lunedì 14 maggio 2012

La Cappella Cerasi e la Conversione di San Paolo di Caravaggio

La Roma in cui ha operato Caravaggio – siamo nell’ultimo scorcio XVI ed all’alba del XVII secolo – era un luogo ed un momento cruciale della cultura italiana: ancora dolorante per il traumatico scisma luterano, il Concilio di Trento (1545-1563) si era concluso con un’altrettanto brusca riorganizzazione teologica ed ecclesiastica, la Controriforma che, con le sue miserie e con i suoi splendori, segnò tutta la successiva evoluzione del cattolicesimo. Roma risplende del mecenatismo dei papi e si sviluppa, con sempre maggiore vigore, attraverso il regno di quattro importanti Pontefici: Clemente VIII Aldobrandini, Paolo V Borghese, Gregorio XV Ludovisi, Urbano VIII Barberini. Questo momento irripetibile durò circa un quarantennio, dal 1595 al 1635, e dagli avvenimenti accaduti in quest’arco di tempo dipese gran parte dello sviluppo artistico europeo che si protrasse fino alla fine del Seicento. Sull’onda del mecenatismo papale fiorirono le botteghe sempre attive, per soddisfare le esigenze di papi e cardinali, nonché delle loro famiglie.
In questa Roma, gravida di fermenti e ricca di botteghe, Caravaggio era giunto dalla Lombardia tuffandosi con la sua ribollente vita quotidiana in quella non meno agitata vita romana, campo di fazioni e tumulti, tenuti a freno da leggi taglione e da uno stato di polizia. Inizialmente Caravaggio conobbe momenti di miseria, lavorando con il Cavalier d'Arpino e con Prosperino delle Grottesche, finché non conobbe il potente cardinal Del Monte, che accolse Caravaggio nella sua dimora a Palazzo Madama gli commissionò numerosi dipinti e lo aiutò ad ottenere importanti commissioni come quella per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Nel palazzo di Del Monte Caravaggio buttaporò finalmente un periodo di tranquillità dopo le difficoltà finanziarie dei primi anni romani ed ebbe modo di entrare in contatto con gli intellettuali e con i mecenati più illustri.
Fra le commissioni di questo periodo c’è La conversione di San Paolorealizzata dal pittore per la Cappella Cerasi della basilica romana diSanta Maria del Popolo, autentico compendio dei vari secoli della storia dell’arte e dell’architettura.
Questa cappella, in origine fondata dal cardinale veneziano Pietro Foscari, fu fatta realizzare – come la osserviamo oggi – da Tiberio Cerasi, avvocato concistoriale, che, l’8 luglio 1600, per sublimare la sua ascesa sociale, l’aveva acquistata ed i frati agostiniani gli avevano concesso la facoltà di poterla edificare, elevare e decorare nel modo et forma che egli avesse voluto.
Autorizzato a rimuovere dalla cappella le sepolture già esistenti, Tiberio Cerasi chiamò allora tre grandi artisti, Carlo Maderno – che purtroppo morì pochi mesi dopo a lavori appena iniziati – per la realizzazione architettonica, Annibale Carracci e Caravaggio per la decorazione pittorica.
Sull'altare della cappella, Annibale Carracci dipinse una tela raffigurante l'Assunzione della Vergine fra angeli e santi, ai lati Caravaggio dipinse due tele, una raffigurante il Martirio di San Pietro e l'altra la La conversione di San Paolo: per queste due tele, Maurizio Calvesi ipotizzò che, in ottemperanza alla teologia agostiniana, il committente avesse voluto far rappresentare i "due poli del pensiero agostiniano" – l'Autorità, richiamata dal martirio di Pietro, e la Ragione, richiamata dalla vocazione di Paolo.
Le due tele furono dipinte poco dopo il ciclo pittorico di San Matteo, eseguito per la Cappella Contarelli della Chiesa romana di San Luigi dei Francesi, ciclo che può essere considerato l’immediato precedente delle due tele della Cappella Cerasi.
Ne La conversione di San Paolo, Caravaggio continua il suo percorso rivoluzionario, non solo nel suo originalissimo modo di trattare la luce, ma anche in quello di trattare l’ambientazione delle scene religiose: rinunciando ad una consolidata tradizione iconografica dove compaiono soldati spaventati e cavalli imbizzarriti – si ricordi l’arazzodi Raffaello, l’affresco michelangiolesco nella Cappella Paolina del Vaticano, la tela di Ludovico Carracci ed anche un precedente dipinto su tavola dello stesso Caravaggio – San Paolo non cade da cavallo lungo la via di Damasco, verso la quale si stava dirigendo alla testa di una legione di soldati romani per perseguitare i primi cristiani, ma il fatto miracoloso è ambientato nella penombra di una semplice stalla, una posta poco prima della città di Damasco, dove era diretto.
