martedì 18 gennaio 2011

Il rapporto tra ragione fede e scienza di Massimo Capuozzo

Questo approfondimento vuole mettere in evidenza le varie tappe di sviluppo del rapporto fra fede, ragione e scienza.

Il brano proposto per l’avvicinamento a questa problematica è un testo contemporaneo il cui successo editoriale attesta l’attualità dell’argomento.

Scienza fede

da Angeli e demoni[1] di Dan Brown[2].

Seduto nella Cappella Sistina fra i suoi colleghi sbalorditi, il cardinale Mortati tentava di dare un senso alle parole del camerlengo. Alla luce delle candele, Ventresca aveva appena raccontato una storia di un tale odio e perfidia che Mortati era rabbrividito. Aveva parlato di cardinali rapiti, marchiati a fuo­co e uccisi; degli Illuminati - un nome che faceva riemergere antiche paure -, della loro rinascita e sete di vendetta, del defunto papa, avvelenato dai membri di quella setta. E poi, qua­si sussurrando, di una nuova tecnologia mortale, l’antimate­ria, che a mezzanotte avrebbe distrutto la Città del Vaticano.

Alla fine del discorso, sembrava che Satana avesse risuc­chiato tutta l’aria dalla cappella. Nessuno riusciva più a muo­versi. Le parole del camerlengo erano come sospese nell’o­scurità.

L’unico suono che Mortati udiva era l’inconsueto ronzio di una telecamera in fondo alla sala. Nessun conclave nella sto­ria aveva mai tollerato una simile presenza, ma era stato il ca­merlengo a volerla. Fra lo stupore dei cardinali, era entrato nella Cappella Sistina con due giornalisti della BBC, un uomo e una donna, e aveva annunciato che avrebbero trasmesso il suo discorso in mondovisione.

In quel momento, di fronte alla telecamera, fece un passo avanti e disse con voce profonda: «Agli Illuminati e agli uo­mini di scienza, voglio dire questo». Fece una pausa. «Avete vinto.»

Il silenzio nella cappella era tale che Mortati sentiva il batti­to disperato del proprio cuore.

«Le premesse c’erano tutte» continuò il camerlengo. «La vo­stra vittoria era inevitabile. Mai prima d’ora mi è stato chiaro come in questo momento. La scienza è il nuovo Dio.»

“Ma cosa sta dicendo?” pensò Mortati. “È diventato matto? Tutto il mondo lo sta ascoltando!”

«La medicina, le telecomunicazioni, i viaggi spaziali, le ma­nipolazioni genetiche... sono questi i miracoli di cui oggi si parla ai bambini. Sono questi i miracoli che dimostrano come la scienza ci darà delle risposte. Le vecchie storie di Immacola­ta Concezione, roveti ardenti e mari che si dividono al passag­gio dei profeti non valgono più. Dio è diventato obsoleto. La scienza ha vinto la battaglia. Ci arrendiamo.»

Un mormorio di confusione e di smarrimento corse per la cappella.

Il camerlengo aggiunse, con maggiore enfasi nella voce: «Ma questa vittoria ha avuto un prezzo. E molto alto». Silenzio.

«La scienza avrà anche alleviato le sofferenze della malattia e la pesantezza del lavoro, ci avrà anche fornito una miriade di gadget per il nostro divertimento e la nostra comodità, ma ci ha lasciato in un mondo dove non esiste più la meraviglia. I nostri tramonti si sono ridotti a frequenze e lunghezze d’onda. La complessità dell’universo si è trasformata in una serie di equazioni matematiche. La nostra concezione del valore della vita umana è stata sfatata. La scienza afferma che la terra e i suoi abitanti sono solo puntini insignificanti nell’immensità dell’universo. Un accidente cosmico.» Fece una pausa. «Persi­no la tecnologia che promette di unirci ci divide. Oggi ognuno di noi è elettronicamente collegato a tutto il resto del pianeta e tutti via ci sentiamo sempre più soli. Siamo bombardati dalla violenza, da divisioni, conflitti e tradimenti. Lo scetticismo è diventato una virtù. Ormai le doti dell’uomo intelligente sono il cinismo e la continua ricerca della prova scientifica. Non c’è da stupirsi se oggi giorno gli esseri umani si sentono più de­pressi e impotenti che in passato. Esiste ancora qualcosa di sa­cro? La scienza cerca risposte nella sperimentazione sui feti e pretende addirittura di modificare il nostro DNA. Seziona il mondo creato da Dio in frammenti sempre più piccoli in cerca di un significato... e trova solo ulteriori domande.»

Mortati lo guardava con soggezione. Il camerlengo sembra­va dotato di un potere ipnotico. Non aveva mai visto nessuno parlare da un altare con tanta forza e presenza fisica. La sua voce era carica di convinzione e di tristezza.

«La vecchia battaglia tra scienza e fede si è conclusa» prose­guì. «Avete vinto, ma non lealmente. Non avete dato risposte. Avete avuto la meglio modificando la nostra società in modo così radicale che le verità che un tempo consideravamo linee guida ora sembrano inapplicabili. La fede non può competere. La scienza fa progressi a ritmo esponenziale. Si moltiplica co­me un virus. Ogni nuova scoperta apre la via ad altre scoper­te. Furono necessarie migliaia di anni per passare dall’inven­zione della ruota a quella dell’automobile, ma è bastato solo qualche decennio per passare dall’automobile ai viaggi nello spazio. Oggi misuriamo il progresso scientifico in settimane. Stiamo perdendo il controllo. L’abisso che ci separa è sempre più profondo e, a mano a mano che la fede passa in secondo piano, gli uomini sentono un vuoto spirituale sempre più grande. Siamo alla ricerca disperata di un significato. Ma vera­mente disperata. Avvistamenti di UFO, sedute spiritiche e di channelling, viaggi astrali, ricerche sulla mente umana: tutte queste idee eccentriche hanno una facciata scientifica, ma so­no spudoratamente irrazionali. Sono il grido disperato dell’a­nima moderna, sola, tormentata, paralizzata dalla sua razionalità e dall’incapacità di accettare che ciò che si discosta dalla tecnologia possa avere un senso.»

Mortati si accorse che si stava protendendo in avanti. Come lui, gli altri cardinali e i telespettatori di tutto il mondo pende­vano dalle labbra del camerlengo. Nel suo discorso non c’era retorica né vetriolo. Nessun riferimento alle Scritture o a Gesù Cristo. Usava espressioni moderne, chiare, senza giri di paro­le. Sembrava che Dio parlasse per bocca sua, ma usando un linguaggio aggiornato per trasmettere un messaggio antico. In quel momento, Mortati comprese uno dei motivi per cui il pa­pa precedente aveva così caro quel giovane. In un mondo apa­tico, cinico, dominato dalla tecnologia, gli uomini come il ca­merlengo, realistici, capaci di parlare all’anima della gente, erano l’unica speranza per la Chiesa.

Il camerlengo continuò con maggiore enfasi. «Voi dite che la scienza sarà la nostra salvezza. Io dico che la scienza è sta­ta la nostra rovina. Fin dai tempi di Galileo, la Chiesa ha cer­cato di frenare il suo lento cammino, talvolta con gli stru­menti sbagliali, ma sempre in buona fede. Le tentazioni, però, sono troppo forti perché un uomo possa resistervi. Vi avverto, guardatevi attorno: le promesse della scienza non sono state mantenute. Le promesse di efficienza e semplicità hanno generato solo inquinamento e caos. Siamo una specie frammentata e frenetica, che sta precipitando verso la rovina e la catastrofe.»

Il camerlengo fece una lunga pausa, poi rivolse lo sguardo alla telecamera.

«Chi è questo Dio della scienza? Chi è questo Dio che dà ai suoi uomini il potere, ma non le regole morali per usarlo? Quale Dio dà il fuoco ai suoi figli senza avvertirli che è perico­loso? Il linguaggio della scienza non ci dice ciò che è bene e ciò che è male. I manuali scientifici ci spiegano come provoca­re una reazione nucleare, ma non ci chiedono di riflettere sulle sue implicazioni morali. Agli uomini di scienza voglio dire questo: la Chiesa è stanca. Siamo stanchi di tentare di farvi da guida. Abbiamo praticamente esaurito le nostre risorse nel tentativo di far sentire la voce della moderazione mentre voi continuate ciecamente a cercare di realizzare il massimo gua­dagno con il minimo sforzo. Non vi stiamo chiedendo perché non vi controllate, bensì come pensate di riuscire a farlo. Il mondo si muove così velocemente che, anche se vi fermaste per un istante ad analizzare le conseguenze delle vostre azio­ni, qualcuno più efficiente di voi vi sorpasserebbe. E così con­tinuate sulla vostra strada. Costruite armi di distruzione di massa, mentre il papa incontra i capi di Stato implorandoli di rinunciare all’uso della forza, donate esseri viventi, mentre la Chiesa ci invita a considerare le implicazioni morali delle no­stre azioni. Incoraggiate le persone a comunicare tramite cel­lulari e computer, mentre la Chiesa apre le sue porte per ricor­darci di entrare in comunione con gli altri come vuole la nostra natura. In nome della ricerca uccidete bambini non an­cora nati per salvare altre vite. Ancora una volta è la Chiesa che mostra la fallacia di questo ragionamento. Voi sostenete che la Chiesa è ignorante. Ma chi è più ignorante? Chi non riesce a definire il fulmine o chi non ne rispetta il grandioso po­tere? La Chiesa vi apre le sue porte, le apre a tutti. Eppure, più ci avviciniamo a voi, più voi ci respingete. “Dimostrateci che Dio esiste” dite. Io vi rispondo: prendete i vostri telescopi, scrutate i cieli e poi ditemi come può Dio non esistere!» Il camerlengo aveva le lacrime agli occhi. «Mi chiedete com’è fat­to, ma come potete porre una domanda del genere? La rispo­sta è una, sempre la stessa. Non percepite Dio nella vostra scienza? Come fate a non vederlo? Sostenete che sarebbe ba­stato un minimo cambiamento della forza di gravità o del pe­so di un atomo per fare del nostro universo una nebulosa sen­za vita anziché uno splendido oceano di corpi celesti, e non riuscite a vedere la mano di Dio in tutto questo? Vi sembra più facile credere che abbiamo pescato la carta giusta da un mazzo composto da miliardi di carte? Possibile che l’uomo sia spiritualmente così povero da credere più volentieri nell’im­possibilità matematica che nell’esistenza di un potere più grande di lui?»

Con voce sempre più profonda e convincente, proseguì: «Che voi crediate o no in Dio, a questo dovete credere: quan­do noi esseri umani rinunciamo a rimetterci a un potere più grande di noi, rinunciamo alla responsabilità. La fede, tutte le fedi, servono a ricordarci che c’è un’entità inconoscibile a cui siamo tenuti a rispondere... Solo attraverso la fede possiamo rendere conto delle nostre azioni al prossimo, a noi stessi e a Dio. La religione è imperfetta, ma solo perché è imperfetto l’uomo. Se la gente potesse vedere la Chiesa come la vedo io, se riuscisse a guardare al di là dei riti che si svolgono tra que­ste mura, vedrebbe un miracolo moderno: un’assemblea di persone imperfette, anime semplici il cui unico desiderio è far sentire la voce della compassione in un mondo ormai sfuggito a qualsiasi controllo».

Il camerlengo avanzò verso il Collegio dei cardinali e la videoperatrice della BBC lo seguì istintivamente, facendo una panoramica della sala.

«Siamo obsoleti?» chiese il camerlengo. «Questi uomini so­no dinosauri? Io sono un dinosauro? Il mondo non ha bisogno di una voce che parli per i poveri, i deboli, gli oppressi, i bam­bini mai nati? Non abbiamo bisogno di anime che, per quanto imperfette, ci esortino a seguire le direttive della moralità e a non perderci per strada?»

A questo punto Morteti capì che il camerlengo, consciamen­te o no, aveva compiuto una mossa brillante. Facendo ripren­dere i cardinali dalle telecamere, stava dando un volto umano alla Chiesa. Il Vaticano non era più fatto di edifici, ma di perso­ne. Persone che, come il camerlengo, avevano dedicato la pro­pria esistenza ai servizio del bene.

«Questa sera ci troviamo sull’orlo di un baratro» affermò Ventresca. «Non possiamo permetterci di restare indifferenti. Che lo chiamiate Satana, corruzione o immoralità, il male esi­ste, e cresce di giorno in giorno. Non ignoratelo.» Abbassò la voce e la telecamera lo inquadrò nuovamente. «Le forze del male, anche se poderose, non sono invincibili. Il bene può prevalere. Ascoltate il vostro cuore. Ascoltate Dio. Insieme, pos­siamo salvarci da questo abisso.»

