Alla Prof.ssa Dina Tumminello
che ha saputo infondere
e far sbocciare in me
l’amore per la Storia dell’Arte
La Dama con l'ermellino è un dipinto
a olio su tavola di cm 54,8 x 40,3 di Leonardo da Vinci (1452 – 1519),
generalmente collocato intorno al 1488—1490, ma di recente fissato da
Alessandro Ballarin, con argomenti stilistici e documentari, al
1486 circa. Il dipinto, conservato al Castello
del Wawel a Cracovia, è una delle opere più famose di Leonardo e uno dei dipinti più celebri della storia dell’arte
occidentale, anche se questo non l'ha salvato dalla manomissione: lo sfondo
scuro non è, infatti, originale, ma è dovuto ad una ridipintura successiva.
In
questo ritratto viene meno sia la frontalità quattrocentesca con la relativa
staticità monumentale dei personaggi, raffigurati più simili a sculture che a
pitture, sia lo schema del ritratto a mezzo busto a tre quarti: Leonardo
concepisce in questo dipinto una figura che accenna una lieve, duplice rotazione
nello spazio con il busto rivolto a sinistra e la testa a destra.
Il
fascino di questo ritratto risiede tutto nella sua immediatezza: la donna sembra
colta di sorpresa, come se il richiamo di una voce abbia improvvisamente interrotto
il suo incedere, inducendola a fermarsi e a voltarsi indietro. La grande novità
leonardesca, che contribuisce al fascino di quest’opera, consiste nel cogliere
la persona non solo nelle sue fattezze esterne, ma soprattutto nel
rappresentarla e nell’immortalarla in movimento come in un fotogramma, che ne
restituisca simultaneamente un attimo della sua vita, il suo carattere e perfino
lo stato d’animo vissuto in quel momento, in un modo tale che la forma
esterna corrisponda e risolva in sé la forma interna, rendendo così visibile
l’interiorità del personaggio che vive in
eterno nello spazio circoscritto e bidimensionale del quadro.
In
questo dipinto, i personaggi sono tre:
due interni al dipinto, mentre il terzo, presente nell’ambiente del ritratto, è
però invisibile perché fuori allo spazio del quadro. I due personaggi visibili sono
la dama e l’ermellino, o il furetto, secondo le più recenti riletture
dell’opera: gli occhi della ragazza convergono in maniera evidente con gli
occhi dell’animaletto, ed entrambi rivolgono lo sguardo nella stessa direzione,
certamente non per caso, ma per manifestare la lieta sorpresa della presenza di
qualcuno, sopraggiunto in quel momento nella stanza in cui si trova la dama.
Ella, pur conservando la solenne imperturbabilità di un'antica statua, sembra
girarsi con il busto ruotato verso la sua destra e la testa, in piena
luce, verso la sua sinistra, cioè verso il terzo personaggio, giunto nella
stanza inaspettatamente, che tuttavia rimane fuori campo.
Ad
un recente esame ai raggi X si è scoperto che Leonardo aveva dipinto una
finestra sopra la spalla sinistra della dama finestra poi cancellata, non si sa
da chi, forse per far meglio risaltare, contro lo sfondo scuro e uniforme, la
luminosità del volto, del bel collo e del delicato petto della dama, oltre ai
colori dell’abito, soprattutto delle elaborate maniche a sbuffo.
In
primo piano sono posti in evidenza da un lato il dorso e le sottili, affusolate
ed aristocratiche dita della splendida mano destra, investita pienamente dalla
luce, con cui la dama sfiora graziosamente la chiara pelliccia dell’animale, che
ribadisce la sua delicatezza e la sua grazia, dell’altro lato l’animaletto
stesso tenuto in grembo che poggia le sue zampette anteriori sulla manica
sinistra.
