Ma che cosa successe alla metà di quel secolo dal punto di vista della Geografia dell’Arte?
Purtroppo insieme alla comparatistica, questo aspetto dei flussi e delle aree territorialmente compatte è un approccio sempre troppo trascurato nello studio dell’Arte.
Alla metà del Trecento si verificarono due eventi importanti, provenienti da due direttrici diverse, e Parigi si trovò al centro di travolgenti correnti figurative che condizionarono lo sviluppo della miniatura.
L’influsso proveniente da sud, cioè dalla sede papale di Avignone, esprimeva una cultura figurativa aggiornata sui modelli italiani, raccolta da Pucelle e da Le Noir.
Ma accanto a questa ce n’era un’altra, proveniente dal nord, dalle Fiandre che, nel corso del secolo, si fece sempre più intensa. Questa crescente intensità potrebbe essere collegabile a una politica di alleanze fra la corona francese e la potente contea delle Fiandre che culminò poi con il matrimonio di Filippo II duca di Borgogna, con la contessa Margherita di Fiandre nel 1369.
Secondo il Museo del Louvre, la pittura francese su tavola iniziò con i pittori fiamminghi, infatti non a caso a loro e alla loro influenza sono dedicate le prime sale del dipartimento della pittura francese, riferite al Trecento e al Quattrocento.
Grazie agli artisti italiani che giunsero con il papa e agli artisti fiamminghi attratti dalla corte borgognona, i giovani artisti francesi entrarono in contatto con le tecniche e con le idee più moderne. Anche per questo, oltre alle ragioni di contiguità territoriale, la grande influenza fiamminga è spesso vista come il punto di partenza dell'arte francese.
Nelle prime sale – e ora, a volo di rondine, consentiamoci una sosta e diamoci uno sguardo – si incontrano 1 Jean Malouel e 2 Jean de Beaumetz, 3 Enguerrand Quarton e “La Pietà de Villeneuve-lès-Avignon”, 4 Barthélemy d'Eyck e il Cristo in Croce , 5 Nicolas Froment e Re Renato e Giovanna di Lavalle, 6 Jacob de Littemont e il Baldacchino di Carlo VII, 7 Jean Fouquet e il Ritratto di Carlo VII, 8 André d'Ypres e La crocifissione del Parlamento di Parigi, 9 Colin d'Amiens e la Resurrezione di Lazzaro, 10 Jean Hey e il Delfino Carlo Orlando, 11 Nicolas Dipre e La presentazione di Maria al tempio o Josse Lieferinxe e la Crocifissione.
Naturalmente non tutti fiamminghi, ma tutti fortemente condizionati da quella pittura.
Questa disposizione museale, estranea per una volta allo sciovinismo francese e al loro senso della grandeur, indica invece che grazie agli artisti provenienti dai Paesi Bassi, anche gli artisti locali furono profondamente ispirati.
Esemplare in tal senso è la figura di Jean Fouquet, un artista che giovanissimo era entrato al servizio della corte francese intorno al 1450 e aveva viaggiato in Italia combinando nella sua opera lo stile italiano e quello fiammingo come si vede nella sua opera più famosa la Vergine a seno nudo circondata da cherubini e serafini blu e rossi 12, la tavola destra del dittico di Melun.
Oltre ad essere un pittore, Fouquet era stato anche un miniaturista e aveva lavorato su libri d'ore e stampe storiche, e questo dimostra ancora una volta quanto fossero vicine le miniature e i dipinti durante questo periodo.
Re e duchi francesi avevano portato in Francia i migliori artisti di quelle regioni per produrre miniature e dipinti: per questo la corrente fiamminga incominciò ad imporsi in termini di naturalismo, e Parigi si accinse ad attrarre sempre più miniaturisti da quell’area geografica che sulle prime costituirono vere e proprie avanguardie di maestri che ancora non riuscirono a venir fuori dall’anonimato, ma che permeavano pian piano la stagnante miniatura francese in special modo quella parigina.
Questi maestri, distaccandosi dallo stile elegante e preciso, così francese di Jean Pucelle e dei suoi seguaci, incominciarono a rappresentare la natura e l’umanità̀ che la abita in modo concreto con uno stile che io definirei di un oggettivismo pragmatico.
Un probabile focolaio franco-germanico o più sicuramente uno franco-fiammingo si attivò nella formazione di questa nuova arte che si può già̀ definire naturalistica, se non realistica: è sorprendente infatti trovare già a Bruges e a Tournai, prima che a Parigi, manoscritti che riflettono queste tendenze, come il famoso Roman d’Alexandre, un codice miscellaneo oggi custodito alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, un’istituzione questa con cui ebbi a che fare per un codice polizianesco quando preparavo la mia tesi di laurea.
Ma chi erano questi artisti fiammingo-olandesi?
E soprattutto, perché erano considerati così bravi ed erano così richiesti?
Quali fattori spiegano la grande mobilità di questi pittori nell’Europa del Trecento?
Per spiegare questo fenomeno che sto per incontrare durante questo mio viaggio attraverso il Gotico internazionale dovrò fermarmi ancora in Francia, e poi più attentamente alla corte borgognona di Digione, quando finalmente incontrerò Filippo l’Ardito.
Nei miei precedenti racconti abbiamo visto che nel 1309 papa Clemente V de Got, su pressione del re di Francia Filippo IV il Bello, aveva deciso di trasferire la corte pontificia da Roma ad Avignone. Il Palazzo dei Papi era stato poi costruito sotto i pontefici successivi e abbiamo visto che con i papi era giunto anche il senese Simone Martini che aveva conosciuto anche la miniatura francese: questo aveva reso lo stile di Simone ancor più elegante come si addiceva all'ideale cortese di quel momento del Medioevo. Ed era stata proprio questa mescolanza di dipinti e di miniature che aveva creato il nuovo stile di pittura che è definito Gotico internazionale.
Altra cosa che mi preme ribadire è che il Palazzo dei Papi fu il grande cantiere di elaborazione di questo stile che da Avignone si diffuse in tutta l’Europa occidentale e di cui ho già parlato nel mio blog salottoculturalestabia.blogspot.ad-avignone.html .
Oggi invece incomincerò a raccontare della direttrice settentrionale fiamminga, le cui origini sono poco esplorate in Italia.
Molti miniaturisti dei Paesi Bassi, spesso anonimi, si recarono a Parigi per lavorare per i ricchi sovrani francesi e per i loro nobili parenti.
Un afflusso numericamente maggiore di quello degli italiani.