Ora Mortati capiva perché il conclave era stato violato. Non c’era altro modo. Quella di Carlo Ventresca era una drammati­ca e disperata richiesta di aiuto. Stava parlando sia ai suoi amici sia ai suoi nemici. Stava esortando tutti, con lui o contro di lui, a vedere la luce e fermare quella pazzia. Sicuramente, ascoltandolo, qualcuno si sarebbe reso conto della follia di quel complotto e si sarebbe fatto avanti.

Si inginocchiò davanti all’altare. «Pregate con me.»

Tutti i cardinali lo imitarono e si unirono a lui in preghiera. Fuori, in piazza San Pietro e in ogni angolo del globo, l’uma­nità, attonita, si inginocchiò con loro.

Ma la “vexata quaestio” nasce molto lontano dall’oggi.

L’epoca, dal III secolo d. C. in poi, fu un’epoca quasi di ‘transizione’, in cui si introdussero “nuove” riflessioni filosofiche legate alla diffusione del Cristianesimo.

La diffusione del Cristianesimo, cui aderirono nel corso dei primi secoli del Medioevo anche le popola­zioni di origine germanica, determinò un profondo mutamento nel modo di pensare delle genti che popolavano l’Europa.

Ma la civiltà dell’Occidente medievale si è sviluppata dalle rovine del mondo romano: nei cinque secoli an­teriori al Mille, l’impegno maggiore degli uomini di cultura, per lo più ecclesiastici, si esplicò, infatti, in un’opera tenace di conservazione e di trasmissione dei testi sacri e, almeno strumentalmente, anche profani. Tale impegno risultò prezioso per la storia culturale dell’Occidente, anche se non fu sempre accompagnata da adeguate capacità critiche e da originale ripensamento: i più eruditi accolsero una concezione neoplatonica del mondo, uni­tamente alla visione agostiniana della vita e della storia.

Sant’Agostino fu il primo filosofo a introdurre la storia nella filosofia, una dimensione del tutto ignota al pensiero greco: egli si appropriò, infatti, della concezione escatologica dell’Antico Testamento, secondo cui Dio si serve della storia per realizzare i propri progetti di redenzione. Nel pensiero greco era certamente presente l’idea della contrapposizione tra bene e male, ma era assente la nozione del peccato, per cui non c’era una visione lineare della storia intesa come percorso di riscatto verso la salvezza, ed il mondo era concepito soltanto in forma ciclica. Sant’Agostino ebbe invece presente come la lotta tra bene e male si svolgesse soprattutto nella storia: Dio interviene pertanto attivamente nella vita terrena degli uomini, interessandosi a loro per educarli e per liberarli dalle catene della corruzione.

Con Sant’Agostino siamo comunque di fronte ad un pensatore originale che si era formato nell’alveo della cultura classica, ma il monaco, o comunque l’uomo di dottrina medievale, che leggeva o commentava autori sacri e profani non sempre giungeva a comprenderli ap­pieno, soprattutto perché la visione cristiana del mondo era assai diversa da quella dell’antichità pagana, soprattutto per la convin­zione che la storia dell’umanità fosse già tutta scritta nei libri sacri della Bibbia, nel Vecchio e nel Nuovo Testamento.

Per il dotto medievale l’universo era il frutto di un atto di volontà auto­noma di Dio che lo aveva creato e vi aveva posto l’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, ma che, a causa del peccato originale, tutta l’umanità era stata perduta, aveva conosciuto il male ed era divenuta soggetta alle tentazioni del demonio; perciò la storia è una sto­ria di dolore e di decadenza fino alla comparsa di Cristo, figlio di Dio ed egli stesso Dio, che ha ridato agli esseri umani la speranza e la possibilità di salvarsi attraverso la vera fede religiosa.

Da questa visione derivano alcu­ne idee fondamentali:

1. Cristo è il punto che divide in due la Storia dell’umanità, priva di speranza prima di lui, con una prospettiva di riscatto dopo;

2. la salvezza eterna dipende per ciascuno dalla capacità di fuggire le insidie presenti nel mondo e di considerare lo spirito la parte positiva dell’uomo e la carne quella negativa o pericolosa, in quanto soggetta alle tentazioni;

3. la Storia ha un fine già prefissato nel giu­dizio universale che segnerà anche la fine del mondo, che pertanto è cosa caduca e destinata a perdersi;

4. la Storia dell’umanità è governata dalla volontà di Dio che i cristiani chiamano Provvidenza che agisce secondo disegni che gli uomini non possono capire e il cui significato apparirà solo alla fine del tem­po. Per questo l’uomo, armato della pro­pria fede e messo di fronte alla propria co­scienza, non può esser certo di nulla di quanto egli vede, sente, conosce, desidera, se non scegliendo di obbedire ai coman­damenti e al magistero della Chiesa.

L’affermazione e la diffusione del Cristianesimo si erano realizzate, nell’impero romano, in aperto con­flitto e in concorrenza con le religioni pa­gane, perciò nei primi secoli i cristiani nutrirono un risentimento nei confronti della cultura greca e latina, ispirata, secondo la loro visione, da idee false di Dio e dell’uomo.

Gli intellettuali cristiani, tutti uomini di chiesa, riconoscevano, però l’enorme ricchezza di quella cultura, che aveva pro­dotto un’arte per loro irraggiungibile e superiore, una letteratura elegantissima e, nello stesso tempo, capace di parlare all’animo umano, una filosofia eccezionalmente profonda e ricca di suggerimenti, un’idea di giustizia e di diritto assolutamente più alte delle rozze codificazioni dei popoli barbarici. Per questo, a mano a mano che il paganesimo diveni­va un nemico del passato ed ormai non co­stituiva più un pericolo reale, e, quando le società e le formazioni statali del Medioe­vo divennero più complesse e organizzate, la cultura latina fornì i modelli culturali che diventavano necessari: il conflitto fra cultura cri­stiana e cultura classica si risolse in una convivenza assai utile, all’interno della quale l’atteggiamento degli intellettuali divenne quello di una grande ammirazione per quanto era stato prodotto nell’anti­chità che restava come testimonianza del massimo li­vello al quale poteva giungere l’ingegno umano, quando non fosse sorretto dalla giusta fede religiosa. I cristiani, forti della loro Verità, potevano quindi servirsi degli ammaestramenti degli antichi mae­stri, volgendoli a fini migliori e più giusti.

Sarebbe assurdo comunque ritenere che nel Medioevo gli esseri umani avessero smesso di ragionare, di pensare, di fare ipotesi, sia nel campo pratico sia in quel­lo intellettuale: la razionalità rimase certa­mente un valore nella cultura medievale, se non altro perché era considerata un do­no di Dio agli uomini. L’uomo medievale trovava, tuttavia, le sue certezze più salde e le sue verità più sicure nell’ambito religioso, perché questo corrispondeva all’idea che lo spirito fosse comunque superiore alla materia, l’anima al corpo e, di conseguenza, nei casi in cui nascesse un “conflitto fra ragione e fede” era quest’ul­tima a prevalere.

Con la prima diffusione del Cristianesimo, cominciò ad affiancarsi alla tradizione filosofica pagana quella cristiana.

Tale tradizione diventò la forma di filosofia dominante in occidente dalla fine del V secolo d. C., quando, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la tradizione filosofica pagana si esaurì. L’evento simbolico del definitivo tramonto della tradizione greca è la chiusura della scuola neoplatonica di Atene nel 529 da parte di Giustiniano.

La filosofia cristiana restò dominante in occidente fino a tutto il XIV secolo. Soltanto a partire dalla fine di quel secolo, con l’Umanesimo ed il Rinascimento, essa cominciò a perdere il suo primato e fu nuovamente affiancata da altri tipi di indagine che si ricollegavano all’antica tradizione greca e che la rinnovarono realmente.

I caratteri che distinguono più nettamente la tradizione filosofica greca dalla nuova tradizione cristiana sono i seguenti:

1. mentre tutta la grande tradizione filosofica greca si fondava su un’indagine razionale libera, cioè era una ricerca che non accettava alcun limite posto dal suo esterno ed i filosofi greci si sentivano pienamente liberi di indagare razionalmente ogni campo del reale e, attraverso quest’indagine, arrivavano quindi a conclusioni che dettate soltanto dalla loro ragione.

2. la filosofia cristiana, invece, si costituì fin dall’inizio come indagine all’interno del campo delimitato dalle verità determinate dalla fede, quindi la sua ricerca non era pienamente libera di costruire le proprie verità, in quanto, presupponendo il quadro dottrinario delle verità rivelate, poteva svilupparsi e progredire soltanto nel rispetto dei vincoli posti da tale quadro dogmatico.

La concezione teocentrica del mondo ebbe per tutto il Medioe­vo coerenti applicazioni in campo culturale.

La ‘teologia’, scienza delle cose divine che poggia sulla «rivelazione» contenuta nei testi sacri e che, alla luce di essi, interpreta tutta la realtà, è considerata la scienza per eccellenza, la scienza regina e ad essa sono subordinate le altre scienze quasi sue ancelle: “ancillae theologiae

Di conseguenza:

1. la “speculazione filosofica” cede il passo alla teologia, quando l’indagine razionale si scontra con le verità rivelate, che devono essere accettate per fede;

2. le “scienze naturali”, anziché indagare autonomamente i fenomeni del reale, partono dalle affermazioni contenute nei “Libri sacri” come da premesse indiscutibili;

3. funzione della “politica” è di guidare gli uomini verso la giustizia terrena, che è premessa al raggiungimento dell’eterna beatitudine.

Questo metodo conoscitivo fu proprio di tutti gli scolastici e si mantenne fino alla fine della Scolastica, che pertanto non deve essere collocata, come di solito accade, agli inizi del XIV secolo con Guglielmo di Ockham, con cui dall’interno della Scolastica si “assiste” alla crisi della stessa corrente filosofica, perché la Scolastica rimase ancora per altri tre secoli la foma di cultura istituzionalmente dominante.

La sua idea metodologica è passata alla Storia come il “Rasoio di Ockham”, alla base del pensiero scientifico moderno: nella sua forma più immediata Ockham suggerisce che non bisogna mai ipotizzare una qualche entità per dare una spiegazione di un fenomeno, quando di questo fenomeno abbiamo già una spiegazione, o comunque una spiegazione più semplice. Il “rasoio di Ockham” impone di evitare cioè ipotesi aggiuntive, quando quelle iniziali sono sufficienti: se, infatti, una teoria funziona, è inutile aggiungere una nuova ipotesi.

Se nella teoria della conoscenza Ockham pose notevoli limiti alla possibilità da parte dell’uomo di comprendere la realtà, limitando la conoscenza a ciò di cui si ha esperienza, un tale sistema conoscitivo, basato esclusivamente sull’esperienza empirica, pose dei limiti alla conoscenza, che creano un problema privo di soluzione, ossia l’indimostrabilità degli argomenti teologici: l’uomo, infatti, non può raggiungere niente che trascenda l’esperienza, pertanto non è possibile provare l’esistenza di Dio.

A corollario di ciò, si creava anche un’altra problematica: se, infatti, è vero che non è possibile dimostrare l’esistenza di Dio, allo stesso modo non è possibile dimostrarne il contrario. In definitiva, il reale è indagabile solo entro certi limiti, la conoscenza diversa da quella empirica è solo illusoria: proprio su questo concetto si basa la critica alla metafisica tradizionale.

La situazione di stallo nella quale si trovò la cultura filosofica, nonostante la rivoluzione mancata del Rinascimento italiano, perdurava poiché nelle strutture e negli istituti culturali continuava a trascinarsi la Scolastica anzi il sistema scolastico ebbe una forte recrudescenza in seguito alla “Riforma cattolica” ed alla “Controriforma”. A ribadire la situazione di emarginazione della vita italiana nel suo complesso concorse la “Controriforma”che in Italia (e dovunque essa si trovò ad operare con l’appoggio della monarchia spagnola) fece sentire pesantemente la sua azione repressiva. Ne risultò una progressiva contrazione della vivacità creativa nel campo della letteratura, della filosofia, della scienza e delle arti, campo nel quale l’Italia si era conquistata, nei secoli precedenti, un indiscusso primato europeo.

