Con L’isola dell’angelo caduto Carlo Lucarelli, orchestrando un giallo dalle tinte fosche, ricco di tanti riferimenti storici, e scegliendo le migliori parole per descrivere le infinite emozioni che i protagonisti del suo romanzo provano, prosegue il filone di romanzi di ambientazione storica già sperimentato con successo e raggiunge la perfezione stilistica dei contenuti, del giallo, della rilevanza storica.
La vicenda è ambientata durante il ventennio fascista, quando, nel gennaio del 1925, appena annunciata la responsabilità del delitto Matteotti, un giovane Commissario è spedito a rappresentare lo Stato su una su una sperduta piccola ed imprecisata isola siciliana, la Cajenna – originariamente chiamata Capo dell’Angelo Caduto per una leggenda che voleva la caduta sull’isola di uno degli angeli ribelli – una lingua di terra sperduta in mezzo il mare, dimenticata da dio, popolata dalla pazzia, dall’emarginazione, dalla perversione dei suoi abitanti che, oltre ad ospitare una piccola comunità di pescatori e pastori, è utilizzata dal regime Fascista come Colonia Penale per prigionieri politici. Qui, delinquenti comuni e prigionieri politici, oppositori del regime, vivono lontani dalla società, sottostando a ferree regole che proibiscono loro qualunque rapporto con l’esterno. Ma alla Cajenna, costretti ad un esilio forzato dettato dalla propria professione, vivono anche personaggi che con la guerra al Fascismo c’entrano ben poco.
Come in altre opere, il protagonista de L’isola dell’angelo caduto, un commissario di polizia alle prese con una moglie esaurita e depressa, il cui unico desiderio è costituito dalla decisa volontà di lasciare l'isola in cui il marito è relegato per avere arrestato alcuni squadristi ubriachi: all'apparenza il commissario, privo di passione per il proprio lavoro, è un uomo ormai disilluso, né fascista, né antifascista è solo un uomo stanco.
Il ricordo del suo arrivo sull’Isola dell’angelo caduto, con la moglie Hana che si tiene stretta a lui sulla lancia che solca le acque tra il continente e la Cajenna, mentre spera con tutte le sue forze che quanto prima ritornino a casa, è una ferita sempre aperta nell’animo del Commissario.
Sua moglie ha lentamente perso la ragione, affranta dalla solitudine e dall’atmosfera surreale, quasi diabolica dell’isola, dove il vento non smette mai di soffiare ed il cielo è perennemente ricoperto dalle nubi in cui i personaggi stessi del romanzo subiscono inermi le ambigue influenze dell'isola, ed il Commissario si ritrova a vivere da solo un’esistenza piena di incognite.
Ma qualcosa cambia rapidamente sull’isola, quando è trovato morto un miliziano donnaiolo del temibile Mazzarino, capomanipolo della Milizia e responsabile del carcere. Il Commissario si ritrova, suo malgrado, a condurre un’indagine che la milizia fascista, vuole frettolosamente chiudere, cercando di far passare il tutto come un doloroso incidente.
Grazie all’aiuto del confinato Valenza, esimio medico nella sua vita da civile, il Commissario scopre strani indizi che aprono scenari inquietanti su quello che si presenta sempre più come un atroce delitto.
Nell’isola, notoriamente tranquilla, sono commessi altri due omicidi in rapida successione, un informatore della polizia e l'ispettore postale, responsabile degli unici contatti tra l'isola e la terraferma, dando vita a sospetti e a storie parallele che costringono il Commissario a seguire l’ammonimento del padre che continua a rimbombargli nella testa: “Ricorda, figlio mio, ricorda: il senso dello Stato”.
In realtà il Commissario è spinto a risolvere il caso, più che dal suo senso di giustizia, da un telegramma che apre le porte ad un suo possibile ritorno in continente. Questa eventualità però, non gli fa perdere la voglia di arrivare fino in fondo all’intricata storia. Finalmente la possibilità di ritornare ad una vita normale che gioverà anche alla sua amata Hana, perché egli è convinto che una volta abbandonata la Cajenna, sua moglie tornerà ad essere la donna amabile di sempre.
Mentre l’ascesa al potere di Benito Mussolini è sempre più inarrestabile, il Commissario cerca con tutte le sue forze di sbrogliare l’intricata matassa, sapendo di non potersi fidare di nessuno, se non di Valenza, e di doversi guardare molto bene le spalle dal pericoloso Mazzarino che, coadiuvato dal federale, cerca di far passare le tre morti come suicidi.
Con l'aiuto di Valenza il commissario riesce ad uscire da un intricato groviglio in cui si mescolano possibili diverse motivazioni: il delitto passionale, quello a sfondo politico, l'opera di un folle o dello straniero presente sull'isola.