Ma quali ragioni causarono questa migrazione di artisti dalle Fiandre negli ultimi due secoli del Medioevo?
I motivi sono sostanzialmente due.
Da un lato si verificarono dei fattori sociologici repulsivi, infatti nel rigido sistema delle corporazioni fiamminghe, le Gilde, solo un terzo più o meno, degli operatori del settore riusciva a risparmiare quanto bastava per ottenere il titolo di maestro e per aprire una propria bottega. Le regole in vigore nella corporazione dei pittori, per esempio a Bruges, proibivano ai maestri di avere più di una bottega, limitavano le loro possibilità di vendere le loro opere, e ancor più le opere di altri maestri, e talvolta giungevano a limitare, come a Gand, perfino il numero degli apprendisti. Nelle altre città dei Paesi Bassi la situazione era grosso modo la stessa.
Dall’altro lato, si verificarono diversi fattori economici attrattivi che contribuirono alla loro emigrazione nei vari regni, e non solo in quello di Francia, e i pittori fiamminghi erano ricercatissimi a vari livelli sociali. Dalle famiglie regnanti, ma anche dalla nobiltà che, per un motivo o per un altro, era costretta a ricostruire le proprie residenze in seguito allo smantellamento dei castelli fortificati. Ancora dai prelati, il cui ruolo sembrava essere fondamentalmente valutato dal numero di pale d'altare ordinate per le cattedrali e per le chiese importanti. Infine dai borghesi che si erano arricchiti nel commercio internazionale.
Questi artisti erano molto bravi, quasi sempre dei super specialisti nei vari settori delle Arti (maggiori e applicate) e per questo producevano opere tecnicamente precisissime.
In base alle leggi del mercato, quello che meglio è, meglio si vende, e lo stesso fenomeno valse anche per artigiani e artisti della Firenze medicea che la città esportava in tutta l’Italia e come vale ancora oggi in molti settori in cui il made in Italy si esporta in tutto il mondo.
Per quale motivo?
In tutti e tre i casi perché la manifattura superlativa.
Questi artigiani-artisti provenienti dalle Fiandre costituirono l’inizio di una rivoluzione che avrebbe portato al grande fenomeno dei primitivi fiamminghi – con pale d'altare ampie e complesse, dotate di divisioni in compartimenti sempre più estreme che moltiplicarono le scene narrative, ma anche con opere di piccolo formato per la devozione domestica e con ritratti somigliantissimi, e infine con la riproduzione di copie di massima precisione di altri maestri, oltre che opere più personali.
Cominciava ad esistere un mercato di falsi d’autore.
Ma nella Storia dell’Arte questa non era certo una novità: è noto infatti che, quando Roma scoprì la Grecia, questo mercato di falsi fu molto diffuso e apprezzato. Del resto in quegli anni il concetto di diritto d’autore era sconosciuto e anche quello di autorialità, e ci sarebbero voluti ancora molti secoli prima che questi due concetti si affermassero.
Tornando alla committenza, dunque, tre categorie sociali avevano fame di Arte, il denaro circolava e i fiamminghi, artisti di altissima qualità, erano richiesti ed emigravano volentieri per le condizioni troppo restrittive delle loro città.
I pittori fiamminghi di questo periodo che uscirono dall’anonimato, diventando famosi e dando il via alla rivoluzione pittorica dei “primitivi fiamminghi” sono Jan Boudulf di Bruges attivo a Parigi tra il 1368-1381, Jacquemart de Hesdin e Jacob Coene sempre di Bruges e attivo a Parigi tra il 1405 e il 1430 circa, solo per fare qualche nome.
E a questo gruppo si devono aggiungere Melchior Broederlam (1350-1410) di Ypres, Jan Maelwael (1370-1415) della Gheldria, attivo anche in Francia, Henri Bellechose, Jean de Beaumetz e i fratelli di Limburgo, tutti gravitanti nell’orbita di Filippo l’Ardito.
2.Il
Maestro dei Rimedi della fortuna
Alcuni di questi maestri svolsero un lavoro
davvero pionieristico e questa nuova visione
naturalistica trovò a Parigi una forte cassa di risonanza, e potremmo dire un
vero e proprio battage pubblicitario per questi artisti, grazie a un anonimo
miniaturista fiammingo attivo a Parigi fra il 1350 e il 1375, e
noto agli storici dell’Arte come il Maître
de le Remède de Fortune, identificato con il nome convenzionale dell'opera
che miniò.
I
rimedi della Fortuna è un’opera di Guillaume de Machaut (1300 – 1377) un
musicista, poeta e canonico francese del Trecento di un certo rilievo a corte,
e autore della celeberrima “Messe de Notre-Dame” – anche questo un evento
rivoluzionario nel campo della musica polifonica religiosa medioevale perché si tratta della prima
messa completa attribuita ad un singolo compositore e
forse, se vogliamo, il primo grande esponente dell’Ars nova.
Il miniaturista eseguì l’opera tra il 1355 e
il 1360, e oggi questo codice è conservato
nella Bibliothèque Nationale de
France.
Siamo appena
dopo la morte di Pucelle e nel pieno
dell’attività di Jean Le Noir quando
il Maître de le Remède,
uno dei primi fiamminghi a giungere a Parigi, dipinse per la prima volta
paesaggi che sembravano naturali con piante e animali “che sembravano veri”.
Questo anonimo maestro aprì la strada alla
suggestione spaziale nel piano tradizionalmente bidimensionale, tipico fino a
quel momento della miniatura. Non realizzò da solo l’intera opera, ma con lui e
sotto la sua direzione lavorarono altri tre miniaturisti, probabilmente
francesi o fiamminghi, ma non importa, perché da questo si può dedurre che egli
avesse già una bottega.
A lui spettano i fogli da 23 a 58, mentre il
resto del lavoro fu eseguito dai suoi due collaboratori, di cui uno potrebbe
essere il Maître du Livre du sacre
de Charles V.
Per esempio l'illustrazione Le Verger mystérieux può essere considerata come il primo dipinto di paesaggio nella miniatura di un libro: il modo in cui questo maestro ha cercato di trasmettere il senso della profondità nella sua opera è davvero rivoluzionario e non solo in questo, ma anche nella raffigurazione dei suoi personaggi in abiti contemporanei.
Nel Rimedio della Fortuna quest’artista e gli altri che lavoravano sotto la sua direzione, pur avendo saputo sottostare alle evocazioni cortesi del poeta, non è mai venuto meno al suo proprio ideale artistico: rinunciando al canone idealizzato diffuso da Pucelle, il miniaturista cercò di mettere in evidenza i particolari fisici dei personaggi, inseriti in cornici in cui la natura aveva un ruolo sempre crescente.
