Gabriele
D’Annunzio è stato un intellettuale molto vicino al Fascismo e per un periodo è
stato da alcuni addirittura preferito a Mussolini come capo del PNF. Le differenze
caratteriali, ideologiche e politiche tra D’Annunzio e Mussolini, tuttavia,
sono notevoli. La storia di D’Annunzio è stata narrata in tutti i suoi
risvolti, le sue opere sono state interpretate in un numero infinito di pagine
di critica letteraria e, tuttora, la cultura dominante persiste nel considerare
il Vate un anticipatore del Fascismo.
Prima
di affrontare la questione legata ai controversi rapporti fra l’ultimo
D’Annunzio ed il Fascismo, è opportuno analizzare un aspetto precedente che è
il terreno di fecondazione, dal quale il Fascismo trasse uno dei suoi lieviti:
la prima guerra mondiale.
Mussolini
e D’Annunzio s'incontrarono per la prima volta nel 1914, quando Mussolini si
convertì all'interventismo, di cui
D'Annunzio era il riconosciuto Vate.
Dopo il
periodo francese, nel 1915, D’Annunzio ritornò in Italia, dove rifiutò la
cattedra di Letteratura italiana, già
di Pascoli, e condusse da subito un’intensa propaganda interventista: il
discorso celebrativo, che D'Annunzio pronunciò a Quarto il 4 maggio 1915,
suscitò entusiastiche manifestazioni interventiste.
Nel
frattempo, il 26 aprile del 1915 era stato stipulato in segreto il Trattato di Londra fra l’ambasciatore
italiano Guglielmo Imperiali con i diplomatici
della Triplice Intesa, che preludeva all’entrata
in guerra dell’Italia a fianco della Gran Bretagna, della Francia e della
Russia.
Il 24
maggio 1915, appena l’Italia entrò in Guerra, D'Annunzio si arruolò volontario
e partecipò ad alcune azioni dimostrative navali ed aeree: per un periodo
risiedette a Cervignano del Friuli perché così poteva essere vicino al Comando
della III Armata, il cui comandante era Emanuele Filiberto di Savoia, Duca
d'Aosta, suo amico ed estimatore.
Nel
gennaio del 1916, durante un’azione bellica, D’Annunzio, costretto ad un
atterraggio d'emergenza, subì una lesione all'altezza della tempia e
dell'arcata sopraccigliare e ciò comportò la perdita momentanea di un occhio. D’Annunzio
visse un periodo di convalescenza, assistito dalla figlia Renata: in quel
periodo compose Notturno, pubblicata nel 1921 che contiene una
serie di ricordi e di osservazioni.
Contro
i consigli dei medici, D’Annunzio continuò a partecipare ad azioni belliche
aeree e di terra, che culminarono con il volo
su Vienna, da lui stesso progettato.
Il 18
gennaio 1919 iniziò la Conferenza di pace
di Parigi, che sarebbe durata oltre un anno e mezzo; rappresentante per
l'Italia fu l'allora presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, accompagnato
dalla delegazione composta dal ministro degli esteri in carica Sidney Sonnino,
dall'ex-capo del governo Antonio Salandra e dal giornalista triestino Salvatore
Barzilai.
La
questione dei territori che sarebbero spettati agli italiani fu dibattuta dal
mese di febbraio, e in quell'occasione Orlando si ritrovò di fronte l'ostilità
degli jugoslavi, che miravano a ottenere, oltre alla Dalmazia, anche Gorizia,
Trieste e l'Istria, e che l'11 febbraio proposero alla delegazione italiana di
affidare al presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson la risoluzione delle
controversie sui territori; il netto rifiuto degli italiani provocò disordini a
Lubiana, Spalato e Ragusa di Dalmazia, ai quali Orlando rispose rivendicando
con fermezza Fiume.
Fu
proprio sulla questione legata alla città portuale che l'Italia aveva trovato
la grande ostilità di Wilson, il quale, il 19 aprile, avanzò la proposta di
creare uno stato libero di Fiume, spiegando che la città istriana doveva essere
un porto utile per tutta l'Europa balcanica e che le rivendicazioni dell'Italia
nei territori a est del Mare Adriatico andavano contro i quattordici punti
da lui stesso fissati l'8 gennaio 1918 con l'obiettivo di creare una base per
le trattative di pace, tanto da essere additate come "imperialiste".
