lunedì 13 aprile 2015

La Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci di Massimo Capuozzo

Alla Prof.ssa Dina Tumminello
che ha saputo infondere
e far sbocciare in me
l’amore per la Storia dell’Arte


La Dama con l'ermellino è un dipinto a olio su tavola di cm 54,8 x 40,3 di Leonardo da Vinci (1452 – 1519), generalmente col­lo­cato in­torno al 1488—1490, ma di re­cente fissato da Alessan­dro Ballarin, con ar­go­menti sti­li­stici e do­cu­mentari, al 1486 circa. Il dipinto, conservato al Castello del Wawel a Cracovia, è una delle opere più famose di Leonardo e uno dei dipinti più cele­bri della storia dell’arte occidentale, anche se questo non l'ha salvato dalla manomissione: lo sfondo scuro non è, infatti, originale, ma è dovuto ad una ridipintura successiva.
In questo ritratto viene meno sia la frontalità quattrocentesca con la relativa staticità monumentale dei personaggi, raffigurati più simili a sculture che a pitture, sia lo schema del ritratto a mezzo busto a tre quarti: Leonardo concepisce in questo dipinto una figura che accenna una lieve, duplice rotazione nello spazio con il busto rivolto a sinistra e la testa a destra.
Il fascino di questo ritratto risiede tutto nella sua immediatezza: la donna sembra colta di sorpresa, come se il richiamo di una voce abbia improvvisamente interrotto il suo incedere, inducendola a fermarsi e a voltarsi indietro. La grande novità leonardesca, che contribuisce al fascino di quest’opera, consiste nel cogliere la persona non solo nelle sue fattezze esterne, ma soprattutto nel rappresentarla e nell’immortalarla in movimento come in un fotogramma, che ne restituisca simultaneamente un attimo della sua vita, il suo carattere e perfino lo stato d’animo vissuto in quel momento, in un modo tale che la forma esterna corrisponda e risolva in sé la forma interna, rendendo così visibile l’interiorità del personaggio che vive in eterno nello spazio circoscritto e bidimensionale del quadro.
In questo dipinto, i personaggi sono tre: due interni al dipinto, mentre il terzo, presente nell’ambiente del ritratto, è però invisibile perché fuori allo spazio del quadro. I due personaggi visibili sono la dama e l’ermellino, o il furetto, secondo le più recenti riletture dell’opera: gli occhi della ragazza convergono in maniera evidente con gli occhi dell’animaletto, ed entrambi rivolgono lo sguardo nella stessa direzione, certamente non per caso, ma per manifestare la lieta sorpresa della presenza di qualcuno, sopraggiunto in quel momento nella stanza in cui si trova la dama. Ella, pur conservando la solenne imperturbabilità di un'antica statua, sembra girarsi con il busto ruotato verso la sua destra e la testa, in piena luce, verso la sua sinistra, cioè verso il terzo personaggio, giunto nella stanza inaspettatamente, che tuttavia rimane fuori campo.
Ad un recente esame ai raggi X si è scoperto che Leonardo aveva dipinto una finestra sopra la spalla sinistra della dama finestra poi cancellata, non si sa da chi, forse per far meglio risaltare, contro lo sfondo scuro e uniforme, la luminosità del volto, del bel collo e del delicato petto della dama, oltre ai colori dell’abito, soprattutto delle elaborate maniche a sbuffo.
In primo piano sono posti in evidenza da un lato il dorso e le sottili, affusolate ed aristocratiche dita della splendida mano destra, investita pienamente dalla luce, con cui la dama sfiora graziosamente la chiara pelliccia dell’animale, che ribadisce la sua delicatezza e la sua grazia, dell’altro lato l’animaletto stesso tenuto in grembo che poggia le sue zampette anteriori sulla manica sinistra.
L'abbigliamento della donna è curatissimo, ma non sfarzoso, per l'assenza di gioielli, ad eccezione della lunga collana di perle scure. Notevole è anche il raffinato quanto calibrato gioco dei contrasti tra il nero delle perle e il pallore del collo e del petto, tra il laccio nero che tiene fermo un velo dello stesso colore che ricopre i capelli e la luminosità della fronte, cinta anche da un sottile nastro marroncino chiaro. Com’è tipico nei vestiti dell'epoca, le maniche sono le parti più elaborate, in questo caso di due colori diversi, adornate da nastri che, all'occorrenza, potevano essere sciolti perché potessero essere sostituite.