Questa visione, pragmatica e senza i pregiudizi dell’ideale, permise all’artista di mettere a frutto anche le scoperte italiane: come Pucelle, ma con mezzi espressivi diversi, egli dava infatti grande importanza ai volumi e allo spazio.
Il suo stile esercitò una lunga influenza sulle miniature al tempo di Carlo V, che devono a lui il gusto per i dettagli della moda e per le rappresentazioni serene della natura.
Nella seconda metà del Trecento, l’afflusso di artisti in Francia provenienti dalla contea delle Fiandre, dalla contea dell'Hainaut, dal principato vescovile di Liegi, dal ducato di Limburgo, dal ducato della Gheldria e dalla contea di Olanda, insomma dall’area dei Paesi Bassi, cominciò ad aumentare in misura sempre crescente dapprima più sporadicamente durante il regno di Giovanni II di Francia dal 1350 al 1364 poi, con frequenza sempre maggiore durante quello Carlo V dal 1364 al 1380 e questi artisti lavoravano non solo per la corte reale ma anche per i fratelli del re: Luigi I Duca d'Angiò e poi Re di Napoli dal 1360 al 1384, Giovanni I, Duca di Berry dal 1360 al 1416, e Filippo II l’Ardito, Duca di Borgogna dal 1363 al 1404.
Fra i manoscritti appartenuti a Carlo V c’è una “Bibbia storica” conservata alla “Bibliothèque Nationale de France” che Jean de Vaudetar, gran ciambellano di Carlo V, volle fare eseguire per farne dono al re nel 1372.
Si tratta di un’opera composta da un monaco nato alla metà del Duecento tale “Guiart des Moulins”, con traduzione in francese di alcuni passi significativi tratti dalla “Vulgata” di San Girolamo e miniata nei primi anni Settanta del Trecento.
Quest’opera poderosa era corredata da estratti della “Historia Scolastica” di Pietro Mangiatore, in cui questo professore di dottrina sacra della seconda metà del XII secolo narrava gli eventi storici che riteneva fondamentali, ed erano quelli tradotti in francese, partendo dal Paradiso terrestre fino a giungere alla prigionia di San Paolo a Roma. L’opera era poi arricchita da un vero e proprio commento storico che riassumeva e interpretava allegoricamente gli episodi tratti dai “Libri storici” della Bibbia e che li collocava sincronicamente in relazione ad eventi della storia e della mitologia pagana
Si trattava quindi di un’opera di poderosa erudizione sviluppata sul pensiero di Sant’Agostino e quindi di Paolo Orosio.
L’opera fu miniata nella bottega del “Maestro della Bibbia di Jean de Sy”, un anonimo fiammingo attivo a Parigi tra il 1350 e il 1380 identificato dagli studiosi, anche in questo caso, con il nome convenzionale della sua prima opera più famosa, una Bibbia tradotta in francese da Jean de Sy per Giovanni II.
Nel suo studio dedicato alle origini dei “primitivi fiamminghi” del 1953, Panofsky propose di identificare Jan Boudulf a capo della bottega da cui sarebbe provenuta questa “Bibbia storica”. Un’ipotesi però rifiutata da altri storici come François Avril, storico dell'Arte, archivista e paleografo francese nonché grande conoscitore della miniatura francese: secondo Avril, Boudulf non era un miniaturista, ma solo un pittore di tavole.
Avril accredita come autore delle miniature di questa “Bibbia storica” il “Maestro della Bibbia di Jean de Sy”, un miniaturista originario della corte di Venceslao I di Lussemburgo, duca di Brabante e fratello dell’imperatore Carlo IV di Lussemburgo. Questo miniaturista, dopo aver iniziato la sua attività sotto il regno di Giovanni II, fu particolarmente attivo sotto il regno di suo figlio Carlo per il quale aveva eseguito un gran numero di manoscritti. Aveva collaborato a più riprese con il “Maestro del Libro dell'incoronazione di Carlo V”, e alle “Grandes Chroniques de France de Charles V”, ma il suo stile tese tanto ad uniformarsi, da diventare ripetitivo alla fine degli anni Settanta del Trecento.
L’importanza di questa Bibbia storica non sta però tanto nelle miniature dell’anonimo maestro lussemburghese quanto in un frontespizio che Jean de Vaudetar fece aggiungere al manoscritto miniato, opera di un altro fiammingo, ma più aggiornato, Jan Boudulf che realizzò una miniatura a piena pagina che rappresenta il suo donatore che porge la Bibbia al re.
Jan Boudulf, noto anche come Hennequin de Bruges, si firmava Joahannes de Brugis e l'arco cronologico della sua attività, come sappiamo dalla documentazione, coincide quasi perfettamente con il regno di Carlo V, cioè dal 1364 al 1380.
Boudulf ebbe una grande influenza sullo stile della corte francese da quando nel 1368 entrò a far parte della schiera di pittori della corte di Carlo V e diventò ben presto il pittore preferito del re.
Fu un precursore per lo svolgimento, l'approfondimento, l'espansione di un particolare stile, caratterizzato dalla saldatura del grafismo gotico francese con le modalità coloristiche fiamminga e italiana, che la corte francese stava promuovendo in quegli anni.
Durante la sua carriera parigina, Boudulf effettuò una lunga serie di dipinti e di affreschi nelle sale delle dimore reali oltre ad un ciclo di ritratti di personaggi di corte. Ma di tutto questo lavoro non è rimasto purtroppo niente.
Alcuni studiosi ritengono che si sia specializzato inoltre come miniaturista fra i più raffinati del suo tempo per il re, per l'aristocrazia e per le personalità di corte, ma anche questo settore della sua opera è andato perduto ad eccezione dell’inserto del frontespizio nella “Bibbia storica”, in cui l'artista si firmò appunto Joahannes de Brugis, ma questa miniatura, oggi staccata dal codice, si trova in una collezione privata all'Aia.
Dal poco che conosciamo di lui, è evidente che la sua opera dovette essere rivoluzionaria: dopo la morte dell'innovativo Jean Pucelle nel 1355, lo stile francese, preciso e decorativo, ma ancora poco prospettico, aveva di nuovo preso il sopravvento, ma quando apparve a Parigi, Boudulf riprese la riforma esattamente da dove Pucelle l’aveva interrotta, con la differenza che mentre Pucelle aveva per lo più imitato il più arcaico Duccio di Buoninsegna, Boudulf, invece, trasse ispirazione dalla successiva generazione di pittori senesi: Simone Martini e i fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti che avevano continuato gli esperimenti prospettici di Duccio contaminandoli con il giottismo e che nelle loro Madonne e nelle loro Annunciazioni furono loro i primi che dipinsero un interno come appare nella miniatura di Boudulf.