Per combattere lo spirito critico da cui era nata la Riforma e per avere il controllo sui testi scritti la Chiesa affiancò all’Inquisizione un istituto di repressione, la congregazione dell’“Indice dei libri proibiti”, voluta dal papa “Paolo IV Carafa” nel 1559. Si trattava di una commissione con l’incarico di redigere e tenere aggiornata la lista di opere e autori che i cattolici non potevano leggere, possedere e divulgare, perché veicoli di idee contrarie alla morale e alla dottrina. Il fine dell’Indice era di impedire la stampa dei testi proibiti e di bruciarne le copie eventualmente sequestrate. L’efficacia dell’Indice era limitata, perché era impossibile il controllo capillare, ma le conseguenze “indotte” furono serie:

  1. la spinta all’autocensura degli autori che, per evitare noie con la Chiesa, eliminavano dai loro libri ogni idea o riferimento che potesse essere contestato;
  2. la diffusione di testi classici «purgati», con soppressione di parti, soprattutto a uso scolastico;

Infine si rafforzò la “Congregazione del Sant’Uffizio” come tribunale supremo dell’Inquisizione che, già vigorosa nel secolo XIII, era poi decaduta.

La preoccupazione della Chiesa di controllare il pensiero attraverso la censura preventiva della stampa (non si poteva pubblicare un libro senza l’autorizzazione ecclesiastica) limitò lo sviluppo della filosofia, della scienza e delle arti. Ne seguirono spesso situazioni di lacerazione interna e un clima di paura, che la condanna di alcuni filosofi, come nel caso di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella, e di scienziati, come nel caso di Galileo Galilei, rafforzò.

I semi gettati dal Rinascimento, ma già presagiti da Gugliemo di Ockham, non erano tuttavia andati tutti perduti.

La Rivoluzione Scientifica che si verificò dal 1543, anno della pubblicazione del “De Revolutionibus Orbium Celestiumdi Niccolò Copernico, al 1687, anno della pubblicazione dei “Philosophiae naturalis principia mathematica” di Isaac Newton, prima mise in crisi e poi fece definitivamente crollare quelle teorie, comprese quelle di Aristotele, che per due millenni avevano costituito dei punti di riferimento per gli uomini.

L’aspetto filosofico di questo evento storico consiste proprio nella radicale messa in discussione delle conoscenze tradizionali e nella loro lenta sostituzione con un nuovo modello conoscitivo e sperimentale.

L’epicentro della crisi, ben più profonda, si localizzò nel campo dell’astronomia, dove Copernico, Keplero e Newton attaccarono il vecchio principio tolemaico, secondo il quale la terra sarebbe stata immobile e al centro dell’universo.

Tolomeo, il geografo del II secolo, fedele alle teorie di Aristotele, nel suo sistema definito “geocentrico” poneva la terra al centro dell’universo. La centralità della terra assumeva anche un significato simbolico, in quanto esprimeva la dignità e la grandezza dell’uomo, momento ultimo della Creazione: «E Dio disse: "Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra."»

Nel Seicento, grazie appunto alla nuova mentalità sperimentale e all’impiego di strumenti tecnici più sofisticati, si giunse a dover riconoscere che il modello geocentrico era imperfetto poiché:

1. la terra non occupava più la posizione centrale dell’universo, né risultava più essere immobile

2. la distinzione aristotelica tra una fisica celeste, caratterizzata dal movimento circolare e perfetto dei corpi, ed una fisica terrestre o sublunare, caratterizzata dai movimenti imperfetti, fu abbandonata in quanto considerata priva di fondamento

3. una volta abbandonata la teoria, secondo la quale il mondo era racchiuso in un orizzonte limitato dalle stelle fisse, l’universo assunse i caratteri dell’infinità.

Nella vigorosa battaglia per l’affermazione del nuovo modo di concepire la scienza i filosofi seicenteschi dovettero combattere:

  1. contro le resistenze degli aristotelici,
  2. contro “maghi”, infatti, la magia considerava il mondo come un organismo vivente, che il mago doveva trasformare attraverso procedure miracolistiche, svelate solo a pochi; il mago parlava inoltre una lingua enigmatica e misteriosa, conosciuta soltanto dagli adepti ed ogni esperienza di magia vuole essere nascosta e segreta. La scienza invece non ammetteva segreti, si schierava contro l’idea della presenza dell’occulto, affermando la possibilità di conoscere la natura per tutti gli uomini dotati di ragione.
  3. conto la Chiesa europea, che nonostante una breve parentesi di libertà scientifica sotto il pontificato di papa Leone X dei Medici, era stata molto ostile nell’accettare le nuove teorie.

Il problema più grande contro cui la Chiesa si scontrò con gli scienziati si scontrarono fu la teoria eliocentrica e questo scontro avvenne per tre motivi:

1) la scienza negava l’idea antropocentrica del mondo che voleva l’uomo e la terra al centro dell’universo;

2) la scienza negava la perfezione del cosmo perché i pianeti descrivevano orbite ellittiche e non circolari, facendo cadere in difetto la perfezione dell’universo, la sua stabilità e la sua immutabilità.

3) La scienza metteva in discussione l’interpretazione delle Sacre Scritture: già piegata dalle tesi di Lutero riguardo al Protestantesimo, la Chiesa non poteva accettare un’altra sconfitta così plateale.

Galilei stesso, essendo un convinto cattolico, si trovò di fronte al dilemma di quale verità proteggere.

Lettera a Don Benedetto Castelli

Dalle Lettere copernicane[3] di Galileo Galilei

· In tutta la raccolta di “lettere copernicane” e soprattutto in questa, Galilei affronta il problema della conciliazione tra la teoria eliocentrica e le Scritture e affina il suo metodo in merito il rapporto tra fede e natura.

· La posizione dello scienziato non può essere accettata poiché metterebbe in discussione la veridicità di quella della Chiesa.

· Galilei afferma qui che sia la Bibbia che la natura sono testi provenienti da Dio e che, per questo,non possono essere in conflitto tra loro.

· Tuttavia rivendica la superiorità della natura rispetto le Sacre Scritture in quanto le seconde si presentano in modo tale da risultare comprensibili a qualunque tipo di lettore e, pertanto, trasfigurano il vero significato delle parole,mentre la natura,scritta in termini matematici, implica l’utilizzo della ragione.

“Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella dovrebbe esser riserbata nell’ultimo luogo: perchè , procedendo pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi impostegli; pare che quello degli effetti naturali che sola sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato il dubbio per luoghi della Scrittura ch’avessero nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura. Anzi, se per questo solo rispetto, d’accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati, non s’è astenuta la Scrittura d’adombrare de’ suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino all’istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza; chi vorrà asseverantemente sostenere che ella, posto da banda cotale rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra o Sole o d’altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole? e massime pronunziando di esse creature cose lontanissime dal primario istituto di esse Sacre Lettere, anzi cose tali, che, dette e portate con verità nuda e coperta, avrebbero più presto danneggiata l’intenzione primaria, rendendo il vulgo più contumace alle persuasioni degli articoli concernenti alla salute.”

La soluzione era dunque per Galilei la distinzione tra le rispettive funzioni: la scienza ha uno scopo tecnico-matematico, il testo sacro morale e salvifico.

Si osservi da vicino un momento drammatico del processo a Galilei, come è ricostruito da Brecht.

Galilei subì due processi presso il Santo Uffizio: uno nel 1616 e l’altro nel 1633.

I processi ebbero luogo fondamentalmente poiché la teoria eliocentrica era considerata eretica dai teologi: sostenendo, infatti, che il sole fosse fisso al centro dell’universo, si smentivano alcune frasi contenute nella Bibbia dove si cita per esempio "Dio fermò il sole" (Giosuè 10:12), o alcune teorie sostenute dalla Chiesa secondo cui la terra è immobile al centro dell’universo.

La dottrina prevalente in quel tempo era infatti che l’infallibilità della Bibbia comprendesse anche il significato letterale, e non solo quello simbolico.

Nei meandri del Vaticano

Da Vita di Galileo[4] di Bertold Brecht[5]

VII.

Ma l’Inquisizione pone all’indice la teoria di Copernico (5 marzo 1616). A Roma Galilei fu invitato nel palazzo di un cardinale. Gli offrirono pranzi, gli offrirono vino e poi gli espressero un piccolo desiderio.

Palazzo del Cardinale Bellarmino a Roma. Si sta dando un ballo. Nel vestibolo - dove due segretari ecclesia­stici giocano a scacchi e prendono appunti sugli ospiti - Galileo viene ricevuto da un gruppetto di dame e di gentiluomini ma­scherati. Sua figlia Virginia[6] e il fidanzato di questa, Ludovico Marsili[7], lo accompagnano.

VIRGINIA: Voglio ballare solo con te, Ludovico.

LUDOVICO: Ti si è slacciata una spallina.

GALILEO:

Quel tuo merletto un po’ discinto, Fillide,

non riordinare: vago a me rivela

scompigli più riposti

e ad altri pure. Tra gli sfolgoranti

doppieri delle sale, evoca a loro

angoli oscuri nel complice parco.

VIRGINIA: Sentimi il cuore.

GALILEO: (le mette una mano sul cuore) Batte.

VIRGINIA: Voglio che mi trovino bella.

GALILEO: È necessario. Altrimenti ricominceranno a dire che la terra non gira.

LUDOVICO: E infatti non gira, signor Galileo. (Galileo ri­de). In tutta Roma si parla di voi. Ma da stasera, signo­re, si parlerà anche di vostra figlia.

GALILEO: A Roma, dicono, è facile sembrare belli, di pri­mavera. Anch’io, probabilmente, somiglio a un Adone ben pasciuto. (Ai due segretari) Devo aspettare qui Sua Eminenza. (Alla coppia) Andate a divertirvi, voi.

VIRGINIA: (tornando indietro di corsa, prima di passare nel salone) Babbo, dal parrucchiere di via del Vittorio c’erano altre quattro signore, ma io ho avuto la prece­denza. Sapeva benissimo il tuo nome. (Via).

GALILEO: (ai due scrivani che giocano a scacchi) Ma come? Giocate ancora alla vecchia maniera, passin passino? Og­gi si gioca facendo scorrere liberamente i pezzi grossi su tutti i riquadri. La torre si muove così (lo mostra), l’alfiere così e la regina così e così. Almeno, si ha un po’ di spazio per fare un piano d’azione!

PRIMO SEGRETARIO: Che volete, è uno stile che non si at­taglia ai nostri miseri stipendi. Noi possiamo fare solo un passetto alla volta, così (muove una pedina).

GALILEO: Sbagliate, mio caro, sbagliate! Chi vive in grande, trova anche modo di farsi pagare le scarpe più gran­di! Dobbiamo adeguarci ai tempi, signori. Non bordeg­giare sempre, ma spingerci al largo, una buona volta!

Il vecchissimo cardinale della scena precedente, accompagnato dal suo frate, attraversa tutta la scena. Vede Galileo, gli passa davan­ti, poi, esitando, si volta e lo saluta. Dal salone si ode, cantata da un coretto infantile, la prima strofa di un madrigale dell’epoca:

Quando la rosa si disfiora e muore

e sulla terra languidi

giacciono e smorti i petali,

a pensar mi sorprendo

come sia vano il giovami ardore.

GALILEO: Roma... Gran festa, eh?

PRIMO SEGRETARIO: Il primo carnevale che si festeggia dagli anni della peste. Vedete qui rappresentate tutte le maggiori famiglie italiane: gli Orsini, i Villani, i Nuccoli, i Soldanieri, i Cane, i Lecchi, gli Estensi, i Colombini...

SECONDO SEGRETARIO: (interrompendolo) Le loro Emi­nenze i Cardinali Bellarmino e Barberini.

Entrano il Cardinale Bellarmino[8] e il Cardinale Barberini[9]. Davan­ti ai visi tengono, appese ad un bastone, le maschere di un agnello e di una colomba.

BERBERINI: (puntando l’indice verso Galileo) «Il sole sor­ge e tramonta e ritorna al luogo suo», dice Salomone. Che dice Galilei?

GALILEO: Eminenza, ricordo che una volta, quand’ero al­to così (indica con la mano), trovandomi su una nave, mi misi a gridare: «Veh, come si allontana la riva!» Ora però so che la riva stava ferma e che la nave si allon­tanava.

BERBERINI: Furbo, furbo, eh, Bellarmino? Quello che si vede, cioè che il firmamento gira intorno a noi, può dar­si che non sia vero, come dimostra l’esempio della riva e della nave. Mentre quello che è vero, cioè che la terra gira, non lo si può vedere materialmente. Furbo, in ve­rità. È un fatto, comunque, che le sue lune di Giove hanno dato filo da torcere ai nostri astronomi! Anch’io purtroppo, Bellarmino, ai miei tempi ho letto qualco­sa di astronomia. È come un prurito che ti resta addosso.