La bestiolina è dipinta con precisione e vivacità, ma a un'analisi della sua morfologia, esso sembra più simile a un furetto che a un ermellino. Forse Leonardo, profondo indagatore del dato naturale, si dovette ispirare a un animale catturato, allontanandosi così dall’idea iconografica dell’ermellino. Del resto, l'ermellino è un animale selvatico, mordace e difficilmente ammaestrabile, di conseguenza sarebbe stato molto difficile poterlo utilizzare come modello, al contrario del furetto addomesticabile quasi come un gatto, oltre che facile da trovare nelle campagne lombarde dell'epoca.
La novità più tipica del ritratto di Leonardo consiste nel misterioso, impercettibile accenno di sorriso che affiora sulle labbra della dama e nel lampo che brilla in quegli splendidi occhi di ragazza gentile e incorruttibile, come l’ermellino che «prima si lascia pigliare dai cacciatori che voler fuggire nell’infangata tana, per non maculare la sua gentilezza», come raccontava piacevolmente Leonardo.
Come si è detto, lo sguardo della dama e quello dell'ermellino convergono in un punto: la bestiolina, infatti, sembra quasi identificarsi con la ragazza, per una sottile comunanza di tratti, per gli sguardi, intensi e allo stesso tempo candidi. La figura slanciata della dama trova riscontro armonico nell'animale, come in un gioco fisiognomico: lo scatto nervoso della zampa e della mano, le linee curve dei profili, infine lo sguardo, tutto sembra collegare i due soggetti.
Il capitolo scritto da Leonardo nel campo della ritrattistica è un episodio fondamentale, perché, al di là delle sue profonde innovazioni tecniche, l’introspezione psicologica che indaga il misterioso sguardo dei suoi personaggi, spesso difficilmente identificabili, diventa più approfondita.
La dama con l’ermellino è uno dei dipinti simbolo dello straordinario livello artistico raggiunto da Leonardo durante il suo primo soggiorno milanese tra il 1482 e il 1499: il dipinto come si è detto è databile al 1486, quando Ludovico il Moro ricevette l’importante titolo onorifico di cavaliere dell'Ordine dell'Ermellino, ricreato dal re di Napoli Ferrante I d'Aragona nel 1465.
Il dipinto riflette i densi studi di ottica effettuati da Leonardo in quel periodo e rinnovò profondamente l'ambiente artistico milanese, segnando nuovi vertici nella tradizione ritrattistica locale ed ebbe subito un notevole successo tanto da essere immortalato da un sonetto di Bernardo Bellincioni (1452  1492):

«’Di che te adiri, a chi invidia hai, natura?'
'Al Vinci, che ha citrato una tua stella,
Cecilia sì belissima hoggi è quella
che a' suoi begli ochi el sol par umbra oscura.'

'L'honor è tuo, se ben con sua pictura
la fa che par che ascolti et non favella.
Pensa quanto sarà più viva et bella,
più a te fia gloria in ogni età futura.

Ringratiar dunque Ludovico or poi
et l'ingegno et la man di Leonardo
che a' posteri di lei voglian far parte.

Chi lei vedrà così ben che sia tardo,
vederla viva, dirà; basti ad noi
comprender or quel che è natura et arte.'»

Le tracce del dipinto nei secoli successivi si confusero fino a farne dimenticare perfino l'attribuzione a Leonardo, al quale l'opera fu di nuovo attribuita solo alla fine del XVIII secolo.
A quanto se ne sa, La dama con l’ermellino è oggi l’unico dipinto di Leonardo di proprietà privata: appartiene, infatti, alla collezione iniziata due secoli fa dalla principessa Izabela Fleming Czartoryska, raffinata intellettuale protettrice delle belle arti, e fervente patriota polacca, e ora in possesso del principe Adam Karol, suo discendente. La preziosa tavola ha seguito negli ultimi due secoli le vicissitudini politiche della Polonia, viaggiando continuamente da una città all’altra per tutta l’Europa alla ricerca di luoghi sicuri. Durante l’invasione nazista della Polonia, la tavola fu nascosta nei sotterranei del Castello del Wawel, insieme con altri quadri della collezione, ma i nazisti la ritrovarono poco prima che l’Armata Rossa rioccupasse la Polonia, e il governatore tedesco di Cracovia, Hans Frank, facesse trasferire tutta la collezione in Slesia, dove fu recuperata dagli Alleati, che la riconsegnarono al legittimo proprietario. Quando fu ritrovata, la tavola recava nell'angolo inferiore a destra l'impronta di un tallone, cui si rimediò con un restauro. La tavola, prima dell’attuale sistemazione, era esposta al Czartoryski  Muzeum, sempre a Cracovia, in una saletta fiocamente illuminata per proteggerla dai raggi solari.
