PREFAZIONE
Rimangono rimangano
questi canti su la tomba di mio padre!... Sono frulli d'uccelli, stormire di
cipressi, lontano cantare di campane: non disdicono a un camposanto. Di qualche
lagrima, di qualche singulto, spero trovar perdono, poiché qui meno che altrove
il lettore potrà o vorrà dire: Che me ne importa del dolor tuo?
Uomo che leggi,
furono uomini che apersero quella tomba. E in quella finì tutta una fiorente
famiglia. E la tomba (ricordo un'usanza africana) non spicca nel deserto per i
candidi sassi della vendetta: è greggia, tetra, nera.
Ma l'uomo che da quel
nero ha oscurata la vita, ti chiama a benedire la vita, che è bella, tutta
bella; cioè sarebbe; se noi non la guastassimo a noi e a gli altri. Bella
sarebbe; anche nel pianto che fosse però rugiada di sereno, non scroscio di
tempesta; anche nel momento ultimo, quando gli occhi stanchi di contemplare si
chiudono come a raccogliere e riporre nell'anima la visione, per sempre. Ma gli
uomini amarono più le tenebre cha la luce, e più il male altrui che il proprio
bene. E del male volontario dànno, a torto, biasimo alla natura, madre
dolcissima, che anche nello spengerci sembra che ci culli e addormenti. Oh!
lasciamo fare a lei, che sa quello che fa, e ci vuol bene.
Questa è la parola
che dico ora con voce non ancor ben sicura e chiara, e che ripeterò meglio col
tempo; le dia ora qualche soavità il pensiero che questa parola potrebbe esser
di odio, e è d'amore.
Livorno, marzo del
1894.
Lavandare
Da Myricae[1]
di Giovanni Pascoli
·
Lavandare, poesia pascoliana
inserita nella terza edizione di Myricae (1894), è un testo assai indicativo
per mettere in luce sia alcune costanti della poetica del suo autore sia l’evoluzione del gusto e dello stile della raccolta, che ne
1894 arriva a raccogliere ben centosedici testi, rispetto ai ventidue
originari.
·
Il madrigale presenta un breve scorcio di campagna,
di cui l’occhio del poeta coglie soprattutto dettagli visivi ed uditivi,
che compongono una visione inedita e straniante, la quale serve a cogliere un
tratto psicologico (la
solitudine di una donna e il dolore del poeta stesso).
·
Forma
metrica per
musica polifonica, modellata sulla struttura della ballata e dello strambotto. Il madrigale è costituito
da terzine di endecasillabi o settenari (solitamente da due a cinque), chiuse
da un distico, anche a coppia, o da un verso isolato. Il madrigale, a partire
dal Canzoniere di
Petrarca (in cui compaiono quattro madrigali) ha un discreto successo in
ambito letterario, fino al suo recupero otto - novecentesco con Carducci, D’Annunzio e Pascoli (come nella poesia Lavandare).
Nel campo mezzo
grigio e mezzo nero[2]
resta un aratro senza buoi, che
pare
dimenticato, tra il vapor
leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare[3] delle lavandare
Il vento soffia e nevica
la frasca[6],
e tu non torni ancora al tuo
paese!
quando partisti, come son
rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese[7].
Novembre
Gemmea[8] l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi[9] gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo[10] l'odorino amaro
senti nel cuore[11]...
Ma[12] secco
è il pruno, e le stecchite piante
di nere
trame segnano il
sereno[13],
vuoto il cielo, e
cavo al piè sonante
sembra il terreno[14].
Silenzio, intorno:
solo, alle ventate,
odi lontano, da
giardini ed orti,
di foglie un
cader fragile[15]. È l'estate,
fredda, dei morti[16].
X Agosto
·
X
Agosto esce su rivista nel 1897 e viene
raccolta nella quarta edizione di Myricae lo stesso
anno. La poesia è scritta nel 30°
anniversario dalla morte di Ruggero Pascoli, padre
del poeta: viene rievocato il momento in cui egli, ucciso, non torna al
"nido", provocando disperazione nella famiglia in attesa (i
"rondinini").
·
Nel componimento il
piano biografico viene trasposto su un piano cosmico: tale
slittamento è probabilmente derivato da Leopardi (ad esempio in A
se stesso), sebbene linguisticamente l'eco più diretta sia
manzoniana (con la parola "attonito", che rievoca il Cinque maggio).
·
Dal punto di vista metrico, le quartine
sono composte da decasillabi e novenari alternati. La
compresenza di elementi cosmici in uno scenario
familiare, che ne stempera la potenza rispetto all'immaginario
romantico, rappresenta una delle caratteristiche principali della poesia
pascoliana. La grandezza di Pascoli - come sosteneva Debenedetti - è nella
sua "rivoluzione inconsapevole", nella sua capacità di tenere
costantemente il linguaggio della poesia a cavallo tra due mondi.
San Lorenzo[17], io lo so
perché tanto
di
stelle per
l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel
concavo cielo[18] sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.
Ora è là, come
in croce[19], che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano[20].
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli
aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano[21] in vano:
egli immobile, attonito,
addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni[22], infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle[23] lo inondi
quest’atomo opaco del Male[24]!
I due fanciulli
Da Poemetti[25]
di Giovanni Pascoli
I
Era
il tramonto: ai garruli trastulli
erano intenti, nella pace d’oro
dell’ombroso viale, i due fanciulli.
erano intenti, nella pace d’oro
dell’ombroso viale, i due fanciulli.
Nel
gioco, serio al pari d’un lavoro,
corsero a un tratto, con stupor de’ tigli,
tra lor parole grandi più di loro.
corsero a un tratto, con stupor de’ tigli,
tra lor parole grandi più di loro.