Si osservi questo dipinto di Ambrogio Lorenzetti e lo si confronti con la miniatura di Boudulf. 1
L'interno da lui rappresentato è suggerito solo dal pavimento piastrellato, le pareti sono costituite solo da un disegno astratto e anche il baldacchino sul trono del re è di origine italiana.
Boudulf potrebbe aver conosciuto il lavoro di questi pittori senesi e le loro scoperte attraverso Matteo Giovannetti, che, come Simone, aveva lavorato ad Avignone. Bisogna ricordare che quando gli artisti si spostavano da un luogo a un altro nel loro bagaglio c’era quasi sempre una sacca con i loro appunti, schizzi e disegni.
Nel 1371 Boudulf era ormai un affermato pittore di corte quando raffigurò in questa miniatura, l'unica da lui firmata, il momento della presentazione della “Bibbia storica” con un ritratto probabilmente abbastanza realistico del re e del donatore sul recto del foglio, e una didascalia in latino sul verso. 2
La caratterizzazione dei personaggi raffigurati è un’assoluta novità perché si tratta dei primi veri ritratti nella Storia della miniatura: non più figure stereotipate e idealizzate, ma autentici ritratti ben riconoscibili del re e del suo consigliere. Si osservi la forma del naso “a sella” del re, confrontabile con quello delle sue statue.
L'effetto spaziale della miniatura è anch’esso rivoluzionario: mentre Pucelle, infatti, raffigurava ancora i suoi interni come una casa di bambole da cui è stata rimossa una parete, la miniatura di Boudolf dà invece l'impressione di guardare attraverso una porta o attraverso la cornice di una finestra in uno spazio che, in linea di principio, è infinito e in esso la stessa cornice si fa finestra che si apre sul mondo esterno.
Ma si nota soprattutto un particolare interesse per la resa prospettica dell'ambiente in cui si svolge la scena, ottenuta con l'espediente anch’esso di derivazione senese, di comporre un pavimento a piastrelle scorciate, le cui linee di fuga convergono verso il centro. Di derivazione senese è anche l’idea di includere l'immagine in una cornice d'oro, che finge un'ampia finestra ad arco trilobato, autentico trompe-l'oeil di straordinaria eleganza.
Intimamente partecipi della stessa eleganza sono le figure dei due personaggi: il re, rappresentato più come uno studioso che come un sovrano, è avvolto in un mantello morbidamente drappeggiato e Jean de Vaudetar è chiuso in un aderentissimo abito che, come quello del re, è reso in un semplice tono di grigio ed è sottilmente chiaroscurato grazie alle varie nuance del colore.
In questa miniatura l’artista coglie nel segno anche l'estremo nitore dell’immagine e della sua precisione, cifra distintiva della cultura figurativa fiamminga, che si evidenzia nella resa dei dettagli del trono su cui il re è assiso, nella meticolosa descrizione del codice offerto da Jean de Vaudetar e, soprattutto, nell’intensità espressiva dei volti, presentati con un’estrema attenzione al dato fisionomico.
La struttura spaziale, che emerge attraverso l'uso diaframmatico dell'arcata gotica dietro la quale è fissato il baldacchino del re, destò una grande impressione, infatti, l’inventio della “cornice-finestra” ad arco gotico trilobato e dietro di essa quella del pavimento di piastrelle fu in seguito ripresa da alcuni dei grandi maestri “Primitivi Fiamminghi”: numerosi miniaturisti e pittori dopo di lui adottarono infatti l’espediente diaframmatico dell’arco a partire da “Rogier van der Weyden” nel suo “Altare di Miraflores”, a “Petrus Christus”, a “Dirk Bouts”.
A significare questo cambiamento è il pur esemplare “Il libro d’Ore di Savoia”: questo manoscritto, parzialmente miniato da Jean le Noir e successivamente acquisito incompiuto da Carlo V, fu fatto completare da una bottega certamente diretta da Jan Boudulf.
Erwin Panofsky, esaminando il libro, mise in evidenza il contrasto tra lo stile tradizionale parigino e l'ingresso di Boudolf in termini di volume e di spazio contro modelli bidimensionali, di luce e di colore contro linea, di realtà concreta e individualizzata contro formule astratte e generali.
E questo è ineccepibile.
Nonostante sia l'autore di una delle più importanti miniature del Trecento, il ruolo di miniatore di Jan Boudulf è ancora molto discusso per la perdita di molte sue opere pertanto la sua attività di miniaturista rimane solo un’ipotesi.
L'altra grande opera superstite riferibile all'attività di Boudulf è la realizzazione, storicamente ben documentata, dei cartoni preparatori a grandezza naturale che compose nel 1376 per la famosa “Tapisserie de l'Apocalypse” che Luigi I duca d'Angiò (1339-1384), fratello del re, commissionò per la cattedrale d'Angers, capitale storica dell’Angiò.
L'Angiò era allora un potente ducato, un cuscinetto tra la Bretagna, una ragione difficile e poco assimilata alla cultura francese, e la Francia.
Luigi, come i suoi fratelli, era cresciuto nell'atmosfera colta e raffinata della corte dei Valois, circondato da musicisti, poeti e pittori. Tutti i fratelli e anche le sorelle amavano le cose belle e prediligevano le arti, moltiplicando le commissioni, venerando gli artisti e divertendosi a collezionare gioielli preziosi e manoscritti rari in uno spirito di felice emulazione.
Luigi d'Angiò possedeva un'eccezionale collezione di argenteria ricca di più di tremilaseicento pezzi di cui però non rimase nulla: essa fu fusa per pagare le notevoli spese della “Guerra dei Cent'anni”.
All'età di venticinque anni, questo principe possedeva settantasei grandi arazzi, acquistati nelle migliori botteghe.
Luigi era molto ambizioso, poco scrupoloso sui metodi per raggiungere i suoi scopi, avido di potere e molto preoccupato per la sua immagine. Fece guerra in Italia, rivendicando la corona di Napoli e la Sicilia, creò l’ordine cavalleresco della “Vera Croce”, proprio per stabilire il suo prestigio.
C’è da dire che in seguito alle grandi battaglie della Guerra dei Cent'anni, la nobiltà era stata decimata, tanto quella inglese quanto quella francese, e i valori feudali stavano già cominciando a declinare e per questo furono fondati numerosi ordini cavallereschi nel tentativo di ripristinare questi valori minacciati.