Ma quale rapporto esiste fra la dama raffigurata e Ludovico il Moro? E soprattutto chi è questa giovane donna di nome Cecilia, raffigurata da Leonardo la cui immagine ha attraversato i secoli?
Per ricostruire la vicenda di questo ritratto, in cui – come spesso accade nella produzione di Leonardo –, il personaggio effigiato rimane avvolto nel mistero, è opportuno fare un passo indietro ed entrare nell’atmosfera milanese, nel periodo in cui Leonardo lasciò Firenze alla volta di Milano.
La Signoria degli Sforza, grazie anche al periodo di pace che era riuscita ad assicurare, rappresentava per Milano una fase di grande prosperità. La città, una delle poche in Europa che superava i centomila abitanti, era al centro di una regione popolosa e produttiva ed era diventata un considerevole e dinamico centro di vita artistica e culturale. Dal 1480 Milano era, di fatto, nelle mani di Ludovico il Moro, affascinante ma ambiguo personaggio che per la città lombarda fu un vero e proprio dono, perché portò il Ducato all’acme del suo splendore politico, economico e culturale.
Quando fra la primavera e l'estate del 1482 Leonardo giunse a Milano, aveva ormai compiuto i trent’anni ed il suo obiettivo fondamentale sembrava quello di abbandonare per sempre la carriera artistica per potersi dedicare all’ingegneria militare.
Le ragioni della partenza di Leonardo da Firenze sono diverse e non tutte ben chiare. Sicuramente l'invio dell'artista a Milano dovette essere favorito da Lorenzo il Magnifico nell'ambito della sua politica diplomatica con le signorie italiane, in cui i maestri fiorentini erano inviati come ambasciatori del predominio artistico e culturale di Firenze. Sembra che paradossalmente Leonardo abbandoni una tranquilla vita artistica alla corte medicea, proprio quando a Firenze era ritornata la pace in seguito alla Congiura dei Pazzi del 1478 ed alla guerra che Sisto IV Della Rovere e Ferrante I di Napoli avevano scatenato contro Lorenzo il Magnifico, guerra che si era conclusa nel 1480. Ma in realtà non è così.
Secondo un racconto poco attendibile di Vasari, Leonardo aveva la missione di portare in dono al duca Ludovico il Moro una lira d’argento, in parte a forma di un teschio di cavallo; ma in quell'occasione Leonardo scrisse al duca una lettera d'impiego, in cui descriveva innanzitutto i suoi progetti di ingegneristica, di apparati militari, di opere idrauliche, di architettura, e solo alla fine, di pittura e scultura, di cui occuparsi in tempo di pace. Da questa fondamentale lettera appare evidente che Leonardo fosse intenzionato a restare a Milano, una città che doveva affascinarlo per la sua apertura alle novità scientifiche e tecnologiche, determinate dal buon governo di Francesco Sforza e dall’illuminata reggenza di Ludovico il Moro.
Ludovico era cresciuto nella grandiosa Corte Sforzesca ed era stato educato dalla madre, Bianca Maria Visconti, donna di straordinaria apertura mentale e di solida cultura umanistica, e poi dall’umanista Francesco Filelfo, forse il miglior precettore dell’epoca. Ludovico era pertanto cresciuto dotato di una solida cultura e di buone maniere, sebbene alle attività intellettuali preferisse quelle fisiche. Dopo essersi sbarazzato della vedova di Galeazzo Maria, Bona di Savoia che relegò in un castello di Abbiate, Ludovico ebbe via libera nel governo del Ducato, tanto più che suo nipote Gian Galeazzo era timido e riservato, oltre che timoroso delle responsabilità del potere e inadeguato al governo.
