lunedì 16 febbraio 2015

Ritratto di fanciulla di Sandro Botticelli. Massimo Capuozzo

Nella tavola Ritratto ideale di fanciulla dello Städel Museum di Francoforte, Sandro Botticelli (1445 - 1510) raffigura una giovane donna, comunemente identificata con Simonetta Cattaneo Vespucci, regina di bellezza del Rinascimento, amata – secondo il racconto di Vasari – da Giuliano dei Medici.
Lo sguardo è sognante e lontano, le chiome bionde, agghindate di nastri e ingioiellate di perle: l'esile figura, i biondi capelli e i profondi occhi grigi le valsero il titolo di la bella di Firenze. Questa giovane e splendida immagine femminile del 1480 è un prototipo delle Veneri, de La Primavera, ideale di bellezza, di armonia e di proporzione delle quali ella possiede straordinariamente la dolcezza dei tratti. Al collo della giovane, Botticelli ha dipinto una collana con un pendente famoso: il sigillo di Nerone, un cammeo in corniola rossa di età augustea con l'immagine intagliata di Apollo e Marsia, attribuita erroneamente da Lorenzo Ghiberti a Policleto, uno dei pezzi più preziosi della collezione di Lorenzo il Magnifico (1449-1492).
In questo ritratto, Botticelli filtra molte suggestioni stilistiche. Da un lato il gusto fiammingo nel ritratto, di cui tuttavia stempera la precisione lenticolare in una corporeità ammorbidita, retta su un nitore lineare che gli proviene dalla grande oreficeria fiorentina in cui si era formato. Dall’altro lo straniamento quasi metafisico delle forme in un’iconografia di sensualità tutta intellettuale, che non riesce a sottrarsi a una sorta di grazia naturale. È impossibile non rimanere affascinati di fronte a questo capolavoro del Rinascimento italiano, che si era sviluppato proprio da Firenze tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’Età moderna.
Nella storia della cultura rinascimentale e, in particolare, in quella della signoria di Firenze sotto Lorenzo de' Medici, si nasconde la figura di questa donna bellissima e misteriosa, poco ricordata oggi, ma che, per suoi contemporanei, fu simbolo di grazia e di bellezza, ispirando, in vita e in morte, il Magnifico e i poeti e i pittori della sua cerchia. Per questo motivo, questo ritratto è fondamentale perché in esso si condensano un’epoca, un luogo e un’idea: nella seconda metà del XV secolo, a Firenze, un gruppo di studiosi, filosofi e artisti, attori della straordinaria scena culturale laurenziana tentò, con parole e con immagini, di definire un modello di bellezza femminile. E Simonetta era una donna vera che sembrò incarnare quest’idea di bellezza agli occhi della città.
Simonetta Cattaneo (1453-1476) proveniva da un’importante famiglia genovese: era nata nel 1453, forse a Porto Venere da una famiglia nobile che vantava conoscenze influenti. Suo padre, Gaspare Cattaneo della Volta era un ricchissimo e potente mercante genovese e sua madre, Cattochia Spinola era imparentata con gli Appani, signori di Piombino, che detenevano la proprietà dell’isola d’Elba e soprattutto il controllo delle miniere di ferro di cui l’isola è ricca. La vita di questa giovane non era molto diversa da quella di tante altre nobildonne: nel 1469 appena sedicenne, giunse a Firenze, allora politicamente già nelle mani di Lorenzo, per sposare Marco Vespucci, discendente di una famiglia di banchieri fiorentini, molto legata ai Medici e quindi molto attiva nella vita politica della città.
Questo matrimonio fu fortemente auspicato dal Magnifico perché favoriva, attraverso il legame di parentela dei Vespucci con gli Appiani, l’uso delle miniere di ferro: Simonetta, infatti, portò in dote l’usufrutto di una parte di queste miniere e nello stesso tempo rendeva quindi possibile un legame che era anche istituzionale, vista l’amicizia dei Medici e dei Vespucci. Una manovra politica simile fu ripetuta dal Magnifico anche per suo cugino minore Lorenzo di Pierfrancesco, noto come Lorenzo il Popolano, di cui favorì nel 1485 il matrimonio con Semiramide Appiani, figlia di Iacopo III Appiani, Signore di Piombino.
A soli sedici anni Simonetta entrava dunque nell’alta società fiorentina, forte di una dote personale e politica, ma ignara che la sua fortuna si sarebbe basata su altri fattori indipendenti dalla famiglia che l’aveva accolta. Simonetta fu subito notata per la sua straordinaria bellezza, tanto da essere considerata la donna più bella di Firenze e la sua fama crebbe così rapidamente da essere chiamata La Senza Paragoni, lodata e ammirata non solo dai concittadini, ma presa come musa ispiratrice da artisti come il Ghirlandaio, Piero di Cosimo e soprattutto Sandro Botticelli.
