussurro di gemiti," ma non si ode " mai un grido di sommossa. ". Eppure, osserva il Manzoni, tra coloro che soffrivano " c’era un buon numero di uomini educati a tutt’altro che a tollerare, " per cui conclude che spesso " ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi". Se qualcuno era in grado di fare qualche elemosina, la scelta era ardua; all’ avvicinarsi di una mano pietosa, all’intorno era una gara d’infelici, che stendevano la loro mano. Poiché le strade diventano ogni giorno di più un ammasso di cadaveri, trascorso l’inverno e la primavera, il tribunale di provvisione decide " di radunare tutti gli accattoni, sani ed infermi, in un sol luogo, nel lazzaretto, " dove potranno essere aiutati a spese del pubblico. In pochi giorni gli infelici ospitati divengono tremila; ma i più, o per godere l’elemosine della città o per la ripugnanza di star chiusi nel lazzaretto, restano fuori. Per cacciare dunque gli accattoni al lazzaretto, si deve ricorrere alla forza, e così, in pochi giorni, il numero dei ricoverati sale a circa diecimila.
Ma tale iniziativa, sia pur lodevole nelle intenzioni, per l’ammassarsi di tanti infelici in un sol luogo, per l’organizzazione carente e per l’inadeguatezza dei mezzi, è insufficiente. La gente dorme per terra o su paglia putrida; il pane è alterato " con sostanze pesanti e non nutrienti"; manca persino l’acqua potabile; perciò la mortalità cresce a tal punto che si comincia a parlare di pestilenza. Per porre rimedio a questa grave e pericolosa situazione, si mandano via dal lazzaretto tutti i poveri non ammalati, mentre gli infermi vengono ricoverati nell’ospizio dei poveri di Santa Maria della Stella. Finalmente, con il nuovo raccolto il popolo ha di che sfamarsi, ma la mortalità, per epidemia o contagio, anche se con minore intensità, si protrae fino all’autunno, quand’ecco, implacabile, un nuovo flagello si abbatte sulla popolazione: la guerra. Infatti il cardinale Richelieu con il re, alla testa di un esercito, scende in Italia e occupa Casale, tenuto prima da don Gonzalo. Nel frattempo si dispone " a calar nel milanese" anche l’esercito di Ferdinando, nel quale pare che covasse la peste, tanto che si fa divieto a chiunque, quando l’esercito muove all’assalto di Mantova, " di comprar roba di nessuna sorte dai soldati". Ma tale divieto non è preso in alcuna considerazione. L’esercito di Ferdinando, era per lo più composto da bande mercenarie che mettevano a soqquadro tutti i paesi, asportando dalle case tutti gli oggetti di valore.
Nel paese di Lucia, per sfuggire ai saccheggi, don Abbondio, Perpetua e Agnese pensano di rifugiarsi nel castello dell'Innominato, dove confluisce, ben protetta, la gente della zona.
La notte tormentosa di don Rodrigo
I promessi sposi, cap. XXXIII
· Questa notte rappresenta per Don Rodrigo il momento più drammatico della propria esistenza e, a differenza degli altri personaggi, Manzoni gli riserva un’esperienza particolare: il sogno, il sogno della propria morte; diversamente dagli altri personaggi il dramma della coscienza è solo suggerito, non portato a compimento ma inconsciamente vissuto attraverso questo angoscioso incubo. E' forse in questo passo che l'autore prefigura i misteri dell'inconscio.
· Don Rodrigo non è in grado di pentirsi veramente degli atti compiuti in quanto egli è solo un uomo dalla personalità mediocre, ma siccome per il cristiano Manzoni Dio non abbandona nessuno ad un destino cieco ed immutabile, giunge lo stesso, attraverso l’esperienza della malattia e il terrore della morte, l’ora della verità anche per lui, seppur in modo differente.
· Il distacco dalla realtà avviene attraverso un succedersi confuso di sogni, finché l’incubo assume una sua connotazione precisa: lo spazio (una gran chiesa) appare immenso e indefinito e corrisponde a una sensazione di perdita della propria identità; d’altra parte, sommerso dalla folla, Don Rodrigo ha l’impressione che lo spazio diventi sempre più ristretto: ecco allora affiorare un senso di soffocamento, un'angoscia più tangibile, che è poi la paura fisica del contagio.
· Inizialmente appare la massa orrenda degli appestati, ma esiste ancora un’inconscia speranza di salvezza, poi risaltano in primo piano gli appestati che si accalcano su di lui, suscitando sensazioni dolorose, provocate in realtà dal male fisico: infine dal fondo di un pulpito, come dalla remota lontananza della memoria e della coscienza, emerge un’immagine ben precisa: quella di padre Cristoforo, connessa alla paura della morte e del giudizio, che provoca un urlo dopo il quale si sveglia.
· In tutta la scena del sogno continuamente si alternano e s’intrecciano il livello della coscienza e quello dell’inconscio, la realtà angosciante della peste dalla coscienza di Don Rodrigo trapassa nella visione deformata del sogno e viceversa, attraverso immagini talora indefinite talora suggerite dalla concreta realtà percepita nelle ore precedenti.
· Manzoni nel passo anticipa, senza accorgersene, alcune dinamiche del sogno che poi Freud studierà analiticamente: il rapporto stretto che esiste tra mente e corpo, l'importanza di ricordi rimossi ed esperienze remote censurate, che continuano ad agire nell'inconscio, fino a riapparire improvvisamente in forme deformate, l'oggettivazione simbolica sotto forma di condensazione delle immagini oniriche ( la chiesa, il pulpito, la barba bianca, la folla opprimente ...).
Una notte, verso la fine d'agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l'uno de' tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto d'amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n'eran de' nuovi, e ne mancava de' vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de' più allegri; e tra l'altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d'elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima.
Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un'arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d'ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perché, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l'occhio medico.
- Sto bene, ve', - disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente. - Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po' troppo. C'era una vernaccia!... Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno... Levami un po' quel lume dinanzi, che m'accieca... mi dà una noia...!
- Scherzi della vernaccia, - disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. - Ma vada a letto subito, ché il dormire le farà bene.
- Hai ragione: se posso dormire... Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta' attento, ve', se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla... Porta via presto quel maledetto lume, - riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l'ordine, avvicinandosi meno che poteva. - Diavolo! che m'abbia a dar tanto fastidio!
Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n'andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto.
Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l'occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all'agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch'entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s'era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.
Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s'addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d'uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n'era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert'occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da' rotti si vedevano macchie e bubboni. - Largo canaglia! - gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch'era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que' sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl'insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d'avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l'ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte. Strepitava, era tutt'affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que' visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l'uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell'attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto.
Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand'urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un'occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d'un livido paonazzo.
L'uomo si vide perduto: il terror della morte l'invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de' monatti, d'esser portato, buttato al lazzaretto. E cercando la maniera d'evitare quest'orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all'erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e s'accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.
ESERCIZI
Esercizio E. L. 1: individua il numero delle sequenze del brano e classificale secondo la loro natura.
Esercizio E. L. 2: dai un titolo breve a ciascuna sequenza.
Esercizio E. L. 3: per ogni sequenza scrivi un riassunto, costituito da un periodo di non oltre 30 parole. Se la sequenza è più breve di 30 parole, trascrivila così com’è nel testo.
Raccordo capp 31-34
Di peste s'ammala anche Renzo, ma la forte, contadinesca fibra lo salva: superata la convalescenza decide di far ritorno al suo paese in cerca di Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Incontra Tonio in camicia che dice cose senza senso: la malattia lo aveva reso idiota e fatto somigliare stranamente al fratello folle. Da una cantonata vede avanzare una cosa nera; è don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo. per lui sorgente di guai. Di Agnese sa che si rifugiata a Pasturo, di Lucia dice che è a Milano in casa di don Ferrante. Altro non sa; una sola cosa vorrebbe: che Renzo torni al più presto dond'è venuto. Renzo passa anche accanto alla sua vigna: ormai ridotta a una marmaglia di piante, di vilupponi arrampicati, di rovi, di un guazzabuglio di steli. Pare anch'essa investita e disgregata dalla peste. A sera trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.
Renzo riesce a entrare in Milano; scorge dovunque i segni terribili del morbo e della desolazione.
La madre di Cecilia
Dal Cap. 34 de I promessi sposi
· La madre di Cecilia ci viene mostrata come una figura esemplare come se giungesse da una sfera superiore e, già prima di parlare si avvolge di un senso di spirituale regalità, riuscendo ad essere capace di sottrarsi alla generale degradazione. L’immagine che più viene scolpita nelle memorie è quella dei corpi ormai senza vita ammucchiati nei carri, e proprio con questa immagine viene sottolineato il livello di un’umanità ormai scaduta, ma quest’ultima viene anche rimarcata da ulteriori similitudini sparse qua e là, come ad esempio “schifosi e mortiferi inciampi” disseminati per le strade (che non sono solamente stracci e immondizie) o i sacchi di granaglie con cui vengono paragonati i cadaveri riposti sui carri. Tuttavia persino la morte non si fa portatore di una totale vittoria quando viene contrastata dall’innocenza delle vittime e dalla pietà dei sopravvissuti. L’atteggiamento del Manzoni di fronte al reale viene rilevato chiaramente nell’episodio di Cecilia: la bambina è “tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Pur non disdegnando di fronte al male posto in ogni forma, l’autore de “I Promessi Sposi” non si lascia sopraffare dalla visione della morte come trionfatrice. Ugualmente anche Renzo pur passando da spettacoli raccapriccianti ad altri ancor più spaventosi, pur accentando in un momento di pericolo la protezione degli stessi monatti non si perde d’animo mantenendo senno e compassione e non perde di vista pur girovagando invano tra pericoli di ogni tipo la meta finale. Quando giunge al Lazzaretto è assai turbato dalle orribili scene viste in precedenza.
· La madre di Cecilia ci viene mostrata come una figura esemplare come se giungesse da una sfera superiore e, già prima di parlare si avvolge di un senso di spirituale regalità, riuscendo ad essere capace di sottrarsi alla generale degradazione. L’immagine che più viene scolpita nelle memorie è quella dei corpi ormai senza vita ammucchiati nei carri, e proprio con questa immagine viene sottolineato il livello di un’umanità ormai scaduta, ma quest’ultima viene anche rimarcata da ulteriori similitudini sparse qua e là, come ad esempio “schifosi e mortiferi inciampi” disseminati per le strade (che non sono solamente stracci e immondizie) o i sacchi di granaglie con cui vengono paragonati i cadaveri riposti sui carri. Tuttavia persino la morte non si fa portatore di una totale vittoria quando viene contrastata dall’innocenza delle vittime e dalla pietà dei sopravvissuti. L’atteggiamento del Manzoni di fronte al reale viene rilevato chiaramente nell’episodio di Cecilia: la bambina è “tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Pur non disdegnando di fronte al male posto in ogni forma, l’autore de “I Promessi Sposi” non si lascia sopraffare dalla visione della morte come trionfatrice. Ugualmente anche Renzo pur passando da spettacoli raccapriccianti ad altri ancor più spaventosi, pur accentando in un momento di pericolo la protezione degli stessi monatti non si perde d’animo mantenendo senno e compassione e non perde di vista pur girovagando invano tra pericoli di ogni tipo la meta finale. Quando giunge al Lazzaretto è assai turbato dalle orribili scene viste in precedenza.
Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl'ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s'incontrò in un oggetto singolare di pietà, d'una pietà che invogliava l'animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono piú forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, "no!" disse: "non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete." Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: "promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così."
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, piú per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: "addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri." Poi voltatasi di nuovo al monatto, "voi," disse, "passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola."
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina piú piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.
"O Signore!" esclamò Renzo: "esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!"
Riavuto da quella commozione straordinaria, e mentre cerca di tirarsi in mente l'itinerario per trovare se alla prima strada deve voltare, e se a diritta o a mancina, sente anche da questa venire un altro e diverso strepito, un suono confuso di grida imperiose, di fiochi lamenti, un pianger di donne, un mugolìo di fanciulli.
Andò avanti, con in cuore quella solita trista e oscura aspettativa. Arrivato al crocicchio, vide da una parte una moltitudine confusa che s'avanzava, e si fermò lì, per lasciarla passare. Erano ammalati che venivan condotti al lazzeretto; alcuni, spinti a forza, resistevano in vano, in vano gridavano che volevan morire sul loro letto, e rispondevano con inutili imprecazioni alle bestemmie e ai comandi de' monatti che li guidavano; altri camminavano in silenzio, senza mostrar dolore, né alcun altro sentimento, come insensati; donne co' bambini in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quegli ordini, da quella compagnia, piú che dal pensiero confuso della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e la casa loro. Ahi! e forse la madre, che credevano d'aver lasciata addormentata sul suo letto, ci s'era buttata, sorpresa tutt'a un tratto dalla peste; e stava lì senza sentimento, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro veniva piú tardi. Forse, o sciagura degna di lacrime ancor piú amare! la madre, tutta occupata de' suoi patimenti, aveva dimenticato ogni cosa, anche i figli, e non aveva piú che un pensiero: di morire in pace. Pure, in tanta confusione, si vedeva ancora qualche esempio di fermezza e di pietà: padri, madri, fratelli, figli, consorti, che sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano con parole di conforto: né adulti soltanto, ma ragazzetti, ma fanciulline che guidavano i fratellini piú teneri, e, con giudizio e con compassione da grandi, raccomandavano loro d'essere ubbidienti, gli assicuravano che s'andava in un luogo dove c'era chi avrebbe cura di loro per farli guarire.
ESERCIZI
Esercizio E. L. 1: individua il numero delle sequenze del brano e classificale secondo la loro natura.
Esercizio E. L. 2: dai un titolo breve a ciascuna sequenza.
Esercizio E. L. 3: per ogni sequenza scrivi un riassunto, costituito da un periodo di non oltre 30 parole. Se la sequenza è più breve di 30 parole, trascrivila così com’è nel testo.
Raccordo cap. 35-38
Trovata finalmente la casa di don Ferrante, apprende che Lucia è al lazzaretto, l'ospedale degli appestati. Scambiato per un untore, riesce a stento a sottrarsi a un gruppetto di gente imbestialita, saltando su di un carro di monatti.
L'aria si fa sempre più afosa, il cielo si copre di una coltre di umidità greve, quando Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati posticci, alzati per la circostanza, accanto ad altri in muratura. L'impressione è quella del covile segnato da un vasto brulichio prodotto da sani e malati, da serventi e da folli, impazziti per la peste, da gente variamente indaffarata. Su tutto domina l'organizzazione imposta dai cappuccini ed è, il loro, un ordine esemplare sempre tenendo conto che bisogna amministrare, confortare, curare o avviare al cimitero ben sedicimila appestati. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo nebbioso. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevato da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. È uno spicchio di umanità che intende sopravvivere e resistere nonostante tutto sembri avviare a morte o a disperazione. E proprio in un atteggiamento di padre che si cura dei propri piccoli Renzo intravede dopo tanto tempo la cara immagine di padre Cristoforo. Affettuoso l'incontro tra i due. Il padre dopo essere stato per anni a Rimini, per pressioni esercitate sui superiori ha ottenuto di essere richiamato a Milano e di essere adibito al servizio dei malati. Renzo gli fa un succinto riassunto delle sue avventure e dice di essere nel lazzaretto in cerca di Lucia. Potrebbe essere, se è ancora viva, nel recinto assegnato alle donne: è proibito entrarvi. Ma il padre lo autorizza date le buone intenzioni che lo animano. Ma Lucia sarà viva? Se non dovesse essere viva, Renzo si dice pronto a fare vendetta su don Rodrigo, che è all'origine di tutte le disavventure sue e di Lucia. E a questo punto padre Cristoforo lo redarguisce e alla legge di vendetta contrappone la legge cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto l'esperienza dell'assassinio di un uomo, sa quanto arida sia la strada della vendetta e quanto allontani da Dio e quindi dall'umanità la ricerca di una giustizia che impone morte per morte. La vera giustizia è la carità che compensa la morte di un uomo con la crescita ideale di nuova umanità. Renzo convinto si dice disposto al perdono del suo avversario. E il frate lo conduce in una capanna dove gli mostra don Rodrigo moribondo: ecco come si è ridotto colui che voleva farsi padrone dell'altrui vita! E il padre non sa decidere se in quelle condizioni il signorotto sia per un castigo o per un atto di misericordia della divinità.
Dopo affannosa ricerca, incontra finalmente Lucia. L'amarezza per la riconferma del voto fatto alla Madonna, è risolta dall'intervento di padre Cristoforo, che scioglie Lucia dal voto. Lucia resta con una ricca signora che ha perduto i suoi e l'ha presa a ben volere, mentre Renzo torna ad avvertire Agnese del prossimo ritorno della figliola.
Uscito dal lazzaretto Renzo è sorpreso da un temporale, quello che porterà via la peste. Vede Agnese, ritorna a Bergamo dal cugino per cercarsi una casa, è di nuovo al paesello ad attendervi Lucia che, trascorsa la quarantena, si accinge a ritornare. Prima della partenza, apprende la morte di padre Cristoforo, il processo contro la monaca di Monza, e la morte anche di donna Prassede e don Ferrante.
Lucia ritorna al paese. Don Abbondio si decide finalmente a sposare i due giovani, ma soltanto quando viene a sapere che il palazzo di don Rodrigo è ora occupato dall'erede di lui, un marchese, «bravissim'uomo» che ha saputo della storia di Lucia e di Renzo, e è disposto ad acquistare ad alto prezzo le loro casette e a liberare Renzo dall'imbroglio di Milano. I due sposi, con Agnese, si trasferiscono a Bergamo, dove la famiglia e gli affari prosperano. Il romanzo termina con la celebre morale messa in bocca a Lucia: «...lo non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercar me... i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani...».
[1] Alessandro Manzoni - Nacque a Milano nel 1785 dal nobile Pietro Manzoni e da Giulia Beccarla. Dopo aver compiuto gli studi a Merate, a Lugano e al Longone di Milano, e aver avuti in Milano i primi contatti con esponenti significativi del mondo culturale e letterario italiano, seguì a Parigi la madre, che nel frattempo si era separata dal marito. Lo stimolante ambiente parigino, in cui, accanto alle ideologie illuministiche, si andavano affermando le nuove concezioni romantiche, gli consenti esperienze che molto influirono sulla sua formazione e sulla sua attività successiva di pensatore e di scrittore.
Nel 1802 sposò Enrichetta Blondel, una ginevrina calvinista che si convertì al cattolicesimo; egli stesso nel 1809, dopo una profonda crisi religiosa, ritornò alla fede e alle pratiche cattoliche. A questa «conversione» seguirono anni di copiosa produzione letteraria.
Dal 1810 al 1827 compose infatti: gli Inni sacri, le odi civili Marzo 1821 e Il 5 maggio, due tragedie Il conte di Carmagnola e l’Adelchi, le Osservazioni sulla morale cattolica, la Lettera a Monsieur Chauvet, la Lettera sul Romanticismo, I Promessi Sposi, di cui la prima stesura è del 1823, la prima edizione del 1827, e la seconda, e definitiva, è del 1840-42.
Gli anni successivi al ‘42 furono occupati da studi di natura estetica, linguistica e storica; furono composti in questi anni le opere: Del romanzo storico e, in genere, dei componimenti misti di storia e d’invenzione, Dell’invenzione, vari studi sulla lingua italiana, il saggio comparativo su La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Del suo impegno politico nei confronti dell’Italia risorgimentale Manzoni ha lasciato documento nella sua opera: direttamente nel Marzo 1821, indirettamente nel primo coro dell’Adelchi e nello stesso romanzo; nel primo caso attraverso le vicissitudini dei Latini schiavi dì Franchi e Longobardi, nel secondo caso attraverso le vessazioni dei Lombardi sudditi della Spagna, egli ha ritratto la sorte di ogni popolo - e quindi anche dell’Italia del suo tempo - sottomesso allo straniero.
Morì nel 1873.
Il «cattolicesimo democratico» di Manzoni - L’incontro giovanile con l’Illuminismo prima a Milano poi a Parigi concorse in grande misura ad orientare il cattolicesimo manzoniano. Nel Vangelo infatti lo scrittore cercò e trovò una risposta a quelle istanze di uguaglianza e di fraternità che erano state i punti chiave dell’Illuminismo (si ricordi il famoso trinomio «libertà, uguaglianza, fraternità») e che egli aveva fatto sue. Con la differenza che, mentre gli illuministi ponevano a base di tali istanze il fatto che la ragione è bene comune a tutti gli uomini, e per tutti stabilisce parità di diritti e di doveri, egli le collegò alla comune paternità di Dio, che fa sì che tutti gli uomini, in quanto suoi figli, siano fra loro uguali e fratelli. In questo senso sì può parlare di un cattolicesimo democratico del Manzoni.
La sollecitudine per gli umili, per i diseredati della società e gli ignorati dalla storia ufficiale, è costante nello scrittore, dagli Inni sacri, alle tragedie, ai Promessi Sposi.