A
sé videro nuovi occhi, cipigli
non più veduti, e l’uno e l’altro, esangue,
ne’ tenui diti si trovò gli artigli,
non più veduti, e l’uno e l’altro, esangue,
ne’ tenui diti si trovò gli artigli,
e
in cuore un’acre bramosia di sangue,
e lo videro fuori, essi, i fratelli,
l’uno dell’altro per il volto, il sangue!
e lo videro fuori, essi, i fratelli,
l’uno dell’altro per il volto, il sangue!
Ma
tu, pallida (oh! i tuoi cari capelli
strappati e pésti!), o madre pia, venivi
su loro, e li staccavi, i lioncelli,
strappati e pésti!), o madre pia, venivi
su loro, e li staccavi, i lioncelli,
ed
«A letto» intimasti «ora, cattivi!»
II
A
letto, il buio li fasciò, gremito
d’ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d’ogni angolo al labbro alzino il dito.
d’ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d’ogni angolo al labbro alzino il dito.
Via
via fece più grosse onde e più rare
il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentia passare.
il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentia passare.
L’uno
si volse, e l’altro ancor, leggero:
nel buio udì l’un cuore, non lontano
il calpestìo dell’altro passeggero.
nel buio udì l’un cuore, non lontano
il calpestìo dell’altro passeggero.
Dopo
breve ora, tacita, pian piano,
venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano.
venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano.
Guardò
sospesa; e buoni oltre il costume
dormir li vide, l’uno all’altro stretto
con le sue bianche aluccie senza piume;
dormir li vide, l’uno all’altro stretto
con le sue bianche aluccie senza piume;
e
rincalzò, con un sorriso, il letto.
III
Uomini,
nella truce ora dei lupi,
pensate all’ombra del destino ignoto
che ne circonda, e a’ silenzi cupi
pensate all’ombra del destino ignoto
che ne circonda, e a’ silenzi cupi
che
regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzio d’un’ape dentro il bugno vuoto.
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzio d’un’ape dentro il bugno vuoto.
Uomini,
pace! Nella prona terra
troppo è il mistero; e solo chi procaccia
d’aver fratelli in suo timor, non erra.
troppo è il mistero; e solo chi procaccia
d’aver fratelli in suo timor, non erra.
Pace,
fratelli! e fate che le braccia
ch’ora o poi tenderete ai più vicini,
non sappiano la lotta e la minaccia.
ch’ora o poi tenderete ai più vicini,
non sappiano la lotta e la minaccia.
E
buoni veda voi dormir nei lini
placidi e bianchi, quando non intesa,
quando non vista, sopra voi si chini
placidi e bianchi, quando non intesa,
quando non vista, sopra voi si chini
la
Morte con la sua lampada accesa.
L’aquilone
·
La fanciullezza
e i giochi con i compagni di studio sono sempre rimasti tra i temi più cari a
Pascoli, il quale amò in modo particolare questa poesia, come confidò nel 1901
all’amico Tommaso Ricciarelli: «Leggi nei Poemetti la poesia L’aquilone. Mi
domandarono l’altrieri sera qual poesia delle mie amavo più: risposi L’aquilone».
·
In questa
poesia, Pascoli rievoca gli anni in cui, bambino, frequentava il collegio degli
Scolopi a Urbino. Il poeta, ormai adulto, avverte qualcosa nell’aria che gli
riporta alla mente i giochi dell’infanzia, il volo degli aquiloni, le voci degli
amici di un tempo, ma anche un evento drammatico: la morte prematura di un
compagno di scuola. Questo tragico ricordo offre al poeta l’occasione per
riflettere sul significato della vita e per domandarsi se non sia meglio morire
quando si è ancora giovani, prima di affrontare le delusioni e i dolori
dell’età adulta.
·
Metro: terzine
di endecasillabi a rima incatenata (ABA, BCB, CDC, …)
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico1: io vivo altrove[26],
e sento che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva[27]
del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle querce agita il vento[28].
Si respira una dolce aria che scioglie
di campagna, ch’erbose hanno le soglie:
un’aria d’altro luogo e d’altro mese
e d’altra vita[31]:
un’aria celestina
che regga molte bianche ali sospese[32]...
sì, gli aquiloni! È questa una mattina
tra le siepi di rovo e d’albaspina[35].
Le siepi erano brulle, irte[36];
ma c’era
d’autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre[37]
del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino[38]
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino[39].
Ed ecco ondeggia, pencola[40],
urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza[41].
S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano[42].
S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo[43].
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù... Ma ecco una ventata
di sbieco[44],
ecco un trillo alto... – Chi strilla?
Sono le voci della camerata[45]
mia: le conosco[46]
tutte all’improvviso,
una dolce, una acuta, una velata...
A uno a uno tutti vi ravviso[47],
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l’omero il pallor muto del viso[48].
Sì: dissi sopra te l’orazïoni[49],
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni[50]!
Tu eri tutto bianco, io mi rammento;
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento[51].
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso[52],
stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi[53]!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi petali un fiore
ancora in boccia[54]!
O morto giovinetto,
anch’io presto verrò sotto le zolle[55]
là dove dormi placido[56] e
soletto:
meglio venirci[57]
ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda[58]
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda[59],
che poi che fredda giacque sul guanciale[60],
ti pettinò co’ bei capelli a onda
tua madre... adagio[61],
per non farti male.
(Giovanni Pascoli, Poemetti, Einaudi)
Prefazione
Da I canti di Castelvecchio
E su la
tomba di mia madre rimangano questi altri canti!... Canti d’uccelli, anche
questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, d’allodole, di rosignoli, di
cuculi, d’assiuoli, di fringuelli, di passeri, di forasiepe, di tortori, di
cincie, di verlette, di saltimpali, di rondini e rondini e rondini che tornano
e che vanno e che restano. Troppi? Facciano il nido, covino, cantino, volino,
amino almen qui, intorno a un sepolcro, poiché la crudele stupidità degli
uomini li ha ormai aboliti dalle campagne non più così belle e dal sempre bel
cielo d’Italia! E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli
che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto. Troppo?
Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè,
religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o
intermittente o continuo, o stolido o tragico. D’altra parte queste poesie sono nate
quasi tutte in campagna; e non c’è visione che più campeggi o sul bianco della
gran neve o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei
trasporti o delle comunioni che passano: e non c’è suono che più si distingua
sul fragor dei fiumi e ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle
cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie.
Crescano
e fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo, cesti o stipe)
autunnali. Nei luoghi incolti fanno le stipe che fioriscono di primavera, e
fanno i cesti, ancor più umili, che fioriscono d’autunno; e la lor fioritura
assomiglia. Mettano queste poesie i loro rosei calicetti (che l’inverno poi
inaridisce senza farli cadere) intorno alla memoria di mia madre, di mia madre
che fu così umile, e pur così forte, sebbene al dolore non sapesse resistere se
non poco più d’un anno. Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa,
cioè, qual ch’ella sia, la mia attitudine poetica. Non posso dimenticare certe
sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende,
avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppo: io appoggiava la
testa su le sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder
soffiare i lampi di caldo all’orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi
allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì.
Seguì
mio padre. E qui, devo chiedere perdono, anche questa volta, di ricordare il
delitto che mi privò di padre e madre e, via via, dei fratelli maggiori, e
d’ogni felicità e serenità nella vita? No: questa volta non chiedo perdono. Io
devo (il lettore comprende) io devo fare quel che faccio. Altri uomini, rimasti
impuniti e ignoti, vollero che un uomo non solo innocente ma virtuoso, sublime
di lealtà e bontà, e la sua famiglia, morisse. E io non voglio. Non voglio che
sian morti.
Se poi
qualcuna di queste poesie che contengono cose non solo vere ma esatte (e il
lettore comprenderà anche qui: certe cose non s’inventano, anche a volere),
ispirasse un più acuto ribrezzo del male, io, oh! non me ne terrei io, ma ne
benedirei la memoria de’ miei cari martiri, per i quali nessuno (nemmeno i loro
assassini) soffrì, e che dalla loro fossa rendono anche oggi, per male, bene.
Castelvecchio di Barga, marzo del 1903.
Il gelsomino
notturno[62]
Da I canti di Castelvecchio di Giovanni
Pascoli
E
s’aprono i fiori notturni,
nell’ora
che penso a’ miei cari.
Sono
apparse in mezzo ai viburni[63]
le
farfalle crepuscolari[64].
Da
un pezzo si tacquero i gridi:
là
sola una casa bisbiglia.
Sotto
l’ali dormono i nidi,
come
gli occhi sotto le ciglia.
Dai
calici aperti si esala
l’odore
di fragole rosse.
Splende
un lume là nella sala[65].
Nasce
l’erba sopra le fosse.
Un’ape
tardiva sussurra
trovando
già prese le celle.
La
Chioccetta[66]
per l’aia azzurra
va
col suo pigolio di stelle.
Per
tutta la notte s’esala
l’odore
che passa col vento.
Passa
il lume su per la scala;
brilla
al primo piano: s’è spento ...
È
l’alba: si chiudono i petali
un
poco gualciti; si cova,
dentro
l’urna molle e segreta,
non
so che felicità nuova.
La cavalla storna
da Canti di Castelvecchio di Giovanni
Pascoli
Nella
Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
Là
in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa[70] spiaggia;
nata tra i pini su la salsa[70] spiaggia;
« O
cavallina, cavallina storna[76],
che portavi colui che non ritorna;
che portavi colui che non ritorna;
tu
capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto[77];
Egli ha lasciato un figlio giovinetto[77];
il
primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie[78].
e la sua mano non toccò mai briglie[78].
Tu
che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.
tu dai retta alla sua piccola mano.
Tu
c’hai nel cuore la marina brulla[79],
tu dai retta alla sua voce fanciulla».
tu dai retta alla sua voce fanciulla».
« O
cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
che portavi colui che non ritorna;
lo
so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con
lui c’eri tu sola e la sua morte
O
nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo
lasso[83]
nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio
seguitasti[84]
la tua via,
perché facesse in pace l’agonia . . . »
perché facesse in pace l’agonia . . . »
La
scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
al dolce viso di mia madre in pianto.
«O
cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
che portavi colui che non ritorna;
oh!
due parole egli dové[85]
pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu
con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe[86],
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe[86],
con
negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo
riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole».
perché udissimo noi le sue parole».
Stava
attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbraccio’ su la criniera.
Mia madre l’abbraccio’ su la criniera.
« O
cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
portavi a casa sua chi non ritorna!
a
me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona . . . Ma parlar non sai!
Tu fosti buona . . . Ma parlar non sai!
Tu
non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu
l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise[87].
esso t’è qui nelle pupille fise[87].
Chi
fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come».
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come».
Ora,
i cavalli non frangean la biada:
dormian[88] sognando il bianco della strada.
dormian[88] sognando il bianco della strada.
Mia
madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.
La mia sera
La poesia descrive
una sera dopo il temporale. Di fronte allo spettacolo della natura rinfrescata
dal temporale e che pullula di vita (le rane, le rondini), il poeta si domanda
che fine hanno fatto i dolori del passato. Come il temporale è passato ed è
ritornato il sereno, così i dolori dell'infanzia nell'età adulta si sono
acquietati e nella sera, al suono delle campane, al poeta sembra di ritornare
bambino ed udire di nuovo la voce della madre.