L'abbigliamento
della donna è curatissimo, ma non sfarzoso, per l'assenza di gioielli, ad
eccezione della lunga collana di perle scure. Notevole è anche il
raffinato quanto calibrato gioco dei contrasti tra il nero delle perle e
il pallore del collo e del petto, tra il laccio nero che tiene fermo
un velo dello stesso colore che ricopre i capelli e la luminosità della
fronte, cinta anche da un sottile nastro marroncino chiaro. Com’è tipico
nei vestiti dell'epoca, le maniche sono le parti più elaborate, in questo caso
di due colori diversi, adornate da nastri che, all'occorrenza, potevano essere
sciolti perché potessero essere sostituite.
La
bestiolina è dipinta con precisione e vivacità, ma a un'analisi della sua morfologia,
esso sembra più simile a un furetto che a un ermellino. Forse Leonardo, profondo
indagatore del dato naturale, si dovette ispirare a un animale catturato,
allontanandosi così dall’idea iconografica dell’ermellino. Del resto,
l'ermellino è un animale selvatico, mordace e difficilmente ammaestrabile, di
conseguenza sarebbe stato molto difficile poterlo utilizzare come modello, al
contrario del furetto addomesticabile quasi come un gatto, oltre che
facile da trovare nelle campagne lombarde dell'epoca.
La
novità più tipica del ritratto di Leonardo consiste nel misterioso,
impercettibile accenno di sorriso che affiora sulle labbra della dama e nel
lampo che brilla in quegli splendidi occhi di ragazza gentile e
incorruttibile, come l’ermellino che «prima
si lascia pigliare dai cacciatori che voler fuggire nell’infangata tana, per
non maculare la sua gentilezza», come raccontava piacevolmente Leonardo.
Come
si è detto, lo sguardo della dama e quello dell'ermellino convergono in un
punto: la bestiolina, infatti, sembra quasi identificarsi con la ragazza, per
una sottile comunanza di tratti, per gli sguardi, intensi e allo stesso tempo
candidi. La figura slanciata della dama trova riscontro armonico nell'animale,
come in un gioco fisiognomico: lo scatto nervoso della zampa e della mano, le
linee curve dei profili, infine lo sguardo, tutto sembra collegare i due
soggetti.
Il
capitolo scritto da Leonardo nel campo della ritrattistica è un episodio fondamentale,
perché, al di là delle sue profonde innovazioni tecniche, l’introspezione
psicologica che indaga il misterioso sguardo dei suoi personaggi, spesso
difficilmente identificabili, diventa più approfondita.
La dama con l’ermellino è uno dei dipinti simbolo dello
straordinario livello artistico raggiunto da Leonardo durante il suo primo
soggiorno milanese tra il 1482 e il 1499: il dipinto come si è detto
è databile al 1486, quando Ludovico il Moro ricevette l’importante titolo
onorifico di cavaliere dell'Ordine
dell'Ermellino, ricreato dal re di Napoli
Ferrante I d'Aragona nel 1465.
Il
dipinto riflette i densi studi di ottica
effettuati da Leonardo in quel periodo e rinnovò profondamente
l'ambiente artistico milanese, segnando nuovi vertici nella tradizione
ritrattistica locale ed ebbe subito un notevole successo tanto da essere immortalato
da un sonetto di Bernardo
Bellincioni (1452 – 1492):
«’Di che te adiri, a chi invidia hai,
natura?'
'Al Vinci, che ha citrato una tua
stella,
Cecilia sì belissima hoggi è quella
che a' suoi begli ochi el sol par umbra
oscura.'
'L'honor è tuo, se ben con sua pictura
la fa che par che ascolti et non
favella.
Pensa quanto sarà più viva et bella,
più a te fia gloria in ogni età futura.
Ringratiar dunque Ludovico or poi
et l'ingegno et la man di Leonardo
che a' posteri di lei voglian far parte.
Chi lei vedrà così ben che sia tardo,
vederla viva, dirà; basti ad noi
comprender or quel che è natura et
arte.'»
Le
tracce del dipinto nei secoli successivi si confusero fino a farne dimenticare
perfino l'attribuzione a Leonardo, al quale l'opera fu di nuovo attribuita solo
alla fine del XVIII secolo.