La bellezza della giovane Simonetta ipnotizzò fin da subito i fiorentini, catturando l’attenzione di più di un uomo, e divenne in breve la stella di Firenze, quando il clima chiaramente intellettuale della città ne favoriva gli elogi: famosissima anche dopo morta grazie ai dipinti che ella ispirò, Simonetta ebbe anche da viva una breve stagione fortunata. Marco Vespucci era innamoratissimo di lei e tra i suoi ammiratori più accaniti c’era Giuliano de’ Medici (1453-1476), fratello di Lorenzo, che, nonostante la donna fosse sposata, non si fece problemi a dichiarare il suo affetto pubblicamente, invaghito della più bella.
La loro relazione, riconosciuta e mitizzata nella corte fiorentina, era fatta passare alla maniera cortese e platonica: non è infatti ancora ben chiara la dinamica amorosa fra i due, alcuni parlano di amor cortese, altri di una vera e propria storia d'amore. Di certo c'è che lo stesso fratello di Marco, Pietro Vespucci, scrisse a Lucrezia Tornabuoni parlandole delle frequenti visite che Giuliano era solito fare a Simonetta. Tuttavia se pure fosse stata una storia vera, essa fu breve, perché purtroppo, la stella di questa musa in breve sarebbe tramontata.
L’apice della sua bella parabola fu toccata il 29 Gennaio del 1475 in piazza Santa Croce, in occasione di una giostra celebrata in suo onore.
La giostra, nelle società medievali e premoderne, era una sorta di allenamento ludico alla guerra, praticata soprattutto dai membri dell’aristocrazia delle città. Anche Firenze, nonostante la struttura politica repubblicana, utilizzava la giostra per questo duplice scopo: addestrare i giovani dell’aristocrazia e delle classi dirigenti al maneggio delle armi e dei cavalli, ma anche come un vistoso strumento di esibizione di ricchezza e di ostentazione del lusso, un’occasione per indossare abiti e per mostrare tessuti e gioielli che normalmente erano proibiti nella vita di tutti i giorni.
La giostra di Giuliano dei Medici era per Firenze un evento molto importante, perché essa giungeva in un momento di consolidamento politico del Magnifico: la giostra, infatti, doveva festeggiare una serie di paci raggiunte in Italia grazie alla mediazione di Lorenzo in un momento diplomatico di grande importanza e perché si caricava, anche volutamente dall’intellighenzia laurenziana, di significati ulteriori e distintivi per la famiglia e per il suo potere politico.
Intorno alla giostra di Giuliano gli intellettuali della corte di Lorenzo costruirono una vera e propria campagna di immagine, dove nulla fu lasciato al caso, a cominciare dal premio in palio. Anche se lo svolgimento dell'evento fu quello tradizionale, questa giostra si distinse dalle precedenti per la ricchezza profusa negli apparati, nei gioielli, nelle stoffe, nelle armature. Parteciparono all'evento numerosi ospiti provenienti da varie parti d'Italia e vincitore del gioco equestre fu Giuliano che portava un'armatura d'argento, con elmo disegnato da Andrea Verrocchio (1435 – 1488).
Come già nella giostra del 1469 vinta da Lorenzo, l'innamoramento per una fanciulla fece da cornice all'impresa del vincitore: Giuliano, infatti, dedicò la propria vittoria alla bella Simonetta. La fanciulla era ricordata dallo stendardo (oggi, per una beffa della Storia, nello studiolo di Federico da Montefeltro ad Urbino), dipinto su fondo azzurro da Botticelli, raffigurata in veste di casta Atena coperta da una corazza e con armi all'antica. In piedi su un prato colmo di fiori Atena, con in mano una lancia da giostra e uno scudo con Medusa, volgeva lo sguardo in alto verso il sole. Accanto alla dea c'era Eros sconfitto, avvinto alle mani e alle gambe da legacci dorati al ramo di un ulivo accanto a frecce e faretra a terra spezzati. A quel ramo era appeso un cartiglio con inscritto a caratteri d'oro un motto in francese antico: la sans par. Atena/Simonetta appariva così come l'allegoria di un’incomparabile virtù, unica degna di aspirare alla gloria e al suo eterno rinnovarsi.
L'impresa dello stendardo di Giuliano era carica di significati allusivi, così complessi e sfuggenti ai più, da essere stata interpretata in molti modi, mai coincidenti fra loro.
Tali significati, che attingono le loro ragioni dal pensiero neoplatonico e ficiniano, possono essere interpretati alla luce delle Stanze che Agnolo Poliziano scrisse in questa occasione.