Luigi I d'Angiò voleva mostrare il suo potere ai suoi pari e ai membri dell'ordine, per stupirli con un ambiente straordinario, per ospitare cerimonie, giostre e tornei.
Nel 1373 ordinò il bellissimo arazzo, che illustrava l'Apocalisse secondo San Giovanni. Il mercante parigino Nicolas Bataille ne fu in un certo senso il promotore, finanziando i lavori e assumendosi l'incarico di organizzarne la realizzazione e Jan Boudulf si occupò dei cartoni e dei modelli.
Si trattava di un gigantesco ciclo di arazzi.
Quest'opera, caratterizzata da grande fantasia e da un grafismo gotico-fiammingo, è oggi esposta al Castello di Angers ed è la testimonianza più importante dell'arazzeria medievale, per la qualità dell'ideazione e dell'esecuzione e perché è la più grande serie conservata: dopo il cosiddetto Arazzo di Bayeux, cosiddetto perché si tratta di un ricamo non di un arazzo, l’arazzo dell’Apocalisse è il più antico sopravvissuto in Francia ed è uno dei capolavori del patrimonio artistico francese.
L’opera, commissionata tra il 1373 e il 1377 e fatta realizzare dal duca dall'arazziere parigino Robert Poinçon nel suo laboratorio di Parigi, fu probabilmente completata nel 1382.
Durante la Rivoluzione l'arazzo fu fatto a pezzi per realizzare coperte, stuoini e riparazioni domestiche. Quasi tutto l’insieme fu tuttavia recuperato nel 1848, restaurato e quindi restituito alla cattedrale, ma siccome non era un luogo adatto per la conservazione di un’opera simile, esso fu trasferito nel vicino Castello di Angers in una sala, appositamente progettata nel 1952 da Bernard Vitry, le cui dimensioni permettono di ammirare l'opera nella sua quasi interezza.
Nonostante la perdita di un quinto delle scene originarie, essa mantiene una relativa integrità.
Il ciclo era composto originariamente da sette pezzi per un totale di 140 metri di questi ne sono giunti soltanto sei, lunghi ciascuno ventitré metri e nel suo complesso misura oggi cento tre metri di lunghezza per sei di altezza, per un totale di settantuno scene contro le ottantaquattro originarie.
I materiali utilizzati per la trama e per l'ordito sono la lana e la seta tinte con colori vegetali. Tra i colori spiccano i gialli, gli sfondi rossi e quelli blu e sono presenti fili d'oro e d'argento. Sulla parte anteriore degli arazzi oggi i colori sono un po’ sbiaditi, ma sul retro sono ancora visibili le vivaci tonalità originali.
La storia dell'Apocalisse era stata sempre molto diffusa nel Medioevo, basti pensare ai giudizi universali delle controfacciate delle chiese preromaniche e romaniche con una ancor più alta concentrazione nel Trecento e si pensi per questo alla controfacciata della Cappella Scrovegni di Giotto a Padova.
La diffusione di questo tipo di iconografia così privilegiata è dovuta al fatto che la lotta tra bene e male e la conseguente vittoria del primo, era più concreta e il messaggio edificante più immediatamente comprensibile.
In quel periodo erano quindi a portata di mano diverse rappresentazioni della vicenda e Luigi scelse di adottarne una simile a quella descritta in un manoscritto eseguito in Inghilterra intorno al 1250 che gli era stato prestato dal fratello Carlo V nel 1373. Secondo alcuni storici Luigi fu invece influenzato da un arazzo particolarmente grande donato a Carlo V dalla città di Lilla nel 1367.3
All'estremità sinistra di ogni pannello è collocata una monumentale figura di vecchio: si tratta di San Giovanni Evangelista, raffigurato a tutta altezza seduto davanti a un leggio con un libro aperto sotto una complessa struttura architettonica, di marca puramente gotica, che introduce alla lettura allegorica delle visioni. 4
La narrazione è divisa in due fasce sovrapposte, suddivise a loro volta in sette riquadri ciascuna, che presentano il fondo alternatamente blu o rosso.
Le scene sono ricche di simbolismi e di allegorie, che riflettono la difficile interpretazione dell'opera di San Giovanni
Quando avevamo compito in classe di greco e il brano da tradurre era tratto dall’Apocalisse erano dolori di pancia
L'arazzo segue fedelmente la narrazione dell'evangelista: dall'inizio della stesura dell'Apocalisse su invito divino, alla dimostrazione delle qualità del Creato, alla rivelazione dei segreti divini – il termine “apocalisse” significa infatti “svelamento” – fino ai cavalieri dell'Apocalisse seguiti dalle anime dei morti
La raffigurazione dell'ultimo dei quattro cavalieri, la Morte, è eseguita con uno stile molto singolare per l'epoca, che poi diventò comune in Inghilterra: egli è infatti rappresentato come un cadavere in decomposizione anziché, come si usava allora, come una persona vivente. 5
Stilisticamente e cronologicamente, l’opera di Boudolf si colloca tra quella di altri due artisti che avevano lavorato per clienti francesi: il francese Jean Pucelle e il fiammingo Melchior Broederlam.
Boudolf portò in Francia un maggiore realismo, un maggiore senso prospettico e una maggiore espressività, tendenza sorta nelle Fiandre ai suoi tempi tanto che può essere visto come uno dei precursori dei Primitivi fiamminghi.
Penso che in questa Storia del Gotico internazionale e dell’evoluzione che porta ai primitivi fiamminghi la miniatura abbia svolto un ruolo fondamentale nella nascita di questa pittura, nota per la passione per i dettagli e per il carattere lenticolare delle opere dei suoi maestri, senza dimenticare che la formazione di Jan van Eyck avvenne nel campo della miniatura, dalla quale imparò l'amore per i piccoli dettagli e per la tecnica raffinata, che si riflesse poi nelle opere pittoriche di grandi dimensioni.
4. Jacquemart de Hesdin
Jacquemart era un miniaturista proveniente dall’Artois, attivo a partire dagli anni Ottanta del Trecento presso la corte di Bourges.
Il paesino di Hesdin era una cittadella fortificata del Pas-de-Calais nell’estremo Nord della Francia, in un Artois allora appartenente alle Fiandre quindi era già in possesso del duca di Borgogna.
Probabilmente Jacquemart vi era nato se così era identificato come di Hesdin ed era uno dei tanti fiamminghi che erano andati a lavorare per la famiglia reale francese nella seconda metà del Trecento.
