lunedì 19 maggio 2014

La Chiesa di S.Maria delle Vergini a Scafati di Rosa Pirone

La chiesa di S. Maria delle Vergini, ha origini remote ma non precisabili, la collocazione della sua nascita nel tempo è vaga, addirittura per quanto attiene al secolo. Secondo Vincenzo Rioles – Cenni storici su Scafati, del 1923 – il documento più antico in cui se ne faccia menzione, conservato nell’archivio diocesano di Nola, sarebbe una bolla di Innocenzo III emanata nel 1215 nella quale il pontefice, “accennando i confini della Diocesi di Nola, fa memoria della chiesa Ricettizia S. Maria delle Vergini a Nord-Ovest della stessa”.
Il primo millennio dell’era cristiana è buio: in mancanza di cronache o documenti espliciti, siamo liberi di individuare un periodo, diciamo l’alto medioevo, quando un’ecclesia, vale a dire una prima comunità di fedeli scafatesi, possa essere venuta aggregandosi. Per quanto riguarda il carattere ricettizio questa chiesa è definita tale “ab immemorabili[1].
Per molti secoli questa chiesa dovette avere una consistenza molto modesta e comunque in subordine rispetto alla chiesa dell’Abbazia di Santa Maria di Realvalle a San Pietro, fondata da Carlo d’Angiò nel tredicesimo secolo.
Per ottenere delle informazioni riguardanti la chiesa, occorre rifarsi ad una bolla papale del 1523, il cui contenuto è noto attraverso copie di copie, e sulla cui autenticità più di un dubbio è stato insinuato già nel primo Ottocento. La bolla, emanata da Clemente VII dei Medici, il 1523, fu spedita il 2 novembre dello stesso anno al vescovo di Lettere. In essa si rileva come la Chiesa Parrocchiale di S. Maria delle Vergini fosse fondata, costruita e dotata dall’Universitas (termine col quale anticamente si designava il Comune) di Scafati, con L’obolo dei fedeli, e come ciò fosse avvenuto in un tempo antico non meglio precisato. Altro documento importante è il resoconto della santa visita del 1561 effettuata dal vescovo nolano di allora Mons. Antonio Scarampa[2].
Per quanto riguarda l’edificio, almeno nella pianta, non ha subito da allora mutazioni. Manca nella cripta qualsiasi traccia di murature antecedenti o elementi architettonici discordanti che potrebbero far pensare a sovrapposizioni di edifici diversi, la chiesa com’è oggi, fu, nelle grandi linee, costruita assieme alla cripta. Essa è l’insieme delle fondazioni predisposte e suddivise come sepolture. Mons. Scarampa, ispezionò nel 1561, una chiesa di estensione pari all’attuale (m. 22.50 di larghezza per 42 di lunghezza) che certamente ha subito modifiche nei secoli successivi, ma solo in altezza e nella disposizione degli spazi interni[3]. Di notevole importanza, è il resoconto di una santa visita successiva: quella del 1615, che, dopo un fugace accenno all’ispezione del battistero, dell’eucarestia e della custodia dell’olio santo, ci permette di ricavare che la cappella di S. Maia del Parto fosse patronato della famiglia “de Maro” e che esisteva una cappella di “Mariae de Virginibus in qua est erecta Confraternitas laicorum”: questo è il primo e fondamentale riferimento all’instaurazione nell’ambito della chiesa di un vero e proprio culto di S. Maria della Vergini e di una confraternita laica ad essa dedicata. Degna di nota, la specificazione dell’esistenza in chiesa di un ricco reliquiario “di rame cipro” contenente reliquie dei Santi Fortunato, Bonifacio, Lorenzo, Maurilio, Cordelio, Longino, Biagio, Stefano, e di una santa, Pontiana, oltre ad una “pietra della casa dove si incarnò N.S.” e “Lo legno della Croce”.