Anche questo componimento di 171 ottave, rimasto incompiuto per la morte di Giuliano il 26 Aprile del 1478, vittima della congiura dei Pazzi in Santa Maria del Fiore, si differenzia dai precedenti poemetti encomiastici scritti in occasioni simili, come per esempio La giostra del Pulci del 1469: non vi si trovano, infatti, le tradizionali descrizioni dei preparativi della sfilata e infine del combattimento. Piuttosto i versi narrano in forma allegorica la difficile iniziazione di Iulo/Giuliano all'amore contemplativo attraverso l'esperienza dell'amore ideale e intellettuale per Simonetta, da cui è bandito qualsiasi concupiscenza grazie alla vittoria su Eros.
Nel poema di Poliziano, come nello stendardo, si celebrava la virtù dell'intelletto capace di svolgere un completo controllo sui sensi e di elevare lo spirito, tema che sembra comune a certe raffigurazioni coeve di ambito mediceo, fra cui la più celebre è la Pallade e il centauro di Botticelli.
Simonetta non poteva rendersi conto di essere il punto focale della nuova stagione politica e culturale aperta dall’avvento di Lorenzo il Magnifico, che più di ogni altro uomo politico ha fatto della cultura e dell’arte uno straordinario strumento di potere.
Attraverso il Neoplatonismo, Lorenzo aveva scelto di creare un linguaggio, che distaccasse dal resto dell’aristocrazia fiorentina lui e le famiglie che appartenevano a lui e al suo governo. Questo linguaggio era il Neoplatonismo, cioè la creazione di miti, di immagini e di storie non a caso dipinte da Botticelli – il pittore che maggiormente incarna questo tipo di tendenza – incomprensibili ai più, criptici e, come tale, elitari.
Non a caso il processo che portò nell’arco di pochi anni Simonetta a diventare l’icona di un’epoca, capace di attraversare i secoli, ebbe per registi due intellettuali della corte medicea, Agnolo Poliziano e Sandro Botticelli, e dietro di loro i Medici e ancora più indietro Marsilio Ficino, il massimo esponente del Neoplatonismo.
Sandro Botticelli come Poliziano è l’altro grande artefice dalla nascita di questa mitologia, simbolo di bellezza e di grazia dell’epoca laurenziana: la sua carriera, iniziata come allievo di Filippo Lippi, divenne, insieme a Ghirlandaio, a Verrocchio e ai Pollaiuolo, il segno distintivo del linearismo disegnativo della pittura fiorentina della seconda metà del Quattrocento. Sotto il patrocinio della famiglia Medici, che gli assicurò dal 1470 gli appalti pubblici di maggior prestigio, fino all’incarico di papa Sisto IV che lo chiamò a decorare la Cappella Sistina, la pittura di Botticelli si consolidò come un’icona del Rinascimento e l’iconografia che ne derivò diventò un riferimento dell’arte occidentale. Pensare a Botticelli equivale a dunque pensare ad un episodio cruciale della vicenda del gusto che fa di lui un simbolo dell’ultimo ‘400 fiorentino, tra i fasti di Lorenzo de’ Medici e le inquietudini di Savonarola, tra grande Neoplatonismo e primi segni di crisi ideologica della cristianità, in un mondo in cui il buono, il bello e il vero si accordavano con naturalezza in una pittura priva di asperità e di dubbi, e la grazia astratta delle figure mitologiche si fonde con quella delle Madonne, abbattendo ogni confine tra sacro e profano. Botticelli esemplifica perfettamente la polarità culturale dell’epoca laurenziana, destinata a precipitare in una crisi profonda: grande e sofisticato interprete di mitologie egli è allo stesso tempo grande autore sacro, com’è nella Madonna del Magnificat. Del resto gli anni del ritratto di Francoforte sono quelli in cui egli stava lavorando alla Sistina.
La pittura di Botticelli è una pittura allegorica, una pittura di cui spesso non riusciamo a comprendere tutti i significati ed è una pittura che gioca a nascondere i dettagli di fonti che sono state scoperte dagli umanisti. Per entrare in questo gioco raffinato ed esclusivo, per superare la barriera del tempo, coperta di fiori o nuda, nei panni della Madonna o di Venere, Simonetta paga un prezzo molto alto: non basta essere belle ed ammirate per certe cose, ma bisogna morire giovani, per far rapprendere quella bellezza in un ideale eterno ed immutabile. Simonetta per ragioni biografiche, ma anche per il fatto che muore al momento giusto, diventa l’icona di un certo tipo di pittura, non di tutti, ma di Botticelli e di quella pittura didattica e allegorica che Botticelli professa per un certo numero di anni.
Il 26 Aprile del 1476, a soli ventitré anni, Simonetta morì a Piombino, ammalatasi probabilmente di tisi. L’agonia non fu breve e Lorenzo fece in tempo a mandare i suoi medici per cercare di salvarla, ma invano. Appena giunse a Firenze la notizia della morte di Simonetta l’emozione fu fortissima. Alla data 26 aprile gli Annali della città riportano: «É morta la Simonetta».
Poliziano un anno prima ne aveva cantato la bellezza in vita in occasione della Giostra a Santa Croce:

Candida è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e d'erba;
lo inanellato crin dall'aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
44
Folgoron gli occhi d'un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l'aier d'intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.
45
Con lei sen va Onestate umile e piana
che d'ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,
quanto ella o dolce parla o dolce ride.
46
Sembra Talia se in man prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l'asta;
se l'arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s'arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l'è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.
47
Ell'era assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta
di quanti fior creassi mai natura,
de' quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.
( Poliziano, Stanze per la giostra, ottave 43-47)

Compianta da tutta Firenze, il suo funerale fu seguito da tutti i fiorentini, i quali poterono ammirare la sua bellezza per un'ultima volta: la bara, infatti, fu portata in processione, scoperta, per tutta la città ed un altro poeta, Bernardo Pulci (1438 – 1488), la trova bellissima anche da morta, mentre il suo corpo attraversava le vie di Firenze

Ma forse che ancor viva al mondo è quella,
poi che vista da noi fu dopo il fine,
in sul feretro posta assai più bella?
(B. Pulci, In morte di Simonetta Cattaneo genovese)

Simonetta si presta benissimo a questa metamorfosi in icona, non solo perché era una donna bella, ma anche perché era una donna che, pur sposata nella giusta età, non aveva compiuto il suo ciclo vitale, cioè non aveva avuto figli ed era morta di tisi ante diem, alimentando uno dei miti ripresi dalla letteratura classica, soprattutto greca, e sintetizzati dal verso di MenandroMuore giovane chi è caro agli dei”. E Lorenzo per la sua scomparsa, scrisse un dolce e struggente sonetto, immaginandone l’apoteosi come stella nel firmamento.

O chiara stella, che co’ raggi tuoi
togli alle tue vicine stelle il lume,
perché splendi assai più del tuo costume?
Perché con Febo ancor contender vuoi?

Forse i belli occhi, quali ha tolti a noi
Morte crudel, ch’omai troppo presume,
accolti hai in te: adorna del lor lume,
il suo bel carro a Febo chieder puoi.

O questa o nuova stella che tu sia,
che di splendor novello adorni il cielo,
chiamata esaudi, o nume, e voti nostri:

leva dello splendor tuo tanto via,
che agli occhi, che han d’eterno pianto zelo,
sanza altra offension lieta ti mostri.