Nei Promessi sposi il ruolo di protagonisti è tenuto da due operai di estrazione contadina, «genti meccaniche e di piccolo affare», come dice Manzoni nell’introduzione al romanzo. E, con un capovolgimento rivoluzionario, coloro che nel giudizio del mondo sono in alto nella scala sociale, i cosiddetti «personaggi d’autorità», sono qui valutati positivamente o negativamente a seconda che si mettano al servizio degli umili o che siano loro avversi.
I temi fondamentali della moralità manzoniana: la giustizia e la provvidenza - Alle ingiustizie del mondo, alla prevaricazione dei forti e alla sopraffazione costante dei deboli, Manzoni contrappone l’istanza della giustizia.
Se, nella sua pienezza, la giustizia per il cristiano Manzoni potrà realizzarsi solo nell’aldilà, tuttavia gli uomini degni dì questo nome devono battersi perché anche su questa terra essa si attui il più possibile, perché l’ingiustizia venga sconfitta. Con questo spirito agiscono i personaggi positivi e combattivi del romanzo: padre Cristoforo, il cardinal Federigo, lo stesso Renzo per quanto glielo consentono le sue limitate forze.
Chi combatte per la giustizia ha Dio dalla sua parte. Al tema della giustizia si collega in tal modo quello della provvidenza, il tema che percorre tutta l’opera manzoniana e si dispiega soprattutto nel romanzo. In esso la provvidenza conforta gli umili nelle loro tribolazioni, da loro fiducia e persino sicurezza d’animo; ma anche confonde e annienta i prepotenti, così che alla fine la giustizia, sia pure faticosamente, trionfa, come dimostra la vicenda dei due promessi sposi, gente di «buona volontà», che dopo tante traversie riescono a raggiungere anche su questa terra la serenità che si sono meritata.
La soluzione manzoniana al problema della lingua - Il problema della lingua travagliò a lungo Manzoni e fu da lui sentito con particolare acutezza nel periodo della composizione del romanzo, un’opera che egli voleva rivolta ad un vasto pubblico e per la quale sentiva l’esigenza di una lingua che fosse popolare e viva, e che inoltre - poiché la sua aspirazione di patriota andava a un’Italia unita in nazione - non avesse carattere regionale, ma nazionale. Dopo lunga riflessione e sperimentazione, egli si convinse che la soluzione linguistica possibile in Italia era quella di estendere a tutta la penisola il più evoluto dei suoi dialetti, il fiorentino, e più precisamente il fiorentino parlato dalle persone colte, cioè da quella classe borghese che i romantici identificavano col «popolo».
[2] Per una ... stradicciole: si tratta delle viottole che Manzoni ha descritto nell'incipit del romanzo: strade che corrono tra le colline e le montagne che attorniano il lago di Como.
[3] curato: parroco.
[4] d'una ... di sopra: i territori della provincia di Lecco.
[5] casato: famiglia, discendenza.
[6] manoscritto: si tratta del manoscritto del Seicento che, nell'introduzione al romanzo, Manzoni finge di aver ritrovato nel corso delle sue ricerche storiche e di aver ritrascritto, aggiornandone il linguaggio.
[7] il suo ufizio: le sue preghiere.
[8] breviario: il libro delle preghiere.
[9] i fessi... opposto: le spaccature del monte dirimpetto.
[10] un altro squarcio: un altro brano della preghiera.
[11] voltata: svolta, curva.
[12] a foggia d'un ipsilon: a forma di Y, cioè un bivio.
[13] all'anche del passeggiero: alle anche di chi lo attraversava.
[14] tabernacolo: piccolo altare consacrato.
[15] volevan dir: intendevano rappresentare.
[16] bigiognolo: grigiastro.
[17] scalcinatura: punti in cui l'intonaco è rovinato e scrostato.
[18] al confluente: all'incrocio.
[19] condizione: natura, ruolo.
[20] una reticella verde: una retina che tratteneva i capelli lunghi.
[21] omero: spalla.
[22] nappa: nastro.
[23] mustacchi: baffoni arricciati.
[24] corno ripieno di polvere: un oggetto di corno nel quale veniva conservata la polvere da sparo per le pistole o gli schioppi.
[25] una gran ... d'ottone: l'elsa, cioè l'impugnatura, della spada, lavorata al cesello.
[26] forbite e lucenti: ben lavorate, pulite e luccicanti.
[27] bravi: sgherri che lavoravano al servizio dei signorotti del tempo; erano per lo più ex galeotti o delinquenti latitanti che, in cambio dell'impunità, garantivano con la violenza il potere del signore sul territorio.
[28] ivi: lì.
[29] Che… era lui: Appare evidente in questo passaggio l'onniscienza del narratore, che è in grado di muoversi con assoluta libertà non solo nello spazio, ma anche nel tempo e nella mente dei personaggi.
[30] gli sovvenne: gli venne in mente.
[31] il testimonio ... coscienza: la certezza di avere la coscienza pulita.
[32] ilarità: buon umore.
[33] galantuomini: gentiluomini, naturalmente in senso ironico.
[34] intraprendere una ribalderìa: commettere qualche delitto.
[35] maritar: sposare.
[36] come ... a riscotere: come se si andasse in un banco dei pegni a riscuotere un guadagno.
[37] comune: comunità.
[38] se la cosa ... in sacco: se la questione potesse essere decisa con le chiacchiere, lei ci avrebbe già ingannato.
[39] compagnone: bravaccio.
[40] Che… fin allora: Il narratore, per ragioni di rispetto nei confronti del lettore, opera una censura (come farà poi anche in seguito), evitando di riportare le parole dei bravi. Ciò nonostante, la sua censura non fa che accentuare l'effetto di sgradevolezza prodotto dall'atteggiamento dei bravi, che ci appare così davvero intollerabile.
[41] segno: punto.
[42] nessuna... particolare: nessuna condizione impedisce alla persona di formarsi un proprio modo di rapportarsi con la realtà.
[43] Neutralità disarmata: l'astenersi dal prendere una posizione decisa, per evitare di entrare nel conflitto.
[44] le podestà laiche: le personalità del potere politico.
[45] a prender parte: a schierarsi a favore di qualcuno.
[46] procurando: facendo in modo.
[47] dissimulando ... capricciose: nascondendo le loro malefatte, i loro soprusi dettati dal capriccio del momento.
[48] corrispondendo con sommissioni: rispondendo sottomettendosi.
[49] rispetto gioviale: rispetto fintamente allegro.
[50] il suo ... corpo: del rancore, del rammarico.
[51] esacerbato: esasperato.
[52] a segno che: al punto che.
[53] finalmente: in conclusione.
[54] fantastico: eccentrico e prepotente.
[55] un rigido censore: censurava, cioè criticava, con asprezza.
[56] si regolavan: si comportavano.
[57] Il battuto: lo sconfitto.
[58] uomo torbido: delinquente.
[59] soverchiatore: sopraffattore.
[60] chiamava: definiva.
[61] mischiarsi: immischiarsi.
[62] nelle cose profane: nelle cose del mondo, che non attengono alla religione.
[63] crocchio: un gruppetto di persone raccolte a parlare.
[64] veemenza: energia.
[65] alieni dal risentirsi: persone che non si adirano mai.
[66] stia ne' suoi panni: pensi ai fatti propri.
[67] i miei venticinque lettori: qui Manzoni fa di nuovo riferimento alle persone che il narratore immagina leggeranno la sua opera. Nuovamente il narratore si rivolge direttamente ai narratori. In questo caso, l'uso dell'aggettivo numerale venticinque appare una sorta di dichiarazione di falsa modestia: Manzoni invece sa bene che il suo è un romanzo destinato a un vasto pubblico.
[68] studio: applicazione.
[69] sconcertato in un punto: ribaltato, sconvolto in un attimo.
[70] tumultuariamente: tumultuosamente.
[71] non si fanno ... in che: non si preoccupano delle difficoltà in cui.
[72] imbasciata: messaggio.
[73] cooperatore dell'iniquità: collaboratore dell'ingiustizia.
[74] toccare ... mento: cioè fare l'inchino.
[75] la terra ... cappello: in segno di saluto.
[76] occorso: capitato.
[77] fatto: cattiva azione.
[78] Perpetua: si tratta della donna che si occupa delle faccende di casa di don Abbondio; dal nome di questo personaggio del romanzo, si è passati a indicare con il termine comune di perpetua proprio l'assistente al sacerdote nelle faccende domestiche.
[79] pure: quindi.
[80] Cameade: filosofo e oratore greco (214-128 a.C.), molto famoso nell'antichità e celebrato persine da Cicerone
[81] ruminava: rimuginava
[82] seggiolone: poltrona
[83] Perpetua: è la domestica di don Abbondio
[84] imbasciata: messaggio
[85] un po' di librerìa: qualche libro. Ancora la tecnica della digressione, attraverso la quale, in questo caso, il narratore ci fornisce alcune informazioni necessarìe a comprendere la situazione che sta descrìvendo.
[86] convalescente ... dello spavento: fa riferimento alla paura derivata dall'incontro con i bravi (capitolo I).
[87] panegirico ... due anni prima: il riferimento è al panegìrico (cioè un testo che esalta le qualità di un personaggio) La dottrina di San Carlo Borrromeo di Vincenzo Tasca, che fu letto pubblicamente nel duomo di Milano il 4 novembre 1626.
[88] Archimede: (287-212 a.C.) famoso matematico e fisico greco.
[89] erudiziene: cultura.
[90] arrenato: bloccato.
[91] Tonio: è il cugino di Renzo, che, con il fratello Gervaso, dovrebbe fungere da testimone nel matrimonio combinato da Renzo.
[92] Agnese: è la madre di Lucia e grande sostenitrice del matrimonio fraudolento.
[93] ai due fratelli: si tratta di Tonio e Gervaso.
[94] non vi siete maritata: Agnese punta sul pettegolezzo per distrarre Perpetua.
[95] metter male: seminare la discordia. In questo passaggio, Agnese usa la tecnica della reticenza, cioè non dice tutto quello che sta fingendo di sapere a Perpetua, con il risultato di stuzzicarne la curiosità e invogliarla a chiacchierare e distrarsi.
[96] confonder: ribattere.
[97] cheti: silenziosi.
[98] andito: ingresso.
[99] neppur per uno: meno che se fosse stata una sola persona.
[100] Deo gratìos: rendiamo grazie a Dio (in latino).
[101] riscoter: sussultare.
[102] zimarra: mantellina.
[103] papalina: piccolo copricapo tipico dei sacerdoti.
[104] canuti: bianchi.
[105] assomigliarsi: essere paragonati.
[106] in tutte le maniere: in tutti i sensi, cioè è tardi rispetto all'ora del giorno, ma anche alla scadenza del debito che Tonio aveva con don Abbondio.
[107] berlinghe: monete.
[108] involtino: fagottino
[109] Teda: la moglie di Tonio; la collana era stata lasciata in pegno, in cambio del prestito.
[110] libracelo: il libro dei conti. Di Don Abbondio ci viene qui fornito un piccolo ritratto assai gretto e meschino: il modo in cui controlla le monete appare davvero eccessivo, sospettoso e diffidente, il tipico atteggiamento dell'usuraio.
[111] dalla vita alla morte: se dovesse mai succedere qualcosa
[112] cassetta: cassetto
[113] come per ozio: come se non sapessero cosa fare.
[114] stropicciando: facendo rumore, strisciando
[115] rattenendo: trattenendo
[116] scena: sipario di teatro.
[117] proferire: pronunciare
[118] la mancina: la mano sinistra
[119] ghermito ... diritta: afferrato, con la mano destra
[120] polverino: è la polvere che si usava per asciugare l'inchiostro sul foglio
[121] formola: formula, cioè le parole che gli sposi pronunciano al momento del matrimonio.
[122] soffogava: soffocava
[123] quanto n'aveva in canna: a squarciagola
[124] affatto smarrita: completamente spaventata
[125] svolgersi: liberarsi dal tappeto
[126] remando con le mani: agitando le braccia
[127] non faccia schiamazzo: non urli
[128] carpone: a quattro zampe. Tonio, cugino di Renzo, cerca di recuperare almeno la ricevuta del debito saldato, non perché sia meschino, ma perché è un poveraccio, per il quale quella somma poteva significare anche mesi di lavoro.
[129] raccapezzare: ritrovare
[130] spiritato: agitatissimo
[131] usare a salvamento: mettersi in salvo
[132] lasciar: evitare, trascurare
[133] di soppiatto: di nascosto
[134] attendeva: si occupava.
[135] Contìguo: vicino
[136] rispondeva: guardava
[137] abituro ... bugigattolo: stamberga, casupola
[138] riscosso: svegliato
[139] l'impannata: l'imposta
[140] con gli occhi tra' peli: ancora assonnato
[141] senza mettersi... si fosse: senza cacciarsi lui in mezzo ai guai, di qualsiasi natura essi fossero
[142] Da ... brache: afferra i calzoni
[143] un cappello di gala: un cappello da festa.
[144] a martello: a distesa
[145] fenile: fienile. Il suono della campana viene riprodotto attraverso una onomatopea, ossia l'uso di parole che riproducono i suoni reali.
[146] le forche e gli schioppi: i forconi e le armi da fuoco
[147] all'ordine: pronti
[148] gli: li
[149] avvisti: accorti
[150] venire in chiaro: chiarire
[151] diviato: dritti dritti
[152] sanrocchino: mantello corto
[153] sparso di conchiglie: erano il simbolo dei pellegrini; per il Griso è un travestimento
[154] bordone: bastone
[155] brigatella: piccola brigata
[156] truppa: i suoi bravi
[157] nemmeno uno zitto: nemmeno una parola. Come in molte altre parti del testo, il passaggio dal passato al presente narrativo avviene nei momenti di maggiore tensione narrativa, quasi a voler avvicinare il lettore alla scena su cui si muovono i personaggi.
[158] malandrìno: mascalzone
[159] sconficcare: sfilare
[160] accattato: chiesto in elemosina
[161] Cava ... zolfanelli: tira fuori l'occorrente per accendere una lanterna
[162] acchetare: calmare
[163] dicitore: l'unico a parlare
[164] lepre: cioè la preda
[165] brulica: si muove
[166] capezzale: la testa del letto
[167] Menico: un ragazzino del paese, già incontrato in precedenza. Ancora un ammicco al lettore, che in questo caso è formulato in modo da creare una specie di complicità, quasi a voler esprimere fiducia nella sua competenza.
[168] garzoncello: ragazzine
[169] Chi è ... sospetto: chi sta facendo qualcosa di non Lecito è pronto a sospettare di tutto. Benché mostri di prendere talvolta le distanze da essa, il narratore si appoggia spesso, ai detti della saggezza popolare, che contengono comunque una certa dose di buon senso, assai utile nei diversi casi della vita.
[170] provata ... viso: di esperienza e abituata ad agire a viso scoperto
[171] avanti questo giorno: prima di questo giorno.
[172] brulicavano d'uomini: erano piene di gente.
[173] crocchi: gruppetti di persone raccolte a parlare.
[174] senza ... l'intesa: senza nessun accordo.
[175] avvedersene: accorgersene.
[176] persuasione: convinzione.
[177] proferito: pronunciato.
[178] l'acqua s'andava intorbidando: la situazione si stava facendo più critica.
[179] s'ingegnavano: si davano da fare.
[180] posare: calmare.
[181] farci... pesca: trarne qualche guadagno.
[182] si farebbe: si sarebbe fatto.
[183] Avanti giorno: prima che facesse giorno.
[184] a sorte: a caso.
[185] per tutto: dovunque.
[186] meraviglie: esclamazioni.
[187] ridurre ... fatti: per trasformare i discorsi in azione.
[188] garzoni: ragazzi che lavoravano nei forni.
[189] gerla: grande cesta che si caricava sulle spalle.
[190] il cadere ... polveriera: gettare un fuoco artificiale in una polveriera.
[191] notano: nuotano.
[192] avventa: mette.
[193] stratta: strattone.
[194] cigne: cinghie che reggevano la gerla alle spalle.
[195] canovaccio: strofinaccio.
[196] una tepida fragranza: un profumo di pane caldo appena sfornato.
[197] fu sparecchiato: il pane fu portato via tutto.
[198] la mala parata: la situazione pericolosa. Le parole che Manzoni usa non sono scelte a caso. La descrizione della scintilla che fa esplodere la sommossa del pane viene effettuata utilizzando termini e immagini ("irritati", "a branchi","svaligiate" eccetera) che già orientano il nostro discorso e ci inducono a esprimere un giudizio non positivo sulla folla.
[199] coloro che ... co'fiocchi: quelli che stavano tramando nella speranza che i disordini si ingigantissero.
[200] Corsia de' Servi: oggi corso Vittorio Emanuele.
[201] tuttavia: tuttora, ancora oggi.
[202] viene a dire: significa.
[203] grucce: stampelle.
[204] parole ... salvatiche: parole di origine così diversa, così sgradevoli e plebee.
[205] s'avventò: si diresse con foga.
[206] tutto ... abbaruffato: tutto stupito e scompigliato.
[207] compariscono ... masnada: compaiono le avanguardie della folla inferocita.
[208] capitano di giustìzia: era il comandante della guardia.
[209] appuntellano i battenti: puntellano le ante della porta.
[210] appuntellano i battenti: puntellano le ante della porta.L'enfasi della narrazione è sottolineata dall'accumulazione, qui e in seguito, delle esclamazioni, spesso accorpate a coppie, quasi a scandire il ritmo dell'assalto al forno da parte della massa vociante.
[211] scorta d'alabardieri: sono le guardie armate di alabarda, cioè di una lunga lancia.
[212] fa un po' di luogo: si sposta un po', facendo un po' di spazio.
[213] postarsi: appostarsi
[214] dicitore: colui che parlava, cioè il capitano di giustizia
[215] Fateli dare addietro: fateli indietreggiare
[216] pigìo: ressa
[217] vóto: vuoto, spazio
[218] rattenendo: trattenendo
[219] si n'appuntella: si rimettono i puntelli ai battenti
[220] formicolaio: formicaio, ressa
[221] urlio: frastuono, vociare
[222] Or ora: adesso. La reazione violenta e rabbiosa del capitano della guarnigione alla sassata ricevuta contrasta in modo netto con le parole appena pronunciate, la cui moderazione e accondiscendenza si rivela perciò falsa. In questo modo, attraverso una brusca ironia, Manzoni lo smaschera subito e senza possibilità di dubbio.
[223] cagionata: causata
[224] protuberanza ... metafisica:espressione ironica per indicare la parte sinistra della fronte.
[225] quanto n'aveva in canna: con tutte le sue forze
[226] disselciato: tolto i ciottoli dalla strada lastricata
[227] accennavano: mostravano, a gesti
[228] in fallo: in modo sbagliato, cioè senza colpire qualcuno
[229] varchi: aperture, passaggi. La metafora folla-torrente è il segno di un processo di disumanizzazione, che ha tramutato le persone in massa informe e priva della minima capacità di controllo e raziocinio. E questo, per Manzoni, è decisamente un male.
[230] cantucci: angoli
[231] abbaini: piccole finestre che si aprono sul tetto di un edificio
[232] ciotole: i contenitori dove i negozianti tenevano il denaro.
[233] parare il grembiule: stenderlo per raccogliere la farina
[234] madia: grande armadio per contenere i generi alimentari
[235] burattello: setaccio per la farina
[236] polverìo: polvere di farina. Il bianco polverìo della farina sospesa nell'aria produce un effetto particolare, quasi di allontanamento dalla realtà, di sospensione in un mondo differente, fuori dal controllo della ragione.
[237] ausiliari: persone di guardia, che aiutassero
[238] sbirraglia: soldati equivalenti ai poliziotti
[239] i tristi... folla: le persone malintenzionate e facinorose, ma in numero troppo esiguo per costituire un pericolo.
[240] gli pizzicavan le mani: gli prudevano le mani, cioè avevano voglia di attaccar briga.
[241] impunità: esenzione dalla pena.
[242] qualchedun altro: sino a questo punto, nel capitolo, Manzoni ha parlato di Lucia, prigioniera dell'innominato, e della sua notte angosciosa; da qui in poi sarà proprio l'innominato il protagonista della narrazione.
[243] quelle parole: sono le parole che Lucia aveva rivolto all'innominato, turbandolo profondamente.
[244] Nibbio: il capo dei bravi dell'innominato, anch'egli mosso a compassione dall'atteggiamento di Lucia.
[245] belar donne: donne che piangono.
[246] preghi: suppliche. A segnalare il profondissimo tormento interiore dell'innominato, si offre il continuo contrasto tra tutto ciò che l'uomo fa, vede o pensa e l'effetto che questo produce. Tutto sembra capovolgersi, ogni sua iniziativa sortisce l'effetto opposto rispetto a quello voluto, e la sua prospettiva sulla realtà appare nettamente modificata.
[247] punto: affatto
[248] risoluzioni: decisioni
[249] rimembranza: ricordo
[250] molesta: fastidiosa
[251] diavoleria: angoscia
[252] restìo: riluttante, che oppone piacevole resistenza
[253] d'animarsi al compimento: di acquisire coraggio per terminarle
[254] gli sarebbe parsa soave: gli sarebbe sembrata leggera
[255] voto ... intento: vuoto, privo di ogni intenzione, di ogni volontà. Qui, come in seguito, viene usata un'anticipazione. Si tratta però di un'anticipazione assurda; frutto dei pensieri nefasti dell'uomo, che preconizza per sé un futuro di angosce e di tormenti, che la conversione però gli eviterà.