Il suo unico mecenate finora noto è il principe reale Giovanni duca di Barry (1340–1416), fratello di Carlo V, che spese somme esorbitanti per la sua collezione d'arte.
Come tutti gli artisti che lavoravano per lui, per esempio l’architetto Guy de Dammartin, i fratelli di Limburgo, il miniaturista André Beauneveu e il suo allievo Jean de Cambrai, anche Jacquemart fu considerato un amico e, come tale, era un protetto del duca.
Tutta la sua carriera si svolse a Bourges, capitale del Berry, alla cui corte rimase attivamente dal 1384 al 1414 e contribuì notevolmente ai suoi famosi libri miniati, tra cui Le Très Belles Heures du duc de Berry, le Grandes Heures, Le Petites Heures e il Salterio di Berry, spesso completando opere lasciate incompiute da Jean Le Noir e talvolta collaborando con i fratelli di Limburgo e con il Maestro di Boucicaut alias Jean de Cambrai.
Colgo l’occasione per mostrare alcune immagini di queste opere appartenute al duca di Berry che sono fra le più belle miniature del secondo Trecento francese anche se non tutte di Jacquemart.
Dalle “Très Belles Heures” le figure 1 e 2:
Nel 1398, mentre lavorava per il duca di Berry alla decorazione del Castello di Poitiers distrutto da un incendio nel 1346, Jacquemart fu accusato insieme al suo assistente Godefroy e a suo cognato Jean Petit del furto di pigmenti e di plagio di elementi decorativi da parte di tale Jean de Hollande, noto come "Jean sans Mercy", altro pittore al servizio del duca.
In seguito a questa accusa rivolta ai suoi colleghi, Jean sans Mercy fu ucciso e i due pittori si rifugiarono nell'Abbazia di Montierneuf a Poitiers dove ottennero il diritto d'asilo. Il duca di Berry, però, già nel maggio 1398 riuscì ad ottenere una “lettera di perdono” per loro da parte di suo nipote, il re Carlo VI.
Le Très Belles Heures du Duc de Berry, noto anche come “Les Heures de Bruxelles”, la città in cui erano state a lungo conservate, è il capolavoro di Jacquemart, che lavorò a questo codice insieme ad almeno quattro altri miniaturisti di cui uno identificato come lo Pseudo-Jacquemart.
In questo capolavoro della miniaturistica tardomedievale, Jacquemart fu un continuatore dell'opera innovatrice di Pucelle, portandola però ben più avanti in un momento, quello del regno di Carlo V e poi in quello di Carlo VI, in cui molti artisti provenienti dal nord della Francia e dalle Fiandre procedevano all'acquisizione di una nuova percezione dello spazio, della forma e del colore.
Proprio Jacquemart affinò l’oggettivismo pragmatico della pittura fiamminga sicuramente attraverso lo studio dell’opera del grande Pucelle, ma soprattutto attraverso lo studio degli italiani, i due riferimenti dialettici grazie ai quali sviluppò uno stile personale nella resa della plasticità e dello spazio di cui già mostra una certa padronanza.
Questo dimostra che aveva assimilato perfettamente la lezione di Barna da Siena, una figura molto evanescente della pittura senese, forse appartenuto alla bottega di Simone Martini.
All’epoca Barna dovette godere di una certa fama per la sua originalità infatti dalle opere che gli si attribuiscono emerge uno stile molto particolare: le sue figure sono drammaticamente espressive e il suo punto di vista è alquanto più ravvicinato rispetto a quello di Duccio e di Simone. Non si sa come Jacquemart ne sia venuto a conoscenza, ma di certo questo maestro di Hesdin unisce queste novità italiane con le nuove tendenze naturalistiche del Nord, in opposizione all'arte ancora molto idealizzante di Jean Pucelle e dei suoi allievi, includendo fra questi Jean Le Noir.
Le opere di Jacquemart mostrano interni architettonici elaborati che servono a collocare le figure in spazi plausibili. Attraverso lo studio delle opere dei pittori italiani, Jacquemart sviluppò tecniche personali di modellazione e di resa dello spazio e mitigò il caratteristico oggettivismo, talvolta duro, dei dipinti fiamminghi dell'epoca.
Si osservi ora con attenzione la “Salita al Calvario” delle “Grandes Heures...” oggi al Museo del Louvre: Jacquemart rivela l'influenza dell'arte senese e di Simone Martini in particolare, come risulta dalla vicinanza, stilistica e compositiva, con il pannello conservato al Louvre dello stesso soggetto proveniente dallo smembrato Polittico Orsini nell’immagine 8
Jacquemart ottiene il volume e la resa spaziale per mezzo del colore e dei contrasti chiaroscurali, ma nelle “Petites Heures”, nella figura 10 l’Adorazione dei Magi e nella presentazione al tempio
della figura 11, si evidenzia una ancor più una sapiente scansione dei piani attraverso una struttura basata sull'incrocio di linee diagonali.
Ci troviamo nell’ultimo quarto del Trecento, lo stile italiano incominciava ad essere pienamente compreso in Francia e il duca di Berry sembra consapevole di questo e così chiamò anche artisti che non erano miniaturisti di professione e, poco dopo il 1380, affidò l’illustrazione del suo “Très Belles Heures” oggi alla “Bibliothèque National de France” al migliore pittore dell’epoca, il “Maestro del Paramento di Narbonne” identificabile con Jean d'Orléans, figlio del pittore del re di Francia, e poco dopo commissionò allo scultore André Beauneveu le figure in grisaglia del “Salterio di Jean Berry”.
L’indiscutibile valore di Jacquemart consiste anche nei suoi appunti, commenti e figure di animali e piante che adornavano le sue pagine manoscritte. A lui è stato attribuito anche un prezioso album da disegno, composto da sei scatole di bosso e conservato presso la Pierpont Morgan Library, databile intorno al 1400 che ora però è considerato opera di artisti appartenenti al suo entourage.
Jacquemart fu l’artista prediletto del duca di Berry, tanto prediletto da consentirgli di farla franca da una grave accusa di omicidio di un collega, ma questo rientra nell’amaro della feudalità.
A lui commissionò, dal 1390, il completamento del manoscritto con le “Petit Heures”, lasciato incompiuto da Jean Le Noir, e le “Très Belles Heures” e le “Grandes Heures”.
In tutte queste opere Jacquemart ha fatto sfoggio di una grande padronanza nell’uso dei colori e nelle disposizioni spaziali dei suoi riquadri, padronanza che deve alla sua conoscenza della pittura senese.