Rispetto alla produzione precedente, L’isola dell’angelo caduto è particolarmente apprezzabile per l'originalità della trama e dell'ambientazione e soprattutto per lo stile un po’ visionario di Lucarelli. Lo scrittore arricchisce il contesto in cui si svolge la vicenda attraverso una colonna sonora: il tema che accompagna tutto il romanzo è rappresentato dalla celebre canzone Ludovico, che Hana, la moglie del commissario, è, infatti, ossessionata dal brano, che ascolta ripetutamente sul vecchio grammofono durante le sue solitarie giornate di pazzia. La canzone, come egli stesso scrive, è successiva alle vicende raccontate, in quanto scritta nel 1931, ma questa non è l'unica licenza che lo scrittore si prende, infatti, l'uso del confino da parte del regime è storicamente collocato alcuni anni dopo rispetto a quelli narrati dallo scrittore. Si tratta dunque di un'interessante operazione letteraria che dà luogo ad una marcata separazione tra mondo reale e mondo fantastico, perseguita volutamente dall'autore nella non precisazione geografica dell'isola.
Ma la vera colonna sonora del romanzo è il vento con i suoi innumerevoli effetti sonori causati dal suo incessante soffiare sull'isola. Una presenza fisica, spesso fastidiosa, di volta in volta sospiro tiepido e leggero, scarica di raffiche nere, seducente, insistente, diabolico. Una presenza in grado di generare una serie innumerevoli voci di strumenti musicali: violini, trombe, tube, tromboni, grancasse, tamburi e flauti. Le pagine in cui Lucarelli descrive i venti dell'isola sono tra le più belle del libro: «...Ci sono certi venti che si possono chiamare gentili. Sono quelli che soffiano piano ma soprattutto sono quelli caldi. Si avvicinano con un sospiro tiepido e leggero, come il respiro di un amante timido che sussurri prima di appoggiare le labbra alla pelle. Sono le brezze di mare e di monte, il ponente quando l'aria è dolce e il levante, che se è bagnato di pioggia in arrivo è come un secondo bacio, più intenso e umido di saliva.
Sul Molo Vecchio i venti gentili suonavano piano, scivolavano tra le arcate e le lamine di copertura stendendo un mormorio sottile e sommesso come un fondo di archi, da cui si staccava ogni tanto un violino più agile o il tocco più acuto di un triangolo.
[...]
Ci sono poi certi venti che si possono chiamare arroganti. Sono quelli che arrivano all'improvviso, senza pudore, e spingono, scostano con durezza, come se veramente il loro soffio non fosse solo aria in movimento ma un corpo fisico, fatto di materia che ha bisogno di spazio e lo vuole in fretta. Sono venti ruvidi, che non hanno tempo, gonfi e pesanti come mani appoggiate sul petto a spingere lontano, per farsi strada, e si chiamano maestro o maestrale, bora e tramontana. Più cattivo il libeccio, che prima di arrivare si annuncia con una scarica di raffiche nere, sprezzanti come una risata.
Più che dal colore o dal loro effetto sul mare o sul suo corpo, l'ufficiale postale li riconosceva dalla voce. Sulla pelle se li era sentiti soltanto le rare volte che usciva dal faro, mai negli ultimi tempi, e vederli scompigliare le onde gli era quasi impossibile, avvolto com'era da quella nebbia biancastra che quasi ogni giorno gli appannava le finestre come vetro smerigliato. Se li riconosceva, se riusciva a immaginarne la consistenza o a ricordarne il carattere, era da come suonavano. I venti arroganti suonavano strumenti a fiato e a percussione. Soffiavano forte dentro un crescendo di trombe, tube e tromboni, e picchiavano a pugni chiusi sulle grancasse e sui tamburi. Martellavano insistenti sulle campane. Da quel sipario di ovatta oltre le vetrate del faro, così bianco e così vuoto da sembrare abbagliante, arrivava un crescendo di tuoni strappati a forza dagli occhielli dei piloni, di boati schiacciati contro le strutture tese del molo, di strilli scoccati dalle borchie dei tiranti, acuti e veloci come fulmini. Era una sinfonia che montava, che si gonfiava rapida in quel nulla accecante, gli squilli delle trombe che si rincorrevano, arrampicandosi come topi, uno dietro l'altro, sempre più in alto, il muggito profondo delle tube e dei bassi che si allargava violento come uno schianto, le raffiche acute delle campane e le esplosioni dei tamburi, sempre più serrate, sempre più forti, sempre più veloci, finché il libeccio non sollevava un'onda di mare e la spaccava contro il molo, metallica e schiumosa come un colpo di piatti.
Ci sono certi venti che si possono chiamare diabolici. Sono quelli che vengono dall'Africa e si potrebbero anche chiamare seducenti o insistenti ma diabolici è meglio. Sono venti che fanno impazzire. Sono venti che avvolgono, che soffiano forte, ma invece di spingere sembra che girino attorno. Sono venti caldi, così secchi che asciugano la gola o così umidi che appiccicano i vestiti addosso. Sono venti che si appoggiano, che pesano sul collo e sulle spalle e intanto soffiano, soffiano e soffiano, insistentemente, anche quando sembra che non lo stiano facendo. Perché sono venti che fingono, che coprono il sole di polvere e sabbia come fosse notte, che sciolgono la neve d'inverno come fosse estate, che riempiono gli occhi e le orecchie, si infilano dentro e svuotano, grattano via il cuore e il cervello, lasciando un involucro inutile, vuoto, ronzante di polvere e mosche.