[256] Si schierava ... malandrini: scorrevano nella sua mente le immagini dei bravi, i delinquenti che erano al suo servizio
[257] impiccio: fastidio
[258] A guisa di chi: alla maniera di colui che.
[259] l'antico: il suo modo di essere di un tempo, la sua vecchia personalità
[260] indotto: convinto
[261] deliberazione: decisione
[262] ingolfato: invischiato
[263] continuerebbe: avrebbe continuato
[264] con una forza ... pollice: muovendo convulsamente, freneticamente, il pollice
[265] cane: parte della pistola che, scattando, fa partire il colpo
[266] poche ore prima: quando Lucia lo aveva pregato perché la liberasse
[267] proferite: pronunciate.
[268] induceva: generava
[269] attitudine: atteggiamento
[270] indarno: invano. L'angoscia crescente dell'uomo è segnalata dall'accumulazione delle interrogazioni e delle esclamazioni, che producono un effetto di crescendo.
[271] sarebbe: sarebbe stato, cioè il ricordo delle proprie malefatte non lo avrebbe abbandonato
[272] l'animo antico: il coraggio e la volontà di un tempo
[273] immoto: immobile. Da questo momento, il narratore retrocede per lasciare spazio al punto di vista dell'innominato. Noi lettori, infatti, siamo messi in condizione di conoscere cosa sta avvenendo fuori dal suo castello solo attraverso le sue percezioni prima uditive, poi visive: sappiamo, insomma, quello che sa lui, e questo accentua l'effetto di tensione e di speranza che la narrazione produce.
[274] concento: suono
[275] covile di pruni: giaciglio spinoso, in senso metaforico
[276] cenerognola: grigia come la cenere.
[277] alacrità: fervore, voglia di fare
[278] canaglia: gentaglia
[279] fidato: di fiducia
[280] cagione: ragione, motivo.
[281] anderebbe: sarebbe andato
[282] mobile: mutevole
[283] brigate: gruppi
[284] che rìntoppasse: in cui si imbattesse
[285] convenuto: concordato in anticipo
[286] non accordato ma consentaneo: che non era stato concordato, ma che ugualmente si sviluppava all'unisono
[287] supplemento: supporto, aiuto
[288] un trasporto ... diversa: un movimento comune di persone così diverse e di provenienze differenti
da I promessi sposi di Alessandro Manzoni[1]
· Il primo estratto che ti proponiamo è tratto dal capitolo I de I promessi sposi. Il capitolo si apre con un'ampia e dettagliata contestualizzazione dell'ambiente nel quale si svolgerà la storia e ci fornisce alcune precise indicazioni temporali (è il 7 novembre 1628), ma soprattutto dà avvio alla vicenda, mettendo in scena una delle tematiche che percorreranno l'intero romanzo: lo scontro violentissimo tra povertà e semplicità da un lato, arroganza, prepotenza e ingiustizia dall'altro.
· In primo piano troviamo un povero parroco di campagna, don Abbondio, che non vuole guai con i potenti del circondario e che, anziché stare dalla parte della povera gente e difenderla dai soprusi, si lascia intimidire al punto da far saltare il previsto matrimonio tra quelli che saranno i protagonisti del romanzo, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Contro di lui, due sgherri del signorotto della zona, don Rodrigo: due sicari, dall'aria minacciosa e con le armi bene in vista, che spaventano il povero curato con minacce non troppo velate e con un'arroganza che deriva loro dall'impunità di cui godono e dalla forza bruta con cui sono soliti dirimere le loro questioni, in barba alle leggi. Il loro padrone si è invaghito di Lucia e la vorrebbe per sé: ecco la causa di questo atto di prepotenza; e don Abbondio cederà alle pressioni.
· Il brano appartiene al primo capitolo dei promessi sposi. La storia narrata è molto chiara: siamo nei dintorni del lago di Como e due scagnozzi di un signorotto del luogo, don Rodrigo, abbordano don Abbondio, il curato del paese, minacciandolo di morte se sposerà due giovani popolani suoi parrocchiani, Renzo e Lucia. Il loro padrone si è incapricciato della ragazza e la vuole per sé: il parroco, pauroso e imbelle, cederà.
· La vicenda però ci viene presentata con una gradualità che crea suspense nel lettore; dapprima le esitazioni del parroco che non comprende subito la situazione, poi le minacce, mai troppo esplicite, infine le riflessioni di don Abbondio spaventatissimo, ci permettono di recuperare solo un po' alla volta le coordinate della vicenda, della quale, in partenza, non sappiamo quasi nulla.
· I personaggi che animano la vicenda sono tra loro estremamente differenti. Don Abbondio ci viene presentato con una complessità e un livello di approfondimento psicologico subito molto ampi: il narratore ci informa sia sulla sua condizione sociale e la sua storia personale, sia su tutti i suoi pensieri e stati d'animo. Si capisce immediatamente che il curato è un personaggio negativo, che per paura viene meno ai propri doveri sacerdotali, e per questo lo scrittore lo condanna disegnandone un ritratto spietato e sarcastico; per contro, però, è disposto a comprenderlo, vittima com'è delle difficilissime condizioni nelle quali si viveva in quell'epoca. In fondo, sembra dire Manzoni, non è tutta colpa sua. A lui sono contrapposti i bravi, anch'essi frutto della stessa epoca, ma verso i quali l'atteggiamento dello scrittore è di più netta condanna: il loro atteggiamento, l'arroganza e la protervia, persino il loro pittoresco aspetto fisico ("L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione") ce ne forniscono un'immagine indiscutibilmente negativa. Sono il braccio violento del potere, lo sanno e ne approfittano cinicamente.
· In questo estratto Manzoni mette subito in atto una tecnica che sarà fondamentale nell'impianto dell'intero romanzo, ossia la digressione. Che abbia contenuto descrittivo, narrativo, riflessivo, informativo, la digressione è una parentesi che interrompe il flusso della narrazione per introdurre un argomento che ci fornisce informazioni più ampie e dettagliate su quanto stiamo leggendo, su uno dei personaggi, sul contesto nel quale si svolge la storia. Si tratta di uno strumento funzionale proprio al romanzo storico, che fonda gran parte della propria credibilità sulla ricchezza del lavoro preparatorio e delle fonti di informazione e di documentazione, di cui consente di rendere conto. In questo estratto, la digressione è narrativa e serve a presentarci con particolare ricchezza di dettagli il personaggio più importante di questa parte, don Abbondio, per comprenderne di più la personalità e per contestualizzare meglio la vicenda.
· Lo stile presenta alcune caratteristiche fortemente rilevate. La narrazione è effettuata da un esterno e onnisciente, che però non perde occasione per caratterizzare in modo marcato i propri personaggi. Ad esempio, nel caso dei bravi, i loro interventi diretti sono accompagnati da numerose reticenze, ossia passaggi nei quali, per apparire più minacciosi, essi non dicono tutto ma non lasciano dubbi su ciò che intendono comunicare ("Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende").
· La stessa tecnica viene usata per caratterizzare don Abbondio, ma in maniera assai differente: egli infatti spezzetta le proprie frasi e persino i propri pensieri perché ha paura ed è in preda a un tale stato di agitazione che gli impedisce di connettere in modo compiuto ("e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuoi contraddirgli...ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per non saper che fare, s'innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro").
Per una di queste stradicciole[2], tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato[3] d'una delle terre accennate di sopra[4]: il nome di questa, né il casato[5] del personaggio, non si trovan nel manoscritto[6], né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio[7], e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario[8], tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto[9], si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio[10], giunse a una voltata[11] della stradetta, dov'era solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon[12]: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l'altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all'anche del passeggiero[13]. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo[14], sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell'intenzion dell'artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir[15] fiamme; e, alternate con le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo[16], con qualche scalcinatura[17] qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente[18], per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione[19]. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde[20], che cadeva sull'omero[21] sinistro, terminata in una gran nappa[22], e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi[23] arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere[24], cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d'ottone[25], congegnate come in cifra, forbite e lucenti[26]: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de' bravi[27].
Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica.
[…]
Che i due descritti di sopra stessero ivi[28] ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l'aspettato era lui[29]. Perché, al suo apparire, coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; e tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne[30] subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza[31] lo rassicurava alquanto: i bravi però s'avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità[32] che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini[33], disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi.
- Signor curato, - disse un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia.
- Cosa comanda? - rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
- Lei ha intenzione, - proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia[34], - lei ha intenzione di maritar[35] domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
- Cioè... - rispose, con voce tremolante, don Abbondio: - cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere[36]; e noi... noi siamo i servitori del comune[37].
- Or bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, - questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai.
- Ma, signori miei, - replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, - ma, signori miei, si degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca...
- Orsù, - interruppe il bravo, - se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco[38]. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende.
- Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...
- Ma, - interruppe questa volta l'altro compagnone[39], che non aveva parlato fin allora[40], - ma il matrimonio non si farà, o... - e qui una buona bestemmia, - o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... - un'altra bestemmia.
- Zitto, zitto, - riprese il primo oratore: - il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: - se mi sapessero suggerire...
- Oh! suggerire a lei che sa di latino! - interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. - A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don Rodrigo?
- Il mio rispetto...
- Si spieghi meglio!
-... Disposto... disposto sempre all'ubbidienza -. E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.
- Benissimo, e buona notte, messere, - disse l'un d'essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. - Signori... - cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui gli era toccato di vivere.
Don Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui.
[…]
Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno[41]: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare[42]. Don Abbondio, assorbito continuamente ne' pensieri della propria quiete, non si curava di que' vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d'adoperarsi molto, o d'arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata[43] in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche[44], tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte[45] tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando[46] di far vedere all'altro ch'egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da' prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose[47], corrispondendo con sommissioni[48] a quelle che venissero da un'intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d'inchini e di rispetto gioviale[49], anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl'incontrava per la strada, il pover'uomo era riuscito a passare i sessant'anni, senza gran burrasche.
Non è però che non avesse anche lui il suo po' di fiele in corpo[50]; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que' tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato[51] a segno che[52], se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po' di sfogo, la sua salute n'avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v'eran poi finalmente[53] al mondo, e vicino a lui, persone ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d'essere un po' fantastico[54], e di gridare a torto. Era poi un rigido censore[55] degli uomini che non si regolavan[56] come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto[57] era almeno un imprudente; l'ammazzato era sempre stato un uomo torbido[58]. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi, declamava contro que' suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d'un debole oppresso, contro un soverchiatore potente[59]. Questo chiamava[60] un comprarsi gl'impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch'era un mischiarsi[61] nelle cose profane[62], a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr'occhi, o in un piccolissimo crocchio[63], con tanto più di veemenza[64], quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi[65], in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi panni[66], non accadon mai brutti incontri.
Pensino ora i miei venticinque lettori[67] che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato. Lo spavento di que' visacci e di quelle parolacce, la minaccia d'un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch'era costato tant'anni di studio[68] e di pazienza, sconcertato in un punto[69], e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente[70] nel capo basso di don Abbondio. "Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per non saper che fare, s'innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de' travagli in che[71] mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Son io che voglio maritarmi? Perché non son andati piuttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l'occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro imbasciata[72]..."Ma, a questo punto, s'accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell'iniquità[73] era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de' suoi pensieri contro quell'altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, né aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento[74], e la terra con la punta del suo cappello[75], quelle poche volte che l'aveva incontrato per la strada. Gli era occorso[76] di difendere, in più d'un'occasione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto[77]: aveva detto cento volte ch'era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede in cuor suo tutti que' titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch'era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: - Perpetua[78]! Perpetua! -, avviandosi pure[79] verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena.
Era Perpetua, come ognun se n'avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l'età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche.
- Vengo, - rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch'egli v'entrò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.
- Misericordia! cos'ha, signor padrone?
- Niente, niente, - rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone.
- Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com'è? Qualche gran caso è avvenuto.
- Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire.
- Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?...
- Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.
- E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! - disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.
- Date qui, date qui, - disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina.
- Vuol dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone? - disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.
- Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita!
- La vita!
- La vita.
- Lei sa bene che, ogni volta che m'ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai...
- Brava! come quando...
Perpetua s'avvide d'aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, - signor padrone, - disse, con voce commossa e da commovere, - io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l'animo...
Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: - per amor del cielo!
- Delle sue! - esclamò Perpetua. - Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!
- Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?
- Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?
- Oh vedete, - disse don Abbondio, con voce stizzosa: - vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell'impiccio, e toccasse a me di levarnela.
- Ma! io l'avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi...
- Ma poi, sentiamo.
- Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant'uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente...
- Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover'uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l'arcivescovo me la leverebbe?
- Eh! le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a...
- Volete tacere?
- Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s'accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le...
- Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?
- Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.
- Ci penserò io, - rispose, brontolando, don Abbondio: - sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare - E s'alzò, continuando: - non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch'io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l'appunto a me.
- Mandi almen giù quest'altro gocciolo, - disse Perpetua, mescendo. - Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.
- Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: - una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com'andrà? - e altre simili lamentazioni, s'avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne : - per amor del cielo! -, e disparve.
Raccordo capp 1-5
Al mattino successivo, quando Renzo si reca alla chiesa, apprende che per alcune formalità il matrimonio deve rinviarsi. Poco convinto, sul punto di allontanarsi, incontra Perpetua che non può fare a meno di fargli intendere che le ragioni sono ben altre. Nuovo colloquio tempestoso con don Abbondio, costretto da Renzo a rivelare che l'impedimento è don Rodrigo, il signorotto del paese. Renzo, disperato, corre alla casa di Lucia.
Lucia, rimasta sola con la madre e con Renzo, racconta di avere suscitato l’interesse di don Rodrigo, e allora i tre decidono di rivolgersi ad un avvocato, l’Azzecca-garbugli. L’avvocato, durante l’incontro con Renzo, pensa, sbagliando, che invece di avere subito un torto, è Renzo un bravo che ha fatto qualcosa di brutto e che cerca di evitare la punizione andando da un avvocato. Perciò pensa di aiutarlo, ma quando scopre che invece Renzo è la vittima di don Rodrigo, allora rifiuta l’incarico e non gli da neanche spiegazioni, perchè si spaventa della potenza di don Rodrigo. Intanto Lucia insiste con sua madre per parlare con fra Cristoforo, un frate cappuccino in cui ha molta fiducia. Mentre le due donne pensano come fare a parlare con fra Cristoforo, arriva fra Galdino, che chiede delle noci per il suo convento e che racconta alle donne una fiaba. Lucia decide di dare a fra Galdino un messaggio per fra Cristoforo. Renzo ritorna intanto deluso per l’incontro con l’avvocato, e le due donne cercano di calmarlo e gli dicono che hanno chiesto l’intervento di fra Cristoforo. Intanto è già sera e i tre devono separarsi.
Padre Cristoforo, avvertito da Lucia, esce dal suo convento di Pescarenico e si reca alla casa delle due donne. Il capitolo è in gran parte occupato dalla narrazione della giovinezza del frate: figlio di un facoltoso mercante, aveva ricevuto una raffinata educazione. Venuto un giorno a diverbio con un nobile, l'aveva ucciso in duello; quindi, per espiazione, s'era fatto frate, mutando il nome di Lodovico in quello di Cristoforo.
Fra Cristoforo, dopo aver parlato con le due donne, decide di recarsi da don Rodrigo, per convincerlo a desistere dal suo proposito. Si reca al palazzo del signorotto, dove è ricevuto nella sala da pranzo: è in corso infatti un banchetto, cui il padrone di casa ha invitato un suo cugino, il conte Attilio, e alcuni personaggi importanti del paese. Si discute della guerra in corso per la successione del ducato di Mantova, si brinda all'abbondanza (mentre nelle campagne infuria la fame) e si disserta su futili questioni d'onore. Padre Cristoforo è chiamato a dir la sua.
Il colloquio fra Don Rodrigo e fra’ Cristoforo (dal Cap 6)
- In che posso ubbidirla? - disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva dir chiaramente: bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati.
Per dar coraggio al nostro fra Cristoforo, non c'era mezzo più sicuro e più spedito, che prenderlo con maniera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le parole, e facendo scorrere tra le dita le ave marie della corona che teneva a cintola, come se in qualcheduna di quelle sperasse di trovare il suo esordio; a quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò ch'era assai più, i fatti altrui, corresse e temperò le frasi che gli si eran presentate alla mente, e disse, con guardinga umiltà: - vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d'una carità. Cert'uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti. Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza, e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e potendolo... la coscienza, l'onore...
- Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario che l'offende.
Fra Cristoforo, avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al peggio le sue, per volgere il discorso in contesa, e non dargli luogo di venire alle strette, s'impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di mandar giù qualunque cosa piacesse all'altro di dire, e rispose subito, con un tono sommesso: - se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda, se non so parlare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio, al cui cospetto dobbiam tutti comparire... - e, così dicendo, aveva preso tra le dita, e metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di legno attaccato alla sua corona, - non s'ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a de' poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. L'innocenza è potente al suo...
- Eh, padre! - interruppe bruscamente don Rodrigo: - il rispetto ch'io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.
Questa parola fece venir le fiamme sul viso del frate: il quale però, col sembiante di chi inghiottisce una medicina molto amara, riprese: - lei non crede che un tal titolo mi si convenga. Lei sente in cuor suo, che il passo ch'io fo ora qui, non è né vile né spregevole. M'ascolti, signor don Rodrigo; e voglia il cielo che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia metter la sua gloria... qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Lei può molto quaggiù; ma...
- Sa lei, - disse don Rodrigo, interrompendo, con istizza, ma non senza qualche raccapriccio, - sa lei che, quando mi viene lo schiribizzo di sentire una predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia! Oh! - e continuò, con un sorriso forzato di scherno: - lei mi tratta da più di quel che sono. Il predicatore in casa! Non l'hanno che i principi.
- E quel Dio che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle loro regge; quel Dio le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per una innocente...
- In somma, padre, - disse don Rodrigo, facendo atto d'andarsene, - io non so quel che lei voglia dire: non capisco altro se non che ci dev'essere qualche fanciulla che le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le piace; e non si prenda la libertà d'infastidir più a lungo un gentiluomo.
Al moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s'era messo davanti, ma con gran rispetto; e, alzate le mani, come per supplicare e per trattenerlo ad un punto, rispose ancora: - la mi preme, è vero, ma non più di lei; son due anime che, l'una e l'altra, mi premon più del mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far altro per lei, che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non voglia tener nell'angoscia e nel terrore una povera innocente. Una parola di lei può far tutto.
- Ebbene, - disse don Rodrigo, - giacché lei crede ch'io possa far molto per questa persona; giacché questa persona le sta tanto a cuore...
- Ebbene? - riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l'atto e il contegno di don Rodrigo non permettevano d'abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare quelle parole.
- Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà d'inquietarla, o ch'io non son cavaliere.
A siffatta proposta, l'indegnazione del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò. Tutti que' bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l'uomo vecchio si trovò d'accordo col nuovo; e, in que' casi, fra Cristoforo valeva veramente per due.
- La vostra protezione! - esclamò, dando indietro due passi, postandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull'anca, alzando la sinistra con l'indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: - la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.
- Come parli, frate?...
- Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la fronte alta, e con gli occhi immobili.
- Come! in questa casa...!
- Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch'io vi prometto. Verrà un giorno...
Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s'aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento.
Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quella dell'infausto profeta, gridò: - escimi di tra' piedi, villano temerario, poltrone incappucciato.
Queste parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All'idea di strapazzo e di villania, era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo, associata l'idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel complimento, gli cadde ogni spirito d'ira e d'entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che quella d'udir tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse d'aggiungere. Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il ciel la manda.
- Villano rincivilito! - proseguì don Rodrigo: - tu tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno a' tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa volta; e la vedremo. Così dicendo, additò, con impero sprezzante, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e se n'andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia.
APPLICAZIONE
Esercizio E. L. 1: individua il numero delle sequenze del brano e classificale secondo la loro natura.
Esercizio E. L. 2: dai un titolo breve a ciascuna sequenza.
Esercizio E. L 3: individua tutti i personaggi presenti nel brano.
Esercizio E L 4: I personaggi principali che agiscono nel brano sono presentati in maniera diretta o indiretto, (attraverso le loro azioni, i loro comportamenti, i loro discorsi)? Argomenta la tua risposta delineando il modo di essere dei personaggi con i tratti caratterizzanti del suo aspetto fisico, psicologico, sociale, culturale, ideologico.
Esercizio E. L. 5: Individua dell’epoca storica in cui si svolgono i fatti (se non vi sono indicazioni dell’epoca per quale motivo) se il tempo è:
Indeterminato,
Chiaramente espresso,
Individuabile tramite elementi interni al testo.