A
quanto se ne sa, La dama con l’ermellino è
oggi l’unico dipinto di Leonardo di proprietà privata: appartiene,
infatti, alla collezione iniziata due secoli fa dalla principessa Izabela Fleming Czartoryska, raffinata
intellettuale protettrice delle belle arti, e fervente patriota polacca, e ora
in possesso del principe Adam Karol, suo discendente. La preziosa tavola ha
seguito negli ultimi due secoli le vicissitudini politiche della
Polonia, viaggiando continuamente da una città all’altra per tutta
l’Europa alla ricerca di luoghi sicuri. Durante l’invasione nazista della
Polonia, la tavola fu nascosta nei sotterranei del Castello del Wawel, insieme con altri quadri della collezione, ma i
nazisti la ritrovarono poco prima che l’Armata
Rossa rioccupasse la Polonia, e il governatore tedesco di Cracovia, Hans Frank,
facesse trasferire tutta la collezione in Slesia, dove fu recuperata dagli
Alleati, che la riconsegnarono al legittimo proprietario. Quando fu ritrovata,
la tavola recava nell'angolo inferiore a destra l'impronta di un tallone, cui
si rimediò con un restauro. La tavola, prima dell’attuale
sistemazione, era esposta al Czartoryski
Muzeum, sempre a Cracovia, in una saletta fiocamente illuminata per
proteggerla dai raggi solari.
Ma
quale rapporto esiste fra la dama raffigurata e Ludovico il Moro? E soprattutto
chi è questa giovane donna di nome Cecilia, raffigurata da Leonardo la cui
immagine ha attraversato i secoli?
Per
ricostruire la vicenda di questo ritratto, in cui – come spesso accade nella
produzione di Leonardo –, il personaggio effigiato rimane avvolto nel mistero, è
opportuno fare un passo indietro ed entrare nell’atmosfera milanese, nel periodo
in cui Leonardo lasciò Firenze alla volta di Milano.
La
Signoria degli Sforza, grazie anche al periodo di pace che era riuscita ad
assicurare, rappresentava per Milano una fase di grande prosperità. La città,
una delle poche in Europa che superava i centomila abitanti, era
al centro di una regione popolosa e produttiva ed era diventata un considerevole
e dinamico centro di vita artistica e culturale. Dal 1480 Milano era, di fatto,
nelle mani di Ludovico il Moro, affascinante ma ambiguo personaggio che per la
città lombarda fu un vero e proprio dono, perché portò il Ducato all’acme del
suo splendore politico, economico e culturale.
Quando
fra la primavera e l'estate del 1482
Leonardo giunse a Milano, aveva ormai compiuto i trent’anni ed il suo obiettivo
fondamentale sembrava quello di abbandonare per sempre la carriera artistica
per potersi dedicare all’ingegneria militare.
Le
ragioni della partenza di Leonardo da Firenze sono diverse e non tutte ben
chiare. Sicuramente l'invio dell'artista a Milano dovette essere favorito da Lorenzo il Magnifico nell'ambito della
sua politica diplomatica con le signorie italiane, in cui i maestri fiorentini
erano inviati come ambasciatori del
predominio artistico e culturale di Firenze. Sembra che paradossalmente
Leonardo abbandoni una tranquilla vita artistica alla corte medicea, proprio
quando a Firenze era ritornata la pace in seguito alla Congiura dei Pazzi del 1478 ed alla guerra che Sisto IV Della Rovere e Ferrante
I di Napoli avevano scatenato contro Lorenzo il Magnifico, guerra che si
era conclusa nel 1480. Ma in realtà non è così.
Secondo
un racconto poco attendibile di Vasari, Leonardo aveva la missione di portare in dono al duca Ludovico il Moro una lira d’argento, in parte a forma
di un teschio di cavallo; ma in quell'occasione Leonardo scrisse al duca una lettera d'impiego, in cui descriveva
innanzitutto i suoi progetti di ingegneristica, di apparati militari, di opere
idrauliche, di architettura, e solo alla fine, di pittura e scultura, di cui
occuparsi in tempo di pace. Da questa fondamentale lettera appare evidente che Leonardo
fosse intenzionato a restare a Milano, una città che doveva affascinarlo per la
sua apertura alle novità scientifiche e tecnologiche, determinate dal buon
governo di Francesco Sforza e dall’illuminata reggenza di Ludovico il Moro.