Nello stesso giorno, il primo ministro italiano lasciò polemicamente Parigi: al
suo rientro in Italia, le piazze lo accolsero con grande calore, mentre a Roma,
Milano, Torino e Napoli si verificarono disordini presso le ambasciate
britanniche, francesi e statunitensi. Orlando ritornò a Parigi il 7 maggio,
dopo che, il 29 aprile, la Camera aveva confermato la fiducia al suo governo.
Il 4 maggio, intanto, dalla balconata del Campidoglio lo scrittore
cinquantaseienne Gabriele D'Annunzio, fervente nazionalista, aveva attaccato
duramente l'atteggiamento di Wilson, arrivando a insultarne la moglie in quella
che fu un'orazione dai toni simili a quelli d'una dichiarazione di guerra.
L'assenso
della delegazione italiana al progetto di Parigi costò al primo ministro la
poltrona: la Camera gli negò la fiducia e il governo entrò in crisi. A rappresentare
l'Italia alla conferenza rimase Sonnino, mentre Orlando dovette lasciare spazio
a Francesco Saverio Nitti, che il 21 giugno ottenne da Re Vittorio Emanuele III
l'incarico di formare un nuovo governo. Nitti ottenne la fiducia il 12 luglio;
nuovo ministro degli esteri fu Vittorio Scialoja. Il 28 giugno, intanto, a
Versailles era stato firmato il trattato di pace.
Alla
fine della guerra, D'Annunzio si fece portatore di un vasto malcontento,
insistendo sul tema della vittoria
mutilata e chiedendo il rinnovamento della classe dirigente in Italia, con
aspirazioni verso un cambiamento radicale della situazione politica, un’onda di
malcontento di istanze nazionalistiche e reazionarie trovò ben presto un
sostenitore in Benito Mussolini che nel frattempo fondava a Milano i Fasci di combattimento.
D’Annunzio
cercò l’appoggio delle più diverse fazioni politiche; ogni apporto che si fosse
potuto sperimentare in un clima di grande libertà a Fiume fu per lui valido. In
questo senso è significativa la collaborazione tra D’Annunzio e De Ambris, il
cui contributo sarà fondamentale per la stesura della Carta del Carnaro. Nel
confrontare i due carteggi (Mussolini – D’Annunzio e D’Annunzio – De Ambris)
entrambi raccolti ed analizzati da Renzo De Felice, si percepisce quanto i
propositi di D’Annunzio fossero diversi da quelli di Mussolini. Diversi furono
inoltre anche i personaggi che accompagnarono D’Annunzio nella sua impresa.
Furono
dei rivoluzionari che rifiutarono un ordine costituito, un governo che privava
i popoli del loro diritto all’autodecisione; dei nazionalisti, quindi, animati
da un patriottismo sconosciuto agli sbandati che formarono le squadre fasciste.
L’intento,
quindi, di D’Annunzio di fare di Fiume un luogo per un primo esperimento
rivoluzionario sindacalista da cui
sarebbe partita quella rivoluzione in grado di conquistare l’Italia, era
condivisa anche dai nazionalisti e dai fascisti che appoggiarono inizialmente
l’idea della rivoluzione, ma con il fine di costringere Nitti ad abbandonare il
governo.
D’Annunzio,
tuttavia, continuò a cercare l’appoggio di Mussolini, in grado di fungere da
mediatore con il governo di Roma e di reperire, tramite Il Popolo d’Italia, fondi per la causa fiumana. Il
D’Annunzio era convinto che il Fascismo avrebbe avuto un ruolo di scarsa
rilevanza nella politica italiana e che, ben presto, egli si sarebbe sostituito
a Mussolini nel ruolo di guida di un movimento rivoluzionario.
Il 12
settembre del 1919 D’Annunzio organizzò un clamoroso colpo di mano
paramilitare, guidando una spedizione di legionari,
partiti da Ronchi di Monfalcone, che occuparono la città, instaurandovi una
repubblica da lui presieduta, la Reggenza
italiana del Carnaro cui fece seguito la Carta del Carnaro.
Gabriele
d'Annunzio, che l'8 settembre aveva pubblicato la Carta del Carnaro e si
era proclamato governatore, rifiutò categoricamente di lasciare Fiume: questo
malgrado la situazione economica della città, dopo oltre un anno di isolamento,
non fosse nelle condizioni migliori, tanto che tra la cittadinanza e i volontari
erano cominciati a serpeggiare malcontento e antipatia nei confronti
dell'eccentrico Vate.