Caravaggio sceglie un’interpretazione inedita anche per il modello che impersona Saul: è un giovane imberbe, accuratamente vestito, in un abbigliamento dove nulla è lasciato al caso. Lo raffigura con abbondanza di rosso, consegnando allo spettatore in pochi tratti un fedele ritratto di quest’uomo, tutto d’un pezzo sempre all’altezza della situazione, sicuro di essere nel giusto, passionale e portato agli eccessi. Eppure una visione e Saul rimane folgorato. Caravaggio impedisce allo spettatore di vedere ciò che Saul ha visto, ma racconta l’evento come un fatto tutto interiore, capace però, diversamente dalla precedente iconografia, di imprimere sul volto di questo giovanissimo Saul un’aurea di pace.
La scena è priva di qualsiasi clamore miracolistico: l’episodio perde, infatti, il carattere di evento pubblico, per tradursi in chiave intima ed interiore si svolge al chiuso, di sera, in una luce attutita ed in assoluto silenzio, dove gli unici testimoni dell’evento soprannaturale sono il cavallo, che occupa inaspettatamente più della metà del dipinto, ed un anziano stalliere che a stento s’intravede sulla destra del dipinto dietro il collo possente del cavallo. Paolo è riverso a terra, rappresentato nell’istante successivo a quella «luce del cielo [che] gli folgorò intorno», abbattendolo al suolo.
Un’ambientazione poverissima, tanto spoglia da apparire ai contemporanei perfino irriverente.
La protagonista della scena è la luce: essa è, infatti, manifestazione della divinità, è teofania che squarcia la tenebra del paganesimo, dell’indifferenza, della persecuzione, della calunnia. È la luce che colpisce Saul che cade e tutto, ogni superficie, la riflette: il mantello vermiglio di Saul, il mantello pezzato del cavallo, i piedi del vecchio stalliere. Tutto è impressionato da quella luce e tutto riverbera da quella potenza. Non è tanto il puro significato simbolico che impressiona e che sbigottisce gli attori di questa scena e lo spettatore, quanto piuttosto l’inquietante realismo di un corpo non ancora completamente caduto, in cui si scorge ancora il moto delle gambe inclinate, delle braccia alzate, degli occhi accecati, delle palpebre serrate per difendersi da quella luce accecante. È il momento finale di un crescendo, tipico del pathos evocativo caravaggesco.
Un discorso a sé stante occorre per il cavallo in una posa singolare: l’unico testimone cosciente, ma impossibilitato a comunicare la dinamica dei fatti, è il cavallo con l’occhio aperto e rivolto al suo cavaliere, mentre lo stalliere è anch’egli accecato dalla folgore divina che ha colpito Saul.
La scena non presenta Cristo nel momento in cui chiedeva «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», la presenza della divinità è ancora più angosciata, resa nell’assenza, che ci fa percepire la fragilità di Paolo, emblema della “fragilità” umana che ancora non conosce Dio, di fronte alla soprannaturale maestosità del divino.
Qui la struttura compositiva del quadro si carica di significati più profondi: non a caso nella raffigurazione della conversione di Paolo è stato aggiunto un cavallo sebbene negli Atti degli Apostoli – in cui per ben tre volte si narra l’incontro di Paolo sulla via di Damasco con il Signore risorto – non si faccia mai accenno ad un cavallo. Eppure la rappresentazione del cavallo e della caduta a terra di Paolo ha una fortissima carica simbolica che, pur traducendo liberamente il testo biblico, ne permette piuttosto una comprensione più profonda.
Iconograficamente, la pittura e la scultura si sono infatti spesso servite del cavallo per dare un volto al potere smisurato, alla grandezza di un personaggio, alla statura morale, alla compostezza dell’autorità. Chi lo cavalcava, guardando dall’alto gli altri mortali, manifestava così la sua dignità superiore. L’arte ha ripreso questo simbolo in mille raffigurazioni dal Marco Aurelio, a Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini, ai dipintiequestri di Velázquez. Ancora una volta Caravaggio si serve in modo assolutamente personale del motivo iconografico: Saul è disarcionato, non cade semplicemente a terra, ma è sbalzato da ogni suo potere, da tutto il suo orgoglio, precipitando a terra. Dovrà imparare, lui così fieramente attaccato alla Legge e all’illusione che l’uomo abbia una forza tale da potersi salvare con le proprie forze, che niente può l’uomo senza la grazia di Cristo. L’uomo deve ricevere la salvezza, senza alcun merito, la deve accogliere come una realtà che non ha principio primo in lui. È l’interpretazione teologico dottrinale del Cattolicesimo postridentino. Deve ricevere l’amore per poter poi vivere di esso ed in esso. Solo in questo momento Saul di Tarso è diventato Paolo, l’apostolo delle genti.
Questa l’interpretazione di Caravaggio della controversa figura di San Paolo.

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