Esercizio E. L. 6: Individua degli indicatori temporali precisi, le unità di tempo (giorni, mesi, ecc.) se vi sono:
Datazioni esplicite,
Riferimenti a personaggi realmente esistiti,
Descrizione di abitudini e modi di vivere propri di una certa epoca;
Esercizio E. L. 7: Individua l’ordine del tempo e per quale motivo vi sono delle variazioni rispetto all’Ordine cronologico, Retrospettive, Anticipazioni.
Esercizio E. L. 8: Individua lo spazio geografico in cui è ambientata la vicenda (e se questo non è indicato per quale motivo)
Esercizio E. L. 9: Individua la descrizione dei luoghi se essi sono:
· Luoghi reali o immaginari
· Chiusi o aperti
· Limitati o illimitati
· Ristretti o ampi
· Quali oggetti si trovano
Esercizio E.L. 10: Trova eventuali collegamenti tra situazioni (di tensione, gioia, aspettativa) e spazi., Relazioni tra luoghi e personaggi (come i personaggi vivono il luogo, vi sono analogie o discordanze tra i tipi di personaggio e il luogo in cui si trovano), Relazioni tra i luoghi (ad esempio opposizione tra spazi vicino/lontano, aperto/chiuso, ecc.)
Esercizio E.L. 11: Individua la funzione rivestita nella descrizione degli spazi: se si tratta di:
· Ambientazione
· Narrativa
· Simbolica
spiegando le ragioni della tua scelta.
Raccordo cap. 6-7
Il frate prima di lasciare il palazzo ha la promessa di un vecchio e buon servitore che sarà avvertito degli eventuali progetti infami del suo padrone. Intanto, in casa di Lucia, Agnese espone ai due giovani un suo progetto: quello di strappare il matrimonio a don Abbondio, presentandosi a lui con due testimoni e dichiarando l'intenzione di sposarsi. Sembra che secondo l'uso il matrimonio sarà così ugualmente valido. Lucia è riluttante; Renzo, entusiasta, esce in cerca dei due testimoni e li trova in Tonio, cui promette di pagare un debito che costui ha col curato, e nel fratello di lui, Gervaso.
Padre Cristoforo annuncia desolato alle due donne il fallimento della sua missione. Furore di Renzo, Lucia acconsente all'idea della madre. Intanto nel paese si vede gente strana, e un mendicante va alla casetta di Lucia a chiedere l'elemosina con l'aria di esplorare il luogo. Sono gli uomini di don Rodrigo che studiano il modo di rapire Lucia, agli ordini del capo dei bravi, il Griso. A sera, i due giovani, Agnese e i testimoni s'avviano in silenzio verso la casa di don Abbondio.
La notte degli imbrogli
Dal Capitolo VIII de I promessi sposi.
· Romanzo storico o d'avventura? Storia d'amore o di denuncia? Vicenda a sfondo religioso o politico? I promessi sposi sono, in un certo senso, un po' tutto questo e probabilmente molto altro. L'episodio che ti proponiamo, uno dei più famosi del romanzo, è significativo soprattutto dal punto di vista delle tecniche narrative che si dipanano creando uno dei punti di maggiore tensione drammatica della vicenda. Si tratta della cosiddetta "notte degli imbrogli".
· Agnese, la madre di Lucia, di sposarsi in modo "fraudolento", cioè ingannando don Abbondio con l'aiuto di due compari, Ionio e Gervaso, cugini di Renzo. Ma contemporaneamente in paese si sono infiltrati i bravi di don Rodrigo che, guidati dal Griso, hanno intenzione di rapire Lucia per permettere a don Rodrigo di averla per sé. I due gruppi si muovono l'uno all'insaputa dell'altro, vanificando i rispettivi progetti: la reazione inconsulta di don Abbondio, l'arrivo del piccolo Menico, un ragazzetto mandato ai due fidanzati da fra Cristoforo che aveva scoperto le intenzioni di don Rodrigo, l'intervento della gente del paese scatenano una rapida e confusa serie di azioni che creano uno stato di scompiglio generale nel piccolo borgo e che daranno una svolta determinante alla vicenda. Renzo, Lucia e Agnese saranno costretti a fuggire e a separarsi, per ritrovarsi soltanto dopo la terribile pestilenza.
· L'episodio occupa ben due capitoli del romanzo: nel VII vengono narrati, alternandoli, i preparativi che i due gruppi fanno per allestire le due spedizioni. Noi ti proponiamo la lettura di buona parte del capitolo VIII, nel quale la tensione narrativa culmina in una serie di azioni sempre più rapide e frenetiche, sino all'epilogo.
«Cameade[80]! Chi era costui?» ruminava[81] tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone[82], in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua[83] entrò a portargli l'imbasciata[84]. «Cameade! questo nome mi par bene d'averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?» Tanto il poveruomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!
^ Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po' di libreria[85], gli prestava un libro dopo l'altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento[86], anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima[87]. Il santo v'era paragonato, per l'amore allo studio, ad Archimede[88]; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c'è bisogno d'un'erudizione[89] molto vasta. Ma, dopo Archimede, l'oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato[90]. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio[91].
«A quest'ora?» disse anche don Abbondio, com'era naturale.
«Cosa vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo...»
«Già: se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo venire... Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui?»
«Diavolo!» rispose Perpetua, e scese; aprì l'uscio, e disse: «dove siete?» Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese[92], e salutò Perpetua per nome.
«Buona sera, Agnese,» disse Perpetua: «di dove si viene, a quest'ora?»
«Vengo da...» e nominò un paesetto vicino. «E se sapeste...» continuò: «mi son fermata di più, appunto in grazia vostra.»
«Oh perché?» domandò Perpetua; e voltandosi a' due fratelli[93], «entrate,» disse, «che vengo anch'io».
«Perché,» rispose Agnese, «una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare... credereste? s'ostinava a dire che voi non vi siete maritata[94] con Beppe Suolavecchia, né con Anselmo Lunghigna, perché non v'hanno voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l'uno e l'altro...»
«Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?»
«Non me lo domandate, che non mi piace metter male[95].»
«Me lo direte, me l'avete a dire: oh la bugiarda!»
«Basta... ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder[96] colei.»
«Guardate se si può inventare, a questo modo!» esclamò di nuovo Perpetua; e riprese subito: «in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere... Ehi, Tonio! accostate l'uscio, e salite pure, che vengo.» Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata.
In faccia all'uscio di don Abbondio, s'apriva, tra due casipole, una stradetta, che, finite quelle, voltava in un campo. Agnese vi s'avviò, come se volesse tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro. Quand'ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che accadesse i davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt'e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all'uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti[97] e chinati, entraron nell'andito[98], dov'erano i due fratelli ad aspettarli. Renzo accostò di nuovo l'uscio pian piano; e tutt'e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno[99]. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s'avvicinarono all'uscio della stanza, ch'era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro.
«Deo gratias[100]» disse Tonio, a voce chiara.
«Tonio, eh? Entrate,» rispose la voce di dentro.
Il chiamato aprì l'uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d'improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter[101] Lucia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l'uscio: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l'orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.
Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra[102], con in capo una vecchia papalina[103], che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d'una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti[104], e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi[105] a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna.
«Ah! ah! » fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo.
«Dirà il signor curato, che son venuto tardi,» disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso.
«Sicuro ch'è tardi: tardi in tutte le maniere[106]. Lo sapete, che sono ammalato?»
«Oh! mi dispiace.»
«L'avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere... Ma perché vi siete condotto dietro quel... quel figliuolo?»
«Così per compagnia, signor curato.»
«Basta, vediamo.»
«Son venticinque berlinghe[107] nuove, di quelle col sant'Ambrogio a cavallo,» disse Tonio, levandosi un involtino[108] di tasca.
«Vediamo,» replicò don Abbondio: e, preso l'involtino, si rimesse gli occhiali, l'aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto.
«Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla[109].»
«È giusto,» rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l'apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l'armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: «va bene?»
«Ora,» disse Tonio, «si contenti di mettere un po' di nero sul bianco.»
«Anche questa!» don Abbondio: «le pensan tutte, Ih! com'è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?»
«Come, signor curato! s'io mi fido? Lei mi fa torto. Ma siccome il mio nome è sul suo libracolo[110], dalla parte del debito... dunque, giacché ha già avuto l'incomodo di scrivere una volta, così... dalla vita alla morte[111]...»
«Bene bene,» interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta[112] del tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in maniera d'impedire allo scrivente la vista dell'uscio; e, come per ozio[113], andavano stropicciando[114], co' piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch'erano fuori, d'entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro pedate. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo stropiccìo de' quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sé non vi sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo[115] il respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: «ora, sarete contento?» e, levatosi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l'altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall'altra; e, nel mezzo, come al dividersi d'una scena[116], apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire[117] le parole: «signor curato, in presenza di questi testimoni, quest'è mia moglie». Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina[118], la lucerna, ghermito, con la diritta[119], il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino[120]; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s'era avvicinato a Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: «e questo...» che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola[121]. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell'altra mano, s'aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava[122]; e intanto gridava quanto n'aveva in canna[123]: «Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto!» Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita[124], non tentava neppure di svolgersi[125], e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l'artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tastoni l'uscio che metteva a una stanza più interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: «Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa!» Nell'altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato, e remando con le mani[126], come se facesse a mosca cieca, era arrivato all'uscio, e picchiava, gridando: «apra, apra; non faccia schiamazzo[127]», Lucia chiamava Renzo, con voce ricca, e diceva, pregando: «andiamo, andiamo, per l'amor di Dio». Tonio, carpone[128], andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare[129] la sua ricevuta. Gervaso, spiritato[130], gridava e saltellava, cercando l'uscio di scala, per uscire a salvamento[131].
In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar[132] di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s'era introdotto di soppiatto[133], e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza d'un oppressore; eppure, alla fin de' fatti, era l'oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva[134] tranquillamente a' fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.
L'assediato, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: «aiuto! aiuto!» Era il più bel chiaro di luna; l'ombra della chiesa, e più in fuori l'ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza; ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo[135] però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva[136] verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo[137], dove dormiva il sagrestano. Fu questo riscosso[138] da quel disordinato grido, fece un salto, scese il letto in furia, aprì l'impannata[139] d'una sua finestrina, mise fuori la testa, con gli occhi tra' peli[140], e disse: «cosa c'è?»
«Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa,» gridò verso lui don Abbondio. «Vengo subito,» rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e, quantunque mezzo tra '1 sonno, e più che mezzo sbigottito, trovò su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiedeva, senza mettersi lui nel tafferuglio, quale si fosse[141]. Da di piglio alle brache[142], che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di gala[143], e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che c'erano, e suona a martello[144].
Ton, ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fenile[145], tendon l'orecchio, si rizzano, «Cos'è? Cos'è? Campana a martello! fuoco? ladri? banditi?» Molte donne consigliano, pregano i mariti, di non moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s'alzano, e vanno alla finestra: i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, ritornan sotto: i più curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi[146], per correre al rumore: altri stanno a vedere.
Ma, prima che quelli fossero all'ordine[147], prima anzi che fosser ben desti, il rumore era giunto agli orecchi d'altre persone che vegliavano, non lontano, ritte e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro. Diremo prima brevemente ciò che facesser coloro, dal momento in cui gli[148] abbiamo lasciati, parte nel casolare e parte all'osteria. Questi tre, quando videro tutti gli usci chiusi e la strada deserta, uscirono in fretta, come se si fossero avvisti[149] d'aver fatto tardi, e dicendo di voler andar subito a casa; diedero una giravolta per il paese, per venire in chiaro[150] se tutti eran ritirati; e in fatti, non incontrarono anima vivente, né sentirono il più piccolo strepito. Passarono anche, pian piano, davanti alla nostra povera casetta: la più quieta di tutte, giacché non c'era più nessuno. Andarono allora diviato[151] al casolare, e fecero la loro relazione al signor Griso. Subito, questo si mise in testa un cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino[152] di tela incerata, sparso di conchiglie[153]; prese un bordone[154] da pellegrino, disse: «andiamo da bravi: zitti, e attenti agli ordini,» s'incamminò il primo, gli altri dietro; e, in un momento, arrivarono alla casetta, per una strada opposta a quella per cui se n'era allontanata la nostra brigatella[155], andando anch'essa alla sua spedizione. Il Griso trattenne la truppa[156], alcuni passi lontano, andò innanzi solo ad esplorare, e, visto tutto deserto e tranquillo di fuori fece venire avanti due di quei tristi, diede loro ordine di scalar adagino il muro che chiudeva il cortiletto, e, calati dentro, nascondersi in un angolo, dietro un folto fico, sul quale aveva messo l'occhio, la mattina. Ciò fatto, picchiò pian piano, con intenzione di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero, fino a giorno. Nessun risponde: ripicchia un po' più forte; nemmeno uno zitto[157]. Allora, va a chiamare un terzo malandrino[158], lo fa scendere nel cortiletto, come gli altri due, con l'ordine di sconficcare[159] adagio il paletto, per aver libero l'ingresso e la ritirata. Tutto s'eseguisce con gran cautela, e con prospero successo. Va a chiamar gli altri, li fa entrar con sé, li manda a nascondersi accanto ai primi; accosta adagio adagio l'uscio di strada, vi posta due sentinelle di dentro; e va diritto all'uscio del terreno. Picchia anche lì, e aspetta: e' poteva ben aspettare. Sconficca pian pianissimo anche quell'uscio: nessuno di dentro dice: chi va là?; nessuno si fa sentire: meglio non può andare. Avanti dunque: «st», chiama quei del fico, entra con loro nella stanza terrena, dove, la mattina, aveva scelleratamente accattato[160] quel pezzo di pane. Cava fuori esca, pietra, acciarino e zolfanelli[161], accende un suo lanternino, entra nell'altra stanza più interna, per accertarsi che nessun ci sia: non c'è nessuno. Torna indietro, va all'uscio di scala, guarda, porge l'orecchio: solitudine e silenzio. Lascia due altre sentinelle a terreno, si fa venir dietro il Grignapoco, ch'era un bravo del contado di Bergamo, il quale solo doveva minacciare, acchetare[162], comandare, essere in somma il dicitore[163], affinchè il suo linguaggio potesse far credere ad Agnese che la spedizione veniva da quella parte. Con costui al fianco, e gli altri dietro, il Griso sale adagio adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni passo di que' mascalzoni che facesse rumore. Finalmente è in cima. Qui giace la lepre[164]. Spinge mollemente l'uscio che mette alla prima stanza; l'uscio cede, si fa spiraglio: vi mette l'occhio; è buio: vi mette l'orecchio, per sentire se qualcheduno russa, fiata, brulica[165] là dentro; niente. Dunque avanti: si mette la lanterna davanti al viso, per vedere, senza esser veduto, spalanca l'uscio, vede un letto; addosso: il letto è fatto e spianato, con la rimboccatura arrovesciata, e composta sul capezzale[166]. Si stringe nelle spalle, si volta alla compagnia, accenna loro che va a vedere nell'altra stanza, e che gli vengan dietro pian piano; entra, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. «Che diavolo è questo?» dice allora: «che qualche cane traditore abbia fatto la spia?» Si metton tutti, con men cautela, a guardare, a tastare per ogni canto, buttan sottosopra la casa. Mentre costoro sono in tali faccende, i due che fan la guardia all'uscio di strada, sentono un calpestìo di passini frettolosi, che s'avvicinano in fretta; s'immaginano che, chiunque sia, passerà diritto; stan quieti, e, a buon conto, si mettono all'erta. In fatti, il calpestìo si ferma appunto all'uscio. Era Menico[167] che veniva di corsa, mandato dal padre Cristoforo ad avvisar le due donne che, per l'amor del cielo, scappassero subito di casa, e si rifugiassero al convento, perché... il perché lo sapete. Prende la maniglia del paletto, per picchiare, e se lo sente tentennare in mano, schiodato e sconficcato. "Che è questo?" pensa; e spinge l'uscio con paura: quello s'apre. Menico mette il piede dentro, in gran sospetto, e si sente a un punto acchiappar per le braccia, e due voci sommesse, a destra e a sinistra, che dicono, in tono minaccioso: «zitto! o sei morto». Lui in vece caccia un urlo: uno di que' malandrini gli mette una mano alla bocca; l'altro tira fuori un coltellaccio, per fargli paura. Il garzoncello[168] trema come una foglia, e non tenta neppur di gridare; ma, tutt'a un tratto, in vece di lui, e con ben altro tono, si fa sentir quel primo tocco di campana così fatto, e dietro una tempesta di rintocchi in fila. ^ Chi è in difetto è in sospetto[169], dice il proverbio milanese: all'uno e all'altro furfante parve di sentire in que' tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andar le braccia di Menico, ritirano le loro in furia, spalancan la mano e la bocca, si guardano in viso, e corrono alla casa, dov'era il grosso della compagnia. Menico, via a gambe per la strada, alla volta del campanile, dove a buon conto qualcheduno ci doveva essere. Agli altri furfanti che frugavan la casa, dall'alto al basso, il terribile tocco fece la stessa impressione: si confondono, si scompigliano, s'urtano a vicenda: ognuno cerca la strada più corta, per arrivare all'uscio. Eppure era tutta gente provata e avvezza a mostrare il viso[170]; ma non poterono star saldi contro un pericolo indeterminato, e che non s'era fatto vedere un po' da lontano, prima di venir loro addosso. Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Come il cane che scorta una mandra92 di porci, corre or qua or là a quei che si sbandano; ne addenta uno per un orecchio, e lo tira in ischiera93; ne spinge un altro col muso; abbaia a un altro che esce di fila in quel
Raccordo
Tra i due gruppi in fuga, s'inserisce l'agitazione del paese che, svegliato, non riesce a capire che cosa stia succedendo. Renzo e le due donne giungono al convento dove trovano già organizzata da padre Cristoforo la loro fuga dal paese, per sottrarsi alle minacce di don Rodrigo. Le due donne andranno a Monza, Renzo a Milano, muniti di lettere di presentazione per cappuccini, amici del padre. I fuggiaschi s'imbarcano e in piena notte attraversano il lago.
Addio ai Monti
dal capitolo VIII de "I promessi sposi"
Addio monti sorgenti dall'acque ed elevati al cielo cime inuguali note a chi è cresciuto tra voi e impresse nella sua mente non meno che l’aspetto de' suoi familiari torrenti de' quali si distingue lo scroscio come il suono delle voci domestiche ville sparse e biancheggianti sul pendìo come branchi di pecore pascenti addio! Quanto è tristo il passo di chi cresciuto tra voi se ne allontana!
Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente tratto dalla speranza di fare altrove fortuna si disabbelliscono in quel momento i sogni della ricchezza egli si maraviglia d'essersi potuto risolvere e tornerebbe allora indietro se non pensasse che, un giorno- tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano il suo occhio si ritira disgustato e stanco da quell'ampiezza uniforme l'aria gli par gravosa e morta s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose le case aggiunte a case le strade che sboccano nelle strade pare che gli levino il respiro e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero pensa con desiderio inquieto al campicello del suo paese alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso da gran tempo e che comprerà tornando ricco a' suoi monti.
Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire e n'è sbalzato lontano da una forza perversa! Chi staccato a un tempo dalle più care abitudini e disturbato nelle più care speranze lascia que' monti per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere e non può con l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio casa natia dove sedendo con un pensiero occulto s'imparò a distinguere dal rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore. Addio casa ancora straniera casa sogguardata tante volte alla sfuggita nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa Addio chiesa dove l'animo tornò tante volte sereno cantando le lodi del Signore dov'era promesso preparato un rito dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto e l'amore venir comandato e chiamarsi santo addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto e non turba mai la gioia de' suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande.
APPLICAZIONE
Esercizio E. L. 1: individua il numero delle sequenze del brano e classificale secondo la loro natura.
Esercizio E. L. 2: dai un titolo breve a ciascuna sequenza.
Esercizio E. L 3: individua tutti i personaggi presenti nel brano.
Esercizio E L 4: I personaggi principali che agiscono nel brano sono presentati in maniera diretta o indiretto, (attraverso le loro azioni, i loro comportamenti, i loro discorsi)? Argomenta la tua risposta delineando il modo di essere dei personaggi con i tratti caratterizzanti del suo aspetto fisico, psicologico, sociale, culturale, ideologico.
Esercizio E. L. 5: Individua dell’epoca storica in cui si svolgono i fatti (se non vi sono indicazioni dell’epoca per quale motivo) se il tempo è:
Indeterminato,
Chiaramente espresso,
Individuabile tramite elementi interni al testo.
Esercizio E. L. 6: Individua degli indicatori temporali precisi, le unità di tempo (giorni, mesi, ecc.) se vi sono:
Datazioni esplicite,
Riferimenti a personaggi realmente esistiti,
Descrizione di abitudini e modi di vivere propri di una certa epoca;
Esercizio E. L. 7: Individua l’ordine del tempo e per quale motivo vi sono delle variazioni rispetto all’Ordine cronologico, Retrospettive, Anticipazioni.