Persino
Mussolini, che aveva appoggiato anche finanziariamente l'iniziativa
dell'intellettuale, approvò il trattato di Rapallo, definendolo "unica
soluzione possibile" per uscire dal periodo di stasi che
caratterizzava ormai la politica estera italiana.
La
logica nazionalistica e imperialista dell’impresa fiumana avvicinarono
D’Annunzio al nuovo movimento fascista, infatti, quando da poco stavano
sviluppandosi i primi fasci di combattimento in tutta Italia, lui era già in
Istria per la famosa conquista di Fiume.
L’impresa
di Fiume rappresenta una svolta decisiva del processo di decadimento, nella
vita pubblica, della crisi dello Stato liberale.
Mussolini
sfruttò a proprio vantaggio l’azione dannunziana e colse, nell’impresa fiumana,
un’ulteriore occasione politica per
la propria affermazione.
Il duce
espresse in più occasioni la stima ed il proprio consenso a Gabriele D’Annunzio,
reinterpretandone l’azione secondo gli stereotipi nazionalisti della necessità
di un’azione decisa che riparasse al torto subito dall’Italia a Versailles e
che faceva dunque di Fiume il simbolo della Vittoria
Mutilata.
Il 12
del 1920, nasceva nella sala della Giovine Fiume, il Fascio Fiumano, che ebbe tra i propri iscritti lo stesso
D’Annunzio.
Notevoli
sono le differenze caratteriali, ideologiche e politiche tra D’Annunzio e
Mussolini e diversa fu la valutazione e l’interpretazione che diedero del
fiumanesimo. Mussolini non seppe in anticipo dell’impresa dannunziana, cosa che
esclude che vi sia potuto essere un precedente accordo tra questi e D’Annunzio.
Del Vate, inoltre, Mussolini, sebbene
ne riconoscesse l’infallibile intuito, sottovalutava le capacità politiche e
scorse perciò nella sua impresa una grande occasione propagandistica per sé e per
il suo partito. Al tempo stesso intuì la debolezza di un atto che, per quanto
eroico, non aveva potenzialità eversive tali da renderlo un pericolo per il
governo Nitti.
D’Annunzio
visse l’esperienza fiumana con una esaltazione più patriottica che
nazionalista: essa fu la grande occasione della sua vita per restituire
all’Italia quella unità che il patto di Londra le aveva tolto.
Il 12
novembre 1920, quando fu stipulato il trattato
di Rapallo, l’impresa fu vanificata dal governo Giolitti: Fiume diventò
città libera, Zara e le piccole isole di Làgosta e Pelagosa passarono
all'Italia, ma D'Annunzio non accettò l'accordo ed il governo italiano, il 26
dicembre 1920, noto come il Natale di sangue,
fece sgomberare i legionari con la forza.
D’Annunzio
e Mussolini non si amarono mai, anche se in certi cruciali momenti si trovarono
sulle stesse posizioni e finsero di essere completamente d'accordo
nell'immediato dopoguerra, quando i reduci, fra i quali entrambi reclutavano i
loro seguaci, furono accolti a sassate e sputacchi dalle folle rosse.
Mussolini
sostenne a spada tratta, sul Popolo
d'Italia, l'impresa di Fiume non perchè ci credesse, ma perchè indeboliva
il governo in carica che non sapeva come affrontarla e risolverla. In realtà,
nelle lettere che da Fiume gl'inviava, il Vate non faceva che lamentarsi
dell'appoggio puramente verbale che Mussolini gli dava. A sostegno dell’impresa
fiumana fu fatta anche una colletta che, nel gennaio del 1920, raggiunse la
cifra di 3 milioni, che, però non arrivarono mai a Fiume. Mussolini si
era servito di gran parte della sottoscrizione pro Fiume, per organizzare e finanziare bande di facinorosi
utilizzate a scopo intimidatorio durante la campagna elettorale del 1919. La
sottoscrizione raggiunse quasi i tre milioni complessivi, ma non si seppe
quanto di quella cifra passò nelle mani di D’Annunzio, anche se Alceste De
Ambris giurava che Mussolini non aveva trattenuto pìù di trecentomila lire.
