sabato 5 ottobre 2013

Dal sublime al pittoresco: l’alba della vita sui Monti Lattari di Massimo Capuozzo e Marziano Vicedomini

Tornando da un viaggio, è bello poter rivedere le sagome dei nostri monti e ci sentiamo finalmente a casa. Ci danno un senso di tranquillità, di protezione familiare quei dolci declivi che decrescono fino ad immergersi dolcemente nel mare.
Ma a mano a mano che ci avviciniamo, provenendo da nord o da sud, a mano a mano che ritorniamo a casa, il loro paesaggio diventa più netto, nitido, distinto. Le sagome si fanno più facilmente distinguibili e la loro varietà, quei dolci pianori che si alternano ad orridi immensi, ci rievoca una storia tormentata, geologicamente cominciata quando quei monti erano sommersi e facevano parte della piattaforma carbonatica tirrenica, in epoche tanto remote di cui è impossibile perfino immaginarne il senso, che si dilata fino a confondersi con l’eternità. Ed è in seguito ai movimenti di flessione e di torsione della catena appenninica, in seguito ad esplosioni vulcaniche di inimmaginabile portata - quelle del lontano vulcano di Rocccamonfina e quelle del più vicino bacino dei Campi Flegrei – che hanno avuto vita l’ossatura geologica della nostra felix Campania e, nella sua pianura centrale, il bastione di un monte, il Vesuvio che, in epoca protostorica e storica, avrebbe finalmente contribuito alla formazione ed alla definizione del nostro territorio.
Questa terra, amata e bestemmiata, che è diventata il nostro paesaggio interiore, offrì un quadro terribile e sublime in età remotissime, nei tempi preistorici, quando l’acqua ed il fuoco si contendevano il dominio della terra, ancora malferma, quando sconvolgimenti giganteschi, uragani spaventosi, continue oscillazioni del suolo, abbassavano, sollevava­no, cambiavano senza sosta la crosta terrestre.
La penisola sorrentina in quei tempi, prolungamento del monte Albino, era tutta circondata dalle acque; la valle oggi costituita dal Sarno era anch’essa sommersa ed il golfo di Napoli comunicava con quello di Salerno per mezzo di uno stretto che, incominciando dalla parte orientale del territorio di Cava de’ Tirreni, giungeva fino a Vietri.  E, quando le acque si ritirarono, la valle restò asciutta, più o meno come oggi la vediamo. Quel mare, che una volta aveva lambito le falde degli Appennini ed aveva riempito tutta la valle del Sarno, mettendo in comu­nicazione i golfi di Paestum e di Stabia, e quando il Monte Albino era ancora un’isola, quel mare si spargeva attraverso la piana di S. Severino, addentrandosi nella spaziosa valle, racchiusa fra Avel­lino, Avella e Conza, quel mare occupava tutta la pianura intermedia tra quelle montagne fino a Capri, quel mare un tempo aveva circondato ed inframmezzato i nostri monti, facendoli assomigliare, nei punti più elevati, ad un ampio arcipelago, per clima e per forma una specie di Bahamas nostrano.
I nostri monti sono tutti di formazione secondaria, nettuniana, e sono stati originati dall’addensarsi delle materie che l’acqua vi ha lasciato. Il Saro, il Saretto, il Solano, il Monte Albino e, sul nostro versante, il Megano, il Sant’Angelo, il Faito fino al monte Solaro a Capri sono aggregati di strati silicei e calcarei, sovrapposti gli uni agli altri, e fra essi si distinguono benissimo vestigia di mate­rie organiche, di conchiglie e conchigliette marine pietrificate.
La formazione vulcanica del Vesuvio fu l’origine del riempimento dei vuoti intermedi, dell’allontanamento del mare ed infine della congiunzione al continente: gli strati di tufo, che a varie profondità si estraeva dalle pianure di Nocera, di Pompei, di Nola, si trova anche sui monti di Vico Equense e di Sorrento, dimostrando che il Vesuvio, dal primo suo sorgere dal mare fino a quel fatidico 79 d.C., emise un’immensa quantità di ce­nere, di lapilli e di altre materie, da cui poi si formò il tufo; tali materiali, cadendo specialmente nel mare circostante, a poco a poco allontanarono le acque, fino a che, colmati tutti i monti ed i vuoti, fecero emergere la terra ferma.