Altre famiglie notabili scafatesi che avevano diritto di patronato su cappelle della chiesa, oltre ai già menzionati D’Amaro, erano i Cisale (S. Maria delle Grazie) ed i Morlicchio ( S. Maria del Carmelo).

Tre ulteriori sante visite, susseguitesi nel corso del Seicento sono avare di notizie e di nessuna pratica utilità. Per quanto riguarda il Settecento, ci vengono in aiuto solo scarsi e sporadici riferimenti in carte d’archivio.
Il primo è del 1752. Scafati era allora ancora un feudo del Principe di Valle e narra come una commissione di quattro ingegneri fosse stata da questi inviata a Napoli a Scafati per ispezionare lo stato miserevole in cui si trovava l’edificio, e proporre degli interventi. Essi proposero di ricostruire la cupola poiché lesionata dalle intemperie, le autorità comunali autorizzarono la ricostruzione della cupola e dei tetti delle cappelle anch’esse lesionate. Cupola lesionata e minacciante di crollare, cappelle dal tetto sfondato e tenute su con opere provvisorie di sostegno: questo è il quadro che emerge dal manoscritto, assieme alla buona volontà sia del barone che delle autorità cittadine di riportare la chiesa ad una situazione di decoro e sicurezza per i frequentatori.
Nel 1769 le stesse autorità vengono nella determinazione di sostituire la balaustra dell’altare maggiore: decidono di “fare una palaustrata” di marmo sostituendola a quella di legno, e per fare ciò incaricarono il “Professore Marmoraro” D. Giuseppe Cimmafonte. La bella balaustra che tuttora esiste, è datata quindi 1769 o poco dopo; non è molto azzardato attribuire alla stessa epoca ad allo stesso artigiano anche l’altare maggiore e l’altare dell’Arciconfraternita, trasferito nella sua sede attuale dall’interno della chiesa principale, dove doveva trovarsi nel transetto di destra. Per quanto riguarda il battistero, si è avuta la soddisfazione di poter attribuire l’opera al Cimmafonte, difatti ispenzionandone l’interno per controllare la data in esso incisa (1761) e la sua posizione si è rilevato che la data è sormontata da due iniziali CF, che stanno per Cimmafonte Fecit.
Il 26 giugno 1769 ha luogo un’altra visita da parte dell’ordinario diocesano. Scarni gli atti, resi interessanti dal solo fatto che per la prima volta viene menzionata la sacrestia, nella quale il vescovo chiede venga istallata una fontanina di marmo per l’abluzione delle mani dei sacerdoti prima e dopo la messa (probabilmente si tratta del lavabo che si trova tuttora in sacrestia.
Gli interventi di restauro proseguono senza sosta: nel 1777 viene deciso di rifare il tetto dei “tre Cappelloni”, il tetto sovrastante la cupola, e lo smantellamento del “lanternino di piombo”.
Questo è anche il secolo in cui la chiesa la chiesa si arricchisce di alcuni tra i più pregevoli dipinti (a parte quelli del polittico probabilmente già posto da tempo): la stupenda Madonna del Carmelo con le anime purganti di Fedele Fischetti, firmata e datata 1759, che si trova nel transetto di sinistra; la tela di Angelo Mozzillo, datata e firmata 1787, raffigurante la Madonna con S. Giovanni Battista e la Maddalena, a sinistra dell’altare maggiore; i due tondi siti nell’area presbiterale, uno raffigurante un angelo custode, l’altro San Michele arcangelo, attribuiti a Giuseppe Bonito; l’Adorazione dei pastori, nella navata sinistra, attribuita a Pietro Bardellino; la Madonna con S. Antonio di Padova e S. Francesco d’Assisi, di autore ignoto, nella navata destra; sotto la volta della navata centrale la Madonna in gloria con i santi anch’essa di autore ignoto del Settecento e la statua lignea della Madonna delle Vergini, attribuita a Nicola Fumo ed all’anno 1713.