Esercizio E. L. 8: Individua lo spazio geografico in cui è ambientata la vicenda (e se questo non è indicato per quale motivo)
Esercizio E. L. 9: Individua la descrizione dei luoghi se essi sono:
· Luoghi reali o immaginari
· Chiusi o aperti
· Limitati o illimitati
· Ristretti o ampi
· Quali oggetti si trovano
Esercizio E.L. 10: Trova eventuali collegamenti tra situazioni (di tensione, gioia, aspettativa) e spazi., Relazioni tra luoghi e personaggi (come i personaggi vivono il luogo, vi sono analogie o discordanze tra i tipi di personaggio e il luogo in cui si trovano), Relazioni tra i luoghi (ad esempio opposizione tra spazi vicino/lontano, aperto/chiuso, ecc.)
Esercizio E.L. 11: Individua la funzione rivestita nella descrizione degli spazi: se si tratta di:
· Ambientazione
· Narrativa
· Simbolica
spiegando le ragioni della tua scelta.
Raccordo cap. 9-11
Renzo, Lucia e Agnese raggiungono la parte orientale del lago di Como, poi Monza, e lì si separano. Renzo va a Milano, le donne al convento dei cappuccini, dove incontrano il padre guardiano, al quale fra Cristoforo le ha raccomandate. Si dirigono quindi al monastero di Santa Margherita, dove vive una monaca di nobile famiglia che ha molti privilegi. L’aspetto fisico della monaca non è proprio quello di una religiosa e cosi Manzoni racconta la sua storia. Gertrude, figlia di un nobile spagnolo, è destinata fin da piccola a vita religiosa. Da piccola non si oppone, ma poi prova a ribellarsi. Ma la reazione dei parenti è dura, con una specie di guerra psicologica basata soprattutto sul silenzio. Allora Geltrude dichiara di accettare il volere dei suoi genitori.
Gertrude viene ricevuta dal padre, che ritiene che la ribellione della figlia sia gravissima, e le impone di farsi monaca. Da questo momento la sua vita cambia: prima era rifiutata dai parenti, ora è circondata di affetto; prima era sola e prigioniera, adesso può fare tutto in libertà. Comincia la sua vita religiosa, e ogni volta che potrebbe ritirarsi non ha il coraggio di farlo. Diventa così monaca. Ma non è contenta e si dispera. Ha una relazione con un vicino, Egidio, e per nasconderla arrivano a commettere un omicidio.
Conclusa la storia della monaca di Monza, tornano in scena Lucia e Agnese, che sono accolte da Gertrude con molta generosità. Ma don Rodrigo prepara già una vendetta.
Don Rodrigo, attendendo con inquietudine il ritorno dei bravi, pensa alle possibili conseguenze del rapimento di Lucia, ma sa di non correre grossi rischi. Al suo ritorno, Griso annuncia il fallimento della spedizione e riceve severi rimproveri da Don Rodrigo. Dopo aver discusso dei fatti della nottata, i due concordano una strategia per scoprire se vi siano state fughe di notizie sul progetto di rapimento. Il conte Attilio viene informato dal cugino del fallito rapimento di Lucia e attribuisce la responsabilità a fra Cristoforo. I due cugini stabiliscono poi di intimorire il console del villaggio, di convincere il podestà a non intervenire, e di far pressioni sul Conte zio, affinché faccia trasferire il frate. Il Griso si reca in paese per cercare di comprendere ciò che è successo la notte precedente. Nel villaggio c'è un fitto intrecciarsi di voci: tutti i protagonisti di quei fatti turbolenti commentano l'accaduto. Il bravo riferisce al padrone quelle voci e insieme escludono l'ipotesi di una spia interna al palazzotto. Al termine del colloquio, don Rodrigo incarica il proprio uomo di fiducia di scoprire dove si sono rifugiati Renzo e Lucia. Grazie alle chiacchiere del barocciaio, passate di bocca in bocca, il bravo è in grado di informare il suo signore che Lucia si trova a Monza. Il nobile incarica allora il sicario di proseguire là le ricerche: il Griso, che proprio in Monza è maggiormente ricercato dalla giustizia, cerca di sottrarsi, ma alla fine obbedisce agli ordini. Renzo, colmo di tristezza per la separazione da Lucia e per la partenza dal paese, procede verso Milano. Giunto alle porte della città chiede ad un passante indicazioni per raggiungere il convento cui è destinato. Entrato in città, il giovane scopre con sorpresa della farina e del pane gettati a terra. Pur con timore raccoglie tre pani. Proseguendo poi verso il centro della città, incontra parecchia gente che trasporta affannosamente pane e farina. Viene colpito dalla vista di una famigliola particolarmente impegnata nel trasporto. Il giovane comprende finalmente che è in atto una rivolta e che la gente sta dando l'assalto ai forni: la sua prima sensazione è di piacere. Renzo decide di star fuori dal tumulto e si reca al convento, ma il frate portinaio gli nega l'ingresso. Il giovane va così a curiosare tra la folla e si lascia attrarre dal tumulto.
La vicenda romanzata, a questo punto, a dar sempre più l'impressione di una «storia vera», s'innesta in un fatto storico realmente accaduto: la rivolta milanese di San Martino, dell'11 novembre 1628, quando, esasperato dalla fame e dalla politica inetta del vicegovernatore Ferrer, il popolo dette l'assalto ai forni. Renzo s'inserisce così nell'avvenimento e assiste al saccheggio del «forno delle grucce».
La sommossa del pane
Dal cap XII de I promessi sposi,
· Siamo nel capitolo XII de I promessi sposi: Renzo è ormai giunto a Milano, ma il momento non è dei più propizi, perché proprio allora si sta scatenando una violenta rivolta popolare contro il governo spagnolo, colpevole di aver ridotto alla miseria l'intera regione con il suo secolare malgoverno, le vessazioni e il peso di una intollerabile pressione fiscale. La carestia degli ultimi anni, cui si somma un'ennesima tassa sul macinato, che fa salire alle stelle il prezzo del pane, sono la goccia che fa traboccare il vaso.
· La sì e i forni, fa di può trovare, devasta e saccheggia i negozi, sorprendendo con la propria violenza e i propri eccessi anche le guarnigioni che avrebbero dovuto difendere l'ordine pubblico. Il narratore disegna un grandioso quadro di furore collettivo, nel quale, pur condividendo le ragioni di fondo della protesta, egli mostra di non giustificare in alcun modo le violenze e le sopraffazioni.
· Testimone del tumulto, uno smarrito Renzo, ingenuo spettatore campagnolo, ignaro di tutto e animato soltanto da uno schietto senso della giustizia.
· L'episodio della sommossa del pane è interamente costruito sulla base di un ritmo narrativo molto incalzante. La successione delle sequenze narrative fa sì che il lettore venga introdotto alla scena quasi come se fosse al fianco di Renzo, che la osserva con gli occhi stupiti del contadino appena giunto in città. Dapprima gli accenni alla rivolta, la sera prima dell'arrivo di Renzo, quindi il primo assalto ai garzoni con le gerle colme di pane, quindi l'assedio al forno, infine il saccheggio vero e proprio e il propagarsi delle violenze a tutta la città: gli avvenimenti si susseguono rapidamente, creando un effetto di grande presa, e tengono il lettore con il fiato sospeso sino al drammatico epilogo.
· In un simile contesto, non emergono personaggi dotati di particolare personalità, e anche i pochi che spiccano tra la folla (come ad esempio il capitano di giustizia che difende il forno) non hanno uno spessore tale da renderli più che semplici comparse, se non addirittura delle maschere. L'episodio invece è interamente dominato da un vero e proprio personaggio collettivo, che si muove all'unisono con straordinaria vivacità e foga. Si tratta di una massa senza volto, descritta come un unico enorme corpo che si muove con compattezza e travolgente foga, nonostante la presenza, al suo interno, di tensioni contrastanti ("La gente comincia a affollarsi di fuori e a gridare: 'pane! pane! aprite! aprite!'").
· Il punto di vista adottato per produrre questo vero e proprio effetto sinfonico è quello di un narratore onnisciente, in grado di vedere l'intera scena e di dominarne il movimento complessivo. A lui sono affidati i movimenti dell'ideale obiettivo che riprende la vicenda: inquadrature generali, rapidissime zoomate, improvvisi allontanamenti o avvicinamenti, e così via. È sempre questo punto di vista a fornirci un giudizio molto marcato su quanto stiamo vedendo; se pure le ragioni del popolo sono tante, esso ci viene ritratto come una massa che si affida scriteriatamente a pochi agitatori senza alcuno scrupolo, e da fondo, senza alcuna capacità di discernimento, a tutti i propri peggiori istinti, scatenando un'energia bruta e insensata che non può che portare morte e distruzione, a dispetto delle buone ragioni che stanno a monte.
· Lo stile di questo estratto è particolarmente accurato. Manzoni ci propone una narrazione che segue un vero e proprio crescendo sinfonico di intensità drammatica e ritmica e che viene prodotto attraverso l'utilizzo, in accumulo, di una serie di tecniche ben precise.
· In primo luogo, la sintassi si fa progressivamente sempre più semplice e frantumata da un gran numero di segni di interpunzione, ricca di frasi brevissime, fitte di verbi, spesso impersonali, a indicare la straordinaria concitazione della situazione e il grande concorso alla rivolta. In secondo luogo, numerosissime sono le frasi interrogative ed esclamative, o addirittura le interiezioni semplici, in larghissima misura all'interno di discorsi diretti, che danno grande enfasi alla narrazione. Infine, la narrazione passa dal passato al presente (si definisce presente narrativo) per dare al racconto un'immediatezza e una presa maggiore.
La sera avanti questo giorno[171] in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano d'uomini[172], che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi[173], senza essersi dati l'intesa[174], quasi senza avvedersene[175], come gocciole i sparse sullo stesso pendìo. Ogni discorso accresceva la persuasione[176] e la passione degli uditori, come di colui che l'aveva proferito[177]. Tra tanti appassionati, c'eran pure alcuni più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l'acqua s'andava intorbidando[178]; e s'ingegnavano[179] d'intorbidarla di più, con que' ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare[180], quell'acqua, senza farci un po' di pesca[181]. Migliaia d'uomini andarono a letto col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe[182]. Avanti giorno[183], le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte[184]: qui era un bisbiglio confuso di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questo faceva al più vicino la stessa domanda ch'era allora stata fatta a lui; quest'altro ripeteva l’esclamazione che s'era sentita risonare agli orecchi; per tutto[185] lamenti, minacce, maraviglie[186]: un piccol numero di vocaboli era il materiale di tanti discorsi.
Non mancava altro che un'occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per ridurre le parole a fatti[187]; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de' fornai i garzoni[188] che, con una gerla[189] carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d'uno di que' malcapitati ragazzi dov'era un crocchio di gente, fu come il cadere d'un salterello acceso in una polveriera[190]. «Ecco se c'è il pane!» gridarono cento voci insieme. «Sì, per i tiranni, che notano[191] nell'abbondanza, e voglion far morir noi di fame,» dice uno; s'accosta al ragazzetto, avventa[192] la mano all'orlo della gerla, da una stratta[193], e dice: «lascia vedere». Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne[194]. «Giù quella gerla,» si grida intanto. Molte mani l'afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio[195] che la copre: una tepida fragranza[196] si diffonde all'intorno. «Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi,» dice il primo; prende un pan tondo, l'alza, facendolo vedere alla folla, l'addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato[197]. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell'impresa, si mossero a branchi, in cerca d'altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c'era neppur bisogno di dar l'assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista la mala parata[198], posavano volontariamente il carico, e via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c'eran coloro che avevan fatto disegno sopra un disordine più co' fiocchi[199]. «Al forno! al forno!» si grida.
Nella strada chiamata la Corsia de' Servi[200], c'era, e c'è tuttavia[201] un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire[202] il forno delle grucce[203], e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche[204], che l'alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono. A quella parte s'avventò[205] la gente. Quelli della bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto sbigottito e abbaruffato[206], riferiva balbettando la sua trista avventura; quando si sente un calpestìo e un urlìo insieme; cresce e s'avvicina; compariscono i forieri della masnada[207].
Serra, serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia[208]; gli altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti[209]. La gente comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: «pane! pane! aprite! aprite[210]!».
Pochi momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta d'alabardieri[211]. «Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia,» grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un po' di luogo[212]; dimodoché quelli poterono arrivare, e postarsi42, insieme, se non in ordine, davanti alla porta della bottega.
«Ma figliuoli,» predicava di lì il capitano, «che fate qui? A casa, a casa. Dov'è il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, così ammontati[213]? Niente di bene, ne per l'anima, né per il corpo. A casa, a casa».
Ma quelli che vedevan la faccia del dicitore[214], e sentivan le sue parole, quand'anche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber potuto, spinti com'erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch'essi da altri, come flutti da flutti, via via fino all'estremità della folla, che andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. «Fateli dare addietro[215] ch'io possa riprender fiato,» diceva agli alabardieri: «ma non fate male a nessuno. Vediamo d'entrare in bottega: picchiate; fateli stare indietro».
«Indietro! indietro!» gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso ai primi, e respingendoli con l'aste dell'alabarde. Quelli urlano, si tirano indietro, come possono; danno con le schiene ne' petti, co' gomiti nelle pance, co' calcagni sulle punte de' piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un pigìo[216], una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato qualcosa a essere altrove. Intanto un po' di vóto[217] s'è fatto davanti alla porta: il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli alabardieri, che si ficcan dentro anch'essi l'un dopo l'altro, gli ultimi rattenendo[218] la folla con l'alabarde. Quando sono entrati tutti, si mette tanto di catenaccio, si riappuntella[219]; il capitano sale di corsa, e s'affaccia a una finestra. Uh, che formicolaio[220]!
«Figliuoli,» grida: molti si voltano in su; «figliuoli, andate a casa. Perdono generale a chi torna subito a casa».
«Pane! pane! aprite! aprite!» eran le parole più distinte nell'urlìo[221] orrendo, che la folla mandava in risposta.
«Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!... eh! che fate laggiù! Eh! a quella porta! oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora[222] vengo io. Eh! eh! smettete con que' ferri; giù quelle mani. Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! ^ Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi... Ah canaglia!»
Questa rapida mutazione di stile fu cagionata[223] da una pietra che, uscita dalle mani d'uno di que' buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica[224]. «Canaglia! canaglia!» continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma quantunque avesse gridato quanto n'aveva in canna[225], le sue parole, buone e cattive, s'eran tutte dileguate e disfatte a mezz'aria, nella tempesta delle grida che venivan di giù. Quello poi che diceva di vedere, era un gran lavorare di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere l'inferriate: e già l'opera era molto avanzata.
Intanto, padroni e garzoni della bottega, ch'erano alle finestre de' piani di sopra, con una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato[226] un cortile), urlavano e facevan versacci a quelli di giù, perché smettessero; facevan vedere le pietre, accennavano[227] di volerle buttare. Visto ch'era tempo perso, cominciarono a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo[228]; giacché la calca era i tale, che un granello di miglio, come si suoi dire, non sarebbe andato in terra.
«Ah birboni! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente? Ahi! Ahimè! Ohi! Ora, ora!» s'urlava di giù. Più d'uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l'inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi[229]. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne' cantucci[230]; altri, uscendo per gli abbaini[231], andavano su pe' tetti, come i gatti.
La vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno in vece corre ; al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole[232], piglia a manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se ne rimarrà. La folla si sparge ne' magazzini. Metton mano ai sacchi, li strascicano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della farina: chi, gridando: «aspetta, aspetta,» si china a parare il grembiule[233], un fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia I di Dio; uno corre a una madia[234], e prende un pezzo di pasta, che s'allunga, e già scappa da ogni parte; un altro, che ha conquistato un burattello[235], lo porta per aria: chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverìo[236] che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori, una calca composta di due processioni opposte, che si rompono e s'intralciano a vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuoi entrare a farne.
Mentre quel forno veniva così messo sottosopra, nessun altro della città era quieto e senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausiliari[237], e stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a patti: distribuivan pane a quelli che s'eran cominciati a affollare davanti alle botteghe, con questo che se n'andassero. E quelli se n'andavano, non tanto perché fosser soddisfatti, quanto perché gli alabardieri e la sbirraglia[238], stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere altrove, in forza bastante a i tenere in rispetto i tristi che non fossero una folla[239]. Cosili trambusto andava i sempre crescendo a quel primo disgraziato forno; perché tutti coloro che gli pizzicavan le mani[240] di far qualche bell'impresa, correvan là, dove gli amici erano i più forti, e l'impunità[241] sicura.
A questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e s'avviava, senza saperlo, j proprio al luogo centrale del tumulto.
Raccordo cap. 13-21
Saccheggiato il forno, la folla si rivolta contro il vicario di provvisione, cioè il funzionario addetto al vettovagliamento della città. Inferocita si getta contro il suo palazzo e soltanto l'intervento del Ferrer giova a salvare il vicario dal linciaggio.
Eccitato da questi fatti, Renzo, trovatosi in mezzo a un crocchio di gente, fa un discorsetto sulle ingiustizie dei potenti, a sfogo delle proprie pene. Uno sbirro in borghese lo porta all'osteria, lo fa bere e riesce anche a carpirgli le sue generalità. Del tutto ubriaco, Renzo va a dormire.
Renzo, essendo ubriaco, abbandona la sala dell'osteria, tra saluti e risa. Con l’aiuto dell'oste raggiunge poi la sua camera .L'oste tenta nuovamente di far declinare a Renzo le proprie generalità, ma alle nuove proteste rinuncia. L'oste decide di andare al palazzo di giustizia per denunciare Renzo . Arrivato , denuncia al notaio criminale la presenza nella sua osteria di un giovane che non ha voluto rivelare le generalità. Il funzionario, che conosce già il nome di Renzo, mostra però di non accontentarsi delle informazioni fornite dal padrone dell'osteria e sottopone l'uomo ad un interrogatorio.
Il notaio criminale e due birri penetrano nella camera di Renzo e gli dicono di seguirli. Intimorito dal rumore che viene dalla strada e che sembra annunciare nuovi tumulti, il notaio abbandona subito l'atteggiamento autoritario e, con le buone, cerca di indurre Renzo a seguirli. Il funzionario si mostra eccessivamente gentile ed afferma che si tratta di una pura formalità, ma il giovane non gli presta fede e comincia ad elaborare un piano per essere liberato dalla folla.
Il giovane chiede aiuto. Per sfuggire al linciaggio, i birri e il notaio, abbandonano il prigioniero e si confondono tra la folla.
Uscito fortunosamente da Milano, si incammina per la strada di Bergamo, dove spera di trovare aiuto dal cugino Bortolo, fuori dei confini dello Stato. A Gorgonzola, mentre sta mangiando un boccone in una osteria, apprende che quel giorno la giustizia milanese s'è lasciata sfuggire dalle mani uno dei responsabili della rivolta; e capisce che quel tale è lui. Riprende al più presto la strada, sempre più atterrito per il rischio gravissimo che ha corso.
Uscito dall'osteria di Gorgonzola, Renzo prosegue il suo cammino nell'oscurità, lungo le strade verso l’Adda. Durante il tragitto, i suoi pensieri vanno al mercante e al suo resoconto calunnioso. Dopo alcuni paesi , Renzo si inoltra in una zona non coltivata e poi in un bosco. Qui viene colto da un oscuro timore, ma sente il rumore dell'Adda e si precipita verso il fiume. Non potendo attraversare il fiume, si rifugia in una capanna abbandonata. Tenta di addormentarsi, ma alla sua mente si affacciano ricordi dolorosi. Verso le sei del mattino riprende il cammino verso l'Adda. Traghettato da un pescatore , passa sulla sponda di Bergamo dirigendosi verso il paese del cugino.Giunto nel paese di Bortolo, Renzo individua immediatamente il filatoio e lì trova il cugino, il quale lo accoglie festosamente, dichiarandosi disposto ad aiutarlo. I due cugini si informano reciprocamente sulla rispettiva situazione e sulle vicende politiche dei propri paesi. Dopo essere stato avvertito dell'uso bergamasco di chiamare baggiani i milanesi, Renzo viene presentato al padrone del filatoio e assunto come lavorante.
Al paesello, gli sbirri ricercano inutilmente Renzo. Don Rodrigo apprende così le disavventure del suo rivale; e intenzionato sempre di più a rapire Lucia, pensa di ricorrere a un uomo più potente di lui per giungere al rifugio della ragazza. Agnese, preoccupata per la mancanza di notizie, cerca anch'essa Renzo al paese, dove apprende che padre Cristoforo è stato trasferito a Rimini.
Responsabile della sua partenza è il conte Attilio, che a Milano è riuscito a convincere il conte zio, importante personaggio, a chiedere al padre provinciale dei cappuccini l'allontanamento del frate per una missione di parecchi mesi. Don Rodrigo agisce a sua volta recandosi dal potente signore che lo aiuterà a rapire Lucia, l'Innominato.
Don Rodrigo convince all'impresa l'Innominato che manda il capo dei suoi bravi, il Nibbio, da quell'Egidio, che sa in relazione con la monaca di Monza. Gertrude, sollecitata dall'amante, fa uscire con una scusa Lucia dal convento, sicché i bravi, guidati dal Nibbio, possono rapirla e portarla al castello del loro signore.