Nessun uomo potette assistere a quelle lotte immani fra gli elementi e solo i fossili che si trovano un po’ dovunque sulle nostre montagne rimangono muti testimoni di questi cataclismi e, quando il caos si fece calma, lungo tutta la costa, una serie di ripari e di parti terminali di grotte a livelli diversi evidenziarono che l'ultimo sprofondamento della costa fosse avvenuto.
Siamo intorno a 8500 anni fa, un tempo geologicamente recente e la nostra terra era pronta ad accogliere l’uomo.
Quando l’umano bestione di vichiana memoria, nei secoli che se­guirono, venne in questa valle e su queste coste spinse sbigottito lo sguardo ai vulcani che le circondavano e che di notte vomitavano fuoco, fiamme e densi vapori; quando sentì il suolo mugghiare ed agitarsi sotto i suoi piedi, corse allora con la fantasia ad un potere soprannaturale ed immaginò che degli esseri superiori fossero venuti qui a contendersi il dominio del mondo. In questo modo egli aveva cominciato a sentire il bisogno di astrazione, a concepire l’idea di famiglia, di giustizia e di divinità e forse a concepire l’idea stessa di arte.
La nostra terra è già abitata da qualcosa di diverso rispetto all’ominide preistorico. Dopo oltre un secolo di scoperte di oggetti incisi e scolpiti, di grotte e di ripari ornati di pitture e di incisioni, la preistoria ci ha insegnato che le sue forme sono completamente assimilate alla storia generale delle arti figurative, di cui esse costituiscono, anche sui nostri monti, il primo capitolo.
L’indagine preistorica è competenza dell’antropologo che, come lo storico, cerca di ricostruire una probabile successione di eventi, ma deve contare su testimonianze non scritte dell’attività culturale dell’uomo. 
Una delle poche testimonianze della presenza dell’uomo sulla terra, per un lungo periodo di tempo, è stato il ritrovamento di una moltitudine di manufatti litici, utensili in pietra fabbricati intenzionalmente da uomini figli di una cultura paleolitica.
Ormai è accertato che fin dal Paleolitico l’uomo abbia occupato il nostro territorio, ma poco o nulla si sa della presenza di questi nostri antenati preistorici. Il contributo archeologico nella ricostruzione dell’esistenza della preistoria nell’ambito dei monti Lattari, attraverso le numerose grotte e tracce dell’arte preistorica che sono state rinvenute nel territorio, è ancora troppo esiguo. Ma di certo possiamo dire che, grazie al ruolo di ponte di collegamento che il Mezzogiorno assunse per i popoli migratori dall’Africa e dall’Oriente verso il nord Europa, tali popolazioni attraversarono l’area campana e vi lasciarono le tracce della loro presenza e le loro prime forme artistiche, come grotte e ciottoli incisi. Sono epoche ancora remote, che sfuggono anche al metro dell’immaginazione, quando la vita umana approdò nella nostra penisola, che conclude il golfo più bello del mondo.
Il Paleolitico, inteso come fenomeno espressivo di una prima forma di evoluzione culturale dell’uomo, fu introdotto nel nostro territorio dalle migrazioni di popolazioni che vi giunsero dai luoghi da dove tale fenomeno ebbe origine.
Il rinvenimento di siti archeologici lungo tutta la valle del Sarno con il suo naturale prolungamento nella penisola sorrentina e nell’isola di Capri attesta la presenza umana del Paleolitico[2], del Mesolitico e del Neolitico e rivela che già nel Paleolitico inferiore la dorsale dei Lattari - all’epoca tutt’uno con Capri - era frequentata dall’uomo.