Questa profonda assimilazione dell’insegnamento della pittura italiana, la ritroviamo presso i più̀ grandi miniatori francesi dell’epoca, che furono i fratelli di Limburgo e che succedettero a Jacquemart de Hesdin presso Jean de Berry, o l’altrettanto citato “Maestro di Boucicaut”.
Dei fratelli di Limburgo però parlerò quando passeremo in Borgogna perché il loro “talent scout” fu Filippo l’Ardito.
5 Lo Pseudo Jacquemart
Lo Pseudo-Jacquemart è la denominazione che si usa per definire un pittore, di probabile origine fiamminga, che lavorò principalmente al servizio del duca di Berry, all'ombra dei grandi miniatori della sua corte, principalmente dello stesso Jacquemart, di Jean Le Noir o dei fratelli di Limburgo, e da loro mutuò lo stile in modo però piuttosto acritico.
Lo Pseudo-Jacquemart, che taluni identificano con “Jean Petit” cognato di Jacquemart, generalmente eseguiva per questi più valenti maestri le “decorazioni aggiuntive” alle miniature: scene marginali, miniature di piccoli calendari o di iniziali e lavorava contemporaneamente anche per altri committenti oggi sconosciuti e probabilmente di rango inferiore per i quali creava libri d'ore, collaborando con altri pittori parigini. Lo stile di questo maestro è un'imitazione puramente passiva dei grandi pittori ai quali faceva da aiutante.
6.André Beauneveu
André Beauneveu può essere considerato un artista a tutto tondo, architetto scultore pittore e perfino miniaturista, attivo in quasi tutta la seconda metà del Trecento. Quest’artista proveniva da “Valenciennes” nell'Hainaut e fu prima di tutto un famoso scultore. Probabilmente, secondo alcune testimonianze, dipinse, ma non ne resta alcuna traccia sicuramente invece fu attivo anche come miniaturista: a lui appartengono infatti le miniature in grisaglia dell’incipit del Salterio di Jean de Berry dell'ultimo quarto del Trecento miniato da lui, da Jacquemart de Hesdin e dallo Pseudo Jacquemart tra il 1380 e il 1400 e conservato nella Bibliothèque National de France.
La sua attività artistica, vasta e varia, è attestata da parecchi documenti, ma la maggior parte delle sue opere è andata purtroppo perduta.
Tra il 1363 e il 1364 André Beauneveu fu pagato per alcuni lavori di miglioramento alla torre piccola dell'Hôtel de Ville di Valenciennes e queste sono le prime notizie certe, ma è possibile poterlo già riconoscere in quel “maistre Andrieu le tailleur” che nel 1361 lavorò per la “Halle des Jurées” di Valenciennes con “Jean de Beaumetz”, futuro pittore di corte del duca Filippo di Borgogna.
In Francia Beauneveu lavorò per Carlo V, per Iolanda di Fiandra, contessa di Bar, e per il duca Giovanni di Berry, mentre nelle Fiandre lavorò principalmente per il conte Luigi di Mâle, nella città belga di Courtrai, in fiammingo Kortrijk, nella “Cappella dei Conti” della Chiesa di Nostra Signora. Molto probabilmente lavorò anche in Inghilterra per Filippa di Hainaut, regina consorte di Edoardo III.
La sua opera aveva originariamente uno stile più spiccatamente naturalistico, ma nelle opere successive si pose anche in linea con lo stile “Gotico internazionale” che furoreggiava all'epoca.
Beauneveu nacque intorno al 1335 a Valenciennes che all'epoca faceva parte della contea di Hainaut che sarebbe diventata quindi parte del Ducato di Borgogna.
Si sa poco dei suoi primi anni.
La prima menzione di lui è quella riferibile a un certo “Maestro Andrea il pittore” nel 1359 e poi che nel 1360 operò per Iolanda di Fiandra, vedova del conte di Bar, per la decorazione di una cappella nel suo castello di La Motte-en-Bois a Nieppe. L'ipotesi che si tratti di Beauneveu è tuttavia ancora molto controversa.
Intorno al 1364 Beauneveu si recò a Parigi a lavorare per Carlo V che era appena diventato re, che, riferendosi a lui, lo definiva “il nostro stimato scultore” e che lo nominò suo scultore personale, incaricandolo di sovrintendere all'esecuzione di quattro tombe nella chiesa dell’Abbazia Reale di Saint-Denis.
Si trattava delle tombe per lo stesso re Carlo e di sua moglie Giovanna di Borbone, per suo padre Giovanni il Buono, appena morto nella sua prigione londinese, per i suoi nonni Filippo di Valois, capostipite della nuova dinastia, e Giovanna di Borgogna, morta di peste nel 1348.
Mi è sempre risultato incomprensibile il motivo per cui non fece dedicare una tomba a sua madre la regina Bona di Lussemburgo e che non sia neppure nominata nel libro dei conti.
Carlo V, ordinando queste spettacolari tombe e disponendone la collocazione nel cuore stesso di Saint-Denis, necropoli reale dei Capetingi, voleva affermare la sua autorità e la legittimità della nuova dinastia dei Valois nella successione al trono di Francia, stabilendo la continuità dinastica fra i membri della “Casa capetingia” e i primi membri della “Casa di Valois”: con la sepoltura nell'abbazia la successione della nuova dinastia era anche visivamente legittimata di fronte a Dio e al mondo.
La tomba di Giovanna di Borgogna è andata completamente perduta e le altre sono state molto danneggiate nel 1793 nel corso della Rivoluzione tanto che non è possibile ricostruirne attraverso le operazioni di restauro il loro aspetto originario.
Erano tombe all'ultima moda nel genere della scultura sepolcrale, con effigi giacenti di marmo bianco splendente su lastre di marmo nero lucido. Sebbene siano state pesantemente danneggiate, esse sono note grazie ai disegni che il celebre antiquario Roger de Gaignières ne fece alla fine del Seicento e sulla base dei racconti dell’epoca: i monumenti erano costituiti da una grande lastra di marmo nero che sosteneva le statue di marmo bianco, erano coronati da baldacchini, fiancheggiati da due pilastri sormontati da sei statuette (due vescovi, due diaconi e due chierichetti).
Le arcate alla base del monumento ospitavano piccole figure che forse rappresentavano il corteo funebre.
I “gisantes” di marmo bianco, tuttora esistenti in Saint-Denis, risaltavano sulla lastra di marmo nero lucido e rivelano una forte tendenza al realismo.