Nei
suoi articoli, Mussolini appoggiò D’Annunzio, ma nei fatti non gli offrì mai il
proprio concreto ed aperto sostegno. Il Mussolini del 1919 è ancora titubante
sulla reale capacità rivoluzionaria dei fasci sparsi in tutta Italia. Il
Mussolini del 1920 (il trattato di Rapallo è del 12 novembre e chiude il
contenzioso con la Jugoslavia) si sente più sicuro con oltre 800 sezioni
aperte. Giolitti gli chiese poi di non opporsi al trattato di spartizione e
alla azione di forza che scattò a Natale contro D'Annunzio (il Natale di sangue).
In cambio emissari di Giolitti, si disse di un incontro al caffè Savini
di Milano, promisero un appoggio alle successive elezioni politiche.
Al
contrario, all’indomani del Natale di sangue del 1921, il Comitato Centrale dei
Fasci approvò all’unanimità, meno un solo voto, un ordine del giorno di
protesta contro Giolitti e di solidarietà con D’Annunzio: quel solo voto
contrario era di Mussolini.
Il
governo italiano optò per un ultimatum e impose ad un D'Annunzio sempre più
isolato di abbandonare la città con le truppe entro il 24 dicembre; dopodiché,
nel caso avesse resistito, si sarebbe mosso l'esercito italiano. D'Annunzio
sottovalutò gli avvertimenti del governo. Convinto che mai Roma avrebbe
attaccato Fiume, mantenne la sua posizione e così fecero i suoi uomini, fino
alla vigilia di Natale, alle sei di sera, quando il primo colpo di cannone
sparato dalla corazzata Andrea Doria sventrò la residenza fiumana del Vate,
che rimase illeso ma optò, il 31 dicembre, per la resa, dopo che negli scontri
con l'esercito italiano della settimana precedente cinquanta suoi uomini
avevano perso la vita (Natale di sangue).
Il 18
gennaio del 1921 D'Annunzio lasciò Fiume dopo numerosi discorsi di commiato dai
legionari, scegliendo di ritirarsi nella sua villa di Gardone Riviera, il Vittoriale.
La vita dello stato di Fiume poté avere inizio.
Nei
momenti che portarono il Fascismo al potere, D’Annunzio si trovò preso tra
propositi diversi: da un lato aspirava ad un nuovo protagonismo personale, ma
dall’altro nutriva riserve verso alcuni aspetti del programma fascista e
diffidenze verso il personaggio del duce.
Mussolini attraversava un brutto
momento: i ribelli il 16 agosto si riunirono a Bologna e all'unanimità
accusarono Mussolini sia per il patto
sia per la sua linea politica. Mussolini si dimise allora dalla commissione
esecutiva dei fasci. Tutto il suo operato stava quasi per franare quando Grandi
e Balbo si diedero da fare per creare una fronda per dar vita a una scissione e
per sostituire Mussolini.
Grandi e Balbo credevano di avere
idee, ma si ritrovano a non avere una guida: ai primi di autunno del 1921 Grandi e Balbo si recarono
segretamente a Gardone, cercando inutilmente di convincere D'Annunzio a prendere la guida dei
fasci per proporre al Vate di approfittare del grande raduno
nazionale di ex combattenti programmato per il 4 Novembre, anniversario della
Vittoria, per dare l'avvio ad una Marcia
su Roma mettendosene alla testa. Il Vate, che li aveva ricevuti vestito da
frate, dopo averli ascoltati, rispose: Fratelli,
prima di prendere una decisione così grave, debbo consultare le stelle, e
li rimandò all'indomani. Il giorno dopo disse loro che le stelle, coperte dalle
nuvole, non si erano rivelate e così andò avanti per quasi una settimana,
finché i due, stanchi, se n'andarono imprecando. Mussolini lo seppe, o almeno
lo sospettò.
D’Annunzio,
ritiratosi dalla vita politica, dopo la sconfitta subita, ammonì più volte i
suoi legionari a non far parte delle squadre fasciste ed a mantenere la propria
indipendenza se non addirittura passare all’opposizione. L’opposizione di
D’Annunzio a Mussolini fu netta, ma non esplicita: il momento non gli
permetteva di entrare in aperta polemica con lui, ma tuttavia egli era libero
di rifiutare offerte politiche quali ad esempio la candidatura a Zara, che da
questo gli provenivano.