Si possono
distinguere due parti: la prima dal verso 1 al 20 (si tratta delle prime due
strofe e mezzo) che è rivolta a rappresentare la natura rasserenata; la seconda
dal verso 21 al verso quaranta, che è incentrata sulla corrispondenza tra la
vicenda del giorno (il temporale che ha fatto sì che le rondini prolunghino la
caccia in cerca di cibo per sfamare i pulli che durante il giorno non hanno
avuto la loro razione quotidiana) e la vicenda biografica del poeta ( che ha
vissuto un'infanzia segnata dalla morte del padre e dolorosa, alla quale ha
fatto seguito la serenità della fase conclusiva della vita e della vecchiaia,
che può anche suggerire l'idea della morte.
Questa poesia è
suddivisa in 5 strofe di 8 versi ciascuna. I versi sono tutti novenari tranne
gli ultimi di ogni strofa che sono senari e sono chiusi sempre dalla parola
sera (che si trova quindi in anafora).
La rima è
alternata e segue principalmente lo schema ABABCDCD. NB. Anche se non sembra, i
versi 17 e 19 rimano fra di loro: È quella infinita tempésta | dei fulmini
fragili réstano.
Il v. 19
aggiunge, però, una sillaba in più, della quale nella metrica non si tiene
conto. Nel 3 verso c’è una sinestesia “tacite stelle”, cioè l'accostamento di
un'immagine visiva, le stelle, con un suono, il silenzio. Le stelle vengono
anche personificate e per questo sono silenziose.
Nel verso 4 c’è
un onomatopea “breve gre gre di ranelle”, con questa espressione il poeta crea
molta
musicalità e inoltre con l’allitterazione della lettera r rende il suono più
cupo, più dolce e più
acuto. Abbiamo
un'allitterazione anche al verso 19 (“..fulmini fragili...”).
Nel verso 32
c’è un onomatopea “don….don” che riproduce il suono delle campane.
Ai versi 34 –
35 è presente una climax che va da un suono più forte («cantano») ad uno
impercettibile («bisbigliano»)
Nel verso 36
“voci di tenebra azzurra” è una metafora che indica le voci dei morti che
sembrano
parlare al
poeta.
Nell'ultima
strofa la ripetizione dell'imperativo «dormi» (anafora) contribuisce a
sottolineare ancora di più il ritmo
della poesia, che sembra quasi assomigliare ad una ninna nanna.
Il
giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si
devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
E',
quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che
voli di rondini intorno!
Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Nè io ... che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don ... Don ... E mi dicono, Dormi!Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Nè io ... che voli, che gridi,
mia limpida sera!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra ...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era ...
sentivo mia madre ... poi nulla ...
sul far della sera.
[1] Myricae – É la prima raccolta di Giovanni Pascoli e viene pubblicata per la prima volta
nel 1891, in un’edizione
comprendente solo 22 componimenti. Successivamente, il poeta interverrà spesso
per rimaneggiare e modificare il testo, che nel 1911 giungerà a raccogliere
complessivamente ben 156 poesie.
Il titolo, come indicato anche dall’epigrafe alla prima edizione,
è di ascendenza classica: è
tratto infatti dalla quarta
ecloga di Virgilio (“Sicelides Musae, paulo maiora
canamus! | Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae”) ed indica da subito l’ambientazione
della raccolta nell’umile
realtà del mondo della campagna, che il poeta descrive con sfumature
simboliste.
Myricae,
pur essendo una raccolta in progress dal 1891 al 1911, presenta alcuni nuclei
tematici ben identificabili, che costituiscono anche la linea
fondamentale della poetica pascoliana. Innanzitutto, spicca nei testi di Myricae il
mondo della natura e della campagna, contemplato nelle sue
realtà più “umili” (simboleggiate appunto dalle “tamerici” del titolo) e
cariche di implicazioni simboliche. È compito del poeta, che deve farsi “fanciullino” (come Pascoli spiegherà in un importante testo teorico), cogliere il
mistero che sta
dietro alle cose e trasmetterlo agli altri uomini con gli strumenti della
creazione letteraria.
Alla descrizione del mondo naturale (che raggiunge le
punte di massima espressività in testi come L’assiuolo o Novembre) e della sua
ciclicità, si aggiungono - soprattutto a partire dall’edizione del 1894 - altri
temi tipicamente pascoliani, come il dolore per la perdita degli affetti familiari (esemplare in questo senso X
Agosto) e in generale il tema della morte e del conflitto tra la purezza del
mondo di Natura e le minacce del mondo reale, fino ad arrivare al compito
storico-sociale della
figura del poeta.
Dal punto di vista letterario Myricae si inserisce nella tradizione poetica simbolista, di cui
Pascoli è uno dei principali esponenti; in tal senso, il poeta si serve di una
serie di strumenti tecnici e di figure
retoriche ricorrenti, all’interno di strutture metriche che
restano regolari ed ancorate alla tradizione per quanto riguarda le strutture
strofiche e il ricorso alla rima o alle forme di assonanza e consonanza.
Innanzitutto, ad essere privilegiate sono le
sensazioni e le percezioni indistinte, che riproducono le
sensazioni sfumate (e talvolta inquietanti) dell’io poetico di fronte al
mistero della natura, come ad esempio in Lavandare. Pascoli
così privilegia strutture sintattiche leggere, prevalentemente costruite per paratassi,
su cui intervenire per mezzo di figure retoriche caratteristiche (analogie, sinestesie, metonimie e onomatopee).
Importantissimo è poi l’aspetto fonosimbolico del testo,
per cui la struttura di suoni della poesia deve evocare sulla pagina le
sensazioni e le intuizioni provate
dal poeta.
[2] mezzo grigio e mezzo nero: l’indicazione
coloristica segnala
che il campo è stato solo parzialmente arato, dato che il colore tra il terreno
superficiale (“grigio”) e quello rivoltato dal macchinario (“nero”) è
differente.