Alla mano, cortese e sensibile alla bellezza e alle arti, Ludovico era considerato fra i diplomatici più astuti del suo tempo ed aveva a cuore il buon funzionamento dello Stato e della sua economia, e per questo i Milanesi riconobbero in lui il Signore ideale: diede impulso all’agricoltura, incrementò l’allevamento del bestiame, fece scavare canali d’irrigazione, favorì la coltivazione del riso, della vite e del gelso; inoltre incoraggiò l’industria di trasformazione, specialmente quella casearia, e incoraggiò quella serica, la principale risorsa del Ducato.
Durante il suo prospero governo, Milano diventò anche più bella ed elegante: furono costruiti nuovi palazzi, tracciati viali, allargate le strade principali per offrire ai cittadini più aria e più luce, i viali che conducevano al Castello furono fiancheggiati da palazzi e da giardini per l’aristocrazia, il Duomo – che prese allora la sua forma definitiva – sorse come un secondo centro della fervida vita della città, dove fiorirono nuove botteghe. Fabbri, orafi, intarsiatori, smaltatori, vasai, mosaicisti, artigiani del vetro colorato, profumieri, ricamatrici, tessitori di arazzi, fabbricanti di strumenti musicali ornavano le dimore di personaggi della Corte e palazzi ed esportavano tanto, da permettersi d’importare raffinati oggetti dall’Oriente. Castelli, ville, abbazie ricordano ancora oggi quel momento storico; Milano si arricchì di splendide opere d’arte come il chiostro di Sant’Ambrogio, progettato da Bramante nel 1497, la cupola di Santa Maria delle Grazie, realizzata da Bramante fra il 1492 e il 1493, il Lazzaretto. Il Castello Sforzesco raggiunse il suo massimo splendore con la maestosa torre centrale, l’immenso intreccio delle sue stanze lussuose, i soffitti dipinti da Leonardo, i pavimenti a intarsi, i vetri istoriati delle finestre, i cuscini ricamati, i tappeti persiani, le statue di Cristoforo Solari e di Cristoforo Romano, gli arazzi con le storie di Troia e di Roma, e quasi dappertutto i resti gloriosi di Grecia, di Roma e d’Italia.
Ludovico il Moro capiva pienamente pieno il valore dell’arte, della letteratura, delle scienze, perché era un uomo intelligentissimo, un vero mecenate. Felici operazioni militari e politiche amplificarono enormemente il prestigio e la sua fama: sotto di lui il Ducato era costituito da quasi tutta la Lombardia fino all’Adda, da Novara e Alessandria in Piemonte, e a Sud i suoi domini giungevano fino a Parma e Piacenza. Nel 1491 Ludovico sposò Beatrice d’Este, la più giovane delle due principesse della Corte di Ferrara: il ricevimento di nozze si svolse nelle sontuose sale del Castello Sforzesco, appena completato e fu uno degli eventi mondani più famosi del secolo, con interventi di principi, ambasciatori, prelati, poeti, letterati. Gian Galeazzo Maria fu relegato a Pavia, mentre Ludovico e la moglie inauguravano una Corte che divenne la più splendida non solo d’Italia, ma di tutta Europa. Beatrice d’Este, cresciuta a Napoli, aveva assimilato lo spirito allegro e festaiolo di quella corte: amava immensamente i divertimenti, le vesti sgargianti, i balli e il gioco, e nei saloni del Castello le feste e i trattenimenti si susseguivano senza interruzione, con la partecipazione del meglio dell’aristocrazia e della cultura europea e con un fasto che sbalordiva i Milanesi.
Ovviamente la munificenza di Ludovico il Moro, il suo interesse per l’arte e la sua ricerca del bello coincidevano con il suo desiderio oltre che con la sua necessità di mostrare al mondo la qualità del suo governo, di ottenere prestigio secondo un’accorta e moderna politica di comunicazione.