BELLARMINO: Perché non dovremmo adeguarci ai tempi, Barberini? Se l’uso di carte costruite sulle nuove ipote­si facilita il compito ai nocchieri delle nostre navi, tanto vale adoperarle. Dobbiamo solo confutare quelle dottri­ne che contraddicono la Sacra Scrittura. (Fa un cenno di saluto verso la sala da ballo).

GALILEO: La Sacra Scrittura: «Colui che serra il grano, il popolo lo maledirà ». Libro dei Proverbi.

BERBERINI: «Il savio tiene riposta la scienza». Libro dei Proverbi.

GALILEO: «Dove non vi sono buoi, la stalla è pulita; ma grande è il vantaggio che viene dalla forza del bue».

BERBERINI: «Meglio vale chi signoreggia il suo spirito che il prenditore di città».

GALILEO: Sì. Ma «uno spirito infranto prosciuga le ossa». (Pausa). E... «non grida forse la sapienza?»

BERBERINI: «Può alcuno camminare sopra i carboni ar­denti, senza scottarsi i piedi?»... Benvenuto a Roma, amico Galilei. Ricorderete la leggenda sull’origine di questa città. Due fanciulletti ebbero ricovero e nutri­mento da una lupa; e di quel latte, d’allora in poi, tutti i figli della lupa hanno dovuto pagare il prezzo. Ma, in scambio, la lupa procura ogni sorta di svaghi, celesti co­me terrestri: da una disputa scientifica col mio amico Bellarmino fino a tre o quattro dame celebri in tutto il mondo... posso mostrarvele? (Trascina Galileo verso il fondo, per mostrargli il salone. Galileo lo segue riluttan­te). No? Preferite annoiarvi con una discussione? E sia! Siete sicuro, amico Galilei, che voi astronomi non vogliate semplicemente rendere più comoda l’astronomia? (Portandolo di nuovo verso il proscenio) Pensate in termini di cerchi e di ellissi, di velocità uniformi e di movimenti semplici, cioè di cose conformi ai vostri cervelli. Ma supponiamo che l’Onnipotente si sia fitto in capo di far muovere le stelle così (traccia in aria col dito un’orbita complicatissima con un moto irregolare). Dove andrebbero a finire, allora, i vostri calcoli?

GALILEO: Allora, Eminenza, l’Onnipotente ci avrebbe for­niti di cervelli fatti così (traccia col dito lo stesso movimento) perché potessimo credere che un movimento così (ripete il tracciato immaginario) fosse il più semplice possibile! Io ho fede nel cervello.

BERBERINI: Io, invece, lo considero inadeguato... (Pausa. A Bellarmino) Non risponde. È troppo educato per dir­mi che, secondo lui, inadeguato è soltanto il mio cervello.

BELLARMINO: Il cervello umano, amico mio, non può fare molta strada. Intorno a noi non vediamo che storture, misfatti, debolezze. Dov’è la verità?

GALILEO: (con foga) Io ho fede nel cervello!

BERBERINI: (ai due segretari) Non scrivete nulla di tut­to questo. Stiamo facendo un’amichevole discussione scientifica.

BELLARMINO: Pensate un istante: quanta fatica, quanto studio è costato ai Padri della Chiesa - e a tanti altri do­po di loro - il dare un po’ di senso a un mondo abomine­vole come il nostro! Pensate alla cattiveria di quei padroni di terre che fanno fustigare i loro contadini semi­nudi sui campi, e alla stupidità di questi che, poveretti, li ricambiano baciandogli i piedi!

GALILEO: Una vergogna! Venendo a Roma, ho visto...

BELLARMINO: Ebbene, del senso ultimo di questi fatti, che ci riescono incomprensibili, ma di cui è intessuta la vita, noi abbiamo reso responsabile un Ente supremo; abbiamo detto che con quei fatti si perseguono certe fi­nalità, che tutto ciò si spiega con l’attuazione di un im­menso disegno. Non che con questo abbiamo ottenuto la fine di ogni inquietudine; ma adesso venite voi a rinfacciare all’Ente supremo di non aver le idee chiare circa i moti del mondo degli astri, mentre voi, invece, le ave­te chiare. È una saggia condotta, questa?

GALILEO: (prendendo il fiato per fare una dichiarazione) Io sono un devoto figlio della Chiesa...

BERBERINI: Che si può fare con un tipo come costui? Vuo­le dimostrare, col massimo candore, che Domineddio ha commesso dei grossi spropositi in fatto d’astronomia! Domineddio, dunque, non ha studiato a fondo l’astro­nomia prima di scrivere la Bibbia? Ma andiamo, amico mio!

BELLARMINO: Non sembra probabile anche a voi che il Creatore, in merito alla sua creazione, ne sappia più de­gli uomini che lui stesso ha creati?

GALILEO: Ma signori miei, nulla di strano che l’uomo, co­me non sa leggere giusto nel cielo, non sappia leggere giusto neanche nella Bibbia!

BELLARMINO: Ma signor mio, l’interpretazione della Bib­bia è compito riservato ai teologi della Santa Chiesa, si O no? (Galileo non risponde). Vedete: finalmente ve ne state zitto. (Fa un cenno ai segretari) Signor Galilei, questa notte il Sant’Uffizio ha decretato che la teoria di Copernico, secondo la quale il sole è il centro del mon­do ed è immobile, mentre la terra non è il centro del mondo e si muove, è folle, assurda ed eretica. Ho l’in­carico di ammonirvi ad abbandonare tali dottrine. (Al primo segretario) Ripetete, per favore.

PRIMO SEGRETARIO: Sua Eminenza il Cardinale Bellarmino al detto signor Galileo Galilei: «Il Sant’Uffizio ha decretato che la teoria di Copernico, secondo la quale il sole è il centro del mondo ed è immobile, mentre la ter­ra non è il centro del mondo e si muove, è folle, assurda ed eretica. Ho l’incarico di ammonirvi ad abbandonare tali dottrine».

GALILEO: Che significa?

Dalla sala si ode, cantata da un coro infantile, un’altra strofa del canto:

Il tempo lieto non lasciar finire;

cogli la rosa, breve è il suo fiorire.

Il Cardinale Barberini fa cenno a Galileo di tacere finché dura il canto. Ascoltano in silenzio.

GALILEO: Ma i fatti? Credo di aver capito che gli astrono­mi del Sacro Collegio hanno riconosciuto la giustezza dei miei rilievi!

BELLARMINO: E hanno espresso al riguardo la loro più completa soddisfazione, in termini assai lusinghieri per voi.

GALILEO: Ma i satelliti di Giove? Le fasi di Venere?...

BELLARMINO: Il Sant’Uffizio ha emanato il suo decreto senza soffermarsi su questi particolari.

GALILEO: Vi rendete conto che il progresso di ogni ricerca scientifica...

BELLARMINO: ...Si trova assolutamente al sicuro, amico mio. E ciò in conformità al pensiero della Chiesa, secon­do cui non ci è dato di conoscere la verità, ma ci è con­sentito di cercarla. (Saluta un altro invitato nella sala) Siete libero di dissertare anche su queste dottrine, pur­ché sotto forma di ipotesi matematiche. La scienza è fi­glia legittima e dilettissima della Chiesa, signor Galilei. Nessuno di noi pensa seriamente che voi intendiate mi­nare la fiducia nella Chiesa.

GALILEO: (sdegnato) La fiducia può esaurirsi, se si vuol troppo cimentarla!

BERBERINI: Davvero? (Con una sonora risata lo batte sul­la spalla. Poi, guardandolo con gravità e parlandogli sen­za asprezza) Siate realista, amico Galilei. Anche noi lo siamo. Voi ci siete più necessario di quanto noi lo siamo a voi.

BELLARMINO: Non vedo l’ora di presentare il più gran­de matematico d’Italia al commissario del Sant’Uffizio. Egli nutre per voi somma considerazione.

BERBERINI: (prendendo Galileo per l’altro braccio) E a questo punto, eccolo ridiventare agnello. Caro amico, avreste fatto bene a venire anche voi camuffato da bra­vo dottore conformista. È proprio per potermi concede­re un po’ di libertà che oggi porto la maschera. Sotto queste spoglie, può darsi che mi sentiate mormorare: «Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo». Bene, rimettiamoci le nostre maschere.

Entrano nella sala, tenendo in mezzo Galileo.

PRIMO SEGRETARIO: Hai capito bene l’ultima frase?

SECONDO SEGRETARIO: La sto scrivendo. E tu hai capito quando ha parlato della sua fede nel cervello?

Entra il Cardinale Inquisitore.

INQUISITORE: È terminato il colloquio?

PRIMO SEGRETARIO: (come un automa) Prima è venuto il signor Galilei con sua figlia, che oggi si è fidanzata col signor... (L’Inquisitore lo interrompe con un cenno). Poi il signor Galilei ci ha parlato di un nuovo modo di giocare agli scacchi, diverso da tutte le regole, facendo muovere liberamente le pedine su tutta la scacchiera...

INQUISITORE: (con lo stesso gesto) Il verbale.

Uno dei due segretari gli porge il verbale. L’Inquisitore si siede e lo scorre con lo sguardo. Due damigelle attraversano la scena: davanti all’Inquisitore fanno una piccola riverenza.

UNA DAMIGELLA: Chi è?

L’ALTRA: Il Cardinale Inquisitore.

Escono ridacchiando. Entra Virginia, guardandosi intorno come in cerca di qualcuno.

INQUISITORE: (dall’angolo ove è seduto) Siete voi, figliuola mia?

VIRGINIA: (un po’ spaventata, non avendolo scorto subito) Oh! Eminenza!

L’Inquisitore, senza alzare gli occhi, le tende la destra. Ella si avvicina e, genuflettendosi, gli bacia l’anello.

INQUISITORE: Meravigliosa serata! Permettete che mi congratuli per il vostro fidanzamento: il vostro promesso appartiene a un’ottima famiglia. Vi tratterrete a Roma?

VIRGINIA: No, Eminenza, per il momento. Devo fare mol­ti preparativi per le mie nozze.

INQUISITORE: Ah, dunque tornate a Firenze con vostro padre? Ne son lieto. Gli sarete preziosa, immagino. Già, le matematiche non servono molto a rendere piacevole l’ambiente familiare. Ma il vostro fervore giovanile riu­scirà a trattenerlo coi piedi sulla terra. Lassù (indica il cielo) è facile, a un grand’uomo, perdersi.

VIRGINIA: (senza fiato) Siete molto buono, Eminenza. Io non ci capisco niente, in quelle cose.

INQUISITORE: No, eh? (Ride) È vero, in casa del cacciato­re non si mangian lepri. Sarà curioso per vostro padre accorgersi, cara figliuola, che ciò che sapete sugli astri, l’avete ascoltato da me. (Sfoglia il verbale) Leggo qui che i nostri innovatori, dei quali il vostro signor padre è il capo universalmente riconosciuto — un grand’uomo, uno dei più grandi tra i viventi — considerano alquanto esagerata l’idea che ci siamo fatta finora della nostra amata terra. Dai tempi di Tolomeo (un sapiente dell’an­tichità) fino ad oggi, si riteneva che l’intero universo creato, e cioè tutto l’insieme delle sfere di cristallo al cui centro si trova la terra, si estendesse per circa venti volte il diametro terrestre. Un bello spazio, no? Ma gl’innovatori lo giudicano assolutamente troppo picco­lo. Per loro, a quel che si sa, la misura dell’universo è incredibilmente più vasta, e la distanza fra la terra ed il sole – che a noi è sempre parsa tutt’altro che disprezza­bile – è così impercettibilmente piccola, in confronto alla distanza che divide la nostra misera terra dalle stel­le fisse, poggianti sulla sfera più eccelsa, che nei loro cal­coli non ne tengon neppure conto. Davvero, non si può dire che questi innovatori vivano su un piede di grandezza! (Virginia ride. Anche l’inquisitore ride). Ma di recente alcuni Padri del Sant’Uffizio si sono, direi, scandalizzati di una cotale immagine dell’universo, al cui paragone quella in cui abbiamo creduto fin qui non è che un’immaginetta da porre intorno al vezzosissimo collo di certe fanciulle; e si preoccupano all’idea che, visti a così smisurata distanza, i preti e gli stessi cardinali ci facciano la figura di tante formiche. Non ci sarebbe da stupirsi se l’Onnipotente finisse col perdere di vista anche il Papa! Sì, è divertente... ma sono lieto di sapervi vicino a vostro padre, a questo grand’uomo, cara figliuo­la, che tutti noi amiamo e stimiamo tanto. Posso sapere chi è il vostro confessore?