[3] sciabordare: il
verbo, collocato praticamente al centro del madrigale,
indica con precisione terminologica l’azione di rimestare e battere dei panni
in acqua per lavarli. Si tratta di una pratica diffusa e comune in tutte le
campagne, al tempo del poeta.
[4] tonfi spessi: la sinestesia unisce la sensazione di pesantezza dei
panni, intrisi d’acqua, con il rumore sordo che essi producono durante le
operazioni di lavaggio (che solitamente avvenivano su assi di legno). Il sintagma è anche un buon esempio del fonosimbolismo pascoliano,
che con i suoni - t - ed - sp - prova a riprodurre l’effetto sonoro del
lavaggio alla “gora” (v. 4).
[5] lunghe cantilene: sono le canzoni
di origine popolare con
cui le lavandaie accompagnano il lavoro, per alleviarne la fatica. Senza una
precisa indicazione tipografica, Pascoli inserisce qui dei versi che servono a
chiarire il parallelismo su cui è incentrato il testo: la
solitudine dell’aratro nel campo ricorda quella di una donna abbandonata
dall’uomo che ama.
[6] nevica la frasca:
nell’immagine, costruita con la figura retorica dell’analogia, convergono due
immagini: quella della “frasca” (cioè, i rami di foglie) e la lenta caduta dei
fiocchi di neve. In tal modo, la caduta autunnale delle foglie viene paragonata ad una nevicata,
tipica della stagione invernale. Inoltre nel verso si può osserva la disposizione
a chiasmo di verbi (“soffia” e “nevica” sono collocati
internamente) e soggetti (“vento” e “frasca” occupano invece le posizioni più
esterne).
[7] maggese: antica tecnica
agricola per cui, nel mese di maggio (da cui appunto deriva “maggese”), il
campo veniva lavorato per poi essere lasciato a riposo, per migliorarne la
produttività. Il “maggese” fa parte delle pratiche di rotazione
delle colture.
[8] Gemmea: il verbo - indice
dell'accuratissima ricerca
anche lessicale della
poesia pascoliana - è un trisillabo, che
contribuisce a dilatare, anche metricamente, l'immagine su cui si apre Novembre,
e a trasmettere con efficacia l'idea di limpidezza dell'atmosfera
serena di metà
novembre.
[9] tu ricerchi: il
"tu" potrebbe presupporre un interlocutore muto,
oppure essere impersonale, e quindi
rivolgere tutto il discorso al poeta stesso; in entrambi i casi, spicca la
dimensione intima del dialogo, che serve a focalizzare le
reazione dell'io poetico di fronte al paesaggio naturale
[10] prunalbo: si tratta di un
biancospino; la rinomata sapienza botanica di Pascoli affianca
alle sensazioni visive dei primi due versi le note olfattive.
[11] L’aria tersa e il sole luminoso possono far credere che sia un
giorno di primavera, in cui quindi viene naturale cercare gli
albicocchi in fiore e può sembrare di sentire l’odore del biancospino.
[12] Il cielo è vuoto perché senza uccelli primaverili che lo
solcano; il terreno suona cavo perché probabilmente
ghiacciato. Tuttavia, data anche la vicinanza cronologica con
la commemorazione liturgica dei defunti (2 novembre), si può anche immaginare
che queste cavità nel terreno alludano alle tombe dei morti.
[13] Ma: l’avversativa - in posizione rilevata - fa capire
che la descrizione primaverile è solo un’illusione, almeno
per il poeta che proietta nei minimi dettagli del paesaggio la
propria inquietudine.
[14] nere trame segnano il sereno: l'antitesi di colori contribuisce a creare la
sensazione di inquietudine che
culmina nell'ultima verso e nell'"estate dei morti".
[15]un cader fragile: ipallage (ovvero una figura retorica per cui si
attribuisce ad un elemento della frase qualcosa che semanticamente e
logicamente dovrebbe riferirsi ad altro), in quanto sono le "foglie"
e non il loro "cader" ad essere "fragili".
[16] l'estate, fredda, dei morti: non si tratta dunque di una vera giornata primaverile (come
ci viene rivelata nell'explicit del testo) ma dell’estate di San Martino,
che si colloca verso l’11
novembre (giorno
in cui è celebrato il santo) e si caratterizza generalmente per temperature
relativamente miti rispetto
al periodo dell’anno, dopo le prime gelate novembrine.
[17] Ogni anno la notte
di San Lorenzo, ravviva la magia del cosmo: si dice che se
si esprime un desiderio vedendo la stella che traccia una scia nel cielo scuro
della notte, questo si avvererà. L’appuntamento magico che ci offre il cielo, è
la pioggia meteorica delle
Perseidi, più nota come le
lacrime di San Lorenzo. Si tratta dello sciame di meteore
meglio osservato in tutto il mondo, consistente in residui della
disintegrazione progressiva della cometa
Swift-Tuttle. Le piccole particelle, scontrandosi a gran
velocità con l’atmosfera terrestre, danno luogo a scie luminose di altissimo
effetto.
Il nome di “Perseidi”, invece, è determinato dalla
posizione del radiante, il punto sulla volta celeste dal quale sembrano
provenire le meteore, situato appena al di sopra della costellazione del
Perseo. E se l’apparizione di una stella cadente è oggi associata ad un
sentimento di stupore, nell’antichità, invece, l’apparizione di meteore, comete
e altri fenomeni passeggeri che sembravano alterare l’immutabilità del cielo,
erano considerate segni infausti. Il cielo sembrava piangere lacrime di fuoco,
ad esempio, in occasione di crisi di governo, battaglie o assedi, coincidenti
con sciami meteorici ricorrenti e questa superstizione si è tramandata, in varie
forme, nei secoli. Ad esempio, tra ottobre e novembre del 902 d.C., stando a
quanto ci riferiscono le antiche cronache, l’invasione di Sicilia e Calabria da
parte dei Saraceni e le stragi successive furono seguite da un abbondante
pianto divino. Oggi è certo che si trattò di una fittissima pioggia di stelle
cadenti dello sciame delle Leonidi, visibile ogni anno a novembre.