Il
malanimo tra D’Annunzio e Mussolini rischiò di diventare rottura aperta quando,
di fronte alle esitazioni di Mussolini alla presa del potere, i suoi più
impazienti seguaci pensarono di sostituirlo col Vate alla guida del Fascismo.
Il 3
agosto del 1922 pronunziò un discorso dal balcone di Palazzo Marino a
nazionalisti e fascisti. I fascisti erano in gran fermento e le elezioni
dell’anno precedente erano andate male per loro: il paese viveva in uno stato
confusionale, disordini e scioperi erano all’ordine del giorno. Mussolini,
lontano dal riscuotere quella popolarità che avrebbe permesso agli elettori di
catalizzare verso di lui le preferenze, guardava da tempo a D’Annunzio, come ad
un nume tutelare, ad uno sponsor che
si identificasse con l’idea fascista. Per questo motivo aveva soccorso
l’Impresa di Fiume fornendo, con le pagine del Secolo d’Italia e
l’apertura di sottoscrizioni, un aiuto sensibile.
Mussolini
voleva coinvolgere D’Annunzio nella causa fascista, per ottenere i consensi,
sfruttandone la grande popolarità e, sotto questa prospettiva, va inquadrato il
discorso di Palazzo Marino.
Il 31
Luglio l’Alleanza del Lavoro proclamò
uno sciopero di vaste proporzioni in difesa degli operai, trattati brutalmente
dai fascisti ed imponevano al presidente del Consiglio Facta, un ultimatum: 48
ore di tempo per far cessare lo sciopero, altrimenti le camicie nere avrebbero
disperso i dimostranti. D’Annunzio in quei giorni soggiornava all’Hotel Cavour
a Milano, base dei fascisti e punto dal quale sarebbe partito lo sciopero dei
sindacati. Il Vate si era incontrato con Eleonora Duse, ma si teneva in
contatto con Mussolini, del quale sostanzialmente diffidava, nel senso che non
voleva mettersi completamente nelle sue mani, ma che non poteva nemmeno
avversare, visto l’appoggio dato a Fiume. Mussolini fu abilissimo ad
incastrarlo, convincendolo ad arringare le camicie nere sotto Palazzo Marino,
il 3 agosto, ma D’Annunzio in una confusione che non fece capire ai più nemmeno
una parola, rivolgendosi ai fascisti, ne pose in risalto un’irreale bontà, che
essendo inverosimile, testimoniò solo la distanza che prendeva da loro, pur non
sconfessandoli.
13
agosto del 1922 a causa di una misteriosa caduta dalla finestra sfumò
l'incontro di D'Annunzio con Francesco Saverio Nitti e con Benito Mussolini per
la pacificazione nazionale. Per capire bene l’evento bisogna fare un passo
indietro in quell’estate del 1922. Mussolini aveva puntato molto sul discorso
di D’Annunzio a Palazzo Marino, ma dai termini del discorso capì che avrebbe
avuti ben pochi aiuti politici da D’Annunzio: egli, tuttavia, non aveva
abbandonato le sue mire per una scalata politica che da solo non avrebbe potuto
davvero compiere ed organizzò un incontro il 15 agosto, in una villa toscana,
dove si sarebbe incontrato con D’Annunzio e Nitti per decidere di organizzare
un progetto politico che avrebbe potuto consentire la nascita di un governo di
largo respiro, capace di attirare la maggioranza dei consensi e di fronteggiare
le sinistre. Nitti, l’ex presidente del Consiglio che D’annunzio e i fascisti
avevano sbeffeggiato a Fiume, rappresentava l’ala liberale e moderata e
costituiva una garanzia per contenere l’esuberanza fascista. Il problema era
coniugarlo con D’Annunzio, più che con Mussolini, quest’ultimo duttile fino al
punto di sopportare Nitti, pur di avere i consensi per andare vittorioso a
Montecitorio. Nitti scrisse una lettera a D’Annunzio per invitarlo all’incontro
e per convincerlo a sostenere ed a partecipare al progetto, fidando nella sua
fama e sulla sua capacità di trascinatore di folle. D’Annunzio, messo da parte
l’astio fiumano, accettò di buon grado l’incontro.