Tutto ciò induce a pensare che l’edificio sia stato riattato a fondo proprio nel XIX secolo, poiché tante opere d’arte che vi sono ospitate furono collocate al loro posto dove le vediamo in funzione dei nuovi spazi, e, superfici, che si erano venute a creare.
Il pantheon interno è anche mutato rispetto a quello settecentesco, altro indizio che punta ad una profonda ristrutturazione del luogo di culto, forse anche in conseguenza all’incendio verificatosi, nel corso del precedente secolo[4]. La chiesa che era stata fino ad allora ricettizia innumerata, diventa numerata, venendo fissato in sedici il numero di costoro, compreso il parroco e viene elevata allo stato giuridico di collegiata.
L’Ottocento è il secolo più documentato, in prevalenza da incartamenti relativi a lunghe liti giudiziarie tra il Comune da una parte e la chiesa ed il vescovo dall’altra, quando il patronato laicale fu posto in discussione.
Nel 1860 fu eretto il nuovo edificio dell’Arciconfraternita, cha da allora ospita sull’altare maggiore della relativa cappella la statua titolare di S. Maria delle Vergini, all’uopo rimossa dalla nicchia dove era collocata S. Anna nel transetto di destra della chiesa. La nuova costruzione fu realizzata previo abbattimento di un edificio circolare che ospitava il battistero e un paio di edicole che si affacciavano sul Sarno, una con un crocifisso, l’altra con un’immagine sacra impossibile da identificare, ma forse della stessa Madonna delle Vergini.
Un’altra tornata di lavori decorativi importanti ebbe termine nel 1866, anno in cui il pittore Vincenzo Galoppi firmò, datandola, l’ultima delle due fatiche alla cupola delle volte della chiesa, un Coro di angeli musici immediatamente sopra l’ingresso. L’artista aveva allora già dipinto il maestoso interno della cupola, illustandovi nel contesto di angeli e santi, scene della disputa teologica tra Francescani e Domenicani sulla verginità di Maria, ed altri affreschi sull’area presbiterale (proclamazione del dogma dell’immacolata da parte di Pio IX; Gesù tra i pargoli); sul transetto di destra, San Domenico di Guzman che predica il rosario e su quello di sinistra una scena biblica; ed infine un secondo Coro di angeli musici sotto la volta della navata centrale. Opera dei suoi aiutanti sono invece le figure di santi, profeti, personaggi femminili del Vecchio Testamento, allegorie delle virtù cardinali e teologali in veste femminile, che adornano unghie, lunette e sesti della cupola, delle volte e dei finestroni, che essendo state nel tempo a più riprese sfigurate dalle intemperie e dalle infiltrazioni, hanno subito restauri non sempre felici. È interessante notare che la dedica che figura alla base interna della cupola “MARIAE VIRGINI ANTE PARTUM IN PARTU POST PARTUM HOC TEMPLUM DICATUM” ci riconduce ad un dimenticato culto di S. Maria del Parto alla quale era innalzato un altare nel Cinquecento.
Passato poco più di un ventennio dalla sua costruzione, quando l’edificio dell’Arciconfraternita venne devastato da un terribile incendio; questo scoppiò la notte del 2 febbraio 1882. La statua ne uscì piuttosto malconcia e fu necessario un intervento di restauro eseguito dal “valente scultore Avallone”. La cappella venne riportata al pristino stato, ed una lapide collocata al suo interno a ricordare l’avvenuto restauro.
Il 1906 segna un’altra data importante per l’Arciconfraternita: è in questo anno che gli scafatesi chiesero al vescovo Agnello Renzullo di rendersi tramite presso il Capitolo vaticano acciocché la statua della Patrona venisse incoronata, beneficiando di quanto disposto per casi del genere fin dal sedicesimo secolo da parte del conte Alessandro Sforza, che aveva destinato all’uopo le opportune risorse finanziarie. Il breve di accettazione dell’istanza pervenne da Roma e il 21 luglio si procedette a fregiare il capo della statua della corona aurea e dell’aureola di dodici stelle.