La tradizione
cristiana, come noto, ha legato il concetto di pioggia di stelle cadenti al
martirio del santo Lorenzo, dal III secolo sepolto nell’omonima basilica a
Roma. Sarebbero proprio le lacrime versate dal santo durante il suo supplizio;
a vagare eternamente nei cieli, discendendo sulla terra solo il giorno in cui
Lorenzo morì, creando un’atmosfera magica e carica di speranza. Secondo la
tradizione popolare, le stelle del 10 agosto vengono dette anche fuochi
di San Lorenzo, ricordando le scintille provenienti dalla
graticola infuocata su cui venne ucciso il martire, poi volate in cielo. In
realtà la storia sostiene che il santo non venne sottoposto al martirio della
graticola, bensì venne decapitato. Nell’immaginario popolare l’idea dei lapilli
volati in cielo ha comunque preso piede, tanto che ancora oggi, in Veneto, un
proverbio recita “San Lorenzo dei martiri innocenti, casca dal ciel carboni
ardenti”.
Ma chi era San Lorenzo e qual è il legame tra questo Santo e
la pioggia di stelle cadenti? Lorenzo nacque a Osca (Huesca), città della
Spagna, nella prima metà del III secolo. Venuto a Roma, centro della
cristianità, si distinse per la sua pietà, carità verso i poveri e l’integrità
di costumi. Grazie alle sue doti, Papa Sisto II lo nominò Diacono della Chiesa,
dovendo egli sovrintendere all’amministrazione dei beni, accettare le offerte e
custodirle, provvedere ai bisognosi, agli orfani e alle vedove. Per queste
mansioni, Lorenzo fu uno dei personaggi più noti della prima cristianità di
Roma ed uno dei martiri più venerati, tanto che la sua memoria fu ricordata da
molte chiese e cappelle costruite in suo onore nel corso dei secoli. Lorenzo fu
catturato dai soldati dell’Imperatore Valeriano il 6 agosto del 258 nelle catacombe di
San Callisto, assieme al Papa
Sisto II ed
altri diaconi. Mentre il Pontefice e gli altri diaconi subirono subito il
martirio, Lorenzo fu risparmiato per farsi consegnare i tesori della chiesa. Si
narra che all’Imperatore Valeriano, che gli imponeva la consegna dei tesori
della Chiesa, Lorenzo abbia portato davanti dei poveri ed ammalati, esclamando:
“Ecco i tesori della chiesa”. In seguito Lorenzo fu dato in custodia al
centurione Ippolito, che lo rinchiuse in un sotterraneo del suo palazzo, dove
si trovava imprigionato anche un certo Lucillo, cieco.
Lorenzo confortò il
compagno di prigionia, lo catechizzò alla dottrina di Cristo e, servendosi di
una polla d’acqua che sgorgava dal suolo, lo battezzò. Dopo il Battesimo,
Lucillo riebbe la vista. Il centurione Ippolito visitava spesso i suoi
carcerati e, avendo constatato il fatto prodigioso, colpito dalla serenità,
dalla mansuetudine dei prigionieri e illuminato dalla grazia di Dio, si fece
cristiano, ricevendo il battesimo da Lorenzo. In seguito Ippolito, riconosciuto
cristiano, fu legato alla coda di cavalli e fatto trascinare per sassi e rovi
fino alla morte. Lorenzo venne arso vivo sulla graticola, in un luogo poco lontano
dalla prigione ed il suo corpo portato al Campo Verano, nelle catacombe di
Santa Ciriaca. Il Martirio di San Lorenzo è datato dal martirologio romano il
10 agosto del 258 d.C. A ricordare questi avvenimenti furono erette, ad esempio
a Roma, tre chiese: San
Lorenzo in Fonte,
luogo della prigionia, San Lorenzo in
Panisperna, luogo del martirio, e San
Lorenzo al Verano, luogo della sua sepoltura.
Tale data ispirò
anche Giovanni
Pascoli che
volle dedicare la sua celebre poesia “X Agosto”, alla morte del padre, avvenuta proprio
in quel giorno. Nell’opera, il poeta identifica il firmamento del 10 agosto
come un grande pianto di stelle, sottolineandone la natura malinconica, e
rivolgendosi direttamente al Santo: «San Lorenzo, io lo so perché tanto di
stelle per l’aria tranquilla arde e cade, perché sì gran pianto nel concavo
cielo sfavilla».
[18] concavo cielo:
è la volta celeste,
nella notte delle "stelle cadenti".
[19]come in croce: evidente qui un parallelismo fra la rondine uccisa caduta
tra le spine e Gesù
in croce (cui già alludono gli "spini" del v. 6,
che ricordano la crocifissione sul Golgota); è uno degli artifici per
aumentare il tasso
di patetismo del testo, come, più avanti, il pigolio dei
rondinini o le "due bambole in dono" che, secondo il figlio, Ruggero
Pascoli aveva con sé.
[20] Il pigolio degli uccellini si fa sempre più debole
perché sono sempre più affamati e senza energie per mancanza di cibo: il
lutto colpisce quindi anche le
creature più innocenti ed indifese del "nido".
[21] lo aspettano, aspettano: la ripetizione ovviamente
sottolinea, dal punto di vista della famiglia in apprensione, l'aspetto tragico di quella notte del
10 agosto 1867.