Le più antiche tracce della presenza di forme preistoriche nel territorio furono rinvenute, a Capri, nei primi anni del Novecento durante gli scavi per l’ampliamento dell’Hotel Quisisana: a circa 5 metri di profondità, fu ritrovato uno strato di argilla rossa mescolato a limo, armi, attrezzi e resti d’ossa dell’età Paleolitica. Questi erano ricoperti da cenere e da lapilli di origine vulcanica antecedenti le eruzioni flegree. Le numerose ossa di animali preistorici testimoniano la diversità del clima e delle caratteristiche geologiche ed avvalorano che l’isola di Capri fosse collegata alla terraferma, oltre al fatto che sotto punta Campanella c’è un istmo con evidenti segni di periodi di emersione.
Tra le ossa dei grandi mammiferi ci sono quelle del mammut, dell'orso delle caverne, dell'ippopotamo, del cervo, del maiale, del rinoceronte, del cane. Queste specie, tipiche di climi diversi, fanno ipotizzare che tali animali coesistessero tra loro, oppure che nel banco di argilla fossero confluiti depositi provenienti da giacimenti diversi. Le armi appartengono al periodo in cui l'uomo viveva di caccia, riconducibili all'età quaternaria, in pietra scheggiata di quarzite e di selce, materiali non reperibili sull'isola di Capri. Ciò attesta che un tempo Capri faceva parte di un complesso più grande, con corsi d'acqua e boschi[3].
Anche nel territorio di Massa Lubrense vi sono testimonianze che fin dal Paleolitico medio le grotte fossero frequentate da piccoli nuclei umani. Di particolare rilievo è la grotta dello Scoglione nella baia del Cantone che ha restituito oltre ad oggetti litici anche resti di cervo, di bue e di stambecco. Strumenti munsteriani sono invece testimoniati in alcune grotte della Punta della Campanella.
Prove di insediamenti umani nel Mesolitico e nel Neolitico sono attestate dalla scoperta di grotte tra cui quelle di La Porta e di Matera a Positano, ed ancora la grotta delle Felci a Capri, ed infine la grotta Nicolucci a Sorrento e la grotta delle Noglie nella Baia di Ieranto.
Anche nella Grotta di La Porta, originariamente molto grande, ma di cui è crollata tutta la parte anteriore, situata all’ingresso di Positano in corrispondenza dell’omonima insenatura marina, fu rinvenuto un ciottolo inciso con la testa di un animale, probabilmente un cavallo che testimonia l’ultimo scorcio del Paleolitico: l’animale inciso era quello che si voleva cacciare e la pietra su cui esso era inciso era utilizzata per un rito di propiziazione. Il particolare dell’incisione dell’animale sul ciottolo rivela come la cultura preistorica concepiva l’animale: per la maggior parte delle nostre religioni, esso, sacro o cacciato, mangiato o sacrificato, eroe o mostro, totem o mito, dio o demone, occupa un posto importante, talvolta persino preponderante nelle arti profane e sacre come se la sua immagine, da sola, bastasse a soddisfare lo sguardo ed il pensiero. Sotto molteplici forme grafi­che, plastiche, ma anche letterarie, l’animale compare nella sua nuda o immaginaria bellezza.
La caccia, da quanto emerge dal rinvenimento di queste forme d’arte, è anche sui nostri monti al centro dell’evoluzione delle società preistoriche fin dalla loro più lontana comparsa. I rapporti sociali ed economici si stabili­scono anche qui in funzione della sua organizzazione e dei cambiamenti causati dal­le variazioni climatiche ed ecologiche.