Ludovico
era cresciuto nella grandiosa Corte Sforzesca ed era stato educato dalla madre,
Bianca Maria Visconti, donna di straordinaria
apertura mentale e di solida cultura umanistica, e poi dall’umanista Francesco Filelfo, forse il miglior precettore dell’epoca. Ludovico era
pertanto cresciuto dotato di una solida cultura e di buone maniere, sebbene
alle attività intellettuali preferisse quelle fisiche. Dopo essersi sbarazzato
della vedova di Galeazzo Maria, Bona di Savoia che relegò in un castello di
Abbiate, Ludovico ebbe via libera nel governo del Ducato, tanto più che suo
nipote Gian Galeazzo era timido e
riservato, oltre che timoroso delle responsabilità del potere e inadeguato al
governo.
Alla
mano, cortese e sensibile alla bellezza e alle arti, Ludovico era considerato
fra i diplomatici più astuti del suo tempo ed aveva a cuore il buon
funzionamento dello Stato e della sua economia, e per questo i Milanesi
riconobbero in lui il Signore ideale: diede impulso all’agricoltura, incrementò
l’allevamento del bestiame, fece scavare canali d’irrigazione, favorì la
coltivazione del riso, della vite e del gelso; inoltre incoraggiò l’industria
di trasformazione, specialmente quella casearia, e incoraggiò quella serica, la
principale risorsa del Ducato.
Durante
il suo prospero governo, Milano diventò anche più bella ed elegante: furono
costruiti nuovi palazzi, tracciati viali, allargate le strade principali per
offrire ai cittadini più aria e più luce, i viali che conducevano al Castello
furono fiancheggiati da palazzi e da giardini per l’aristocrazia, il Duomo –
che prese allora la sua forma definitiva – sorse come un secondo centro della
fervida vita della città, dove fiorirono nuove botteghe. Fabbri, orafi,
intarsiatori, smaltatori, vasai, mosaicisti, artigiani del vetro colorato,
profumieri, ricamatrici, tessitori di arazzi, fabbricanti di strumenti musicali
ornavano le dimore di personaggi della Corte e palazzi ed esportavano tanto, da
permettersi d’importare raffinati oggetti dall’Oriente. Castelli, ville,
abbazie ricordano ancora oggi quel momento storico; Milano si arricchì di
splendide opere d’arte come il chiostro
di Sant’Ambrogio, progettato da Bramante nel 1497, la cupola di Santa Maria delle Grazie, realizzata da Bramante fra il
1492 e il 1493, il Lazzaretto. Il Castello Sforzesco raggiunse il suo
massimo splendore con la maestosa torre centrale, l’immenso intreccio delle sue
stanze lussuose, i soffitti dipinti da Leonardo, i pavimenti a intarsi, i vetri
istoriati delle finestre, i cuscini ricamati, i tappeti persiani, le statue di Cristoforo Solari e di Cristoforo Romano, gli arazzi con le
storie di Troia e di Roma, e quasi dappertutto i resti gloriosi di Grecia, di
Roma e d’Italia.
Ludovico
il Moro capiva pienamente pieno il valore dell’arte, della letteratura, delle
scienze, perché era un uomo intelligentissimo, un vero mecenate. Felici
operazioni militari e politiche amplificarono enormemente il prestigio e la sua
fama: sotto di lui il Ducato era costituito da quasi tutta la Lombardia fino
all’Adda, da Novara e Alessandria in Piemonte, e a Sud i suoi domini giungevano
fino a Parma e Piacenza. Nel 1491 Ludovico sposò Beatrice d’Este, la più
giovane delle due principesse della Corte di Ferrara: il ricevimento di nozze
si svolse nelle sontuose sale del Castello Sforzesco, appena completato e fu
uno degli eventi mondani più famosi del secolo, con interventi di principi,
ambasciatori, prelati, poeti, letterati. Gian Galeazzo Maria fu relegato a
Pavia, mentre Ludovico e la moglie inauguravano una Corte che divenne la più
splendida non solo d’Italia, ma di tutta Europa. Beatrice d’Este, cresciuta a
Napoli, aveva assimilato lo spirito allegro e festaiolo di quella corte: amava
immensamente i divertimenti, le vesti sgargianti, i balli e il gioco, e nei
saloni del Castello le feste e i trattenimenti si susseguivano senza
interruzione, con la partecipazione del meglio dell’aristocrazia e della
cultura europea e con un fasto che sbalordiva i Milanesi.