[22] sereni: Gli altri
pianeti del sistema solare sono sereni in quanto indifferenti a ciò che succede sulla
Terra. Sembra di cogliere in questo passaggio un accento leopardiano,
in particolare alla riflessione (si pensi alle Operette morali o al Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia) sull'indifferenza
della Natura per il dolore dell'uomo.
[23] pianto di stelle: analogia che sta
a rappresentare la
cascata di stelle della notte di San Lorenzo, ma allude
anche esplicitamente al dolore
privato del poeta, orfano di padre.
[24] quest'atomo opaco del Male: la Terra è una piccolissima parte dell’universo,
come un atomo di materia, ed è opaco perché - nella prospettiva di Pascoli
- non illuminato
dalla luce del Bene e della giustizia.
[25] Poemetti – La seconda grande opera
poetica di Giovanni Pascoli, Primi Poemetti reca nel frontespizio l’epigrafe
latina Paulo Maiora e la dedica A Maria
Pascoli.
La prima edizione è del 1897, si intitolava soltanto Poemetti e comprendeva solo 20 testi; la
seconda edizione del 1900 ne conteneva 45; la terza, del 1904, prende il titolo
definitivo di Primi Poemetti, la quarta edizione ed ultima,
del 1907.
La prefazione espone le intenzioni e il significato
dell’opera, che riafferma l’importanza della Natura; anche il tema del mistero
acquista un significato e una profondità maggiori; il terzo grande tema della
raccolta nella solidarietà internazionale tra tutti gli uomini come un popolo
di rondoni, un popolo bellicoso e straniero, porta da mangiare alle rondini.
Nella sezione Il
bordone, Pascoli ha inserito alcuni componimenti poetici, come L’aquilone o Suor Virginia o ispirati
dal senso oscuro del mistero, come I due
fanciulli, Nella nebbia, La grande aspirazione, L’immortalità, Il Libro.
Nello sviluppo di questi temi l'autore ha inserito dei
personaggi allegorici come Il cieco e
L’eremita.
L’opera termina con un poemetto Italy dedicato all’Italia raminga, che racconta la storia di una
famiglia emigrata in America, ma costretta a rientrare, per via di una bimba
malata, che viene ricondotta a casa, con la speranza che il clima della
Penisola, mite e salubre le possa giovare. Gli emigranti maledicono l’Italia,
perché in essa non hanno trovano lavoro, ma Pascoli li invita a non farlo,
perché un giorno essa accoglierà tutti e darà lavoro a tutti.
Tutta l’opera poetica è in terzine di endecasillabi a rime
incatenate. I componimenti poetici sono quelli che esulano dal romanzo agreste
e georgico.
I componimenti più brillanti sono quelli che Pascoli
scrisse, in tempi e su riviste diverse, ma che poi sistemò in un ordine ideale
nell’opera poetica. Tra questi, un capolavoro assoluto è sicuramente costituito
da L’aquilone, che viene dopo due
componimenti forti, Il soldato di San Pietro in Campo e Digitale purpurea.
Nella quarta sezione L’accestire
notevole è il componimento La siepe.
Ma la sezione che contiene i componimenti più coinvolgenti è
la quinta sezione. Il tema di questa sezione è il Mistero e la pace internazionale come nel primo poemetto I due fanciulli. Segue la poesia Nella nebbia una poesia simbolica. Poi La grande aspirazione e il componimento L’immortalità. Seguono tre componimenti
poetici Il libro, La felicità
e Il cieco, considerato il più bello dell’intera raccolta. Il cieco è un personaggio allegorico è
simboleggia l’intera umanità, cieca di fronte al mistero dell’universo e della
vita. Egli non conosce la propria provenienza e non conosce la propria
destinazione, così come l’umanità non sa da dove è venuta e non sa dove andrà a
finire. Il cieco ha perso il cane che lo guidava, così l’umanità ha perso la
scienza che la conduceva verso la pace e verso la felicità. Il cieco si rivolge
a Dio, per avere indicazioni. Ma Dio non risponde, tace immobilmente.
Nuovi Poemetti reca sul
frontespizio il motto Paulo Malora ed è dedicata agli scolari dello
scrittore, di Matera, Massa, Livorno, Messina, Pisa e Bologna.
Giovanni Pascoli riprende i temi dei Primi Poemetti e sviluppa
ulteriormente la storia della famiglia, inserendo rapsodicamente pregevoli
poemetti sparsi, come Il naufrago, La morte
del Papa, La pecorella smarrita, La vertigine, Gli emigranti della luna e termina con il poema Pietole.
Questi componimenti sottolineano l'esiguità della Terra nei
confronti dell’Universo e indulgono alla riflessione sull'esistenza di Dio,
entità percepita nella sua assente indifferenza nei riguardi della vicenda
umana.
[26] io vivo altrove: io mi sento trasportato in un altro luogo
[e anche in un altro tempo].
[27] selva: bosco.
[28] tra… vento: tra le foglie morte che il vento agita ai piedi
delle querce.
[29] dure zolle: zolle di terreno indurite dal freddo invernale.
[30] visita: raggiunge.
[31] d’altro... vita: di un altro luogo [Urbino], di un altro
mese [la primavera], di un’altra vita [la giovinezza].
[32] bianche ali sospese: gli aquiloni.
[33] che non c’è scuola: di festa.
[34] a schiera: in gruppo, tutti assieme.
[35] albaspina: biancospino.
[36] brulle, irte: spoglie, pungenti.
[37] aspre: secche.
[38]abbiamo…
Urbino: vediamo di fronte a noi la città di Urbino.
[39]ognuno…
turchino: ciascun ragazzo lancia da un’altura il suo aquilone verso il cielo
azzurro.
[40] pian piano… s’inalza: sale lentamente verso il cielo accompagnato
dal grido prolungato dei bambini [un grido di gioia e di stupore].
[41] pencola: oscilla.