Nitti
afferma che l’idea fu suggerita da Mussolini e che fu da questi convinto ad
attuarla. Ma D’Annunzio non aveva più alcuna voglia di mettersi nell’agone
politico: l’avventura fiumana gli era bastata, proprio perché l’aveva vissuta
come un’impresa squisitamente epica, militare, ma del contenuto
politico–amministrativo ne aveva piene le tasche. Il ritiro a Cargnacco era
un’abdicazione senza riserve e lo dimostrò continuamente rintuzzando qualsiasi
proposta politica. Mussolini convinse Nitti a scrivere a D’Annunzio e
sorprendentemente D’Annunzio rispose ed accettò.
Antongini
e il banchiere Giorgio Schiff-Giorgini, iniziarono per conto di D’Annunzio le
trattative per un accordo programmatico, fissando data e luogo. Quando tutto
sembrava pronto e ci si apprestava ad organizzare l’incontro, giunse la notizia
che la sera del 13 agosto, D’Annunzio era caduto dalla finestra della Sala
della Musica, nella villa Cargnacco. Un incidente banale ed un salto di appena
7 metri. La notizia fu diffusa il giorno seguente, dando all’episodio una
versione accidentale: il Comandante, in ascolto della pianista Luisa Baccara e della
sorella Jolanda, aveva perso l’equilibrio, mentre era appoggiato allo stipite
della finestra ed era quindi precipitato a terra.
La
Pubblica Sicurezza intese svolgere un’indagine sull’accaduto, sebbene nessuno
avesse sporto denuncia e quindi non è chiaro a che titolo possano essere stati fatti
gli opportuni accertamenti. Eppure qualcuno voleva scoprire una verità: a
Gardone fu, infatti, inviato il funzionario Giuseppe Dosi per svolgere
un’inchiesta segreta ed il 4 ottobre consegnò il suo rapporto. Sicuramente
qualcuno che ha visto nell’evento la volontà di non far presiedere D’Annunzio
all’incontro con Nitti e Mussolini e quindi cercava la traccia di un complotto.
Sospettoso
dei contatti che Grandi e Balbo, come altri gerarchi fascisti continuavano a
mantenere con D’Annunzio, Mussolini indisse la grande adunata di Napoli,
preludio della Marcia: il 28 ottobre del 1922 D'Annunzio assistette incredulo
alla Marcia su Roma ed il 2 novembre del 1922 il Comandante pubblicò sulla Patria del popolo, organo dei legionari,
il messaggio L'alto monito di Gabriele
d'Annunzio alla giovinezza italiana. Il Fascismo, infatti, fu accolto a
Fiume con generale diffidenza ed indifferenza; mancava di una propria sede ed
il suo organo di stampa “Il Fascio”
toccava appena le 20 copie vendute.
I
ministri ed i membri dell’Assemblea Costituente dimostrarono un evidente
opportunismo politico optando per il nuovo regime, e fu infatti a questo
livello che si ebbero le adesioni più numerose.
Successivamente,
i rapporti fra D’Annunzio e Mussolini furono di reciproco opportunismo:
Mussolini comprò il Vate elargendogli senza risparmio onori,
blasoni, emolumenti, e, come diceva l'ex fiumano Comisso, cocaina, sempre
tenendolo sotto sorveglianza. Tagliato allora fuori dal corso degli eventi politici,
D’Annunzio preferì ritirarsi definitivamente nella villa di Cargnacco, sul lago
di Garda, continuando comunque ad essere esaltato dal regime fascista come
artista supremo. Il regime concesse a D’Annunzio anche un finanziamento per
trasformare la villa Garnasco in un vero e proprio museo e D'Annunzio, che fino
al 1920 era perseguitato dai creditori riuscì a costruire attorno a sé una
città museo dove poter esaltare le proprie imprese valorose ed ardite e vivere
nell'agiatezza del lusso più sfrenato senza alcun freno a nessuna prodigalità
né economica né carnale. Mussolini aveva detto: «D’Annunzio è il dente cariato
d’Italia: o strapparlo o ricoprirlo d’oro». Questa frase rappresentò la fortuna
del Vate, il quale, avendo dimostrato in parte adesione al pensiero Fascista,
potè costruire il Vittoriale a spese del regime, in cambio, però di dover
donare allo Stato tutto il Vittoriale dopo la propria morte, da cui derivò il
nome Vittoriale degli Italiani poiché
più che di D'Annunzio era di tutti gli Italiani e da qui la massima che si
trova alle soglie del Vittoriale “IO HO
QUEL CHE HO DONATO”.