Anche per questi nostri antenati primordiali, l’arte è stata essenzialmen­te animalistica nell’ispirazione ed ha derivato la sua originale e primitiva bellezza proprio dal­le raffigurazioni di animali. L’unione estetica e simbolica degli artisti di quei popoli cacciatori con la grande fauna selvatica è l’erede dei rapporti del­l’uomo con l’animale, divenuti sempre più complessi e intensi dall’alba del­l’umanità. Per questi nostri antenati, oppressi dalla natura perfino nelle più piccole attività, la caccia era azione. Per la mobilità, l’aggressività, la resistenza o la forza, moltissimi animali rappresentano una sfida per i popoli cacciatori: prima di divenire prede uccise, essi sono selvaggina bramata, sogni di un immaginario quotidia­no imposto dalla fame. Le pelli di alcuni diventano trofei che facevano re­gnare negli accampamenti e nelle capanne lo spirito inafferrabile della bel­va dominata, ma ancora temuta. Tutte queste mi­rabili opere d’arte ereditano la propria profonda bellezza dall’animale, naturale protagonista per gli uomini preistorici nel loro comune destino di vita e di morte, attraverso gli ampi spazi selvaggi.
Altre tracce che attestano l’esistenza di una cultura preistorica con le prime forme d’arte sono state rinvenute anche in altre due grotte: La Grotta Nicolucci di Sorrento e la Grotta delle Felci di Capri.
La Grotta Nicolucci, situata in periferia nell’alto dirupo calcareo, a circa 20 metri dal livello stradale, ha il nome del suo scopritore G. Nicolucci che, nel corso della seconda metà del XIX secolo, si adoperò alla ricerca di presenze preistoriche nelle province campane. Essa conteneva una sequenza stratigrafica piuttosto ampia, comprendente in basso strati del neolitico ed in alto materiali riconducibili al IV secolo a.C.
La Grotta delle Felci, che prende nome dalle numerose piante di felce radicate al suo interno è situata presso la costa sud-orientale dell’isola ed è una testimonianza fondamentale per la conoscenza della preistoria di Capri e, più in generale, per gli studi archeologici dei Monti Lattari.
La grotta ha forma irregolare e misura circa 20 x 14 metri ed è poco visibile a causa di un grande masso crollato dalla montagna e situatosi proprio davanti all'ingresso.
Le indagini furono iniziate da Ignazio Cerio alla fine dell’Ottocento: dalle frammentarie osservazioni dei vecchi scavi risultava che lo strato superficiale conteneva, oltre a cocci moderni, anche ceramiche romane e dell’età del Bronzo, indizio di un’ininterrotta frequentazione del sito.
Il gran numero di schegge ritrovate di ossidiana, selce e giada, durante gli scavi di Cerio, attestano la lavorazione di tali materiali importati nella preistoria come l'ossidiana proveniente dalle Eolie, la selce dagli Appennini e la giada dalla Liguria.
I successivi scavi, promossi dall'Istituto Italiano di Paleontologia e guidati da Rellini nel 1922, alla fine hanno potuto stabilire che la grotta è stata frequentata dall'uomo gia in età molto antica, i reperti ritrovati coprono un arco temporale che va dal Paleolitico Superiore fino all'Età del Bronzo.
Al di sotto dei materiali dell’età del Bronzo (1700-1000 a.C.) sono stati inventariati e studiati reperti neolitici (4000-3500 a.C.) e, a quasi sei metri sotto questi ultimi, furono ritrovati dei livelli sabbiosi e vulcanici con faune prevalentemente costituite da cervidi e molluschi di terra.
I lavori si scavo effettuati in anfratti della parte nord-occidentale della grotta portarono alla luce sei o sette sepolture ad inumazione di epoca neolitica con ricco corredo. Questo evidenziava la presenza di una cultura Neolitica che segnalava come tale grotta avesse all’epoca una funzione a scopo funerario o rituale. I resti umani erano corredati da due macine in arenaria, assieme ai loro macinelli, dipinti con ocra rossa e da oggetti di ceramica: facendo il confronto con altre sepolture simili si è dedotto che, probabilmente i morti erano stati sepolti nel corso di particolari riti funebri in cui venivano tinti con ocra rossa. Nello strato più antico, furono rinvenuti cinque ciottoli su cui erano dipinte, sempre con ocra rossa, alcune figure umane stilizzate, comuni anche ad altri siti tardopaleolitici in Spagna, Francia, Liguria e Sicilia: confrontando questi oggetti con altri simili in uso presso quelle popolazioni coeve, gli antropologi li hanno interpretati come oggetti religiosi che rappresentano simbolicamente lo spirito degli antenati.