Con l’opera tenace e proficua dei parroci che si sono susseguiti alla guida della chiesa, Sabato Aiello, Vincenzo Rioles, Domenico Cannavacciuolo ed Angelo Pagano e con il concorso delle autorità cittadine, del clero e della popolazione, è stata operata una serie ininterrotta di restauri sia al corpo principale della chiesa sia alla cappella dell’Arciconfraternita.
La chiesa pur dopo le spoliazioni ed i trafugamenti subiti, rimane depositaria di un patrimonio artistico eccezionale in termini generali ed unico a livello locale.
Rosa Pirone



[1] Receptitiae erano quelle chiese formate da un collegio di chierici al quale potevano essere recepti, cioè ammessi, soltanto coloro che erano originari del luogo in cui esse sorgevano. L’organizzazione ricettizia era una delle forme più semplici e più primitive, che una comunità locale potesse darsi, e questo soltanto ci porta a concludere che anche la ricettizia di S. Maria delle Vergini potrebbe essere ascritta al primo insorgere di tali entità nel Meridione. Un altro carattere che accomunava le ricettizie è che di norma esse erano di patronato di qualche famiglia, o del comune: così fu anche per quella di Scafati. Il diritto di patronato consisteva nel fatto che ai fondatori era riservato il privilegio di presentare all’autorità ecclesiastica i candidati ad un beneficio di aver voce in capitolo per la designazione dei chierici e del parroco.
[2] Ad esso possiamo far riferimento per alcune informazioni di grande valore storico. Emerge che l’altare maggiore era adorno di un grande gruppo ligneo dorato raffigurante la Madonna, S. Pietro e S. Michele: non c’era dunque ancora, nel 1561, il grande polittico che ora si ammira, eretto qualche tempo dopo anche se alcuni quadri che lo compongono (le quattro figure di santi) erano già dipinti.
La chiesa aveva una serie di cappelle sulla navata sinistra, e di altari su quella destra, dov’era anche il battistero, di modo che, seguendo un percorso antiorario a partire dall’altare maggiore si incontravano sul seguente ordine: una cappella decorata dedicata a S. Maria del Parto; una cappella dedicata all’Annunziata; una ex cappella appartenente alla confraternita in onore della Madonna delle Grazie, il cui altare era adorno di un’icona lignea in rilievo raffigurante la Madonna stessa con S. Elena e S. Marta, ed un’ultima cappella dedicata a S. Maria ed altri santi, con statua in legno della Madonna, arricchita da due colonne. Numerose sepolture si notavano al pavimento di queste ultime cappelle laterali. Passando davanti alla porta di accesso alla chiesa e portandosi sull’altro lato, seguendo lo stesso percorso, si incontrava per primo un altare dedicato a S. Leonardo, poi il battistero, e poi due altari disadorni.
[3] Una lapide/botola che fino ad alcuni decenni fa chiudeva l’accesso ad uno degli avelli gentilizi sul pavimento della chiesa recava questa scritta: D.O.M. DE FAMILIA COSMI ET DAMIANI AGNELLI FIENGA A.D. 1623. (per misericordia di Dio Onnipotente / della famiglia di Cosimo e Damiano Aniello Fienga / nell’anno del Signore 1623). L’epigrafe attesta che la cripta è stata usata almeno a partire dall’inizio del ‘600 e fissa una data ante quem per la costruzione dell’assieme, che se prendiamo per buona la bolla del 1523, possiamo ascrivere al quindicesimo secolo.
[4] In chiusura del secolo l’università di Scafati volle redigere gli statuti della chiesa, alla cui stesura parteciparono tutti i membri del clero. In essi si indica come l’amministrazione della chiesa fosse sempre tenuta dall’università, che ne nominava il parroco, presentando il candidato al vescovo per l’istituzione.

Nessun commento:

Posta un commento