VIRGINIA: Padre Cristoforo di Sant’Orsola, Eminenza.

INQUISITORE: Già. Sono contento, dunque, che torniate col vostro babbo a Firenze. Egli avrà bisogno di voi: forse non ve ne rendete conto, ma il momento verrà. Siete così giovane, siete il sangue suo, e talvolta la grandezza è un fardello non facile da portare per coloro cui Dio l’ha concessa, non facile. Quale uomo è tanto grande non poter essere contenuto in una preghiera?... Ma vi faccio perder tempo, fanciulla cara. Il vostro fidanzato sarà geloso di me; e forse anche vostro padre, se saprà che vi ho parlato di astronomia, per di più secondo teorie superate. Andate a ballare, e non dimenticate di salutarmi padre Cristoforo.

Virginia fa una profonda riverenza ed esce di corsa.

Nel frattempo Galilei si confronta con Fulgenzio, un frate che vuole abbandonare il ramo della fisica, per timore di scontrarsi con la religione cristiana e per non togliere ai credenti la speranza dell’esistenza di Dio. Galilei cerca di fargli capire che il suo compito è quello di mostrare agli altri la verità, ma il frate non sembra voler lasciare le sue idee.

Galilei riprende lo studio delle macchie solari, che gli era stato impedito per motivi etico-religiosi.

Finalmente Galilei sembra essere riuscito a diffondere le sue idee, che ora vengono studiate, esaminate e prese in considerazione da personaggi di rilevante importanza nel panorama scientifico del periodo. Ma…

XI.

1633: l’Inquisizione convoca a Roma lo scienziato universalmente noto. In basso fa caldo, in alto fa freddo, rumorosa è la via, silenziosa la corte.

Vestibolo e scala del Palazzo Medici in Firenze.

Galileo e sua figlia attendono di essere ammessi alla presenza del Granduca[10].

VIRGINIA: Ci fanno aspettare.

GALILEO: Già.

VIRGINIA: Guarda, c’è ancora quell’uomo che ci ha seguiti fin qui. (Indica un individuo che passa davanti a loro senza guardarli).

GALILEO: (la cui vista è indebolita) Non lo conosco.

VIRGINIA: L’ho già visto spesso, in questi giorni. Mi dà i brividi.

GALILEO: Sciocchezze. Siamo a Firenze, non tra i banditi della Corsica.

VIRGINIA: Sta scendendo il rettore Gaffone.

GALILEO: Quello sì che mi fa paura. È un attaccabottoni idiota.

Gaffone, il rettore dell’università, discende la scala. Alla vista di Galileo è preso da visibile sgomento; passa impettito davanti ai due tenendo la testa rigidamente voltata dall’altra patte e facendo appena un lievissimo cenno di saluto.

GALILEO: Che cosa gli è preso? Anche oggi i miei occhi vanno male. Ci ha salutati o no?

VIRGINIA: Appena. (Pausa). Che c’è nel tuo libro? Potranno accusarlo di eresia?

GALILEO: Tu bazzichi troppo la chiesa. E a furia di alzarti all’alba e di correre a messa, ti rovini la carnagione. Pre­ghi per me, non è vero?

VIRGINIA: Ecco mastro Vanni, il fonditore: quello a cui hai fatto il progetto per l’officina. Ricordati di ringra­ziarlo delle quaglie che ci ha mandato.

Un uomo ha disceso la scala.

GALILEO: Grazie ancora per le quaglie, mastro Vanni. Era­no eccellenti.

VANNI: Stavano parlando di voi, di sopra. Tutto questo subisso di nuovi libelli contro la Bibbia, dicono che è colpa delle vostre dottrine.

GALILEO: Non so niente di libelli, io. Le mie letture prefe­rite sono la Bibbia e Omero.

VANNI: Sarà. Be’, approfitto dell’occasione per dirvelo: noi artieri teniamo dalla vostra. Io dei moti delle stelle non me n’intendo molto; ma per me voi siete l’uomo che difende la libertà d’imparare cose nuove. Per esem­pio, quel coltivatore meccanico che hanno in Germania e che voi mi avete descritto... E a Londra, solo in que­st’ultimo anno, sono stati pubblicati cinque volumi di agricoltura. Potessimo almeno trovare un libro che ci parlasse dei canali d’Olanda! Quelli che mettono i bastoni tra le ruote a voi, sono gli stessi che proibiscono ai medici di Bologna di sezionare i cadaveri per le loro ricerche.

GALILEO: Vi sentiranno, Vanni!

VANNI: Lo spero bene. Sapete che ad Amsterdam e a Lon­dra hanno, nientemeno, il mercato del denaro? E anche scuole d’arti e mestieri, e fogli di notizie, che escono re­golarmente. Qui non c’è nemmeno la libertà di guada­gnare! I signori ce l’hanno con le fonderie: dicono che mettendo insieme tanti operai si favorisce l’immoralità dei costumi! Io sarò sempre dalla parte di uomini come voi, signor Galilei. E se a qualcuno venisse in mente di darvi delle noie, ricordatevelo: avete amici in tutte le industrie, tutte le città dell’Italia superiore sono con voi.

GALILEO: Ma, per quello che so, non c’è nessuno che voglia farmi del male.

VIRGINIA: No?

GALILEO: No.

VANNI: A mio giudizio, fareste meglio a partire per Venezia: ci sono meno tonache. Di là, potrete dar battaglia. Se volete, ho una carrozza e dei cavalli.

GALILEO: Non sono fatto per la vita del fuggiasco. Mi piac­ciono le mie comodità.

VANNI: Certo. Ma da quello che ho sentito di sopra, si tratta di non perder tempo. Ho l’impressione che qui a Corte si sentirebbero molto sollevati, se proprio oggi non foste a Firenze.

GALILEO: Ma per carità! Il Granduca è mio discepolo. E se ci fosse qualcuno che volesse tendermi un laccio, il Papa risponderà chiaro e tondo di no.

VANNI: Signor Galilei, mi pare che non sappiate distingue­re i vostri amici dai vostri nemici.

GALILEO: So distinguere il potere dall’impotenza. (Bru­scamente si discosta).

VANNI: Come volete. Buona fortuna. (Esce).

GALILEO: (tornando verso Virginia) Basta che uno patisca ingiustizie perché mi scelga per capo spirituale! E soprattutto nei momenti in cui più mi nuoce! Ho scritto un libro sulla meccanica del firmamento, ecco tutto. Quello poi che gli altri vogliono farne o non farne, non è affar mio.

VIRGINIA: (a voce alta) Se la gente sapesse quanto hai disapprovato le pagliacciate dell’ultimo carnevale in tutte le città d’Italia!

GALILEO: Sì: offrire il miele a un orso vuoi dire perdere il braccio, se l’orso è affamato.

VIRGINIA: (sottovoce) È stato il Granduca a dirti di venire, oggi?

GALILEO: No, sono stato io a chiedergli udienza. Sarà lieto di ricevere il libro: l’ha pagato. Chiedi a quel commesso, protesta perché ci fanno aspettare.

VIRGINIA: (seguita dall’individuo, va a parlare al commesso) Signor Mincio, Sua Altezza è informata che mio padre desidera parlarle?

COMMESSO: Che ne so io?

VIRGINIA: Non è questo il modo di rispondere.

COMMESSO: Ah no?

VIRGINIA: Potreste essere più cortese. (Il commesso le vol­ta a mezzo le spalle, sbadiglia e guarda l’individuo. Vir­ginia tornando indietro) Ha detto che il Granduca è ancora occupato.

GALILEO: Ho sentito che parlavi di cortesia. A che proposito?

VIRGINIA: Lo ringraziavo della sua cortese informazione, nient’altro. Non faresti meglio a lasciare qui il libro? Stai perdendo tempo!

GALILEO: Davvero che comincio a chiedermi che valore ha, questo mio tempo. Può darsi che accetti l’invito di Sagredo e me ne vada per qualche settimana a Padova. La mia salute lascia a desiderare.

VIRGINIA: Credi che riusciresti a vivere senza i tuoi libri?

GALILEO: Una o due casse di vino siciliano, nella carrozza, ci starebbero.

VIRGINIA: Ma non m’hai sempre detto che non resiste a essere trasportato? E la Corte ti deve ancora tre mesi di stipendio! Non te li spedirebbero, siine certo.

GALILEO: È vero.

Il Cardinale Inquisitore discende la scala.

VIRGINIA: Il Cardinale Inquisitore.

L’Inquisitore passa davanti a Galileo e s’inchina cerimoniosamente.

VIRGINIA: Babbo, che è venuto a fare a Firenze il Cardinale Inquisitore?

GALILEO: Non so. Ma hai visto? Per nulla scortese. Sape­vo bene quel che facevo, quando decisi di trasferirmi a Firenze e di starmene zitto per tanti anni! Mi hanno col­mato di elogi a tal punto, che adesso hanno da prender­mi per quello che sono.

COMMESSO: (annuncia a voce alta) Sua Altezza il Granduca.

Cosimo de’ Medici discende la scala; Galileo gli va incontro. Cosimo si ferma, con aria un po’ impacciata.

GALILEO: Desideravo umiliare a Vostra Altezza i miei dialoghi dei due massimi...

COSIMO: Bene, bene. Come vanno i vostri occhi?

GALILEO: Così così. Col permesso di Vostra Altezza, vor­rei mostrarle...

COSIMO: La salute dei vostri occhi mi sta grandemente a cuore. Davvero, grandemente. Temo che abbiate guardato troppo a lungo e troppo sovente in quel vostro portentoso cannone; o sbaglio? (Si allontana, senza pren­dere il libro).

GALILEO: Non ha preso il libro, eh?

VIRGINIA: Babbo, ho paura.

GALILEO: (sottovoce, deciso) Fa’ come se nulla fosse. Non torniamo a casa, andiamo da Volpi, il vetraio. Mi sono messo d’accordo con lui: nel cortile della taverna accanto, c’è sempre pronto un carro con delle botti vuote, se voglio uscire di città.

VIRGINIA: Sapevi...

GALILEO: Non voltarti.

Fanno per avviarsi.

UN ALTO FUNZIONARIO: (scendendo la scala) Signor Galilei, ho l’incarico d’informarvi che la Santa Inquisizione ha richiesto di interrogarvi a Roma e che la Corte gran­ducale non è più in grado di opporre un rifiuto. La carrozza della Santa Inquisizione vi aspetta, signor Galilei.

XII.

Il Papa. Una stanza del Vaticano. Papa Urbano VIII - l’ex Cardinale Barberini - durante la vestizione sta dando udienza al Cardinale Inquisitore. Dall’esterno si ode un forte scalpiccio e trepestio.

PAPA: (a voce altissima) No, no e no!

INQUISITORE: Dunque, Vostra Santità si prepara davvero a dire ai suoi dottori di ogni facoltà, ai rappresentanti degli ordini ecclesiastici e del clero tutto, qui convenuti con la loro ingenua fede nella parola di Dio tramandata dalla Scrittura, per udire dalla Santità Vostra la confer­ma di quella loro fede: si prepara dunque a dir loro che non si deve più credere alla Bibbia?

PAPA: Non voglio mettermi contro la tavola pitagorica. Questo poi no!