Il racconto che il Nibbio fa al padrone sul rapimento di Lucia scuote l'Innominato già da tempo scontento della sua vita; le lacrime di Lucia lo turbano.
La conversione dell’innominato
Cap 21 da I promessi sposi,
· La notte trascorsa da Lucia e dall’Innominato, in luoghi separati del castello, è attraversata per entrambi da sogni angosciosi e dubbi, incubi e paure che si alternano alle lucide scelte.
· Nulla è veramente lasciato all’irrazionalità dell’inconscio dei due personaggi, essi attraverso le loro visioni notturne, approderanno a decisioni importanti: Lucia esprimerà il voto di rinunciare a Renzo in caso di liberazione e l’Innominato deciderà la liberazione di Lucia attuando la conversione che si compirà grazie al colloquio con Federigo Borromeo.
· Le tenebre della notte, quindi, corrispondono simbolicamente al momento della prova, cioè al tempo dell’angoscia, dell’offuscarsi della coscienza che riaffiorerà gradualmente in corrispondenza del sorgere del sole.
· Nella rappresentazione di questa notte ricca di turbamenti affiora, inoltre, una strana e duplice convergenza / divergenza di sentimenti dei due personaggi, attraverso l’uso della simmetria in tre successivi momenti. Dapprima Lucia e l’Innominato, non riuscendo a prendere sonno, cadono in preda ad angosce spaventose, provando un forte senso di vuoto. In un secondo momento, invece, le loro emozioni divergono. Mentre Lucia - attraverso la fede - ritrova se stessa, riuscendo a dare un senso alle proprie sofferenze, offrendole a Dio, l’Innominato, ripercorrendo la propria vita, non prova altro che un senso acuto di colpa che lo porta a concepire il tempo trascorso e futuro come vuoto e orribile. Infine una nuova convergenza, data dal conforto che ognuno dei due ha nell’immagine dell’altro: Lucia ricorda la promessa di liberazione dell’Innominato e quest’ultimo le parole di lei, parole di grazia e consolazione.
· Manzoni, attraverso la drammatica notte dei due personaggi, si propone di dimostrare come la coscienza cristiana sia più forte dei misteri dell’animo; il turbamento generato dalle visioni e dai sogni, è solo il mezzo per assumere maggior consapevolezza di sé.
· Il brano è tratto del capitolo XXI de I promessi sposi, che vede come protagonista l'innominato, uno dei personaggi chiave dell'intero romanzo: famoso fuorilegge (forse realmente esistito), potentissimo e temuto in tutta la regione, egli rappresenta l'ultima speranza di don Rodrigo, che a lui si rivolge per far rapire Lucia. Ma il rapimento della giovane scatena in quest'uomo crudo e violento una crisi che era già latente nel suo animo. Le richieste di pietà, in nome di Dio e della sua misericordia, che Lucia gli rivolge da prigioniera, sviluppano in lui una profondissima trasformazione, che culminerà in una vera e propria conversione, al cospetto del cardinale Federigo Borromeo.
· Uno dei brani più famosi de I promessi sposi è il racconto della notte nel corso della quale l'uomo matura il proprio pentimento: Lucia è prigioniera nelle segrete del suo castello, ed egli vaga inquieto come una belva in gabbia nelle stanze del palazzo, in preda a dubbi e angosce e a un tremendo tormento interiore. Il buio, il silenzio, la memoria delle proprie terribili gesta, creano un clima di profonda e crescente inquietudine, finché all'alba egli non vede la gente accorrere a frotte verso il centro abitato per rendere omaggio al cardinale in visita pastorale e sente sorgere dentro di sé un sentimento mai provato prima.
· La crisi interiore dell'innominato è un episodio chiave del romanzo. Il brano che hai letto ne rappresenta il momento decisivo, che lo scrittore ha accuratamente preparato in precedenza: è evidente infatti che la conversione non avviene all'improvviso, ma stava già maturando, al punto tale da coinvolgere un po' tutto l'ambiente che circonda l'uomo. Persino il Nibbio, il capo dei bravi, era giunto al castello profondamente turbato dalla ragazza che aveva appena rapito e dalla sua accorata disperazione. E l'incontro con Lucia prigioniera non aveva che acuito l'inquietudine che sconvolgeva l'animo del tremendo fuorilegge.
· "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!"; queste parole di Lucia sintetizzano efficacemente il significato dell'episodio: nella conversione dell'innominato Manzoni ha riposto uno dei messaggi principali del suo romanzo, la presenza provvidenziale, nel mondo, della grazia di Dio, sempre pronta a concedersi laddove c'è qualcuno che le si offra con convinzione.
· La notte dell'innominato è suddivisa sapientemente in tre grandi fasi. Nella prima l'uomo è in preda alla più cupa disperazione, che nasce dal non riconoscersi più, dall'aver smarrito la propria identità di delinquente, che si credeva invincibile e immodificabile ("A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!"). Nella seconda crede di poter trovare sollievo rimuovendo il problema, cioè liberando Lucia senza consegnarla a don Rodrigo: l'errore è ancora quello di attribuire a una forza esterna che va in qualche modo placata quanto invece scaturisce dall'interno del proprio animo ("La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate"). Nella terza, il sorgere dell'alba chiarisce ogni dubbio: la luce che entra dalla finestra è la grazia di Dio, che ci dice che durante la notte è avvenuto un miracolo, e un uomo che era perduto è stato recuperato all'umanità.
· In questo episodio lo scrittore alterna alla narrazione in terza persona numerose parti in cui utilizza la tecnica del monologo interiore, che consiste nel riportare i pensieri del personaggio come se fossero parole effettivamente pronunciate ad alta voce. Si tratta di un linguaggio frantumato, ricchissimo di domande, di esclamazioni in serie, di puntini di sospensione, e soprattutto di frasi spezzate, inconcluse, spesso nominali, che devono riprodurre efficacemente i pensieri confusi del protagonista e il suo stato d'animo, che è altrettanto inquieto, frantumato e sovreccitato.
Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri, d'immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a se stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, s'applicava dolorosamente alle circostanze dell'oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dall'incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest'angoscia; alfine, più che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma tutt'a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perché. Tese l'orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il venire e l'andare dell'onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l'aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. L'infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell'orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell'avvenire, l'assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell'abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un'improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutt'a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l'animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio. S'alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: - o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m'avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d'altri che vostra.
Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un'armatura della nuova milizia a cui s'era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì entrar nell'animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati da tanta guerra s'assopirono a poco a poco in quell'acquietamento di pensieri: e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia s'addormentò d'un sonno perfetto e continuo.
Ma c'era qualchedun altro[242] in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non potè mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell'immagine viva nella mente, e con quelle parole[243] risonanti all'orecchio, il signore s'era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, in era a Ma quell’immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. "Che sciocca curiosità da donnicciola," pensava, "m'è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio[244]; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!... Io?... io non son più uomo, io? Cos'è stato? che diavolo m'è venuto addosso? che c'è di nuovo? Non lo sapevo io prima d'ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne[245]?"
E qui, senza che s'affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d'un caso in cui né preghi[246] né lamenti non l'avevano punto[247] smosso dal compire le sue risoluzioni[248]. Ma la rimembranza[249] di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell'animo quella molesta[250] pietà; vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. "È viva costei," pensava, "è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi... Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io...! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d'addosso un po' di questa diavoleria[251], la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!... Via!" disse poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti i pesanti: «via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa».
E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarcelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desideri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt'a un tratto restìo[252] per un'ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all'imprese avviate e non finite, in vece d'animarsi al compimento[253], in vece d'irritarsi degli ostacoli (che l'ira in quel momento gli sarebbe parsa soave[254]), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de' passi già fatti. ^ Il tempo gli s'affacciò davanti voto d'ogni intento[255], d'ogni occupazione, d'ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l'ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini[256], e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl'importasse; anzi l'idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un'idea di schifo e d'impiccio[257]. E se volle trovare un'occupazione per l'indomani, un'opera fattibile, dovette pensare che all'indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.
"La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare... E la promessa? e l'impegno? e don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo?"
A guisa di chi[258] è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d'un superiore, l'innominato pensò subito a rispondere a questa che s'era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l'antico[259]. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d'esser pregato, s'era potuto risolvere a prender l'impegno di far tanto patire, senz'odio, senza timore, un'infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse indotto[260]. Quel volere, piuttosto che una deliberazione[261], era stato un movimento istantaneo dell'animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se stesso, per rendersi ragione d'un sol fatto, si trovò ingolfato[262] nell'esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all'animo consapevole e nuovo, separata da' sentimenti che l'avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que' sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un'inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe[263] a scorrere dopo la sua fine. S'immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d'intorno, lontano; la gioia de' suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all'aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice[264], il cane[265] della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. "Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c'è, se è un'invenzione de' preti; che fo io? perché morire? cos'importa quello che ho fatto? cos'importa? è una pazzia la mia... E se c'è quest'altra vita...!"
A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l'arme, e stava con le mani ne' capelli, battendo i denti, tremando. Tutt'a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima[266]: "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!". E non gli tornavan già con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano state proferite[267]; ma con un suono pieno d'autorità, e che insieme induceva[268] una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle terapie, e, in un'attitudine[269] più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s'immaginava di condurla lui stesso alla madre. "E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l'altro? che farò dopo doman l'altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!" E ricaduto nel vóto penoso dell'avvenire, cercava indarno[270] un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d'abbandonare il castello, e d'andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe[271] sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l'animo antico[272], le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a' suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne' suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull'albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s'era addormentata, ecco che, stando così immoto[273] a sedere, sentì arrivarsi all'orecchio come un'onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d'allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l'eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento[274], e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. "Che allegria c'è? cos'hanno di bello tutti costoro?" Saltò fuori da quel covile di pruni[275]; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola[276]; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s'avviava, tutti dalla i stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un'alacrità[277] straordinaria.
"Che diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia[278]?" E data una voce a un bravo fidato[279] che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione[280] di quel movimento.
Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe[281] subito a informarsene.
Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile[282] spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate[283], a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s'univa col primo che rintoppasse[284]; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto[285]. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo[286] delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que' gesti, e il supplimento[287] delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa[288].
Raccordo cap. 22 - 30
L’innominato, viene informato da un bravo che tutta quella gente, così festosa, va verso un paese vicino, per vedere il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano. La popolarità, il rispetto e la venerazione che il popolo dimostra verso il cardinale, fa nascere nell’innominato la speranza, parlandogli " a quattr’occhi, " che egli possa curare il suo spirito tanto in crisi, che possa pronunciare parole rasserenatrici. Presa, quindi, la decisione di parlare con il cardinale, si reca prima nella camera di Lucia, che intanto sta dormendo in un cantuccio; rimprovera la vecchia, per non aver saputo convincere Lucia a dormire sul letto, le raccomanda di lasciarla riposare in pace, e di riferirle, quando si sarà svegliata " che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà e che... farò tutto quello che lei vorrà. ". E’ superfluo dire che la donna resta sbalordita per lo strano e insolito comportamento del suo padrone, che intanto mette di guardia un bravo, davanti alla porta della camera di Lucia, perché nessuno la disturbi; quindi, risoluto, si dirige verso il paese, dove si trova il cardinale; e giuntovi, avuta indicazione che egli si trova in casa del curato, va là, entra in un cortiletto, dove sono riuniti molti preti che lo guardano con aria di meraviglia e di sospetto, e chiede di voler parlare al cardinale. Prima che si svolga il colloquio tra l’innominato e l’arcivescovo, l’autore traccia un profilo di Federigo Borromeo; la descrizione, fatta con calore in tutta la sua splendida grandezza, risulta veramente efficace. Ancora giovinetto, manifestata la vocazione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, oltre a dedicarsi alle occupazioni prescritte, decide di sua spontanea volontà " di insegnare la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’in fermi. ". Quantunque discenda da nobile famiglia, tutto il suo comportamento è improntato alla più servile umiltà; teme le dignità, anzi cerca di evitarle, non per sottrarsi al servizio altrui, ma perché non si stima " abbastanza degno, né capace di così alto e pericoloso servizio". Poco più che trentenne, infatti, ricusa l’arcivescovado di Milano, successivamente costretto ad accettare su ordine del papa. Riduce al minimo le sue esigenze, ed offre tutto ai poveri; per lui, infatti, " le rendite ecclesiastiche sono patrimonio dei poveri". E’ merito suo la fondazione della biblioteca ambrosiana. Ma quel che più spicca in lui è la bontà, la giovialità, la cortesia verso gli umili. Quanto scrive il Manzoni, per magnificare questo uomo di virtù predare, non è un parto di fantasia, ma realtà evidente, tanto è vero che riuscirà a convertire, come per grazia divina, chi si era macchiato di tanti infami crimini: l’innominato.
Incontro tra l'Innominato e Federigo e abbraccio di riconciliazione. Il cardinale, conosciuta la vicenda di Lucia, fa chiamare don Abbondio, presente con gli altri parroci della zona. e gli dà l'incarico di provvedere al recupero della ragazza. Viaggio di don Abbondio, terrorizzato, in compagnia del terribile signore, fino al castello.
Lucia è liberata e condotta provvisoriamente in paese, nella casa di un buon sarto, dove subito giunge Agnese e poco dopo il cardinale, cui Agnese racconta le loro vicende. L'Innominato, al castello, avverte i suoi uomini che potranno restare al suo servizio solo se intenzionati come lui a mutar vita.
Don Rodrigo pensa bene di lasciare il paese e tornarsene a Milano, prima d'essere costretto a incontrare il cardinale. Il prelato viene accolto da don Abbondio al quale chiede informazioni su Renzo. Lucia viene ospitata da una ricca signora, donna Prassede, col beneplacito del cardinale, il quale finalmente chiede a don Abbondio perché non abbia celebrato le nozze dei due giovani.
Celebre dialogo tra Federigo e don Abbondio, che sembra ravvedersi, anche se non nasconde le sue buone ragioni. L'Innominato regala a Lucia una dote di cento scudi d'oro; ma ad Agnese che porta alla figlia la buona notizia, Lucia rivela il voto fatto la notte del rapimento. Decidono così di mandare metà della somma a Renzo e di pregarlo di non pensar più al matrimonio. Ma non riescono a mettersi in comunicazione con lui: il giovane ha mutato il proprio nome in quello di Antonio Rivolta e ha cambiato filanda.
La guerra per la successione del ducato di Mantova, che aveva visto di giorno in giorno l'Italia settentrionale coinvolta nella guerra europea che prende il nome di guerra dei trent'anni, impegnava del tutto l'attenzione del governatore don Gonzalo. Temeva questi che anche Venezia volesse scendere in campo contro la Spagna: bisognava cercare di distoglierla facendo la voce forte contro la Repubblica veneta. E l'occasione fu fornita a don Gonzalo dalla notizia che Renzo si era rifugiato nel territorio bergamasco. Di qui la finzione delle ricerche condotte per accertare se Renzo era veramente a Bergamo. Era una formalità: Renzo diventò una pratica burocratica. Il potere, di lui non s'accorse, perché era sola un pretesto. Ma Renzo, pur cambiando residenza e nome, continuava a nascondersi: sapeva per esperienza che del potere politico non ci si poteva fidare. Una sola cosa lo tormenta: quella di mettersi in contatto con Agnese e Lucia. Riesce a trovare una fidata trafila e un giorno riceve insieme con una lettera di Agnese cinquanta scudi: Lucia, era detto nella lettera, non poteva sposarlo più perché aveva fatto voto di castità. Si mettesse il cuore in pace e attendesse agli affari suoi. Cosa che Renzo si dichiarò non disposto a fare. Il suo unico proposito ora sarebbe stato di indurre Lucia al matrimonio. Lucia, intanto, aveva trovato ospitalità in casa di donna Prassede, una donna che poco poteva sul marito, don Ferrante, un intellettuale che da lei si difendeva chiudendosi tra i suoi libri. Così donna Prassede sfogava la sua volontà di strafare e la sua voglia di fare del bene ad ogni costo (ma il bene coincideva stranamente col suo concetto piuttosto storto di bene) alle persone come Lucia che si erano lasciate traviare. Non altrimenti si poteva e doveva spiegare l'innamoramento della giovane per uno come Renzo che per poco era sfuggito alla forca e che sicuramente doveva essere un poco di buono, se era ricercato dalla polizia. Pensiero dominante di donna Prassede era di liberare la mente di Lucia dall'immagine di Renzo e perciò a lei parlava spesso e in termini duri ed ingiusti: Lucia per forza di cose doveva difenderlo da tanta aggressività e così il suo Renzo se lo confermava sempre più dentro. E sempre più intensamente l'immagine di lui l'assediava, sempre come risultato dei metodi educativi di donna Prassede. Nulla c'era da temere dal marito di lei, don Ferrante, un letterato di grande classe: aveva tanti libri e la sua attenzione si fermava su scienze come l'astrologia e la duellistica, dove era diventato un'autorità. Era il tipo di letterato astratto, inutile, formalistica, che non sa legare scienza e realtà, cultura e società.
Questo è un capitolo, in cui Manzoni abbandona di nuovo i suoi personaggi, per tracciare un quadro storico degli avvenimenti successivi alla sedizione di San Martino, che ebbe come conseguenza un ribasso del prezzo del pane; un ribasso che risultò fatale, in quanto la plebe, affamata, si abbandonò ad uno sfrenato consumo, e troppo tardi se ne avvide delle conseguenze disastrose, perché così facendo, non solo rendeva impossibile una lunga durata " a goder del buon mercato presente", ma addirittura ne impediva "una continuazione momentanea. ". Anche i contadini abbandonavano la campagna e si riversavano in città; la situazione era destinata a precipitare; i tentativi di porvi rimedio non ottenevano alcun risultato efficace. Consumate le scorte, la fame divenne un male disastroso, pericoloso e inevitabile.
In città, chiusi negozi e fabbriche, la disoccupazione imperversa e la miseria si spande a macchia d’olio. Accattoni di mestiere e mendicanti formano una lugubre e grossa schiera. Il cardinale Federigo in questa circostanza organizza i suoi soccorsi; forma tre coppie di preti che, seguiti da facchini carichi di cibi e di vesti, girano per la città, per ristorare chi è più bisognevole. Ma l’interessamento caritatevole del cardinale, unito alla generosità dei privati e ai provvedimenti dell’autorità della città, si dimostra inadeguato rispetto alla vastità del male.
Per tutto il giorno nelle strade si ode " un ronzio confuso di voci supplichevoli, la notte, un sussurro di gemiti," ma non si ode " mai un grido di sommossa. ". Eppure, osserva il Manzoni, tra coloro che soffrivano " c’era un buon numero di uomini educati a tutt’altro che a tollerare, " per cui conclude che spesso " ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi". Se qualcuno era in grado di fare qualche elemosina, la scelta era ardua; all’ avvicinarsi di una mano pietosa, all’intorno era una gara d’infelici, che stendevano la loro mano. Poiché le strade diventano ogni giorno di più un ammasso di cadaveri, trascorso l’inverno e la primavera, il tribunale di provvisione decide " di radunare tutti gli accattoni, sani ed infermi, in un sol luogo, nel lazzaretto, " dove potranno essere aiutati a spese del pubblico. In pochi giorni gli infelici ospitati divengono tremila; ma i più, o per godere l’elemosine della città o per la ripugnanza di star chiusi nel lazzaretto, restano fuori. Per cacciare dunque gli accattoni al lazzaretto, si deve ricorrere alla forza, e così, in pochi giorni, il numero dei ricoverati sale a circa diecimila.
Ma tale iniziativa, sia pur lodevole nelle intenzioni, per l’ammassarsi di tanti infelici in un sol luogo, per l’organizzazione carente e per l’inadeguatezza dei mezzi, è insufficiente. La gente dorme per terra o su paglia putrida; il pane è alterato " con sostanze pesanti e non nutrienti"; manca persino l’acqua potabile; perciò la mortalità cresce a tal punto che si comincia a parlare di pestilenza. Per porre rimedio a questa grave e pericolosa situazione, si mandano via dal lazzaretto tutti i poveri non ammalati, mentre gli infermi vengono ricoverati nell’ospizio dei poveri di Santa Maria della Stella. Finalmente, con il nuovo raccolto il popolo ha di che sfamarsi, ma la mortalità, per epidemia o contagio, anche se con minore intensità, si protrae fino all’autunno, quand’ecco, implacabile, un nuovo flagello si abbatte sulla popolazione: la guerra. Infatti il cardinale Richelieu con il re, alla testa di un esercito, scende in Italia e occupa Casale, tenuto prima da don Gonzalo. Nel frattempo si dispone " a calar nel milanese" anche l’esercito di Ferdinando, nel quale pare che covasse la peste, tanto che si fa divieto a chiunque, quando l’esercito muove all’assalto di Mantova, " di comprar roba di nessuna sorte dai soldati". Ma tale divieto non è preso in alcuna considerazione. L’esercito di Ferdinando, era per lo più composto da bande mercenarie che mettevano a soqquadro tutti i paesi, asportando dalle case tutti gli oggetti di valore.