La Grotta delle Felci aveva quindi un’evidente funzione rituale, sottolineata anche dal rinvenimento di amuleti in pietra con raffigurazioni magico-religiose e di ceramiche di particolare raffinatezza.
Essa mantenne il suo ruolo sacrale per tutta la preistoria: furono ritrovati nella grotta, un grosso e pregiato pugnale di selce eneolitico (3500-2300 a.C.) e vasi riccamente decorati databili all’età del Bronzo.
La Grotta delle Felci era utilizzata dall'uomo primitivo inizialmente come luogo di culto e sepoltura, poi come luogo dove ripararsi in periodi climatici avversi.
I materiali ritrovati, sono presenti non solo nel museo di Antropologia di Roma, ma anche al Museo Nazionale di Napoli, mentre un’interessante collezione è custodita nel centro "Cerio" a Capri stessa.
Il rito funerario é certamente indizio di un’evoluzione culturale del mondo preistorico perché ne segnala l’evoluzione verso una concezione della vita e della morte meno animale e sempre più umana. Queste sepolture sono, infatti, la testimonianza di comportamenti par­ticolari, talvolta molto complessi, legati alla morte ed alla sua proiezione psichica, persino metafisica o religiosa.
A seconda delle varie fasi preistoriche e delle loro diverse culture, si notano differenze importanti, ma i principali trat­ti archeologici dei rituali di morte posti in evidenza dagli scavi, dall’ini­zio di questo secolo, consentono di riassumere e di riunirli in questi modi: scavo di una fossa con talvolta una o più operazioni secondarie, quale lo spargi­mento di ocra rossa oppure la posa di un coperchio fatto di pietre; po­sizioni diverse imposte ai corpi, che implicano in certi casi legature con flessioni forzate delle membra; oggetti ornamentali dei morti e deposi­zione di armi, di utensili, di offerte sacrificali certamente varie ma le cui uniche vestigia conservate sono, per esempio, palchi di cervidi, crani ed estremità dì zampe di erbivori.
È in questa anteriorità delle stirpi e delle culture che conviene cercare i primi vaghi gradi di un’ascesa della coscienza verso la pratica metafisi­ca di un aldilà del reale, di cui l’arte è un’espressione compiuta.
Altre tracce della presenza dell'uomo nel Neolitico e nell'Età del Bronzo sono state trovate in altre zone di Capri ed Anacapri[4].
Le indagini stratigrafiche e delle tre importanti grotte dove sono stati condotti gli scavi, la Grotta La Porta, la Grotta del Mezzogiorno e la Grotta Erica, hanno evidenziato forti analogie: gli scavi hanno restituito un gran numero di molluschi terrestri e marini e il resto degli animali è rappresentato da resti di mammiferi, uccelli, anfibi e pesci. Le genti che frequentavano le grotte avevano un’economia basata prevalentemente sulla raccolta di molluschi, mentre la caccia agli uccelli come ai mammiferi aveva un ruolo piuttosto marginale. I molluschi marini prevalgono rispetto a quelli terrestri negli strati più recenti perché, evidentemente, il livello del mare dovette innalzarsi e le grotte si trovarono in prossimità del mare, favorendo così la raccolta di quelli marini. Il prevalere fra questi molluschi da spiaggia e da laguna su quelli da scogliera fa pensare a coste basse e lagunari, prima dei successivi assestamenti geologici. Tra i mammiferi presenti i resti più cospicui sono rappresentati da ossa di cinghiale e di stambecco, poi di cervo, capriolo e altri: ciò dimostra che nel periodo in cui le grotte furono abitate le pendici dei Monti Lattari cominciavano a coprirsi di vegetazione e gli animali di macchia o di foresta vi trovavano un habitat particolarmente favorevole, mentre sulle loro vette gli stambecchi continuavano ad essere rappresentati, seppur in misura minore. I cinghiali in aumento e gli stambecchi in diminuzione sono infatti segni che intorno a 8500 anni fa, la foresta si infoltiva ed il clima evolveva in senso caldo e oceanico. Nella penisola sorrentina i gruppi umani continuarono ad esercitare la raccolta dei molluschi anche quando grossi mammiferi tornarono a popolare i monti: l'esperienza del Mesolitico, inizialmente imposta dai mutamenti climatici ed ambientali, aveva ormai profondamente caratterizzato il sistema di vita di queste popolazioni costiere. Pur essendosi verificate condizioni favorevoli alla sua ripresa, la caccia costituiva un’attività marginale e, sebbene non cessasse mai completamente, assunse un ruolo sempre minore rispetto alla raccolta dei molluschi, un’attività che vantava ormai una così lunga e radicata tradizione da aver determinato un diverso orientamento nel sistema di vita economico e culturale.