Leonardo si sentì affascinato da questo fervido ambiente intellettuale che gli procurava fortissimi stimoli, mentre l’ambiente fiorentino gli procurava ormai un certo disagio: da un lato non si riconosceva nella dominante cultura neoplatonica della cerchia medicea, così imbevuta di ascendenze filosofiche e letterarie, lui che si definiva uomo senza lettere; dall'altro la sua arte stava divergendo sempre più dal linearismo disegnativo e dalla ricerca di una bellezza rarefatta e idealizzata degli artisti dominanti sulla scena, già suoi compagni nella bottega di Verrocchio, come Perugino, Ghirlandaio e Botticelli. Del resto la sua esclusione dai frescanti della Sistina rivelava la sua distanza da quel gruppo. Si trattava di una commissione molto importante e di grande prestigio, infatti, avrebbe dato ai prescelti la possibilità di lavorare per il Papa, uno dei mecenati più potenti d’Europa. Questa scelta di Lorenzo il Magnifico condizionò profondamente il destino di Leonardo. A Firenze Leonardo era conosciuto per il suo grande talento come pittore, ma la scelta di non completare la pala d’altare di San Donato a Scopeto per molti significò una perdita di interesse per la pittura. Così, quando il Magnifico dovette scegliere quali artisti inviare a Roma si affidò a Botticelli e al suo gruppo.
La scelta di Leonardo di non terminare l’Adorazione dei magi causò al maestro dei disagi, infatti, i monaci di San Donato lo citarono in tribunale. Leonardo era uno spirito libero, mal sopportava l’idea di sottostare alle regole legate alla commissione di un’opera d’arte come contratti e scadenze imposte dal committente stesso. Non si conoscerà mai il motivo di questo suo comportamento, si può solo ipotizzare che fosse spinto dal desiderio di intraprendere nuovi progetti e che la sua insaziabile sete di conoscenza determinava in lui l’impossibilità di concentrarsi a lungo sullo stesso progetto. La sua sconfinata immaginazione e la vastità d’interessi sembravano quasi ostacolare la sua carriera anziché favorirla. La sua poca costanza avrebbe potuto precludergli il successo, ma Leonardo trovò ugualmente il modo di raggiungere ciò che cercava.
A queste due vicende bisogna aggiungere un grave episodio accaduto nel 1476: Leonardo era stato denunciato in forma anonima alle guardie di Firenze dai suoi nemici, astiosi e invidiosi del suo successo, per il reato di sodomia. L’umiliazione fu enorme, anche se l’accusa cadde immediatamente perché gli accusatori rimasero anonimi e non vi furono né testimoni né prove. Ma Leonardo fu talmente scosso da questo episodio che nei suoi appunti scrisse che nulla era da temere più di una reputazione macchiata: si era impegnato tanto per emergere come artista e ora sarebbe stato guardato con sospetto, temendo che la sua carriera sarebbe stata rovinata per sempre.
Leonardo dunque colse al volo l’opportunità di lasciare Firenze e di affrontare la sua avventura milanese: sotto la reggenza del moro, il ducato stava conoscendo il suo periodo d’oro. Luca Pacioli, offrendo la sua opera al duca Ludovico, nel 1498 scriveva: «Accanto al duca […] ci sono filosofi e teologi medici astronomi architetti e ingegneri e di cose nove assidui inventori». A Ludovico spetta, infatti, il merito di cogliere il meglio dei tempi nuovi di saper accogliere intorno a sé i migliori ingegneri che le arti e le scienze vantavano in Italia.
In questo contesto Leonardo si collocò come personaggio di prima grandezza. Nei primi anni milanesi Leonardo proseguì con i suoi studi di meccanica, le invenzioni di macchine militari, la messa a punto di varie tecnologie, ma già verso il 1485 doveva essere entrato nella cerchia più ristretta di Ludovico il Moro, per il quale progettò con versatilità sistemi d'irrigazione, dipinse ritratti, approntò scenografie per feste di corte, e quant’altro diventando il «regista» delle feste e dei fasti della corte di Ludovico.
I bisogni economici di Leonardo, arrivato circa un anno prima a Milano, dove inizialmente era stato accolto in maniera piuttosto tiepida, lo portarono ad accettare anche commissioni private come nel caso della Vergine delle rocce oggi conservata al Museo del Louvre: nel 1483 la Confraternita dell'Immacolata Concezione, stipulò con Leonardo un contratto per una pala da collocare sull'altare della cappella della Confraternita nella chiesa di San Francesco Grande, oggi distrutta.