Alcuni di questi venti l'ufficiale postale li conosceva di persona, come lo scirocco, di altri aveva sentito parlare da chi era ritornato dalla Tripolitania e li chiamava simùn, harmattan e ghibli. E anche un vento del nord, il föhn, portato da chi aveva fatto la guerra sul Carso.
Uno solo dei venti africani arrivava a volte fino all'isola, guidato dalle correnti marine attraverso un buco tra le masse d'aria lungo e stretto come un corridoio era il khamsïn, il vento nero e rovente che aveva portato le tenebre in Egitto ai tempi di Mosè.
Il khamsïn suonava il flauto. Era un flauto a due canne, una più bassa e l'altra più acuta ma sempre insinuante e sottile. Le note sibilavano rotonde e leggere, volavano attorno, giravano veloci ma ogni tanto ne usciva una diversa, disarmonica e dissonante, che restava sospesa nell'aria come un granello di polvere.
Gli altri venti diabolici suonavano i violini. Ma non piano, in sottofondo, li suonavano forte come solisti, compatti e insistenti come uno scroscio di pioggia, vibranti come fiamme, sempre più intensi, più stretti e più acuti, e anche tra quelli ce n'era qualcuno che si alzava, che usciva, storto, inclinato dalla parte sbagliata, pungente come uno spillo dimenticato.»
L'autore procede, inoltre, ad una maggiore articolazione delle vicende narrate, dando luogo ad una più incisiva caratterizzazione dei personaggi e, soprattutto, realizzando, come si vedrà meglio successivamente, un'astrazione del romanzo dal contesto storico di riferimento. Per dare un'idea della capacità di Lucarelli di caratterizzare i personaggi, si riporta la sanguigna descrizione di Mazzarino «...Quando camminava, Mazzarino sentiva di non essere solo.
Lo faceva pestando forte i piedi come se marciasse, con le spalle larghe un po’ curve in avanti e le braccia piegate, aperte sui fianchi, come se dovesse trattenere la spinta di una folla e al tempo stesso assecondarne la potenza. Quando camminava, il capomanipolo Mazzarino sentiva alle sue spalle il fiato di migliaia e migliaia di camicie nere, sentiva sulla schiena il frusciare delle frange argentate dei gagliardetti, percepiva con la coda dell'occhio il biancheggiare dei teschi e delle ossa ricamati sulla stoffa nera. Nei fianchi, a premerlo, aveva i manganelli e i manici dei pugnali degli squadristi, e nelle orecchie il rombo cadenzato della fanfara, le trombe e la grancassa e i tamburi e le suole degli stivali della Milizia. Quando camminava, il capomanipolo Mazzarino sapeva di non essere solo e lo faceva come se fosse alla testa di una colonna, deciso e massiccio come uno che sappia con certezza da dove viene e dove sta andando […] Era nato in un posto in cui non si veniva e non si andava da nessuna parte. Un monte in mezzo agli Appennini, un podere sconnesso, scavato in un bosco di alberi neri che l’altitudine faceva nascere corti e tarchiati, come lui e i suoi sedici fratelli. A parte la sorella più anziana, rimasta a casa ad aiutare la madre, le donne erano forse le uniche che andavano da qualche parte, perché compiuti i tredici anni il padre le mandava a servizio nei paesi più bassi o in città. I maschi, invece, restavano lì a spaccare una terra che non dava niente, ad allevare pecore irsute come capre, a raccogliere castagne, catturare muli selvatici e cacciare cinghiali. Così era Mazzarino e così erano tutti i suoi fratelli e le sorelle, la mascella sempre un po’ sporta in avanti, a respirare sibilando tra i denti e grugnire mezze parole ruvide e strette, in dialetto montanaro, il naso schiacciato sulle labbra, con le narici larghe, ad annusare l'aria come i cinghiali, tarchiati, irsuti e neri come loro».
Pregevole è inoltre il recupero del linguaggio dei miliziani e delle camice nere, personificate in Mazzarino. Una delle ricchezze di questo romanzo giallo sta proprio nell’attenzione a recuperare il linguaggio dei miliziani e delle camice nere di allora. Come automi, credono obbediscono e combattono, sebbene si trovino in un’isola abbandonata da dio e dal loro duce. Una lingua miserabile, quella dei loro dialoghi, convenzionale e spenta. Un esercito dalle convinzioni artefatte e dallo spirito alienato al volere di un solo individuo.
Come recita il dorso della copertina del volume la conclusione della vicenda dà luogo ad una «...verità inaudita, feroce e diabolica come l'isola che l'ha generata: l'Isola dell'Angelo Caduto, un luogo dove soffiano tutti i venti, dove le stagioni coesistono, dove la nebbia è nera, un luogo dimenticato da Dio, tanto piccolo da ricordare il mondo».
Massimo Capuozzo
Nessun commento:
Posta un commento