Gli strumenti in pietra che i frequentatori di queste grotte usavano nel quotidiano, la cosiddetta industria litica[5], illustra bene il cambiamento di abitudini alimentari cui si è accennato: l'economia basata sulla caccia vede uomini costretti ad allontanarsi dalla grotta e dunque una tendenza al nomadismo, contrariamente alla raccolta dei molluschi che si fondò su un modo di vita decisamente sedentario. Le popolazioni più antiche dedite alla caccia trovavano, la materia prima per fabbricare gli strumenti su un'area molto più vasta, grazie a continui spostamenti; le popolazioni dedite alla raccolta utilizzavano raschiatoi, grattatoi, bulini, lame, punte ottenute da ciottoli marini, selci e diaspri rinvenibili nel ristretto raggio di azione attorno alle grotte. Questi ultimi strumenti si presentano dunque piccoli per l'uso cui erano deputati e per le ridotte dimensioni della materia prima. Taluni sono stati interpretati come scalpelli per patelle, mentre delle lame a margine ricurvo ricordano morfologicamente coltelli da chiocciolaio. Non mancano punte e punteruoli ossei.
Una breve considerazione a parte merita la Grotta delle Noglie, una grotta di piccole dimensioni, situata lungo il declivio meridionale di Monte San Costanzo, domina il golfo di Nerano e la parte orientale del promontorio di Punta della Campanella risale all’età neolitica e rappresenta un momento di passaggio ad una economia agricola. È una piccola cavità di accesso abbastanza agevole e fu studiata a più riprese da parte di M. W. Stoop che recuperò alcuni frammenti ceramici grezzi e del materiale litico, appartenenti presumibilmente alla cultura del Gaudo. Un’accettina verde, probabilmente votiva, è stata rinvenuta in prossimità della grotta; altri strumenti litici, già raccolti dal Bonucci nel 1866 e 1867, tra il villaggio di Acquara ed il Deserto, documentano una frequentazione piuttosto importante del territorio durante l’Eneolitico.

[1] Marziano Vicedomini è nato a Gragnano il 24/07/1972. Risiede a Casola di Napoli, in Via Roma 211. Ha frequentato l’I.T.C. “Don Lorenzo Milani” conseguendo la maturità tecnico-commerciale nell’anno scolastico 1992. Si è laureato a pieni voti in giurisprudenza presso l’Università “Federico II” con tesi sul procedimento dinnanzi al giudice di pace. Ha continuato a coltivare i suoi interessi in campo storico-filosofico. Esercita con successo la professione di Avvocato penalista sul nostro territorio.
[2] come dimostrano le tracce trovate nell’area del Hotel Quisisana a Capri.
[3] I ritrovamenti sono conservati al Centro Caprense Ignazio Cerio, al Gabinetto di Antropologia di Napoli e al Museo Preistorico di Roma.
[4] nelle località Due Golfi, Tiberio, Tragara, Castiglione, Campo di Prisco e Campitello.
[5] conservata presso il Museo L. Pigorini a Roma

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