Conclusa la Vergine delle Rocce, Leonardo dovette dedicarsi secondo il racconto di Vasari ad alcune Madonne. Ma un altro tema ricorrente del periodo milanese fu il ritratto, in cui l'artista poté mettere a frutto gli studi anatomici avviati a Firenze, interessandosi soprattutto ai legami tra le fisionomie e i moti dell'animo, cioè quegli aspetti psicologici e quelle qualità morali che trasparivano puntualmente dalle caratteristiche esteriori. Una delle prime prove su questo tema che ci sia pervenuta è il Ritratto di musico della Pinacoteca Ambrosiana, identificabile forse con Franchino Gaffurio il maestro di Cappella del duomo milanese. Notevoli sono in quest'opera l'attenzione analitica e lo sviluppo psicologico nello sguardo sfuggente dell'effigiato.
Un altro famoso ritratto di questo periodo è la cosiddetta Belle Ferronnière databile al 1490-1495 circa del Museo del Louvre, una dama, forse legata alla corte sforzesca, dall'intenso sguardo che evita aristocraticamente lo sguardo dello spettatore.
Questi dipinti, testimoniano il notevole salto qualitativo, stilistico e scientifico che caratterizza il primo periodo milanese dell’attività artistica di Leonardo, che culminerà con il Cenacolo del Refettorio di Santa Maria Delle Grazie.
Sicuramente legato alla committenza ducale è la Dama con l'ermellino.
La donna ritratta va con ampio margine di certezza identificata con Cecilia Gallerani, una delle amanti, forse la favorita, di Ludovico il Moro che potrebbe aver quindi commissionato a Leonardo il ritratto. La scritta apocrifa ha anche fatto ipotizzare che l'opera raffiguri Madame Ferron, amante di Francesco I di Francia, è oggi superata. Secondo un'altra ipotesi, anch’essa oggi abbandonata dalla critica, l'opera sarebbe una memoria della congiura nel 1476 contro Galeazzo Maria Sforza e la donna effigiata sarebbe sua figlia Caterina Sforza.
L'identificazione con la giovane Gallerani si basa su un sottile richiamo all'animaletto: l'ermellino, infatti, oltre che simbolo di purezza e di incorruttibilità, in greco si chiama γαλή, che alluderebbe al cognome della ragazza e, come si è già detto, alluderebbe al le­game tra il confe­ri­mento a Ludovico il Moro delle in­se­gne dell’Ordine dell’Ermellino nel 1486 da parte del re di Na­poli Fer­rante d’Aragona. L’animaletto che la gio­vane stringe tra le brac­cia, costituisce, in­fatti, un riferimento per la data di ese­cu­zione del dipinto di Leo­nardo. Un ul­te­riore sostegno al 1486 sulla realizzazione del ritratto, si ri­cava dalla let­tera con cui lo stesso Ludovico dichiara, la pro­pria pas­sione per Ceci­lia a suo fratello, il car­di­nale Ascanio Sforza nel giu­gno del 1485 in cui, parlando della Gallerani, la definisce «una giovane mi­la­nese, no­ta­bile de san­gue, honestis­sima et formossa quanto più havessj possuto desiderare». Inoltre Lu­do­vico chiede ad Asca­nio favori per il fra­tello di lei, Ga­leazzo Gallerani, avviato alla car­riera ecclesiastica. Questo ritratto potrebbe essere letto quindi come una sorta di pe­gno d’amore per la giovanissima amata, in un sot­tile gioco di allusioni e di ri­mandi. Simbolo di pu­rezza, ca­stità, moderazione l’ermellino tra­sforma con la sua pre­senza il ri­tratto di Ceci­lia, in un dop­pio ri­tratto – come ha sostenuto recentemente Alessandro Ballarin – «nel senso che la be­stiola è lui [il Moro] stesso, e lei lo tiene in brac­cio, lo coccola».
Di Cecilia Gallerani, tuttavia, si sa davvero poco, ma pare che, oltre che per la sua bellezza, Cecilia fosse molto apprezzata a corte e dallo stesso Leonardo, soprattutto per la sua spiccata intelligenza, a tal punto che ella diventò la promotrice di un piccolo salotto letterario, al quale partecipava lo stesso Leonardo, in compagnia del grande Bramante. Mentre posava per il dipinto, Cecilia e Leonardo ebbero modo di apprezzarsi. Lo invitò a riunioni di studiosi e di intellettuali di Milano, in cui si discuteva di filosofia e di varia cultura: era una donna ricca di cultura, che parlava correntemente latino e che fece del canto e della scrittura i suoi principali interessi.