Queste sono le sue parole, che ci riportano indietro fino a quegli anni. «Morì, come sopra dicemmo, nella città nostra una donna, la quale se mosse a compassione ugualmente tutto il popolo fiorentino, non è gran maraviglia perchè di bellezze e gentilezze umane era veramente ornata, quanto alcuna che innanzi a lei fusse suta. E in fra l’altre sue eccelenti doti avea e attrattiva maniera, che tutti quelli che con lei avevono qualche domestica notizia credevono da essa sommamente essere amati. […] E se bene la vita sua, per le sue degnissime condizioni, a tutti la facessi carissima, pure la compassione della morte, e per l’età molto verde e la bellezza, che così morta, forse più che mai alcuna viva mostrava, lasciò di lei un ardentissimo desiderio. E perché da casa al luogo della sepoltura fu portata scoperta, a tutti che concorsono per vederla mosse grande copia di lacrime: de’ quali, in quelli che prima n’avevono alcuna notizia, oltre alla compassione nacque ammirazione che lei nella morte avesse superato quella bellezza che, viva, pareva, insuperabile».
Simonetta fu seppellita nella Chiesa di Ognissanti, dove i Vespucci avevano la loro cappella. Pur essendo certi che sia stata sepolta in quella chiesa, nei secoli si è persa la memoria dell’ubicazione esatta della sua tomba anche se proprio Botticelli viene in aiuto alla bella Simonetta per strapparla all’oblio del tempo: secondo i critici, infatti, oltre ai due celebri ritratti, Simonetta è molto presente nelle opere di Botticelli specie in quelle più importanti: in Venere e Marte in Pallade e il Centauro nella Calunnia nella Madonna del Magnificat nella Nascita di Venere e nella Primavera: tutto quello che unisce tutti questi dipinti oltre l’autore e il suo modello è che tutti sono stati realizzati dopo la morte di Simonetta.
Icona perfetta dunque, ma per caso. Con la morte di Simonetta però non scomparve la fama della sua bellezza che, secondo la maggior parte dei critici, rivive nei dipinti di Sandro Botticelli. La ricorrente figura della giovane snella con il volto coronato da una massa di capelli biondi, ricorda, infatti, le descrizioni di Simonetta.
L’infatuazione artistica del maestro potrebbe essere iniziata con il ritratto della giovane che gli era stato commissionato da Giuliano de’ Medici per il torneo cavalleresco. Il volto di questa bellissima donna appare oggi in molti dipinti rinascimentali, che siano essi veri ritratti o trasfigurazioni non è dato sapere, il suo volto ormai è eterno. Simonetta presta i propri tratti idealizzati a molte opere di Botticelli dove i canoni neoplatonici sono declinati in modi diversi, ma restando sempre riconoscibili: ad esempio nella Pallade che doma il centauro la figura femminile simbolo di purezza e di semplicità vince con la forza della ragione e della calma sulla figura mitologica che incarna invece la brutalità e la lussuria.
È Simonetta la creatura celeste immortalata da Botticelli nel dipinto La nascita di Venere Anch’esso commissionato a Botticelli da Giuliano de' Medici: ha forme eteree e sinuose, è coperta solo dai lunghi capelli, il suo viso è un ovale perfetto, gli occhi sono grandi, chiari e luminosi. Botticelli ne fece la sua musa, regalando così alla sua immagine l’eternità.
E l’innamorato, forte della passione che gli brucia nel petto per la sua adorata, si batte per lei e vince trionfante contro il suo avversario.
Simonetta fu scelta da Botticelli come modella anche per La Primavera e per Venere e Marte.
Sarà proprio Botticelli a ritrarre insieme Giuliano e Simonetta nel suo capolavoro, La Primavera in questo quadro il giovane Medici indossa le vesti di uno scultoreo Mercurio e la Cattaneo, ondeggiante nei suoi veli, è una delle Tre Grazie, quella che si trova al centro e è ritratta di profilo.
E ancora, in Venere e Marte, il volto della dea dell’amore è sempre quello angelico e soave di Simonetta.
Osservando questi tre capolavori si nota subito che tre personaggi si assomigliano molto e non solo, infatti, non a caso, gli storici sono convinti che Botticelli avesse una vera e propria musa ispiratrice, per moltissimi altri suoi dipinti Simonetta.
Botticelli morì a Firenze il 17 maggio del 1510 a 65 anni: malato e povero era ormai un sopravvissuto, testimone ultimo del sogno quattrocentesco. I suoi anni ultimi sono quelli in cui la scena artistica era ormai dominata da giganti come Leonardo, Michelangelo, Raffaello che trasformano radicalmente i termini della questione artistica. Botticelli fu l’ultimo ad andarsene fra grandi dell’avventura neoplatonica fiorentina: Lorenzo era morto nel 1492, Poliziano e Pico della Mirandola nel 1494, Landino e il grande maestro Ficino, nel 1498, Lorenzo il popolano nel 1503. A Firenze non governavano più i Medici che sarebbero tornati al potere nel 1512. E lui, Botticelli, sopravvissuto a tutti i compagni di un tempo, negli ultimi anni aveva cambiato radicalmente soggetti. La mitologia aveva lasciato il campo a soggetti religiosi, la spensieratezza era stata sostituita da una forte propensione al misticismo.
Botticelli fu sepolto dove aveva chiesto di riposare in eterno nella Chiesa di Ognissanti a poche decine di metri da dove era nato ed aveva lavorato, nella stessa chiesa dove trentaquattro anni prima era stata sepolta Simonetta, resa immortale dal pittore che le riposava non lontano.
La rapida successione degli avvenimenti aveva proiettato l'immagine di Simonetta in un mondo ultraterreno, privandola della consistenza umana e della sua stessa personalità e facendo di lei un mito che ha potuto sfidare i secoli, perché consacrato da una straordinaria convergenza di opere letterarie, dipinti e sculture che sono tra le più alte espressioni del Rinascimento.

Massimo Capuozzo

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