[42] come… lontano:
il filo dell’aquilone scappa dalle mani del fanciullo e sale verso il cielo
come un fiore che si stacca dallo stelo.
[43] S’inalza… cielo: l’aquilone sale sempre più in alto e porta
con sé i piedi impazienti, il respiro intenso e carico di emozione, lo sguardo
desideroso di vedere l’aquilone in volo, il viso e il cuore del bambino.
[44] ventata di sbieco: una folata di vento di traverso.
[45] camerata: dei miei compagni di collegio.
[46] conosco: riconosco.
[47] ravviso: rivedo.
[48] che… viso: che
abbandoni sulla spalla il viso pallido e silenzioso [perché ormai privo di
vita]. Si chiamava Pirro Viviani il
ragazzino dalla “testa bionda”che morì a soli 17 anni, all’epoca in cui
Giovanni Pascoli, con i fratelli Giacomo e Luigi, frequentava il collegio dei
frati Scolopi a Urbino.
[49] l’orazïoni: le preghiere.
[50] eppur… aquiloni: eppure sei fortunato ad aver visto cadere
soltanto gli aquiloni [secondo il poeta, il suo compagno di collegio, pur
essendo morto giovane, può considerarsi “felice” perché non è stato toccato dai
dolori della vita adulta].
[51] Solo... pavimento: avevi le ginocchia arrossate per le
preghiere che recitavamo in ginocchio sul pavimento.
[52] persuaso: tranquillo, soddisfatto.
[53] il più caro dei tuoi cari balocchi: il più amato dei tuoi
giocattoli [l’aquilone rappresenta inoltre per il poeta la parte migliore della
vita: la fanciullezza].
[54] dolcemente… boccia: io sono sicuro che si muore dolcemente,
stringendo ancora a sé la propria giovinezza, come un fiore che sta sbocciando
tiene raccolti i suoi candidi petali.
[55] verrò sotto le zolle: verrò sotto terra, morirò.
[56] placido: tranquillo.
[57] venirci: morire.
[58] gioconda: allegra.
[59] con la testa bionda: ancora giovane, prima che i capelli
diventino grigi.
[60] fredda… guanciale: che, dopo la morte, riposò sul cuscino.
[61] adagio: piano [la madre pettina i capelli del figlio con
delicatezza, come se fosse ancora vivo].
[62] Il gelsomino notturno – Scritta il 21
luglio 1901, ma l'ideazione è degli anni 1897-98. Inserita nella prima edizione
dei Canti di Castelvecchio del 1903.
È rivolta all'amico Gabriele Briganti in occasione della nascita del figlio, ma
è come se il poeta, che nel 1901 aveva 46 anni, la scrivesse a se stesso,
poiché egli s'immagina d'essere uno sposo senza esserlo.
Cinque anni prima della stesura della poesia era naufragato
il suo progetto di matrimonio con la facoltosa cugina riminese Imelde, ormai
trentenne, figlia di Alessandro Morri. In questa decisione influì pesantemente
la sorella di Pascoli, Maria, che viveva con lui.
Nel 1895 il matrimonio della sorella Ida l'aveva sconvolto.
Scrive da Roma all'altra sorella Maria: “Questo è l'anno terribile, dell'anno
terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato. Io
amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni,
virtualmente, mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre. Io resto attaccato
a voi, a voi due, a tutte e due: a volte sono preso da accesi furori d'ira, nel
pensare che l'una freddamente se ne va strappandomi il cuore, se ne va
lasciandomi mezzo morto in mezzo alla distruzione de' miei interessi, della mia
gloria, del mio avvenire, di tutto!”
[63] Viburni: il viburno comprende circa duecento specie
di arbusti di dimensioni varie; molto diffusi nei giardini per la facilità di
coltivazione, hanno in genere forma arrotondata, o eretta, e raggiungono i 3-4 metri di altezza
nell'arco di alcuni anni. Il fogliame è ovale o lanceolato, in genere coriaceo,
liscio o rugoso, a seconda della specie, di colore verde scuro. I fusti sono
molto ramificati, e sopportano potature anche drastiche, per mantenere
l'arbusto più compatto.
[64] Le… crepuscolari: secondo la tradizione
popolare le farfalle crepuscolari e quelle nere portano sfortuna e sono
presagio di guai e morte ed in esse si nascondono le anime dei dannati.
[65] Sala: stanza destinata alla
conversazione e al ricevimento di ospiti.
[66] Chioccetta: la costellazione delle Pleiadi
[67] Poste: posto destinato a
ciascun animale nella stalla.
[68] Frangean: rompevano.
[69] Biada: nome generico dei
cereali usati per alimentare il bestiame.
[70] Salsa: salata.
[71] Froge: ciascuna delle
estremità carnose delle narici degli equini.
[72] Avea: aveva.
[73] Aguzzi: acuti, appuntiti.
[74] Greppia: nelle stalle,
rastrelliera per il fieno posta sopra la mangiatoia.
[75] Dicea: diceva.
[76] Storna: di mantello equino,
di colore grigio scuro macchiettato di bianco. Di cavallo, che ha tale
mantello.
[77] Giovinetto: ragazzo molto
giovane, adolescente.
[78] Briglie: ciascuna delle due
redini che si attaccano al morso del cavallo. L’insieme dei finimenti con cui
si guida il cavallo.
[79] Brulla: mancante, privo di
qualcosa.
[80] Volgea: girava.
[81] Scarna: del corpo o di una
sua parte, molto magro, macilento.
[82] Dicea: diceva.
[83] Lasso: affaticato.
[84] Seguitasti: seguisti.
[85] Dové: doveva.
[86] Vampe: fiamma alta e
intensa.
[87] Fise: fisso.
[88] Dormian: dormivano.
[89] Battean: battevano.
[90] Dormian: dormivano.
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