INQUISITORE: Contro la tavola pitagorica o contro lo spi­rito del dubbio e dell’insubordinazione? Sono costoro che invocano la tavola pitagorica; ma è ben altro, noi lo sappiamo. Il mondo è percorso da un’inquietudine nefanda; e l’inquietudine dei loro cervelli, costoro la trasferiscono alla terra, alla terra immobile. «Le cifre parlano chiaro»: questo, il loro grido di battaglia! Ma don­de provengono quelle cifre? È presto detto: dal dubbio. Loro mettono in dubbio ogni cosa; e possiamo noi fon­dare la compagine umana sul dubbio anziché sulla fede? «Tu sei il mio Signore, ma dubito che ciò sia giusto». «Questa è la casa del mio vicino, questa è la moglie del mio vicino, ma dubito che non possano essere mie». Ed ecco, d’altro canto, l’amore di Vostra Santità per le arti fitto oggetto di frizzi ingiuriosi, come quello che si legge sui muri delle case romane: «Ciò che non fecero i barbari, fecero i Barberini»! E fuori d’Italia? Dio ha creduto di sottoporre a dure prove il Sacro Soglio. V’è gente di corte vedute che non capisce la politica condotta da Vostra Santità in Spagna, che deplora il dissidio con l’Imperatore. Da tre lustri la Germania è un banco da macello, dove ci si scanna a suon di citazioni della Bib­bia. E ora che la peste, la guerra e la Riforma hanno ri­dotto il gregge cristiano a piccoli frantumi sparuti, per tutta l’Europa corre la voce che voi, in segreta combut­ta con i luterani svedesi, vi proponete d’indebolire l’Im­peratore cattolico. E proprio adesso cotesti vermi di ma­tematici volgono i loro cannocchiali al cielo e annuncia­no al mondo che anche qui, anche in quest’unico spazio che ancora non vi si contestava, Vostra Santità si trova a mal partito. È lecito chiedersi: come mai tanto im­provviso interesse per una scienza remota come l’astro­nomia? Che importanza può avere il modo in cui quelle sfere girano? Ma in Italia, in questo paese dove tutti, fino all’ultimo degli stallieri, vanno ciarlando delle fasi di Venere sul funesto esempio di quel fiorentino, non v’è nessuno che non pensi in pari tempo anche a tutto quello che si dichiara incontestabile nelle scuole e in al­tri luoghi, e che riesce così sgradito! Che succederebbe se tutti costoro, deboli nella carne, inclini ad ogni ecces­so, tenessero per valida istanza solo la loro ragione, co­me va predicando quel forsennato? Una volta che dubitassero se il sole si sia davvero fermato in Gabaòn, i loro sporchi dubbi potrebbero estendersi anche alle questue! Da quando si avventurano sugli oceani - e a questo non vi è nulla da obiettare - tutta la loro fiducia va ad una pallina d’ottone che chiamano bussola, non più all’onni­potenza di Dio! Questo Galilei fin da giovane si occupò di macchine. Con le macchine pensano di far miracoli: ma quali? Di Dio non sentono più bisogno; ma che sortii di miracoli saranno? Per esempio, non si deve più parlare di alto e di basso: a loro non serve più. Aristotele, che per tutto il resto considerano alla stregua di una vec­chia ciabatta, ha detto (e questo lo citano): «Se la spola del telaio girasse da sola, se il plettro della cetra suonasse da sé, i maestri non avrebbero più bisogno di aiutanti, né i padroni di servi». Ed è quello che sta avverandosi, pensano. Quel malvagio sa ciò che fa, quando scrive le sue opere d’astronomia non più in latino, ma nell’idio­ma volgare delle pescivendole e dei lanaioli!

PAPA: Sì, non è stata una prova di buon gusto. Glielo dirò.

INQUISITORE: È un sobillatore, un corruttore. I porti d’Italia sempre più insistentemente chiedono, per le loro navi, le carte astronomiche del signor Galilei. Bisogne­rà acconsentire: si tratta d’interessi materiali.

PAPA: Ma quelle carte precisamente poggiano sulle sue affermazioni eretiche! Si tratta proprio dei moti di quelle stelle che, se non si ammette la sua dottrina, non posso­no esistere. Se si condanna la teoria, è impossibile accettarle per buone!

INQUISITORE: E perché no? Non si può fare altrimenti.

PAPA: Tutto questo scalpiccio mi da ai nervi. Perdonate, è più forte di me.

INQUISITORE: Possa questo scalpiccio esser più eloquente delle mie povere parole, Santità. Pensate: se tutti costoro dovessero tornarsene a casa col dubbio nel cuore!

PAPA: Ma insomma, quell’uomo è il più grande fisico dei nostri tempi, è il luminare d’Italia, non un arruffone qualunque! Ha degli amici potenti. Che diranno a Versailles? E alla Corte di Vienna? Che la Chiesa è diven­tata un ricettacolo di marci pregiudizi! Non lo toccate!

INQUISITORE: In pratica, non occorrerà andar molto lon­tano. È un uomo della carne. Capitolerà subito.

PAPA: Non ne ho mai visto un altro così capace di godi­mento. Il pensiero stesso, in lui, è una manifestazione di sensualità. Davanti a un vino vecchio come a un pen­siero nuovo, non sa dir di no. E poi, non voglio condan­ne di fatti materiali. Non voglio che si senta gridare da una parte «viva la Chiesa!» e dall’altra «viva la ragione!» Ho dato il beneplacito al suo libro, a patto che concludesse col riconoscimento che l’ultima parola non spetta alla scienza, ma alla fede. E lui ha tenuto il patto.

INQUISITORE: Sì, ma come? Nel suo libro discutono un uomo sciocco, che naturalmente sostiene le teorie di Aristotele, e un uomo intelligente che, non meno natu­ralmente, sostiene quelle del signor Galilei; e chi è dei due, Santità, che pronuncia l’ultima parola?

PAPA: Che volete ancora? Insomma, chi esprime il nostro pensiero?

INQUISITORE: Non è l’intelligente.

PAPA: Davvero? Che sfacciato! Insomma, questo scalpic­cio nei corridoi è insopportabile. Tutto il mondo è convenuto qui?

INQUISITORE: Non tutto il mondo, Santità: la sua parte migliore.

Pausa. Il Papa è ormai adorno di tutto punto.

PAPA: Al massimo al massimo, lo si porti davanti agli strumenti.

INQUISITORE: Non occorrerà altro, Santità. Galilei di strumenti, se ne intende.

XIII.

22 giugno 1633: Galileo Galilei rinnega davanti all’Inquisizione la sua dottrina della rotazione della terra. E fu un giorno di giugno, che presto passò e fu un giorno importante per me e per te.

La ragione uscì fuori dalle tenebre e tutto un giorno stette dinanzi alla porta.

Palazzo dell’ambasciata fiorentina a Roma.

I discepoli di Galileo sono in attesa di notizie. Frate Fulgenzio[11] e Federzoni[12] giocano a scacchi secondo il nuovo metodo, con grandi spostamenti dei pezzi. Virginia, inginocchiata in un angolo, recita avemarie.

FULGENZIO: Il Papa non ha voluto concedergli udienza: niente più discussioni scientifiche!

FEDRZONI: Era la sua ultima speranza... Glielo aveva ben detto, tanti anni fa, a Roma, quando era ancora il Car­dinale Barberini: tu ci sei necessario! Adesso lo hanno, e se lo tengono stretto.

ANDREA: Lo uccideranno. Non terminerà i «Discorsi del­le nuove scienze».

FEDRZONI: (lanciandogli un’occhiata di straforo) Lo cre­di davvero?

ANDREA: Non abiurerà mai.

Pausa.

FULGENZIO: Quando la notte non si riesce a dormire, suc­cede che il cervello continua a mulinare dei pensieri sen­za importanza. Stanotte, per esempio, non ho fatto che pensare: non avrebbe mai dovuto lasciare la Repubbli­ca Veneta.

ANDREA: Ma là non poteva scrivere il suo libro.

FEDRZONI: E a Firenze non poteva pubblicarlo.

Pausa

FULGENZIO: E pensavo anche: se almeno gli permettesse­ro di tenere con sé il suo sassolino, il «richiamo alla ra­gione», quello che porta sempre in tasca!

FEDRZONI: Eh! Di tasche, là dentro, non se ne parla.

ANDREA: (con un grido) No, non oseranno farlo! E anche se glielo faranno, lui non abiurerà. «Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente!»

FEDRZONI: Non lo credo neanch’io, e preferirei non vi­vere più, se lui abiurasse. Ma quelli hanno la forza.

ANDREA: La forza non può tutto.

FEDRZONI: Forse.

FULGENZIO: (sottovoce) Da ventitre giorni è carcerato. Ie­ri c’è stato il grande interrogatorio. E oggi c’è il consiglio.

(Avvedendosi che Andrea lo sta ascoltando, alza la voce) Quando venni qua a trovarlo, due giorni dopo il decreto, eravamo seduti li fuori, ed egli mi mostrò il piccolo Priapo presso la meridiana del giardino - lo ve­dete là? - e paragonò la sua opera ad una poesia di Orazio, perché anche in essa non c’era nulla da cambiare. Mi parlò del suo senso della bellezza, che lo spingeva alla ricerca della verità. E mi citò il motto: «Hieme et aestate, et prope et procul, usque dum vivam et ultra[13]»: e pensava alla verità.

ANDREA: (a Fulgenzio) Gli hai detto che aria di sfida aveva al Collegio Romano, mentre quelli esaminavano il suo cannocchiale? (Fulgenzio scuote il capo). Si comportava come se nulla fosse. Si teneva le mani sul didietro, sporgeva in fuori la pancia e ripeteva: «Vi prego, signori, ragionate un poco!»

(Ridendo, imita Galileo).

Pausa.

ANDREA: (alludendo a Virginia) Prega perché abiuri.

FEDRZONI: Lasciala stare. Da quando quelli là l’han fatta parlare, non sa più dove ha la testa e dove i piedi.

Entra l’individuo losco di Palazzo Medici.

INDIVIDUO: Il signor Galilei sarà qui tra poco. Forse avrà bisogno di un letto.

FEDRZONI: Lo hanno rilasciato?

INDIVIDUO: È previsto che il signor Galilei abiuri alle cin­que, in una seduta dell’Inquisizione. Nello stesso istan­te suonerà la grande campana di San Marco e verrà gri­llato in pubblico il testo dell’abiura.

ANDREA: Non ci credo.

INDIVIDO: Il signor Galilei sarà portato qui, all’uscita del giardino dietro il palazzo, per evitare assembramenti nelle strade. (Via).

Pausa.

ANDREA: (improvvisamente, a voce alta) La luna è una terra ed è priva di luce propria. E Venere pure è priva di luce propria ed è simile alla terra e si muove intorno al sole. E quattro lune girano intorno al pianeta Giove, che si trova all’altezza delle stelle fisse e non è fissato su una calotta. E il sole è il centro del mondo e sta immo­bile nel suo luogo, e la terra non è il centro e non è immobile. E tutto questo, egli ce lo ha mostrato.

FULGENZIO: E la forza non può fare che un uomo non veda ciò che ha visto.

Silenzio.

FEDRZONI: Sono le cinque. Virginia prega più forte. Non riesco più a star fermo, no! Stanno uccidendo la verità. (Si tappa gli orecchi con le dita. Frate Fulgenzio lo imita).

Ma la campana non suona. Dopo una pausa, riempita dal mormorio delle preghiere di Virginia, Federzoni scuote la testa, in legno di diniego. Gli altri due abbassano le mani.

FEDRZONI: (rauco) Niente! Le cinque e tre minuti.

ANDREA: Non cede.

FULGENZIO: Non abiura

FEDRZONI: No. Dio sia lodato!

Si abbracciano, deliranti di gioia.

ANDREA: Dunque, la forza non basta! Non può arrivare dove vuole! Dunque, la stupidità è vinta e non invinci­bile! E l’uomo non teme la morte!

FEDRZONI: Oggi ha davvero inizio l’era della scienza: questo è il momento della sua nascita. Pensa, se avesse abiurato!

FULGENZIO: Io non parlavo, ma ero all’agonia. O uomo di poca fede!

ANDREA: Io invece lo sapevo.

FEDRZONI: Sarebbe stato come se dall’aurora fossimo ripiombati nella notte.

ANDREA: Come se la montagna avesse detto: io sono acqua.

FULGENZIO: (s’inginocchia piangendo) Dio, ti ringrazio!

ANDREA: Ma oggi è tutto cambiato! L’umanità umiliata solleva la testa e dice: finalmente posso vivere! Questo è quel che si ottiene, quando un uomo si alza in piedi e dice di no!

In questo istante si odono i rintocchi della campana di San Marco, Tutti restano impietriti.

VIRGINIA: (balzando in piedi) La campana di San Marco! Non è dannato!

Dalla via si ode un banditore leggere l’abiura di Galileo.

VOCE DEL BANDITORE: «Io, Galileo Galilei, lettore di matematiche nell’Università di Firenze, pubblicamente abiuro la mia dottrina che il sole è il centro del mondo e non si muove, e che la terra non è il centro del mondo e si muove. Con cuor sincero e fede non finta abiuro, ma­ledico e detesto i suddetti errori ed eresie, e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa».

La scena si oscura. Quando torna la luce, si odono ancora i rintocchi della campana, che però cessano subito. Virginia è uscita; i tre discepoli di Galileo sono sempre in scena.

FEDRZONI: Non t’ha mai pagato decentemente per il tuo lavoro! Non sei mai riuscito a pubblicare un libro tuo, e neanche a comprarti un paio di calzoni. Ecco il bel guadagno che hai fatto a «lavorare per la scienza»!