Ovviamente
la munificenza di Ludovico il Moro, il suo interesse per l’arte e la sua ricerca
del bello coincidevano con il suo desiderio oltre che con la sua necessità di
mostrare al mondo la qualità del suo governo, di ottenere prestigio secondo
un’accorta e moderna politica di comunicazione.
Leonardo si sentì affascinato da questo fervido ambiente intellettuale
che gli procurava fortissimi stimoli, mentre l’ambiente fiorentino gli procurava
ormai un certo disagio: da un lato non si riconosceva nella dominante cultura
neoplatonica della cerchia medicea, così imbevuta di ascendenze filosofiche e
letterarie, lui che si definiva uomo senza
lettere; dall'altro la sua arte stava divergendo sempre più dal linearismo disegnativo e dalla ricerca
di una bellezza rarefatta e idealizzata degli artisti dominanti sulla scena,
già suoi compagni nella bottega di Verrocchio, come Perugino, Ghirlandaio e Botticelli.
Del resto la sua esclusione dai frescanti della Sistina rivelava la sua distanza da quel
gruppo. Si trattava di una commissione molto importante e di grande prestigio,
infatti, avrebbe dato ai prescelti la possibilità di lavorare per il Papa, uno
dei mecenati più potenti d’Europa. Questa scelta di Lorenzo il Magnifico
condizionò profondamente il destino di Leonardo. A Firenze Leonardo era conosciuto
per il suo grande talento come pittore, ma la scelta di non completare la pala
d’altare di San Donato a Scopeto per
molti significò una perdita di interesse per la pittura. Così, quando il
Magnifico dovette scegliere quali artisti inviare a Roma si affidò a Botticelli
e al suo gruppo.
La scelta di Leonardo di non terminare l’Adorazione dei magi causò al maestro dei disagi, infatti, i monaci
di San Donato lo citarono in tribunale. Leonardo era uno spirito libero, mal sopportava
l’idea di sottostare alle regole legate alla commissione di un’opera d’arte
come contratti e scadenze imposte dal committente stesso. Non si conoscerà mai
il motivo di questo suo comportamento, si può solo ipotizzare che fosse spinto
dal desiderio di intraprendere nuovi progetti e che la sua insaziabile sete di
conoscenza determinava in lui l’impossibilità di concentrarsi a lungo sullo
stesso progetto. La sua sconfinata immaginazione e la vastità d’interessi
sembravano quasi ostacolare la sua carriera anziché favorirla. La sua poca costanza
avrebbe potuto precludergli il successo, ma Leonardo trovò ugualmente il modo
di raggiungere ciò che cercava.
A queste due vicende bisogna aggiungere un grave episodio accaduto
nel 1476: Leonardo era stato denunciato in forma anonima alle guardie di
Firenze dai suoi nemici, astiosi e invidiosi del suo successo, per il reato di
sodomia. L’umiliazione fu enorme, anche se l’accusa cadde immediatamente perché
gli accusatori rimasero anonimi e non vi furono né testimoni né prove. Ma Leonardo
fu talmente scosso da questo episodio che nei suoi appunti scrisse che nulla
era da temere più di una reputazione macchiata: si era impegnato tanto per
emergere come artista e ora sarebbe stato guardato con sospetto, temendo che la
sua carriera sarebbe stata rovinata per sempre.
