La Roma in cui ha operato
Caravaggio – siamo nell’ultimo scorcio XVI ed all’alba del XVII secolo – era un
luogo ed un momento cruciale della cultura italiana: ancora dolorante per il
traumatico scisma luterano, il Concilio di Trento (1545-1563) si era concluso
con un’altrettanto brusca riorganizzazione teologica ed ecclesiastica, la
Controriforma che, con le sue miserie e con i suoi splendori, segnò tutta la
successiva evoluzione del cattolicesimo. Roma risplende del mecenatismo dei
papi e si sviluppa, con sempre maggiore vigore, attraverso il regno di quattro
importanti Pontefici: Clemente VIII Aldobrandini, Paolo V Borghese, Gregorio XV
Ludovisi, Urbano VIII Barberini. Questo momento irripetibile durò circa un
quarantennio, dal 1595 al 1635, e dagli avvenimenti accaduti in quest’arco di
tempo dipese gran parte dello sviluppo artistico europeo che si protrasse fino
alla fine del Seicento. Sull’onda del mecenatismo papale fiorirono le botteghe
sempre attive, per soddisfare le esigenze di papi e cardinali, nonché delle
loro famiglie.
In questa Roma, gravida di
fermenti e ricca di botteghe, Caravaggio era giunto dalla Lombardia tuffandosi
con la sua ribollente vita quotidiana in quella non meno agitata vita romana,
campo di fazioni e tumulti, tenuti a freno da leggi taglione e da uno stato di
polizia. Inizialmente Caravaggio conobbe momenti di miseria, lavorando con il
Cavalier d'Arpino e con Prosperino delle Grottesche, finché non conobbe il
potente cardinal Del Monte, che accolse Caravaggio nella sua dimora a Palazzo
Madama gli commissionò numerosi dipinti e lo aiutò ad ottenere importanti
commissioni come quella per la Cappella Contarelli in San Luigi
dei Francesi. Nel palazzo di Del Monte Caravaggio buttaporò finalmente un
periodo di tranquillità dopo le difficoltà finanziarie dei primi anni
romani ed ebbe modo di entrare in contatto con gli intellettuali e con i
mecenati più illustri.
Fra le commissioni di questo
periodo c’è La
conversione di San Paolorealizzata dal pittore per la Cappella Cerasi della
basilica romana diSanta Maria del Popolo, autentico compendio dei
vari secoli della storia dell’arte e dell’architettura.
Questa cappella, in origine fondata
dal cardinale veneziano Pietro Foscari, fu fatta realizzare – come la
osserviamo oggi – da Tiberio Cerasi, avvocato concistoriale, che, l’8 luglio
1600, per sublimare la sua ascesa sociale, l’aveva acquistata ed i frati
agostiniani gli avevano concesso la facoltà di poterla edificare, elevare e
decorare nel modo et forma che egli avesse voluto.
Autorizzato a rimuovere dalla cappella le sepolture già esistenti, Tiberio
Cerasi chiamò allora tre grandi artisti, Carlo Maderno – che purtroppo morì
pochi mesi dopo a lavori appena iniziati – per la realizzazione architettonica,
Annibale Carracci e Caravaggio per la decorazione pittorica.
Sull'altare della cappella, Annibale Carracci dipinse una tela raffigurante l'Assunzione della
Vergine fra angeli e santi, ai lati Caravaggio dipinse due tele, una
raffigurante il Martirio di San Pietro e l'altra la La
conversione di San Paolo: per queste due tele, Maurizio Calvesi ipotizzò
che, in ottemperanza alla teologia agostiniana, il committente avesse voluto
far rappresentare i "due poli del pensiero agostiniano" – l'Autorità,
richiamata dal martirio di Pietro, e la Ragione, richiamata dalla vocazione di
Paolo.
Le due tele furono dipinte poco
dopo il ciclo pittorico di San Matteo, eseguito per la Cappella Contarelli della
Chiesa romana di San Luigi dei Francesi, ciclo che può essere considerato
l’immediato precedente delle due tele della Cappella Cerasi.
Ne La
conversione di San Paolo, Caravaggio continua il suo percorso
rivoluzionario, non solo nel suo originalissimo modo di trattare la luce, ma anche
in quello di trattare l’ambientazione delle scene religiose: rinunciando ad una
consolidata tradizione iconografica dove compaiono soldati spaventati e cavalli
imbizzarriti – si ricordi l’arazzodi
Raffaello, l’affresco michelangiolesco
nella Cappella Paolina del Vaticano, la tela di
Ludovico Carracci ed anche un precedente dipinto su tavola dello
stesso Caravaggio – San Paolo non cade da cavallo lungo la via di Damasco,
verso la quale si stava dirigendo alla testa di una legione di soldati romani
per perseguitare i primi cristiani, ma il fatto miracoloso è ambientato nella
penombra di una semplice stalla, una posta poco prima della città di Damasco,
dove era diretto.