Tutto
questo però ebbe un prezzo, infatti, come riferiva il federale di Brescia
Giovanni Comini – supercontrollore del D’Annunzio dal 1935 al 1938 – D’Annunzio
degli ultimi anni, accettando di finire murato
vivo nella quiete del Vittoriale, rinunciò alla libertà e a parte cospicua
della sua dignità, in cambio della definitiva consacrazione del proprio mito.
Nel
1923, nella sua nuova residenza, D’Annunzio scrisse Per l'Italia degli Italiani.
Nel
1924, isolato e vigilato da Mussolini al Vittoriale, D'Annunzio ricevette il
titolo nobiliare di Principe di Montenevoso, e si fece donare la nave Puglia ed
il MAS di Buccari. Inoltre nello stesso anno, scrisse Le Faville del maglio ed Il
Venturiero senza ventura e altri studi del vivere inimitabile.
Il 9
ottobre del 1933 D'Annunzio scrisse una lettera a Mussolini, avversando gli
accordi che il Duce stringeva con la Germania di Adolf Hitler.
Il 12
luglio del 1934, dopo l'incontro fra Hitler e Mussolini a Venezia, D'Annunzio
si affaticò per l'interruzione dei rapporti italo-tedeschi sia per via
epistolare di persona cui seguì anche una Pasquinata dissacratoria contro
Hitler: «Il marrano Adolph Hitler dall’ignobile faccia offuscata sotto gli
indelebili schizzi della tinta di calce o di colla ond'egli aveva zuppo il
pennello, o la penellessa, in cima alla canna, o alla pertica, divenutagli
scettro di pagliaccio feroce non senza ciuffo prolungato alla radice del suo
naso nazi».
Il
Vittoriale è la cittadella di un D’Annunzio-soldato dove il Vate trascorre le
sue giornate in compagnia dell'ultima amante ufficiale Luisa Baccara, rinomata pianista alla quale dedica
un'intera stanza al Vittoriale. Entro queste mura, D'Annunzio visse gli ultimi
16 anni della propria esistenza, rinchiuso nella penombra della sua villa,
poiché, a causa della ferita all'occhio, era divenuto fotofobico o
semplicemente da buon esteta non voleva accettare l'onta della decadenza sul
suo volto. Di tutte le questioni relative ai medicinali, all’ipocondria, alle
polveri ed al suicidio è impossibile, allo stato degli studi, pronunziare una
parola finale, poiché il Vate fu per
anni una guida spirituale per il paese, con i suoi mistici sogni, con i suoi
ideali raffinati, il suo buon gusto in opere d'inchiostro e la sua eccessiva
mondanità.
Il 30
settembre del 1937 ci fu l’ultimo incontro con Mussolini: D'Annunzio raggiunse
il Duce alla stazione di Verona, per dissuaderlo dall'alleanza con la Germania
nazista.
La
vecchiezza mise di fronte il piccolo nume alla irrimediabilità della morte e lo
costrinse a ricercare disperatamente ciò che non poteva essere più: in una
lettera alla sorella del 1938 D'Annunzio scrive Io resto con il nulla che mi sono creato, segno che forse era il
momento della riconciliazione fra superuomo e uomo di mondo, fra peccato e
redenzione, fra mito e realtà. Questo il sogno d’un uomo mosso dalla passione,
corroso dalla febbre letteraria ed ammalato di poesia. La passione in tutto. Desidero le più lievi cose perdutamente, come le
più grandi. Non ho mai tregua…
Così
scriveva negli ultimi giorni della sua vita, rinchiuso nella sua prigione
dorata e nella penombra sepolcrale della sua Villa incantata.
D’Annunzio
morì nella sua villa il 1º marzo 1938 per un'emorragia cerebrale, osannato da
celebrazioni ufficiali che il regime fascista fece celebrare in suo onore in
solenni funerali di Stato.
Che
cosa rimane della vita d'un artista mosso dalla passione, travolto dalla
fiumana della voluttà, sospinto dalla scintilla di genio battagliero? Qualche
pagina in un'antologia scolastica, dei siti internet sparsi per la rete, un
film dal titolo D’Annunzio, tanta
poesia, tanta veemenza, fervore, entusiasmo, trasporto, tripudio per
l'inclinazione smisurata di quel genio che: Fece
della sua vita ciò che si fa d’un opera d’arte.
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