Leonardo dunque colse al volo l’opportunità di lasciare Firenze e
di affrontare la sua avventura milanese: sotto la reggenza del moro, il ducato stava
conoscendo il suo periodo d’oro. Luca Pacioli, offrendo la sua opera al duca
Ludovico, nel 1498 scriveva: «Accanto al
duca […] ci sono filosofi e teologi medici astronomi architetti e ingegneri e
di cose nove assidui inventori». A Ludovico spetta, infatti, il merito di
cogliere il meglio dei tempi nuovi di saper accogliere intorno a sé i migliori
ingegneri che le arti e le scienze vantavano in Italia.
In questo contesto Leonardo si collocò come personaggio di prima
grandezza. Nei primi anni milanesi Leonardo proseguì con i suoi studi di
meccanica, le invenzioni di macchine militari, la messa a punto di varie
tecnologie, ma già verso il 1485 doveva essere entrato nella cerchia più
ristretta di Ludovico il Moro,
per il quale progettò con versatilità sistemi d'irrigazione, dipinse ritratti,
approntò scenografie per feste di corte, e quant’altro diventando il «regista» delle feste e dei fasti della
corte di Ludovico.
I bisogni economici di Leonardo, arrivato
circa un anno prima a Milano, dove inizialmente era stato accolto in
maniera piuttosto tiepida, lo portarono ad accettare anche commissioni private
come nel caso della Vergine delle rocce oggi
conservata al Museo del Louvre: nel 1483 la Confraternita dell'Immacolata Concezione,
stipulò con Leonardo un contratto per una pala da collocare sull'altare della
cappella della Confraternita nella chiesa di San Francesco Grande, oggi
distrutta.
Conclusa la Vergine
delle Rocce, Leonardo
dovette dedicarsi secondo il racconto di Vasari ad alcune Madonne. Ma un altro
tema ricorrente del periodo milanese fu il ritratto,
in cui l'artista poté mettere a frutto gli studi anatomici avviati a Firenze,
interessandosi soprattutto ai legami tra le fisionomie e i moti dell'animo, cioè quegli aspetti psicologici e quelle qualità
morali che trasparivano puntualmente dalle caratteristiche esteriori. Una delle
prime prove su questo tema che ci sia pervenuta è il Ritratto di musico della Pinacoteca Ambrosiana, identificabile forse
con Franchino Gaffurio il maestro di Cappella del duomo milanese. Notevoli sono
in quest'opera l'attenzione analitica e lo sviluppo psicologico nello sguardo
sfuggente dell'effigiato.
Un altro famoso ritratto di questo periodo è la cosiddetta Belle Ferronnière databile al 1490-1495 circa del Museo del Louvre, una dama, forse legata
alla corte sforzesca, dall'intenso sguardo che evita aristocraticamente lo
sguardo dello spettatore.
Questi dipinti, testimoniano il notevole salto qualitativo,
stilistico e scientifico che
caratterizza il primo periodo milanese dell’attività artistica di Leonardo, che
culminerà con il Cenacolo del
Refettorio di Santa Maria Delle Grazie.
Sicuramente legato alla committenza ducale è la Dama con l'ermellino.
La donna ritratta va con ampio margine di certezza identificata
con Cecilia Gallerani, una delle amanti, forse la favorita,
di Ludovico il Moro che potrebbe aver quindi commissionato a Leonardo il
ritratto. La scritta apocrifa ha anche fatto ipotizzare che l'opera raffiguri Madame Ferron, amante di Francesco I di Francia, è oggi superata. Secondo
un'altra ipotesi, anch’essa oggi abbandonata dalla critica, l'opera sarebbe una
memoria della congiura nel 1476 contro Galeazzo Maria Sforza e la
donna effigiata sarebbe sua figlia Caterina Sforza.