Quello che è certo è che il rapporto di Ludovico con Cecilia non fu l’infatuazione passeggera di un maturo aristocratico per una bel­lis­sima ado­le­scente, ma fu de­sti­nato a du­rare nel tempo. Nel 1487, presumibilmente un anno dopo la realizzazione, l’ambasciatore fioren­tino a Mi­lano de­scrive al suo signore il gio­ioso innamo­ra­mento del Moro, e Lorenzo il Ma­gni­fico os­serva che nessuna no­ti­zia può esser­gli «più giocunda che que­sto no­vello amore del Si­gnor Lodo­vico, ma­xime essendo insino a hora tutto fe­lice et pieno di dolceza».
Ce­ci­lia viveva nel Ca­stello di Porta Giovia, la re­la­zione era nota in tutte le corti italiane e straniere, e preoccupava gli Este, du­chi di Ferrara, che avevano pro­messo in sposa al Moro, nel 1485, la loro secondo­ge­nita Bea­trice: Eleo­nora d’Aragona insisteva per­ché il Moro, contrario a ri­spet­tare i patti nu­ziali, in breve la sposasse.
Al mo­mento delle nozze con Bea­trice d’Este, ce­le­brate nel gen­naio del 1491, Ce­ci­lia era in avanzato stato di gra­vi­danza di un ma­schio – Ce­sare, che nacque di lì a poco – ed era bella come un fiore, secondo il racconto dell’ambasciatore estense Gia­como Trotti. Eleo­nora d’Aragona, indispettita, scriveva in­vece alla fi­glia Isa­bella d’Este, marchesa di Mantova, di avere tro­vato in Castello cose che avrebbe rac­con­tato a voce, per­ché troppo de­li­cate per es­sere af­fi­date a carta e penna. Solo quando la convivenza tra Bea­trice e Ce­ci­lia diventò im­pos­si­bile, e quando l’amore per Lucrezia Cri­velli, so­sti­tuì quello per Ce­ci­lia, il Moro si de­cise ad allon­ta­narla, dotandola di diversi immobili e beni, tra cui, il Palazzo Carmagnola, dove grazie a lei fu istituito uno dei primi circoli letterari e nacque la moda della conversazione e dei giochi di società.
Nel 1492 sposò il conte Ludovico Carminati de’ Brambilla detto, il Bergamino. La coltissima Cecilia fu per lungo tempo, a Milano, punto di riferimento per letterati, artisti, poeti, poetessa ella stessa, e buona amica di Isa­bella d’Este Gonzaga. Pro­prio alla mar­chesa che cercò invano di farsi ritrarre a sua volta da Leonardo, pur senza successo, pre­stò il pro­prio ri­tratto, ma quell’acerba immagine di adolescente le sembrava, per sua stessa ammis­sione, un ri­cordo ormai lon­tano. Proprio alla marchesa Isabella, che chie­deva la cor­te­sia di in­viare il ritratto a Man­tova per confron­tarlo con al­cuni ri­tratti di Bel­lini, Cecilia con­fes­sò che quel di­pinto non le assomi­gliava per niente, non però «per di­fecto del mae­stro, che in vero credo non se truova a llui un paro: ma […] per es­ser fatto esso ritratto in una età sì im­per­fecta, che io ho poi cam­biata tutta quella effi­gie, tal­mente che vedere epso et me tutto in­sieme, non è al­chuno che lo giu­dica es­ser fatto per me […]». Anche presso la residenza del Bergamino, l'attuale Villa Medici del Vascello in San Giovanni in Croce presso Cremona, Cecilia tenne numerosi incontri con artisti, poeti e letterati, trasformando il castello del marito in un luogo aperto a personalità di alta levatura culturale. Cecilia morì all'età di sessantatré anni e fu forse sepolta nella cappella della famiglia Carminati nella chiesa di San Zavedro a San Giovanni in Croce.
Un giorno Leonardo avrebbe scritto: «O tempo, consumatore delle cose, e, o invidiosa antichità, tu distruggi tutte le cose, e consumate tutte le cose dai duri denti della vecchiezza, a poco a poco, con lenta morte». Ma l’arte del genio ha saputo vincere il tempo divoratore di ogni cosa e questa creatura con il suo animaletto sono fortunosamente sopravvissuti all’oblio e come in un’istantanea vediamo le fattezze della nobile Cecilia Gallerani.
Massimo Capuozzo