Caravaggio sceglie
un’interpretazione inedita anche per il modello che impersona Saul: è un
giovane imberbe, accuratamente vestito, in un abbigliamento dove nulla è
lasciato al caso. Lo raffigura con abbondanza di rosso, consegnando allo
spettatore in pochi tratti un fedele ritratto di quest’uomo, tutto d’un pezzo
sempre all’altezza della situazione, sicuro di essere nel giusto, passionale e
portato agli eccessi. Eppure una visione e Saul rimane
folgorato. Caravaggio impedisce allo spettatore di vedere ciò che Saul ha
visto, ma racconta l’evento come un fatto tutto interiore, capace però,
diversamente dalla precedente iconografia, di imprimere sul volto di questo
giovanissimo Saul un’aurea di pace.
La scena è
priva di qualsiasi clamore miracolistico: l’episodio perde, infatti, il
carattere di evento pubblico, per tradursi in chiave intima ed interiore si
svolge al chiuso, di sera, in una luce attutita ed in assoluto silenzio, dove
gli unici testimoni dell’evento soprannaturale sono il cavallo, che occupa
inaspettatamente più della metà del dipinto, ed un anziano stalliere che a
stento s’intravede sulla destra del dipinto dietro il collo possente del
cavallo. Paolo è riverso a terra, rappresentato nell’istante successivo a
quella «luce del cielo [che] gli folgorò intorno», abbattendolo al
suolo.
Un’ambientazione poverissima,
tanto spoglia da apparire ai contemporanei perfino irriverente.
La protagonista della scena è la
luce: essa è, infatti, manifestazione della divinità, è teofania che squarcia
la tenebra del paganesimo, dell’indifferenza, della persecuzione, della
calunnia. È la luce che colpisce Saul che cade e tutto, ogni superficie, la
riflette: il mantello vermiglio di Saul, il mantello pezzato del
cavallo, i piedi del vecchio stalliere. Tutto è impressionato da quella luce
e tutto riverbera da quella potenza. Non è tanto il puro significato simbolico
che impressiona e che sbigottisce gli attori di questa scena e lo spettatore,
quanto piuttosto l’inquietante realismo di un corpo non ancora completamente
caduto, in cui si scorge ancora il moto delle gambe inclinate, delle braccia
alzate, degli occhi accecati, delle palpebre serrate per difendersi da quella
luce accecante. È il momento finale di un crescendo, tipico del pathos
evocativo caravaggesco.
Un discorso a sé stante occorre
per il cavallo in una posa singolare: l’unico testimone cosciente,
ma impossibilitato a comunicare la dinamica dei fatti, è il cavallo con
l’occhio aperto e rivolto al suo cavaliere, mentre lo stalliere è anch’egli
accecato dalla folgore divina che ha colpito Saul.
La scena non presenta Cristo nel
momento in cui chiedeva «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», la presenza
della divinità è ancora più angosciata, resa nell’assenza, che ci fa percepire
la fragilità di Paolo, emblema della “fragilità” umana che ancora non conosce
Dio, di fronte alla soprannaturale maestosità del divino.
Qui la struttura compositiva del
quadro si carica di significati più profondi: non a caso nella raffigurazione
della conversione di Paolo è stato aggiunto un cavallo sebbene negli Atti degli
Apostoli – in cui per ben tre volte si narra l’incontro di Paolo sulla via di
Damasco con il Signore risorto – non si faccia mai accenno ad un cavallo.
Eppure la rappresentazione del cavallo e della caduta a terra di Paolo ha una
fortissima carica simbolica che, pur traducendo liberamente il testo biblico,
ne permette piuttosto una comprensione più profonda.
Iconograficamente, la pittura e
la scultura si sono infatti spesso servite del cavallo per dare un volto al
potere smisurato, alla grandezza di un personaggio, alla statura morale, alla
compostezza dell’autorità. Chi lo cavalcava, guardando dall’alto gli altri
mortali, manifestava così la sua dignità superiore. L’arte ha ripreso questo
simbolo in mille raffigurazioni dal Marco
Aurelio, a Guidoriccio
da Fogliano di Simone Martini, ai dipintiequestri di
Velázquez. Ancora una volta Caravaggio si serve in modo assolutamente personale
del motivo iconografico: Saul è disarcionato, non cade semplicemente a terra,
ma è sbalzato da ogni suo potere, da tutto il suo orgoglio, precipitando a
terra. Dovrà imparare, lui così fieramente attaccato alla Legge e all’illusione
che l’uomo abbia una forza tale da potersi salvare con le proprie forze, che
niente può l’uomo senza la grazia di Cristo. L’uomo deve ricevere la salvezza,
senza alcun merito, la deve accogliere come una realtà che non ha principio
primo in lui. È l’interpretazione teologico dottrinale del Cattolicesimo
postridentino. Deve ricevere l’amore per poter poi vivere di esso ed in esso.
Solo in questo momento Saul di Tarso è diventato Paolo, l’apostolo delle genti.
Questa l’interpretazione di
Caravaggio della controversa figura di San Paolo.
Nessun commento:
Posta un commento