L'identificazione con la giovane Gallerani si basa su un
sottile richiamo all'animaletto: l'ermellino, infatti, oltre che simbolo di
purezza e di incorruttibilità, in greco si chiama γαλή, che alluderebbe al
cognome della ragazza e, come si è già detto, alluderebbe al legame tra il
conferimento a Ludovico il Moro delle insegne dell’Ordine dell’Ermellino nel 1486 da parte del re di Napoli Ferrante
d’Aragona. L’animaletto che la giovane stringe tra le braccia, costituisce,
infatti, un riferimento per la data di esecuzione del dipinto di Leonardo. Un
ulteriore sostegno al 1486 sulla realizzazione del ritratto, si ricava dalla
lettera con cui lo stesso Ludovico dichiara, la propria passione per
Cecilia a suo fratello, il cardinale Ascanio Sforza nel giugno
del 1485 in cui, parlando della Gallerani, la definisce «una giovane milanese,
notabile de sangue, honestissima et formossa quanto più havessj possuto
desiderare». Inoltre Ludovico chiede ad Ascanio favori per il fratello
di lei, Galeazzo Gallerani, avviato alla carriera ecclesiastica. Questo ritratto
potrebbe essere letto quindi come una sorta di pegno d’amore per la
giovanissima amata, in un sottile gioco di allusioni e di rimandi. Simbolo di
purezza, castità, moderazione l’ermellino trasforma con la sua presenza il
ritratto di Cecilia, in un doppio ritratto – come ha sostenuto recentemente
Alessandro Ballarin – «nel senso che la bestiola è lui [il Moro] stesso, e lei
lo tiene in braccio, lo coccola».
Di Cecilia Gallerani, tuttavia, si sa davvero poco, ma pare che,
oltre che per la sua bellezza, Cecilia fosse molto apprezzata a corte e dallo
stesso Leonardo, soprattutto per la sua spiccata
intelligenza, a tal punto che ella diventò la promotrice di un piccolo salotto
letterario, al quale partecipava lo stesso Leonardo, in compagnia del grande
Bramante. Mentre posava per il dipinto, Cecilia e Leonardo ebbero modo
di apprezzarsi. Lo invitò a riunioni di studiosi e di intellettuali
di Milano, in cui si discuteva di filosofia e di varia cultura: era una
donna ricca di cultura, che parlava correntemente latino e che fece del canto e
della scrittura i suoi principali interessi.
Quello che è certo è che il rapporto di Ludovico con Cecilia non fu l’infatuazione passeggera di un maturo aristocratico per
una bellissima adolescente, ma fu destinato a durare nel tempo. Nel 1487,
presumibilmente un anno dopo la realizzazione, l’ambasciatore fiorentino a Milano
descrive al suo signore il gioioso innamoramento del Moro, e Lorenzo il Magnifico
osserva che nessuna notizia può essergli «più giocunda che questo novello
amore del Signor Lodovico, maxime essendo insino a hora tutto felice et
pieno di dolceza».
Cecilia viveva nel Castello di Porta Giovia, la relazione era
nota in tutte le corti italiane e straniere, e preoccupava gli Este, duchi di
Ferrara, che avevano promesso in sposa al Moro, nel 1485, la
loro secondogenita Beatrice: Eleonora d’Aragona insisteva perché il Moro, contrario
a rispettare i patti nuziali, in breve la sposasse.
Al momento delle nozze con Beatrice d’Este, celebrate nel gennaio
del 1491, Cecilia era in avanzato stato di gravidanza di un maschio – Cesare,
che nacque di lì a poco – ed era bella come un fiore, secondo il racconto dell’ambasciatore
estense Giacomo Trotti. Eleonora d’Aragona, indispettita, scriveva invece
alla figlia Isabella d’Este, marchesa di Mantova, di avere trovato in Castello
cose che avrebbe raccontato a
voce, perché troppo delicate per essere affidate a carta e penna. Solo
quando la convivenza tra Beatrice e Cecilia diventò impossibile, e quando
l’amore per Lucrezia Crivelli, sostituì quello per Cecilia, il Moro si decise
ad allontanarla, dotandola di diversi immobili e beni, tra cui,
il Palazzo Carmagnola, dove grazie a lei fu istituito uno dei primi
circoli letterari e nacque la moda della conversazione e dei giochi di società.