ANDREA: (forte) Sventurata la terra che non ha eroi!

Galileo è entrato. Il processo lo ha trasformato radicalmente, fin quasi a renderlo irriconoscibile. Ha udito le parole di Andrea. Per alcuni istanti si ferma sulla soglia, aspettando un saluto. Ma poiché nessuno lo saluta, anzi i discepoli si allontanano da lui, egli avanza lentamente, col passo incerto di chi ci vede male, fino al proscenio; qui trova uno sgabello e si siede.

ANDREA: Non posso guardarlo. Fatelo andar via.

FEDRZONI: Sta’ calmo.

ANDREA: (grida a Galileo) Otre da vino! Mangialumache! Ti sei salvata la pellaccia, eh? (Si siede) Mi sento male.

GALILEO: (calmo) Dategli un bicchier d’acqua.

Frate Fulgenzio: esce e rientra portando un bicchier d’acqua ad Andrea. Nessuno mostra di accorgersi della presenza di Galileo, che siede in silenzio, nell’atto di ascoltare. Giunge di nuovo, da più lontano, il grido del banditore.

ANDREA: Adesso riesco a camminare, se mi aiutate un po’.

Gli altri due lo sorreggono fino all’uscita. In questo momento Galileo incomincia a parlare.

GALILEO: No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.

RAGAZZO: (legge davanti al sipario) «Chi non vede come un cavallo cadendo da una altezza di tre braccia o quat­tro si romperà l’ossa, ma un cane da una tale e un gatto da una di otto o dieci, non si farà mal nissuno, come né un grillo da una torre, né una formica precipitandosi dall’orbe lunare? La natura non potrebbe fare un caval­lo grande per venti cavalli, né un gigante dieci volte più alto di un uomo, se non o miracolosamente o con l’alte­rar assai le proporzioni delle membra e in particolare dell’ossa, ingrossandole molto e molto sopra la simme­tria dell’ossa comuni. Il creder parimente che nelle mac­chine artifiziali egualmente siano fattibili e conservabili le grandissime e le piccole, è errore manifesto ».

Alla base della rottura coi modi e le forme della tradizione culturale, esiste una crisi conoscitiva ben più profonda che ebbe i suoi contraccolpi in tutti i settori della cultura.

Le scoperte di Copernico, e, sulla sua scia, di Galilei e successivamente di Newton, avevano ribaltato la visione che l’uomo aveva di se stesso, della Terra e dell’Universo. La constatazione che la Terra non stava ferma al centro del sistema solare, ma con gli altri pianeti ruotava nello spa­zio intorno al sole, non era stata solo una scoperta astronomica; essa aveva rappresentato il crollo di antiche certezze, e soprattutto della certezza fondamentale che la scien­za e la tradizione del passato garantivano all’uomo: di essere il centro e il perno dell’Universo.

Nulla appariva ormai più fermo e sicuro e tutto era messo o poteva essere messo in di­scussione: la realtà stessa appariva diversa se guardata da angolature differenti. Ne consegui­va per gli uomini del tempo, stupiti e sconcertati, un senso diffuso di inquietudine e di instabilità.

L’arte, che esprime il senso che l’umanità ha della propria epoca, tradusse tale inquieta visione non più attraverso le forme salde, armoniche ed esatte dell’arte rinascimentale e trovò nuovi modi espressivi che cercassero di espri­mere i nuovi rapporti che si stabilivano fra le cose e le nuove prospettive intraviste. Di qui, in letteratura, al discorso disteso, organico, razionalmente costrui­to, si sostituì la ricerca dell’immagine fantasiosa, spesso bizzarra, che suggeriva nuove di­mensioni della realtà, intuite se anche non logicamente chiarite.

I tempi dell’Illuminismo erano ormai maturi, e con l’Illuminismo, quelli del Romanticismo, che con una maggiore consapevolezza avrebbero scardinato il mondo vecchio decretando la fine della civiltà medievale.



[1] Angeli e demoni - La vicenda, che propone un intreccio di mistero, religione, arte ed esoterismo, ruota attorno a un complotto ordito contro il Vaticano da una setta segreta che, secondo il racconto di Brown, fu fondata all'epoca della Controriforma da alcuni scienziati intenzionati a difendere la libertà e l'autonomia della scienza di fronte alla religione. Perseguitati dalla Chiesa, infiltratisi tra le logge massoniche e insediatisi in ruoli di massimo rilievo politico ed economico, gli Illuminati, fecero successivamente perdere le loro tracce fino a sparire. Tutti li credono ormai estinti fino a quando, alla vigilia delle elezioni papali, giunge una sconvolgente minaccia: gli Illuminati sono tornati per compiere la loro missione e distruggere definitivamente la Chiesa. Hanno sottratto dai laboratori segreti del CERN un campione di antimateria dal potere distruttivo maggiore di una bomba atomica, programmato per esplodere nei sotterranei della Città del Vaticano. Ma non è tutto: hanno rapito quattro importanti prelati che vogliono assassinare pubblicamente in diversi luoghi di Roma, dopo averli marchiati a fuoco con i simboli degli elementi mistici della scienza: terra, aria, fuoco e acqua.

Langdon è contattato in qualità di esperto per scoprire le mosse dei congiurati. Tra i segretissimi documenti conservati nell'archivio Vaticano il professore americano scopre l'esistenza di un Cammino esoterico degli Illuminati, noto a Galileo e a Borromini, due tra i primi adepti dell'ordine, e si lancia in un'appassionante corsa contro il tempo tra le piazze e le chiese della Roma barocca, aiutato dalla giovane e affascinante figlia adottiva del creatore dell'antimateria. In un turbinio di inseguimenti, rivelazioni e colpi di scena, tutti i segreti della setta millenaria saranno svelati fino alla resa dei conti finale.

[2] Dan Brown – Autore di romanzi thriller Dan Brown è conosciuto soprattutto per la sua quarta opera "Il Codice Da Vinci": i numeri delle vendite, oltre 82 milioni sono le copie vendute nel mondo, fanno di questo libro uno dei più grandi fenomeni editoriali di sempre.

Nato a Exeter, nel sud del New Hampshire, il 22 giugno 1964, Dan Brown dopo i suoi studi all'Amherst College e la laurea conseguita presso la Phillips Exeter Academy si trasferisce in California per tentare la carriera di pianista. Torna però nel New Hampshire nel 1993 e diventa docente universitario di inglese nella sua vecchia scuola, la Phillips Exeter, dove anche il padre insegnava, continuando nel frattempo ad approfondire i suoi studi di storico dell'arte.

Dal 1996 si dedica a tempo pieno alla scrittura: da sempre appassionato di codici segreti, i suoi interessi su questo tema e la sua passione per lo spionaggio in ambito governativo lo portano a scrivere il suo primo romanzo "Crypto" del 1998.

Figlio di un professore di matematica e di una professionista musicista esecutrice di musica sacra, Dan Brown è cresciuto circondato dai paradossi filosofici che scienza e religione da sempre includono. Queste prospettive, in qualche modo complementari, sono servite allo scrittore come fonte di ispirazione per il suo secondo romanzo "Angels and Demons" (2000). La storia vede contrapposti scienza e religione, un laboratorio fisico svizzero e la Città del Vaticano: chiamato a sbrogliare l'intricata matassa che si crea è Robert Langdon, professore di iconografia e arte religiosa, ad Harvard.

Dan Brown ha per il futuro in serbo una lunga serie di thriller che affronteranno il tema della simbologia, e che avranno tutti per protagonista Robert Langdon.

Nel 2001, esce il suo terzo lavoro "La verità del ghiaccio".

"Angels and Demons" è sicuramente il romanzo che ha fatto conoscere Dan Brown al grande pubblico americano, ma è con "Il Codice Da Vinci" che l'autore si è imposto a livello mondiale. Il libro è uscito per la prima volta negli USA nel mese di marzo 2003.

Dan Brown vive nel New England, è sposato con Blythe, pittrice e studiosa di storia dell'arte, che collabora al fianco del marito per le sue ricerche iconografiche e storiche, e lo accompagna spesso nei suoi viaggi di ricerca e approfondimento.

Robert Langdon torna nel maggio del 2009 nelle pagine del nuovo lavoro di Dan Brown, dal titolo "Il simbolo perduto" in cui è affrontato il tema della massoneria.

[3] Lettere copernicane - Le Lettere Copernicane sono il risultato di una corrispondenza epistolare "privata", dietro la quale invece si celava la volontà di diffonderle pubblicamente, avviata per difendersi dalle accuse di eresia. In queste lettere Galilei, infatti, espone la sua posizione in merito al problema sollevato dalla teoria eliocentrica di Copernico riguardo al difficile rapporto tra scienza e fede. Le lettere scritte da Galilei sono quattro: la prima risale al 1613, è indirizzata a Benedetto Castelli, frate e discepolo di Galileo ed affronta il problema della diversità tra il linguaggio scientifico e quello biblico; la seconda e la terza lettera risalgono al 1615 e sono indirizzate allo stesso destinatario, Monsignor Dini con il quale Galileo affronta esplicitamente le teorie di Copernico; l'ultima lettera è sempre del 1615 ed è quella più importante. In questa lettera, diretta a Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana, Galileo sembra polemizzare più esplicitamente sulle dichiarazioni della Chiesa ed è quasi come se scrivendo stesse impartendo agli ecclesiastici una lezione di esegesi biblica.

Queste lettere portarono dunque al risultato meno sperato da Galileo che da allora entrò nel mirino del Santo Uffizio.

[4] Vita di Galileo – Galileo scopre che la terra non è al centro dell'universo, ma solo un pianeta tra molti altri che girano intorno al sole. Non è il primo a dirlo, ma, con l'aiuto del telescopio, è il primo a poterlo provare. Con questo si mette, però contro la chiesa che non vuole tollerare le nuove idee. La Bibbia dice che il sole gira intorno alla terra e la Bibbia non può avere torto. Davanti alla scelta, o ritrattare o subire le torture e il rogo della Santa Inquisizione, ritratta. Ma con il suo libro che scrive di segreto e con i suoi allievi che vanno all'estero sopravvivono le sue idee. Nel momento in cui Galileo smentisce le proprie idee per paura delle torture, un suo allievo deluso esclama: "Disgraziato il paese che non ha eroi!", mentre Galileo risponde: "Felice il paese, che non ha bisogno di eroi!"

Brecht non ama l'eroismo, preferisce la furbizia. Galileo è consapevole del fatto di avere una sola vita e vuole godersela, ma allo stesso tempo non vuole, a nessun costo, rinunciare alla verità. "Meglio avere le mani sporche che non le mani vuote" fa dire in un altro memento a uno dei protagonisti dell'opera. É un’opera coinvolgente e convincente, un'opera sulla responsabilità e sul destino della scienza che anche oggi non ha perso niente in attualità.

Brecht rielaborò, in tre distinte riprese, fino a pochi mesi dalla morte, questo dramma, che egli considerava centrale nella sua produzione. Ed ancor oggi l'opera è considerata il 'testamento spirituale' di Brecht, sia sul piano drammaturgico sia su quello morale, per il ritratto fortemente chiaroscurato e volutamente contraddittorio del grande scienziato pisano, la cui indefessa ricerca della verità si trasforma a poco a poco in una sorta di vizio, di personale, quasi narcisistica 'incontinenza' intellettuale.

[5] Bertolt Brecht - Bertolt Brecht (1898- 1956) è il principale drammaturgo tedesco del Novecento. Nato nel 1898 ad Augsburg (Augusta - Baviera) scoprì presto il suo amore per il teatro. Il suo esordio in teatro era fortemente influenzato dall'Espressionismo, ma presto aderì allo schieramento marxista e sviluppò la teoria del "teatro epico" secondo cui lo spettatore non doveva immedesimarsi, ma era invitato a tenere una distanza critica per riflettere su quello che si vedeva in scena. Canzoni, elementi parodistici e una sceneggiatura molto ben studiata dovevano creare un effetto di straniamento, un distacco critico. Lo spettatore doveva imparare qualcosa. Il teatro di Brecht offre una grande varietà di storie e casi umani, oppure rivisitazioni di drammi storici che ancora oggi sanno incantare il pubblico per la loro arguzia, modernità e impostazione scenica.

Nel 1933 dovette emigrare in America, raggiunta via Danimarca e Mosca (dove si guardò bene a restare). Quando tornò in Germania, nel 1949, fondò a Berlino Est un proprio teatro, il "Berliner Ensemble", dove cercò di realizzare le sue idee, facendo diventare questo teatro uno dei più affermati in Germania. Nonostante le sue convinzioni marxiste era spesso in contrasto con le autorità della Germania dell'est. Morì nel 1956 a Berlino.