Nel paese di Lucia, per sfuggire ai saccheggi, don Abbondio, Perpetua e Agnese pensano di rifugiarsi nel castello dell'Innominato, dove confluisce, ben protetta, la gente della zona.
La notte tormentosa di don Rodrigo
I promessi sposi, cap. XXXIII
· Questa notte rappresenta per Don Rodrigo il momento più drammatico della propria esistenza e, a differenza degli altri personaggi, Manzoni gli riserva un’esperienza particolare: il sogno, il sogno della propria morte; diversamente dagli altri personaggi il dramma della coscienza è solo suggerito, non portato a compimento ma inconsciamente vissuto attraverso questo angoscioso incubo. E' forse in questo passo che l'autore prefigura i misteri dell'inconscio.
· Don Rodrigo non è in grado di pentirsi veramente degli atti compiuti in quanto egli è solo un uomo dalla personalità mediocre, ma siccome per il cristiano Manzoni Dio non abbandona nessuno ad un destino cieco ed immutabile, giunge lo stesso, attraverso l’esperienza della malattia e il terrore della morte, l’ora della verità anche per lui, seppur in modo differente.
· Il distacco dalla realtà avviene attraverso un succedersi confuso di sogni, finché l’incubo assume una sua connotazione precisa: lo spazio (una gran chiesa) appare immenso e indefinito e corrisponde a una sensazione di perdita della propria identità; d’altra parte, sommerso dalla folla, Don Rodrigo ha l’impressione che lo spazio diventi sempre più ristretto: ecco allora affiorare un senso di soffocamento, un'angoscia più tangibile, che è poi la paura fisica del contagio.
· Inizialmente appare la massa orrenda degli appestati, ma esiste ancora un’inconscia speranza di salvezza, poi risaltano in primo piano gli appestati che si accalcano su di lui, suscitando sensazioni dolorose, provocate in realtà dal male fisico: infine dal fondo di un pulpito, come dalla remota lontananza della memoria e della coscienza, emerge un’immagine ben precisa: quella di padre Cristoforo, connessa alla paura della morte e del giudizio, che provoca un urlo dopo il quale si sveglia.
· In tutta la scena del sogno continuamente si alternano e s’intrecciano il livello della coscienza e quello dell’inconscio, la realtà angosciante della peste dalla coscienza di Don Rodrigo trapassa nella visione deformata del sogno e viceversa, attraverso immagini talora indefinite talora suggerite dalla concreta realtà percepita nelle ore precedenti.
· Manzoni nel passo anticipa, senza accorgersene, alcune dinamiche del sogno che poi Freud studierà analiticamente: il rapporto stretto che esiste tra mente e corpo, l'importanza di ricordi rimossi ed esperienze remote censurate, che continuano ad agire nell'inconscio, fino a riapparire improvvisamente in forme deformate, l'oggettivazione simbolica sotto forma di condensazione delle immagini oniriche ( la chiesa, il pulpito, la barba bianca, la folla opprimente ...).
Una notte, verso la fine d'agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l'uno de' tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto d'amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n'eran de' nuovi, e ne mancava de' vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de' più allegri; e tra l'altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d'elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima.
Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un'arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d'ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perché, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l'occhio medico.
- Sto bene, ve', - disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente. - Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po' troppo. C'era una vernaccia!... Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno... Levami un po' quel lume dinanzi, che m'accieca... mi dà una noia...!
- Scherzi della vernaccia, - disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. - Ma vada a letto subito, ché il dormire le farà bene.
- Hai ragione: se posso dormire... Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta' attento, ve', se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla... Porta via presto quel maledetto lume, - riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l'ordine, avvicinandosi meno che poteva. - Diavolo! che m'abbia a dar tanto fastidio!
Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n'andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto.
Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l'occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all'agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch'entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s'era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.
Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s'addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d'uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n'era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert'occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da' rotti si vedevano macchie e bubboni. - Largo canaglia! - gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch'era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que' sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl'insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d'avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l'ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte. Strepitava, era tutt'affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que' visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l'uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell'attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto.
Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand'urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un'occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d'un livido paonazzo.
L'uomo si vide perduto: il terror della morte l'invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de' monatti, d'esser portato, buttato al lazzaretto. E cercando la maniera d'evitare quest'orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all'erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e s'accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.
ESERCIZI
Esercizio E. L. 1: individua il numero delle sequenze del brano e classificale secondo la loro natura.
Esercizio E. L. 2: dai un titolo breve a ciascuna sequenza.
Esercizio E. L. 3: per ogni sequenza scrivi un riassunto, costituito da un periodo di non oltre 30 parole. Se la sequenza è più breve di 30 parole, trascrivila così com’è nel testo.
Raccordo capp 31-34
Di peste s'ammala anche Renzo, ma la forte, contadinesca fibra lo salva: superata la convalescenza decide di far ritorno al suo paese in cerca di Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Incontra Tonio in camicia che dice cose senza senso: la malattia lo aveva reso idiota e fatto somigliare stranamente al fratello folle. Da una cantonata vede avanzare una cosa nera; è don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo. per lui sorgente di guai. Di Agnese sa che si rifugiata a Pasturo, di Lucia dice che è a Milano in casa di don Ferrante. Altro non sa; una sola cosa vorrebbe: che Renzo torni al più presto dond'è venuto. Renzo passa anche accanto alla sua vigna: ormai ridotta a una marmaglia di piante, di vilupponi arrampicati, di rovi, di un guazzabuglio di steli. Pare anch'essa investita e disgregata dalla peste. A sera trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.
Renzo riesce a entrare in Milano; scorge dovunque i segni terribili del morbo e della desolazione.
La madre di Cecilia
Dal Cap. 34 de I promessi sposi
· La madre di Cecilia ci viene mostrata come una figura esemplare come se giungesse da una sfera superiore e, già prima di parlare si avvolge di un senso di spirituale regalità, riuscendo ad essere capace di sottrarsi alla generale degradazione. L’immagine che più viene scolpita nelle memorie è quella dei corpi ormai senza vita ammucchiati nei carri, e proprio con questa immagine viene sottolineato il livello di un’umanità ormai scaduta, ma quest’ultima viene anche rimarcata da ulteriori similitudini sparse qua e là, come ad esempio “schifosi e mortiferi inciampi” disseminati per le strade (che non sono solamente stracci e immondizie) o i sacchi di granaglie con cui vengono paragonati i cadaveri riposti sui carri. Tuttavia persino la morte non si fa portatore di una totale vittoria quando viene contrastata dall’innocenza delle vittime e dalla pietà dei sopravvissuti. L’atteggiamento del Manzoni di fronte al reale viene rilevato chiaramente nell’episodio di Cecilia: la bambina è “tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Pur non disdegnando di fronte al male posto in ogni forma, l’autore de “I Promessi Sposi” non si lascia sopraffare dalla visione della morte come trionfatrice. Ugualmente anche Renzo pur passando da spettacoli raccapriccianti ad altri ancor più spaventosi, pur accentando in un momento di pericolo la protezione degli stessi monatti non si perde d’animo mantenendo senno e compassione e non perde di vista pur girovagando invano tra pericoli di ogni tipo la meta finale. Quando giunge al Lazzaretto è assai turbato dalle orribili scene viste in precedenza.
· La madre di Cecilia ci viene mostrata come una figura esemplare come se giungesse da una sfera superiore e, già prima di parlare si avvolge di un senso di spirituale regalità, riuscendo ad essere capace di sottrarsi alla generale degradazione. L’immagine che più viene scolpita nelle memorie è quella dei corpi ormai senza vita ammucchiati nei carri, e proprio con questa immagine viene sottolineato il livello di un’umanità ormai scaduta, ma quest’ultima viene anche rimarcata da ulteriori similitudini sparse qua e là, come ad esempio “schifosi e mortiferi inciampi” disseminati per le strade (che non sono solamente stracci e immondizie) o i sacchi di granaglie con cui vengono paragonati i cadaveri riposti sui carri. Tuttavia persino la morte non si fa portatore di una totale vittoria quando viene contrastata dall’innocenza delle vittime e dalla pietà dei sopravvissuti. L’atteggiamento del Manzoni di fronte al reale viene rilevato chiaramente nell’episodio di Cecilia: la bambina è “tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Pur non disdegnando di fronte al male posto in ogni forma, l’autore de “I Promessi Sposi” non si lascia sopraffare dalla visione della morte come trionfatrice. Ugualmente anche Renzo pur passando da spettacoli raccapriccianti ad altri ancor più spaventosi, pur accentando in un momento di pericolo la protezione degli stessi monatti non si perde d’animo mantenendo senno e compassione e non perde di vista pur girovagando invano tra pericoli di ogni tipo la meta finale. Quando giunge al Lazzaretto è assai turbato dalle orribili scene viste in precedenza.
Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl'ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s'incontrò in un oggetto singolare di pietà, d'una pietà che invogliava l'animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono piú forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, "no!" disse: "non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete." Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: "promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così."
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, piú per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: "addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri." Poi voltatasi di nuovo al monatto, "voi," disse, "passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola."
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina piú piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.
"O Signore!" esclamò Renzo: "esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!"
Riavuto da quella commozione straordinaria, e mentre cerca di tirarsi in mente l'itinerario per trovare se alla prima strada deve voltare, e se a diritta o a mancina, sente anche da questa venire un altro e diverso strepito, un suono confuso di grida imperiose, di fiochi lamenti, un pianger di donne, un mugolìo di fanciulli.
Andò avanti, con in cuore quella solita trista e oscura aspettativa. Arrivato al crocicchio, vide da una parte una moltitudine confusa che s'avanzava, e si fermò lì, per lasciarla passare. Erano ammalati che venivan condotti al lazzeretto; alcuni, spinti a forza, resistevano in vano, in vano gridavano che volevan morire sul loro letto, e rispondevano con inutili imprecazioni alle bestemmie e ai comandi de' monatti che li guidavano; altri camminavano in silenzio, senza mostrar dolore, né alcun altro sentimento, come insensati; donne co' bambini in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quegli ordini, da quella compagnia, piú che dal pensiero confuso della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e la casa loro. Ahi! e forse la madre, che credevano d'aver lasciata addormentata sul suo letto, ci s'era buttata, sorpresa tutt'a un tratto dalla peste; e stava lì senza sentimento, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro veniva piú tardi. Forse, o sciagura degna di lacrime ancor piú amare! la madre, tutta occupata de' suoi patimenti, aveva dimenticato ogni cosa, anche i figli, e non aveva piú che un pensiero: di morire in pace. Pure, in tanta confusione, si vedeva ancora qualche esempio di fermezza e di pietà: padri, madri, fratelli, figli, consorti, che sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano con parole di conforto: né adulti soltanto, ma ragazzetti, ma fanciulline che guidavano i fratellini piú teneri, e, con giudizio e con compassione da grandi, raccomandavano loro d'essere ubbidienti, gli assicuravano che s'andava in un luogo dove c'era chi avrebbe cura di loro per farli guarire.
ESERCIZI
Esercizio E. L. 1: individua il numero delle sequenze del brano e classificale secondo la loro natura.
Esercizio E. L. 2: dai un titolo breve a ciascuna sequenza.
Esercizio E. L. 3: per ogni sequenza scrivi un riassunto, costituito da un periodo di non oltre 30 parole. Se la sequenza è più breve di 30 parole, trascrivila così com’è nel testo.
Raccordo cap. 35-38
Trovata finalmente la casa di don Ferrante, apprende che Lucia è al lazzaretto, l'ospedale degli appestati. Scambiato per un untore, riesce a stento a sottrarsi a un gruppetto di gente imbestialita, saltando su di un carro di monatti.
L'aria si fa sempre più afosa, il cielo si copre di una coltre di umidità greve, quando Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati posticci, alzati per la circostanza, accanto ad altri in muratura. L'impressione è quella del covile segnato da un vasto brulichio prodotto da sani e malati, da serventi e da folli, impazziti per la peste, da gente variamente indaffarata. Su tutto domina l'organizzazione imposta dai cappuccini ed è, il loro, un ordine esemplare sempre tenendo conto che bisogna amministrare, confortare, curare o avviare al cimitero ben sedicimila appestati. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo nebbioso. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevato da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. È uno spicchio di umanità che intende sopravvivere e resistere nonostante tutto sembri avviare a morte o a disperazione. E proprio in un atteggiamento di padre che si cura dei propri piccoli Renzo intravede dopo tanto tempo la cara immagine di padre Cristoforo. Affettuoso l'incontro tra i due. Il padre dopo essere stato per anni a Rimini, per pressioni esercitate sui superiori ha ottenuto di essere richiamato a Milano e di essere adibito al servizio dei malati. Renzo gli fa un succinto riassunto delle sue avventure e dice di essere nel lazzaretto in cerca di Lucia. Potrebbe essere, se è ancora viva, nel recinto assegnato alle donne: è proibito entrarvi. Ma il padre lo autorizza date le buone intenzioni che lo animano. Ma Lucia sarà viva? Se non dovesse essere viva, Renzo si dice pronto a fare vendetta su don Rodrigo, che è all'origine di tutte le disavventure sue e di Lucia. E a questo punto padre Cristoforo lo redarguisce e alla legge di vendetta contrappone la legge cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto l'esperienza dell'assassinio di un uomo, sa quanto arida sia la strada della vendetta e quanto allontani da Dio e quindi dall'umanità la ricerca di una giustizia che impone morte per morte. La vera giustizia è la carità che compensa la morte di un uomo con la crescita ideale di nuova umanità. Renzo convinto si dice disposto al perdono del suo avversario. E il frate lo conduce in una capanna dove gli mostra don Rodrigo moribondo: ecco come si è ridotto colui che voleva farsi padrone dell'altrui vita! E il padre non sa decidere se in quelle condizioni il signorotto sia per un castigo o per un atto di misericordia della divinità.
Dopo affannosa ricerca, incontra finalmente Lucia. L'amarezza per la riconferma del voto fatto alla Madonna, è risolta dall'intervento di padre Cristoforo, che scioglie Lucia dal voto. Lucia resta con una ricca signora che ha perduto i suoi e l'ha presa a ben volere, mentre Renzo torna ad avvertire Agnese del prossimo ritorno della figliola.
Uscito dal lazzaretto Renzo è sorpreso da un temporale, quello che porterà via la peste. Vede Agnese, ritorna a Bergamo dal cugino per cercarsi una casa, è di nuovo al paesello ad attendervi Lucia che, trascorsa la quarantena, si accinge a ritornare. Prima della partenza, apprende la morte di padre Cristoforo, il processo contro la monaca di Monza, e la morte anche di donna Prassede e don Ferrante.
Lucia ritorna al paese. Don Abbondio si decide finalmente a sposare i due giovani, ma soltanto quando viene a sapere che il palazzo di don Rodrigo è ora occupato dall'erede di lui, un marchese, «bravissim'uomo» che ha saputo della storia di Lucia e di Renzo, e è disposto ad acquistare ad alto prezzo le loro casette e a liberare Renzo dall'imbroglio di Milano. I due sposi, con Agnese, si trasferiscono a Bergamo, dove la famiglia e gli affari prosperano. Il romanzo termina con la celebre morale messa in bocca a Lucia: «...lo non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercar me... i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani...».
[1] Alessandro Manzoni - Nacque a Milano nel 1785 dal nobile Pietro Manzoni e da Giulia Beccarla. Dopo aver compiuto gli studi a Merate, a Lugano e al Longone di Milano, e aver avuti in Milano i primi contatti con esponenti significativi del mondo culturale e letterario italiano, seguì a Parigi la madre, che nel frattempo si era separata dal marito. Lo stimolante ambiente parigino, in cui, accanto alle ideologie illuministiche, si andavano affermando le nuove concezioni romantiche, gli consenti esperienze che molto influirono sulla sua formazione e sulla sua attività successiva di pensatore e di scrittore.
Nel 1802 sposò Enrichetta Blondel, una ginevrina calvinista che si convertì al cattolicesimo; egli stesso nel 1809, dopo una profonda crisi religiosa, ritornò alla fede e alle pratiche cattoliche. A questa «conversione» seguirono anni di copiosa produzione letteraria.
Dal 1810 al 1827 compose infatti: gli Inni sacri, le odi civili Marzo 1821 e Il 5 maggio, due tragedie Il conte di Carmagnola e l’Adelchi, le Osservazioni sulla morale cattolica, la Lettera a Monsieur Chauvet, la Lettera sul Romanticismo, I Promessi Sposi, di cui la prima stesura è del 1823, la prima edizione del 1827, e la seconda, e definitiva, è del 1840-42.
Gli anni successivi al ‘42 furono occupati da studi di natura estetica, linguistica e storica; furono composti in questi anni le opere: Del romanzo storico e, in genere, dei componimenti misti di storia e d’invenzione, Dell’invenzione, vari studi sulla lingua italiana, il saggio comparativo su La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Del suo impegno politico nei confronti dell’Italia risorgimentale Manzoni ha lasciato documento nella sua opera: direttamente nel Marzo 1821, indirettamente nel primo coro dell’Adelchi e nello stesso romanzo; nel primo caso attraverso le vicissitudini dei Latini schiavi dì Franchi e Longobardi, nel secondo caso attraverso le vessazioni dei Lombardi sudditi della Spagna, egli ha ritratto la sorte di ogni popolo - e quindi anche dell’Italia del suo tempo - sottomesso allo straniero.
Morì nel 1873.
Il «cattolicesimo democratico» di Manzoni - L’incontro giovanile con l’Illuminismo prima a Milano poi a Parigi concorse in grande misura ad orientare il cattolicesimo manzoniano. Nel Vangelo infatti lo scrittore cercò e trovò una risposta a quelle istanze di uguaglianza e di fraternità che erano state i punti chiave dell’Illuminismo (si ricordi il famoso trinomio «libertà, uguaglianza, fraternità») e che egli aveva fatto sue. Con la differenza che, mentre gli illuministi ponevano a base di tali istanze il fatto che la ragione è bene comune a tutti gli uomini, e per tutti stabilisce parità di diritti e di doveri, egli le collegò alla comune paternità di Dio, che fa sì che tutti gli uomini, in quanto suoi figli, siano fra loro uguali e fratelli. In questo senso sì può parlare di un cattolicesimo democratico del Manzoni.
La sollecitudine per gli umili, per i diseredati della società e gli ignorati dalla storia ufficiale, è costante nello scrittore, dagli Inni sacri, alle tragedie, ai Promessi Sposi.
Nei Promessi sposi il ruolo di protagonisti è tenuto da due operai di estrazione contadina, «genti meccaniche e di piccolo affare», come dice Manzoni nell’introduzione al romanzo. E, con un capovolgimento rivoluzionario, coloro che nel giudizio del mondo sono in alto nella scala sociale, i cosiddetti «personaggi d’autorità», sono qui valutati positivamente o negativamente a seconda che si mettano al servizio degli umili o che siano loro avversi.
I temi fondamentali della moralità manzoniana: la giustizia e la provvidenza - Alle ingiustizie del mondo, alla prevaricazione dei forti e alla sopraffazione costante dei deboli, Manzoni contrappone l’istanza della giustizia.
Se, nella sua pienezza, la giustizia per il cristiano Manzoni potrà realizzarsi solo nell’aldilà, tuttavia gli uomini degni dì questo nome devono battersi perché anche su questa terra essa si attui il più possibile, perché l’ingiustizia venga sconfitta. Con questo spirito agiscono i personaggi positivi e combattivi del romanzo: padre Cristoforo, il cardinal Federigo, lo stesso Renzo per quanto glielo consentono le sue limitate forze.
Chi combatte per la giustizia ha Dio dalla sua parte. Al tema della giustizia si collega in tal modo quello della provvidenza, il tema che percorre tutta l’opera manzoniana e si dispiega soprattutto nel romanzo. In esso la provvidenza conforta gli umili nelle loro tribolazioni, da loro fiducia e persino sicurezza d’animo; ma anche confonde e annienta i prepotenti, così che alla fine la giustizia, sia pure faticosamente, trionfa, come dimostra la vicenda dei due promessi sposi, gente di «buona volontà», che dopo tante traversie riescono a raggiungere anche su questa terra la serenità che si sono meritata.
La soluzione manzoniana al problema della lingua - Il problema della lingua travagliò a lungo Manzoni e fu da lui sentito con particolare acutezza nel periodo della composizione del romanzo, un’opera che egli voleva rivolta ad un vasto pubblico e per la quale sentiva l’esigenza di una lingua che fosse popolare e viva, e che inoltre - poiché la sua aspirazione di patriota andava a un’Italia unita in nazione - non avesse carattere regionale, ma nazionale. Dopo lunga riflessione e sperimentazione, egli si convinse che la soluzione linguistica possibile in Italia era quella di estendere a tutta la penisola il più evoluto dei suoi dialetti, il fiorentino, e più precisamente il fiorentino parlato dalle persone colte, cioè da quella classe borghese che i romantici identificavano col «popolo».
[2] Per una ... stradicciole: si tratta delle viottole che Manzoni ha descritto nell'incipit del romanzo: strade che corrono tra le colline e le montagne che attorniano il lago di Como.