Nel 1492 sposò il conte Ludovico Carminati de’ Brambilla detto, il Bergamino. La coltissima Cecilia fu per lungo tempo, a Milano, punto di riferimento per letterati, artisti, poeti, poetessa ella stessa, e buona amica di Isabella d’Este Gonzaga. Proprio alla marchesa che cercò invano di farsi ritrarre a sua volta da Leonardo, pur senza successo, prestò il proprio ritratto, ma quell’acerba immagine di adolescente le sembrava, per sua stessa ammissione, un ricordo ormai lontano. Proprio alla marchesa Isabella, che chiedeva la cortesia di inviare il ritratto a Mantova per confrontarlo con alcuni ritratti di Bellini, Cecilia confessò che quel dipinto non le assomigliava per niente, non però «per difecto del maestro, che in vero credo non se truova a llui un paro: ma […] per esser fatto esso ritratto in una età sì imperfecta, che io ho poi cambiata tutta quella effigie, talmente che vedere epso et me tutto insieme, non è alchuno che lo giudica esser fatto per me […]». Anche presso la residenza del Bergamino, l'attuale Villa Medici del Vascello in San Giovanni in Croce presso Cremona, Cecilia tenne numerosi incontri con artisti, poeti e letterati, trasformando il castello del marito in un luogo aperto a personalità di alta levatura culturale. Cecilia morì all'età di sessantatré anni e fu forse sepolta nella cappella della famiglia Carminati nella chiesa di San Zavedro a San Giovanni in Croce.
Un giorno Leonardo avrebbe scritto: «O tempo, consumatore delle cose, e, o invidiosa antichità, tu distruggi tutte le cose, e consumate tutte le cose dai duri denti della vecchiezza, a poco a poco, con lenta morte». Ma l’arte del genio ha saputo vincere il tempo divoratore di ogni cosa e questa creatura con il suo animaletto sono fortunosamente sopravvissuti all’oblio e come in un’istantanea vediamo le fattezze della nobile Cecilia Gallerani.
Nel 1492 sposò il conte Ludovico Carminati de’ Brambilla detto, il Bergamino. La coltissima Cecilia fu per lungo tempo, a Milano, punto di riferimento per letterati, artisti, poeti, poetessa ella stessa, e buona amica di Isabella d’Este Gonzaga. Proprio alla marchesa che cercò invano di farsi ritrarre a sua volta da Leonardo, pur senza successo, prestò il proprio ritratto, ma quell’acerba immagine di adolescente le sembrava, per sua stessa ammissione, un ricordo ormai lontano. Proprio alla marchesa Isabella, che chiedeva la cortesia di inviare il ritratto a Mantova per confrontarlo con alcuni ritratti di Bellini, Cecilia confessò che quel dipinto non le assomigliava per niente, non però «per difecto del maestro, che in vero credo non se truova a llui un paro: ma […] per esser fatto esso ritratto in una età sì imperfecta, che io ho poi cambiata tutta quella effigie, talmente che vedere epso et me tutto insieme, non è alchuno che lo giudica esser fatto per me […]». Anche presso la residenza del Bergamino, l'attuale Villa Medici del Vascello in San Giovanni in Croce presso Cremona, Cecilia tenne numerosi incontri con artisti, poeti e letterati, trasformando il castello del marito in un luogo aperto a personalità di alta levatura culturale. Cecilia morì all'età di sessantatré anni e fu forse sepolta nella cappella della famiglia Carminati nella chiesa di San Zavedro a San Giovanni in Croce.
Un giorno Leonardo avrebbe scritto: «O tempo, consumatore delle cose, e, o invidiosa antichità, tu distruggi tutte le cose, e consumate tutte le cose dai duri denti della vecchiezza, a poco a poco, con lenta morte». Ma l’arte del genio ha saputo vincere il tempo divoratore di ogni cosa e questa creatura con il suo animaletto sono fortunosamente sopravvissuti all’oblio e come in un’istantanea vediamo le fattezze della nobile Cecilia Gallerani.
Massimo Capuozzo