Le sue opere più importanti: 1922: Tamburi nella notte; 1928: L'Opera da tre soldi; 1929: Ascesa e caduta della città di Mahagonny; 1930: Santa Giovanna dei macelli; 1932: La madre; 1934: Poesie di Svendborg; 1939: Madre Coraggio e i suoi figli; 1938-40: L'anima buona di Sezuan; 1938-43: Vita di Galileo; 1941: La resistibile ascesa di Arturo Ui; 1944-45: Il cerchio di gesso nel Caucaso; 1949: Storie da calendario

[6] Virginia Galilei – Virginia nacque dalla relazione di Galilei con una donna veneziana, Marina Gamba e fu portata a Firenze dalla madre di Galileo, Giulia Ammannati.

Galileo la raggiunse più tardi, nel 1610, quando si trasferì a Firenze come "matematico del Granduca": non potendo o non volendo prendersi direttamente cura delle due figlie, Galileo ottenne nel 1613, grazie all'interessamento del Cardinale Francesco Maria Del Monte, che Virginia fosse accolta nel Convento delle Clarisse di San Matteo in Arcetri, dove il 4 ottobre 1616, appena sedicenne, prese i voti come monaca di clausura con il nome di suor Maria Celeste dove condusse tutta la sua breve esistenza.

Fino al 1632 Galileo viveva nella “Villa Il Gioiello” ad Arcetri, dunque vicinissimo alle figlie. Il convento era poverissimo, le monache avevano a malapena di che sfamarsi, lo spazio stesso era ristrettissimo: ma tutto questo non intaccò mai la serenità e la fede con cui Virginia visse la propria esistenza, né il profondo affetto verso il padre.

Alla figlia primogenita Galileo restò estremamente legato fino alla morte della giovane, avvenuta nel 1634.

Di Virginia rimangono 124 lettere scritte al padre la prima è del 1623, l'ultima del dicembre 1633, quando Galileo rientrò da Siena per scontare gli arresti domiciliari inflittigli dal Sant'Uffizio al termine del noto processo.

Di contro, non ci è pervenuta nessuna lettera scritta da Galileo alla figlia, probabilmente perché, alla sua morte, le lettere furono distrutte perché erano pur sempre di un sospettato di eresia.

[7] Ludovico Marsili – un giovane di ricca famiglia olandese, discepolo dello scienziato, cui impartì lezioni private di matematica. Marsili si fidanzò con Virginia, figlia di Galilei, e poi la lasciò per “incomprensioni” con il padre di lei.

[8] Roberto Bellarmino – Nato a Montepulciano il 4 ottobre 1542 da una ricca e numerosa famiglia, Roberto Bellarmino era nipote di papa Marcello II.

Nel 1560 entrò nella Compagnia di Gesù e studiò prima nel Collegio Romano, quindi all'Università di Padova e infine a Lovanio, in Belgio. Al compimento degli studi teologici sostenne la difesa della propria tesi per ben tre giorni consecutivi.

Nel 1576 divenne primo titolare della cattedra di apologetica dell'ortodossia cattolica all'Università Gregoriana, istruendo in particolare gli studenti inglesi e tedeschi che in patria avrebbero dovuto combattere le dottrine protestanti.

Creato cardinale e arcivescovo di Capua nel 1599, probabilmente per tenerlo lontano da Roma in un momento di particolari controversie, alla morte di Clemente VIII poté tornare a Roma, dove esercitò un grande influsso come teologo ufficiale della Chiesa. Dopo aver colmato un intero scaffale di opere teologiche, esegetiche, pastorali e ascetiche, scrisse "L'arte del ben morire", su come congedarsi dalla vita con serenità e distacco: e a Roma morì, quasi ottantenne, il 17 settembre 1621.

Roberto Bellarmino fu un illuminato gesuita dei lati umanissimi, forte di una vasta erudizione e di una vigorosa dialettica. Sincero amico e ammiratore di Galileo, lo esortò alla prudenza e "a contentarsi di parlare per supposizione e non assolutamente".

Nel 1616 fu proprio Bellarmino a notificare personalmente a Galileo il decreto del Tribunale dell'Inquisizione che gli proibiva di sostenere come vera l'ipotesi copernicana.

[9] Maffeo Barberini – Nato a Firenze nel 1568, Maffeo Barberini frequentò a Roma il Collegio Romano, dove completò gli studi umanistici e di diritto. Laureatosi in diritto a Pisa grazie a uno zio Protonotario apostolico, fin da subito ottenne l’ufficio di Abbreviatore di cancelleria, al quale seguì l’incarico di Referendario di giustizia e grazia.

Nel 1604 già Governatore di Fano, Protonotario Apostolico e Arcivescovo di Nazareth, divenne anche Nunzio a Parigi.

Nel 1606, creato cardinale da Paolo V Farnese, fu protettore di Scozia e poi Arcivescovo di Spoleto.

Nel 1610 divenne Prefetto della Segnatura Apostolica di giustizia e, tra il 1611 e il 1614, Legato pontificio a Bologna.

Alla morte di Gregorio XV Ludovisi, il 6 agosto 1623, fu eletto papa.

Strenuo sostenitore del potere temporale del papato, nei venti anni del suo pontificato tentò di rafforzare l’autorità della Santa Sede in tutta l’Europa. Nella delicata fase della Guerra dei Trent’anni (1618-1648) riuscì a tener fuori dal conflitto i territori italiani e ad annettere definitivamente il ducato di Urbino allo Stato Pontificio nel 1631.

Nel 1624, con la bolla “Omnes Gentes plaudite manibus” del 29 aprile, indisse il XIII Giubileo.

Nel 1627, con la bolla “Immortalis Dei Filius”, eresse il “Collegio de Propaganda Fide” per favorire l’attività missionaria specialmente in Asia e in Africa.

Sotto il suo pontificato si svolse la definitiva condanna di Galileo, con l’abiura del 22 giugno 1633 seguita a diverse settimane di prigionia e ad un processo. Si concretizzò il primo atto ufficiale contro il Giansenismo con la bolla “In eminenti”.

Nel 1641, L’Augustinus di Giansenio era stato inserito nell’indice dei testi proibiti.

Tra il 1641 e il 1644 portò avanti la guerra contro Odoardo Farnese per il ducato di Castro che si risolse in una completa disfatta dei Barberini; la guerra determinò molto risentimento tra i sudditi, sia per le somme spese che per i tributi imposti.

Ultimo papa a praticare una sfrenata politica nepotista, arricchì enormemente i membri della famiglia tanto che “si è voluto calcolare che (…) abbiano ricevuto l’incredibile somma di 105 milioni di scudi” (L.V.Ranke); l’ammontare del patrimonio fu oggetto di una inchiesta e di un processo intentato dal pontefice Innocenzo X Pamphilj.

Maffeo Barberini è però ricordato anche quale uomo di profonda cultura e grande mecenate.

Già da cardinale fu tra gli esponenti di spicco del circolo di eruditi e collezionisti raccolti intorno a Marcello Sacchetti; nel raffinato gruppo di letterati e intellettuali che si scambiavano informazioni scientifiche, modelli antichi e copie di reperti archeologici, si annoveravano personalità quali, tra gli altri, Cassiano Dal Pozzo, Scipione Borghese e il marchese Vincenzo Giustiniani.

Inoltre, come tanti intellettuali del tempo Maffeo fu anche poeta e compositore di una ragguardevole raccolta di poemi.

Ai grandi artisti del Seicento - Bernini, Borromini e Pietro da Cortona - Barberini affidò le commissioni più importanti. Con loro il Barocco, massima espressione del trionfo della Chiesa sulla crisi avviata dalla riforma protestante, si affermò come stile della teatralità, dello stupore e della meraviglia, e Roma acquistò il carattere di capitale della cultura cattolica con grande concorso di artisti italiani e stranieri.

L’articolato programma artistico e culturale si concretizzò emblematicamente nel soffitto di Palazzo Barberini con l’apoteosi di Urbano VIII, dipinta da Pietro da Cortona: l’iconografia dell’affresco riconduce quindi alle virtù del papa e della sua famiglia che hanno elargito prosperità e pace ai popoli col prevalere della ragione sulla forza.

Urbano VIII Barberini morì a Roma il 29 luglio del 1644.

[10] Cosimo II dei Medici – Cosimo II, figlio primogenito di Feridnando I (1549-1609), ereditò il Granducato a diciannove anni e subì nei primi anni di governo l'influenza della madre Cristina di Lorena (1565-1636).

L'anno prima della morte del padre si era sposato con la sorella dell'Imperatore, Maria Maddalena d'Austria (1589-1631), da cui ebbe otto figli. Il Granduca fu cagionevole di salute, e pur desiderando proseguire nelle linee politiche dettate da Ferdinando I, non ne ebbe la forza. Sotto di lui ad esempio venne chiuso il famoso "banco de' Medici" che aveva filiali in tutto il mondo e il commercio, praticato con successo dal padre, subì un'irrecuperabile battuta d'arresto.

In politica estera si adoperò per la conservazione della pace mantenendosi in equilibrio tra Spagna e Francia. In politica interna, scelse di potenziare il porto di Livorno, completando la costruzione del molo che delimitava il bacino e realizzando un canale navigabile fino a Pisa.

Discepolo di Galileo negli anni dell'adolescenza, fu a lui legato da sincero affetto e grande stima, come dimostra una lettera autografa del 1606 in cui, dopo aver lodato le sue doti di insegnante, così conclude: "io son tutto di V.S. S.r Galileo Galilei. Al piacer suo Don Cosimo Principe di Toscana".

Da parte sua Galileo vide in Cosimo colui che avrebbe potuto favorire un suo ritorno in patria e ne ebbe molto riguardo fin dalla giovinezza. Nel 1606 dedicò a lui, ancora principe e suo allievo, “Le operazioni del compasso geometrico et militare”.

Nel 1609, dopo una lunga trattativa col Segretario di Stato Belisario Vinta, che lo sconsigliò di chiamare i satelliti di Giove da lui scoperti "Cosmici", in onore del neo Granduca, li battezzò Pianeti Medicei, dedicando comunque a Cosimo II il “Sidereus nuncius” del 1610, col quale ne trasmetteva notizia al mondo.

L'anno precedente Galileo aveva già tentato, ancora vivo Ferdinando I, di omaggiare il futuro erede con un'idea tratta dalle proprie esperienze sulle calamite, che tanto appassionavano anche padre e figlio Medici. Fu proprio il magnete a suggerirgli, in occasione del matrimonio di Cosimo II, l'immagine per un'impresa che potesse rendere ragione delle caratteristiche del futuro Granduca e suo ex allievo.

Cosimo II conferì a Galileo il titolo di Primario matematico e filosofo del Granduca e gli consentì il rientro in patria con un stipendio di mille fiorini. Lo protesse e lo favorì in ogni modo, incentrando su di lui la nuova politica culturale medicea in campo scientifico. In occasione dei due viaggi che portarono Galileo a Roma nel 1611 e nel 1616 per sostenere le proprie posizioni e per difendersi dalle accuse mossegli in occasione del primo processo, il Granduca fece in modo che venisse accolto dall'ambasciatore fiorentino e lo fece accompagnare da lettere commendatizie volte a preparargli un terreno favorevole.

Cosimo II morì a trent'anni lasciando il Granducato al figlio Ferdinando II, di soli dieci anni, e il potere effettivo in mano a una reggenza guidata dalla madre, Cristina di Lorena e dalla moglie, Maria Maddalena d'Austria.

[11] Fulgenzio – Indimenticabile è la figura patetica di frate Fulgenzio, studioso di fisica che sa che Galileo ha ragione e che ha torto il Sant'Uffizio il quale ha condannato lo scienziato, ma cerca lo stesso di convincersi che il decreto è saggio. Questo è un passaggio cruciale. Come farebbe la parte più infelice dell'umanità a sopportare la sua condizione, se venisse a sapere che la terra su cui vivono non è che un'inezia che "gira intorno ad un astro" fra i tanti che si trovano nello spazio?

Frate Fulgenzio vuole che si taccia la verità in nome di una fede astratta e Galileo urla il suo no e proclama la forza della ragione sulla superstizione che tiene nell'ignoranza migliaia di persone.

[12] Federzoni – occhialaio aiutante di Galilei.

[13] In inverno ed in estate, lontano e vicino, fin quando vivrò e anche dopo

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