[3] curato: parroco.
[4] d'una ... di sopra: i territori della provincia di Lecco.
[5] casato: famiglia, discendenza.
[6] manoscritto: si tratta del manoscritto del Seicento che, nell'introduzione al romanzo, Manzoni finge di aver ritrovato nel corso delle sue ricerche storiche e di aver ritrascritto, aggiornandone il linguaggio.
[7] il suo ufizio: le sue preghiere.
[8] breviario: il libro delle preghiere.
[9] i fessi... opposto: le spaccature del monte dirimpetto.
[10] un altro squarcio: un altro brano della preghiera.
[11] voltata: svolta, curva.
[12] a foggia d'un ipsilon: a forma di Y, cioè un bivio.
[13] all'anche del passeggiero: alle anche di chi lo attraversava.
[14] tabernacolo: piccolo altare consacrato.
[15] volevan dir: intendevano rappresentare.
[16] bigiognolo: grigiastro.
[17] scalcinatura: punti in cui l'intonaco è rovinato e scrostato.
[18] al confluente: all'incrocio.
[19] condizione: natura, ruolo.
[20] una reticella verde: una retina che tratteneva i capelli lunghi.
[21] omero: spalla.
[22] nappa: nastro.
[23] mustacchi: baffoni arricciati.
[24] corno ripieno di polvere: un oggetto di corno nel quale veniva conservata la polvere da sparo per le pistole o gli schioppi.
[25] una gran ... d'ottone: l'elsa, cioè l'impugnatura, della spada, lavorata al cesello.
[26] forbite e lucenti: ben lavorate, pulite e luccicanti.
[27] bravi: sgherri che lavoravano al servizio dei signorotti del tempo; erano per lo più ex galeotti o delinquenti latitanti che, in cambio dell'impunità, garantivano con la violenza il potere del signore sul territorio.
[28] ivi: lì.
[29] Che… era lui: Appare evidente in questo passaggio l'onniscienza del narratore, che è in grado di muoversi con assoluta libertà non solo nello spazio, ma anche nel tempo e nella mente dei personaggi.
[30] gli sovvenne: gli venne in mente.
[31] il testimonio ... coscienza: la certezza di avere la coscienza pulita.
[32] ilarità: buon umore.
[33] galantuomini: gentiluomini, naturalmente in senso ironico.
[34] intraprendere una ribalderìa: commettere qualche delitto.
[35] maritar: sposare.
[36] come ... a riscotere: come se si andasse in un banco dei pegni a riscuotere un guadagno.
[37] comune: comunità.
[38] se la cosa ... in sacco: se la questione potesse essere decisa con le chiacchiere, lei ci avrebbe già ingannato.
[39] compagnone: bravaccio.
[40] Che… fin allora: Il narratore, per ragioni di rispetto nei confronti del lettore, opera una censura (come farà poi anche in seguito), evitando di riportare le parole dei bravi. Ciò nonostante, la sua censura non fa che accentuare l'effetto di sgradevolezza prodotto dall'atteggiamento dei bravi, che ci appare così davvero intollerabile.
[41] segno: punto.
[42] nessuna... particolare: nessuna condizione impedisce alla persona di formarsi un proprio modo di rapportarsi con la realtà.
[43] Neutralità disarmata: l'astenersi dal prendere una posizione decisa, per evitare di entrare nel conflitto.
[44] le podestà laiche: le personalità del potere politico.
[45] a prender parte: a schierarsi a favore di qualcuno.
[46] procurando: facendo in modo.
[47] dissimulando ... capricciose: nascondendo le loro malefatte, i loro soprusi dettati dal capriccio del momento.
[48] corrispondendo con sommissioni: rispondendo sottomettendosi.
[49] rispetto gioviale: rispetto fintamente allegro.
[50] il suo ... corpo: del rancore, del rammarico.
[51] esacerbato: esasperato.
[52] a segno che: al punto che.
[53] finalmente: in conclusione.
[54] fantastico: eccentrico e prepotente.
[55] un rigido censore: censurava, cioè criticava, con asprezza.
[56] si regolavan: si comportavano.
[57] Il battuto: lo sconfitto.
[58] uomo torbido: delinquente.
[59] soverchiatore: sopraffattore.
[60] chiamava: definiva.
[61] mischiarsi: immischiarsi.
[62] nelle cose profane: nelle cose del mondo, che non attengono alla religione.
[63] crocchio: un gruppetto di persone raccolte a parlare.
[64] veemenza: energia.
[65] alieni dal risentirsi: persone che non si adirano mai.
[66] stia ne' suoi panni: pensi ai fatti propri.
[67] i miei venticinque lettori: qui Manzoni fa di nuovo riferimento alle persone che il narratore immagina leggeranno la sua opera. Nuovamente il narratore si rivolge direttamente ai narratori. In questo caso, l'uso dell'aggettivo numerale venticinque appare una sorta di dichiarazione di falsa modestia: Manzoni invece sa bene che il suo è un romanzo destinato a un vasto pubblico.
[68] studio: applicazione.
[69] sconcertato in un punto: ribaltato, sconvolto in un attimo.
[70] tumultuariamente: tumultuosamente.
[71] non si fanno ... in che: non si preoccupano delle difficoltà in cui.
[72] imbasciata: messaggio.
[73] cooperatore dell'iniquità: collaboratore dell'ingiustizia.
[74] toccare ... mento: cioè fare l'inchino.
[75] la terra ... cappello: in segno di saluto.
[76] occorso: capitato.
[77] fatto: cattiva azione.
[78] Perpetua: si tratta della donna che si occupa delle faccende di casa di don Abbondio; dal nome di questo personaggio del romanzo, si è passati a indicare con il termine comune di perpetua proprio l'assistente al sacerdote nelle faccende domestiche.
[79] pure: quindi.
[80] Cameade: filosofo e oratore greco (214-128 a.C.), molto famoso nell'antichità e celebrato persine da Cicerone
[81] ruminava: rimuginava
[82] seggiolone: poltrona
[83] Perpetua: è la domestica di don Abbondio
[84] imbasciata: messaggio
[85] un po' di librerìa: qualche libro. Ancora la tecnica della digressione, attraverso la quale, in questo caso, il narratore ci fornisce alcune informazioni necessarìe a comprendere la situazione che sta descrìvendo.
[86] convalescente ... dello spavento: fa riferimento alla paura derivata dall'incontro con i bravi (capitolo I).
[87] panegirico ... due anni prima: il riferimento è al panegìrico (cioè un testo che esalta le qualità di un personaggio) La dottrina di San Carlo Borrromeo di Vincenzo Tasca, che fu letto pubblicamente nel duomo di Milano il 4 novembre 1626.
[88] Archimede: (287-212 a.C.) famoso matematico e fisico greco.
[89] erudiziene: cultura.
[90] arrenato: bloccato.
[91] Tonio: è il cugino di Renzo, che, con il fratello Gervaso, dovrebbe fungere da testimone nel matrimonio combinato da Renzo.
[92] Agnese: è la madre di Lucia e grande sostenitrice del matrimonio fraudolento.
[93] ai due fratelli: si tratta di Tonio e Gervaso.
[94] non vi siete maritata: Agnese punta sul pettegolezzo per distrarre Perpetua.
[95] metter male: seminare la discordia. In questo passaggio, Agnese usa la tecnica della reticenza, cioè non dice tutto quello che sta fingendo di sapere a Perpetua, con il risultato di stuzzicarne la curiosità e invogliarla a chiacchierare e distrarsi.
[96] confonder: ribattere.
[97] cheti: silenziosi.
[98] andito: ingresso.
[99] neppur per uno: meno che se fosse stata una sola persona.
[100] Deo gratìos: rendiamo grazie a Dio (in latino).
[101] riscoter: sussultare.
[102] zimarra: mantellina.
[103] papalina: piccolo copricapo tipico dei sacerdoti.
[104] canuti: bianchi.
[105] assomigliarsi: essere paragonati.
[106] in tutte le maniere: in tutti i sensi, cioè è tardi rispetto all'ora del giorno, ma anche alla scadenza del debito che Tonio aveva con don Abbondio.
[107] berlinghe: monete.
[108] involtino: fagottino
[109] Teda: la moglie di Tonio; la collana era stata lasciata in pegno, in cambio del prestito.
[110] libracelo: il libro dei conti. Di Don Abbondio ci viene qui fornito un piccolo ritratto assai gretto e meschino: il modo in cui controlla le monete appare davvero eccessivo, sospettoso e diffidente, il tipico atteggiamento dell'usuraio.
[111] dalla vita alla morte: se dovesse mai succedere qualcosa
[112] cassetta: cassetto
[113] come per ozio: come se non sapessero cosa fare.
[114] stropicciando: facendo rumore, strisciando
[115] rattenendo: trattenendo
[116] scena: sipario di teatro.
[117] proferire: pronunciare
[118] la mancina: la mano sinistra
[119] ghermito ... diritta: afferrato, con la mano destra
[120] polverino: è la polvere che si usava per asciugare l'inchiostro sul foglio
[121] formola: formula, cioè le parole che gli sposi pronunciano al momento del matrimonio.
[122] soffogava: soffocava
[123] quanto n'aveva in canna: a squarciagola
[124] affatto smarrita: completamente spaventata
[125] svolgersi: liberarsi dal tappeto
[126] remando con le mani: agitando le braccia
[127] non faccia schiamazzo: non urli
[128] carpone: a quattro zampe. Tonio, cugino di Renzo, cerca di recuperare almeno la ricevuta del debito saldato, non perché sia meschino, ma perché è un poveraccio, per il quale quella somma poteva significare anche mesi di lavoro.
[129] raccapezzare: ritrovare
[130] spiritato: agitatissimo
[131] usare a salvamento: mettersi in salvo
[132] lasciar: evitare, trascurare
[133] di soppiatto: di nascosto
[134] attendeva: si occupava.
[135] Contìguo: vicino
[136] rispondeva: guardava
[137] abituro ... bugigattolo: stamberga, casupola
[138] riscosso: svegliato
[139] l'impannata: l'imposta
[140] con gli occhi tra' peli: ancora assonnato
[141] senza mettersi... si fosse: senza cacciarsi lui in mezzo ai guai, di qualsiasi natura essi fossero
[142] Da ... brache: afferra i calzoni
[143] un cappello di gala: un cappello da festa.
[144] a martello: a distesa
[145] fenile: fienile. Il suono della campana viene riprodotto attraverso una onomatopea, ossia l'uso di parole che riproducono i suoni reali.
[146] le forche e gli schioppi: i forconi e le armi da fuoco
[147] all'ordine: pronti
[148] gli: li
[149] avvisti: accorti
[150] venire in chiaro: chiarire
[151] diviato: dritti dritti
[152] sanrocchino: mantello corto
[153] sparso di conchiglie: erano il simbolo dei pellegrini; per il Griso è un travestimento
[154] bordone: bastone
[155] brigatella: piccola brigata
[156] truppa: i suoi bravi
[157] nemmeno uno zitto: nemmeno una parola. Come in molte altre parti del testo, il passaggio dal passato al presente narrativo avviene nei momenti di maggiore tensione narrativa, quasi a voler avvicinare il lettore alla scena su cui si muovono i personaggi.
[158] malandrìno: mascalzone
[159] sconficcare: sfilare
[160] accattato: chiesto in elemosina
[161] Cava ... zolfanelli: tira fuori l'occorrente per accendere una lanterna
[162] acchetare: calmare
[163] dicitore: l'unico a parlare
[164] lepre: cioè la preda
[165] brulica: si muove
[166] capezzale: la testa del letto
[167] Menico: un ragazzino del paese, già incontrato in precedenza. Ancora un ammicco al lettore, che in questo caso è formulato in modo da creare una specie di complicità, quasi a voler esprimere fiducia nella sua competenza.
[168] garzoncello: ragazzine
[169] Chi è ... sospetto: chi sta facendo qualcosa di non Lecito è pronto a sospettare di tutto. Benché mostri di prendere talvolta le distanze da essa, il narratore si appoggia spesso, ai detti della saggezza popolare, che contengono comunque una certa dose di buon senso, assai utile nei diversi casi della vita.
[170] provata ... viso: di esperienza e abituata ad agire a viso scoperto
[171] avanti questo giorno: prima di questo giorno.
[172] brulicavano d'uomini: erano piene di gente.
[173] crocchi: gruppetti di persone raccolte a parlare.
[174] senza ... l'intesa: senza nessun accordo.
[175] avvedersene: accorgersene.
[176] persuasione: convinzione.
[177] proferito: pronunciato.
[178] l'acqua s'andava intorbidando: la situazione si stava facendo più critica.
[179] s'ingegnavano: si davano da fare.
[180] posare: calmare.
[181] farci... pesca: trarne qualche guadagno.
[182] si farebbe: si sarebbe fatto.
[183] Avanti giorno: prima che facesse giorno.
[184] a sorte: a caso.
[185] per tutto: dovunque.
[186] meraviglie: esclamazioni.
[187] ridurre ... fatti: per trasformare i discorsi in azione.
[188] garzoni: ragazzi che lavoravano nei forni.
[189] gerla: grande cesta che si caricava sulle spalle.
[190] il cadere ... polveriera: gettare un fuoco artificiale in una polveriera.
[191] notano: nuotano.
[192] avventa: mette.
[193] stratta: strattone.
[194] cigne: cinghie che reggevano la gerla alle spalle.
[195] canovaccio: strofinaccio.
[196] una tepida fragranza: un profumo di pane caldo appena sfornato.
[197] fu sparecchiato: il pane fu portato via tutto.
[198] la mala parata: la situazione pericolosa. Le parole che Manzoni usa non sono scelte a caso. La descrizione della scintilla che fa esplodere la sommossa del pane viene effettuata utilizzando termini e immagini ("irritati", "a branchi","svaligiate" eccetera) che già orientano il nostro discorso e ci inducono a esprimere un giudizio non positivo sulla folla.
[199] coloro che ... co'fiocchi: quelli che stavano tramando nella speranza che i disordini si ingigantissero.
[200] Corsia de' Servi: oggi corso Vittorio Emanuele.
[201] tuttavia: tuttora, ancora oggi.
[202] viene a dire: significa.
[203] grucce: stampelle.
[204] parole ... salvatiche: parole di origine così diversa, così sgradevoli e plebee.
[205] s'avventò: si diresse con foga.
[206] tutto ... abbaruffato: tutto stupito e scompigliato.
[207] compariscono ... masnada: compaiono le avanguardie della folla inferocita.
[208] capitano di giustìzia: era il comandante della guardia.
[209] appuntellano i battenti: puntellano le ante della porta.
[210] appuntellano i battenti: puntellano le ante della porta.L'enfasi della narrazione è sottolineata dall'accumulazione, qui e in seguito, delle esclamazioni, spesso accorpate a coppie, quasi a scandire il ritmo dell'assalto al forno da parte della massa vociante.
[211] scorta d'alabardieri: sono le guardie armate di alabarda, cioè di una lunga lancia.
[212] fa un po' di luogo: si sposta un po', facendo un po' di spazio.
[213] postarsi: appostarsi
[214] dicitore: colui che parlava, cioè il capitano di giustizia
[215] Fateli dare addietro: fateli indietreggiare
[216] pigìo: ressa
[217] vóto: vuoto, spazio
[218] rattenendo: trattenendo
[219] si n'appuntella: si rimettono i puntelli ai battenti
[220] formicolaio: formicaio, ressa
[221] urlio: frastuono, vociare
[222] Or ora: adesso. La reazione violenta e rabbiosa del capitano della guarnigione alla sassata ricevuta contrasta in modo netto con le parole appena pronunciate, la cui moderazione e accondiscendenza si rivela perciò falsa. In questo modo, attraverso una brusca ironia, Manzoni lo smaschera subito e senza possibilità di dubbio.
[223] cagionata: causata
[224] protuberanza ... metafisica:espressione ironica per indicare la parte sinistra della fronte.
[225] quanto n'aveva in canna: con tutte le sue forze
[226] disselciato: tolto i ciottoli dalla strada lastricata
[227] accennavano: mostravano, a gesti
[228] in fallo: in modo sbagliato, cioè senza colpire qualcuno
[229] varchi: aperture, passaggi. La metafora folla-torrente è il segno di un processo di disumanizzazione, che ha tramutato le persone in massa informe e priva della minima capacità di controllo e raziocinio. E questo, per Manzoni, è decisamente un male.
[230] cantucci: angoli
[231] abbaini: piccole finestre che si aprono sul tetto di un edificio
[232] ciotole: i contenitori dove i negozianti tenevano il denaro.
[233] parare il grembiule: stenderlo per raccogliere la farina
[234] madia: grande armadio per contenere i generi alimentari
[235] burattello: setaccio per la farina
[236] polverìo: polvere di farina. Il bianco polverìo della farina sospesa nell'aria produce un effetto particolare, quasi di allontanamento dalla realtà, di sospensione in un mondo differente, fuori dal controllo della ragione.
[237] ausiliari: persone di guardia, che aiutassero
[238] sbirraglia: soldati equivalenti ai poliziotti
[239] i tristi... folla: le persone malintenzionate e facinorose, ma in numero troppo esiguo per costituire un pericolo.
[240] gli pizzicavan le mani: gli prudevano le mani, cioè avevano voglia di attaccar briga.
[241] impunità: esenzione dalla pena.
[242] qualchedun altro: sino a questo punto, nel capitolo, Manzoni ha parlato di Lucia, prigioniera dell'innominato, e della sua notte angosciosa; da qui in poi sarà proprio l'innominato il protagonista della narrazione.
[243] quelle parole: sono le parole che Lucia aveva rivolto all'innominato, turbandolo profondamente.
[244] Nibbio: il capo dei bravi dell'innominato, anch'egli mosso a compassione dall'atteggiamento di Lucia.
[245] belar donne: donne che piangono.
[246] preghi: suppliche. A segnalare il profondissimo tormento interiore dell'innominato, si offre il continuo contrasto tra tutto ciò che l'uomo fa, vede o pensa e l'effetto che questo produce. Tutto sembra capovolgersi, ogni sua iniziativa sortisce l'effetto opposto rispetto a quello voluto, e la sua prospettiva sulla realtà appare nettamente modificata.
[247] punto: affatto
[248] risoluzioni: decisioni
[249] rimembranza: ricordo
[250] molesta: fastidiosa
[251] diavoleria: angoscia
[252] restìo: riluttante, che oppone piacevole resistenza
[253] d'animarsi al compimento: di acquisire coraggio per terminarle
[254] gli sarebbe parsa soave: gli sarebbe sembrata leggera
[255] voto ... intento: vuoto, privo di ogni intenzione, di ogni volontà. Qui, come in seguito, viene usata un'anticipazione. Si tratta però di un'anticipazione assurda; frutto dei pensieri nefasti dell'uomo, che preconizza per sé un futuro di angosce e di tormenti, che la conversione però gli eviterà.
[256] Si schierava ... malandrini: scorrevano nella sua mente le immagini dei bravi, i delinquenti che erano al suo servizio
[257] impiccio: fastidio
[258] A guisa di chi: alla maniera di colui che.
[259] l'antico: il suo modo di essere di un tempo, la sua vecchia personalità
[260] indotto: convinto
[261] deliberazione: decisione
[262] ingolfato: invischiato
[263] continuerebbe: avrebbe continuato
[264] con una forza ... pollice: muovendo convulsamente, freneticamente, il pollice
[265] cane: parte della pistola che, scattando, fa partire il colpo
[266] poche ore prima: quando Lucia lo aveva pregato perché la liberasse
[267] proferite: pronunciate.
[268] induceva: generava
[269] attitudine: atteggiamento
[270] indarno: invano. L'angoscia crescente dell'uomo è segnalata dall'accumulazione delle interrogazioni e delle esclamazioni, che producono un effetto di crescendo.
[271] sarebbe: sarebbe stato, cioè il ricordo delle proprie malefatte non lo avrebbe abbandonato
[272] l'animo antico: il coraggio e la volontà di un tempo
[273] immoto: immobile. Da questo momento, il narratore retrocede per lasciare spazio al punto di vista dell'innominato. Noi lettori, infatti, siamo messi in condizione di conoscere cosa sta avvenendo fuori dal suo castello solo attraverso le sue percezioni prima uditive, poi visive: sappiamo, insomma, quello che sa lui, e questo accentua l'effetto di tensione e di speranza che la narrazione produce.
[274] concento: suono
[275] covile di pruni: giaciglio spinoso, in senso metaforico
[276] cenerognola: grigia come la cenere.
[277] alacrità: fervore, voglia di fare
[278] canaglia: gentaglia
[279] fidato: di fiducia
[280] cagione: ragione, motivo.
[281] anderebbe: sarebbe andato
[282] mobile: mutevole
[283] brigate: gruppi
[284] che rìntoppasse: in cui si imbattesse
[285] convenuto: concordato in anticipo
[286] non accordato ma consentaneo: che non era stato concordato, ma che ugualmente si sviluppava all'unisono
[287] supplemento: supporto, aiuto
[288] un trasporto ... diversa: un movimento comune di persone così diverse e di provenienze differenti
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