Beauneveu scelse di presentare Carlo V, che all'epoca aveva solo ventisei o ventisette anni, così com’era, vivo e giovane, ed eseguì la statua dal modello vivente, secondo una preoccupazione naturalista che portò lo scultore a lavorare da una maschera modellata sul volto del re.
Questa figura sdraiata è uno dei capolavori della scultura medievale: nel volto dal caratteristico ovale pieno e carnoso, e dal realismo quasi borghese, con cui l’artista sembra voler suggerire una regale familiarità del sovrano nei confronti dei suoi sudditi; nel panneggio invece lo scultore si mantiene più vicino alla tradizione gotica.
Questa statua differisce molto dalle altre realizzate per quella commissione, per questo non si può escludere che solo essa sia stata realizzata da Beauneveu, mentre le altre statue sarebbero state realizzate da suoi collaboratori o da altri, per questo prima ho parlato di una sovrintendenza perché con tutta probabilità questo maestro guidava un’equipe.
Accanto alla statua del re si trovava la statua giacente della regina Giovanna di Borbone.
La tomba di Carlo V e della regina consorte Giovanna fu la prima tomba reale dell'abbazia con una decorazione così ricca e articolata.
La fama di Beauneveu nel campo della scultura sepolcrale dovette essere stata grande, se ancora un decennio più tardi egli era indicato come “fabbricante di tombe”. 6.1.2.3.
Dopo il 1366 il nome dello scultore non è più registrato nel libro paga del re anzi, tra il 1367 e il 1372, di lui si perdono tutte le tracce.
È presumibile che maestro André abbia potuto lavorare al servizio della regina consorte Filippa d'Inghilterra nel suo nativo Hainaut e anche nel suo regno oltre la Manica, dove avrebbe eseguito una statuina sul coperchio del sarcofago della regina Filippa, nell'abbazia di Westminster, ma di cui non abbiamo alcuna traccia se non uno scarno e vago riferimento documentario.
Nel 1372, Beauneveu era presente in diverse città dell'Hainaut e delle Fiandre, dove svolse ogni tipo di incarico: realizzò una serie di dipinti nella “Casa degli assessori” di Valenciennes, luogo in cui il “Collegio degli assessori cittadini” teneva le sue riunioni. In quel periodo lavorò anche per conto delle due città di Ypres e di Mechelen, ma di tutte queste commissioni purtroppo non è sopravvissuto niente.
Nel 1374, entrò al servizio del conte di Fiandre Luigi di Mâle che aveva commissionato la “Cappella dei Conti”, la “Gravenkapel”, sul modello della Sainte-Chapelle di Parigi. 6.4,5,6 e 7
Luigi di Mâle incaricò Beauneveu di realizzare il suo mausoleo funebre, ma i lavori dovettero protrarsi per anni e il maestro vi lavorò fino al 1377 e non giunsero mai a compimento.
Nel frattempo due opere di questo periodo generalmente attribuite a Beauneveu sono una “Statua della Vergine” per la torre di Ypres e una statua in alabastro di “Santa Caterina d'Alessandria”, patrona della “Cappella dei Conti”, che fu nascosta per essere salvata durante la Furia iconoclasta del 1566. 6.8
Quest'ultima richiama, nel volto carnoso e ben delineato, l’aperto oggettivismo pragmatico di Beauneveu, mentre il panneggio comincia a riflettere l'evoluzione del suo plasticismo verso esiti più pittorici tanto che la statua è considerata uno dei più begli esempi del “Gotico internazionale” del Trecento che stava guadagnando popolarità.
Quando Luigi di Mâle morì nel 1384, fu sepolto nella “Chiesa di San Pietro” a Lille, di cui oggi rimane solo la cripta, e per lui suo genero Filippo l’Ardito fece costruire una nuova tomba nel 1385.
Fra il 1383 e il 1386, ma più probabilmente già dal 1384 con la morte del conte Luigi de Mâle, Beauneveu passò al servizio del duca Giovanni di Berry, fratello minore del già defunto Carlo V e fratello maggiore di Filippo l’Ardito.
Il duca di Berry fu il più grande mecenate francese della sua epoca, tanto da essere passato alla Storia come “Giovanni il Magnifico”. Il duca gli attribuì il ruolo di “sovrintendente di tutti i dipinti e le sculture” e per circa ventinove anni l’artista rimase al suo servizio.
Fu fondamentale la portata artistica di un così prolungato servizio, accompagnato dalla stima e dall'amicizia personale del duca, nell'eccezionale contesto culturale umanistico che questo principe aveva saputo creare intorno a sé e soprattutto fu fondamentale la contemporanea presenza di un gruppo dei migliori miniaturisti del tempo, primo fra i quali Jacquemart de Hesdin.
A Bourges, capitale del Berry, Beauneveu lavorò con tre assistenti per un compenso molto elevato: gli sono attribuite alcune statue a grandezza naturale già sulla facciata della Sainte-Chapelle di Bourges e cinque piccole figure di profeti provenienti dall'interno della stessa cappella che oggi sono collocate all'esterno della cattedrale della città.
A queste opere si può aggiungere per l'alta qualità stilistica un gruppo con la “Vergine in trono e gli angeli”, sempre per la Sainte-Chapelle.
Nel castello di Bourges lavorò alle decorazioni scolpite così pure nella Saint-Cappelle, unita perpendicolarmente al “Palazzo ducale”: si trattava dunque di una cappella palatina che poteva portare il titolo di Sainte-Chapelle perché vi erano conservate le reliquie della Passione di Cristo e inoltre perché il duca era un principe di sangue reale.
Nella sua Sainte-Chapelle, Jean di Berry si fece scolpire una magnifica tomba di marmo, decorata con una figura sdraiata e molte persone in lutto, ma l’opera fu fatta completare da suo nipote. 6.9, 10,11
All'inizio del Novecento, un gruppo di storici dell'Arte tese ad assegnare a Beauneveu anche un certo numero di dipinti anonimi come per esempio la fantomatica “Pala di Hakendover”, ma questo non è mai potuto essere provato.
Le uniche opere pittoriche certe di Beauneveu sono le vetrate che realizzò per la Saint-Chapelle a Bourges e che fu vandalizzata durante la Rivoluzione, ma alcune vetrate furono salvate e collocate nella cripta della cattedrale di Bourges: esse rappresentano profeti dipinti a grisaglia, in stile naturalistico contrapposto all'idealizzazione. 6.12
Oltre che a Bourges, Beauneveu risiedette anche nel soggiorno preferito dal duca, il “Castello di Mehun-sur-Yèvre”, alla cui costruzione e abbellimento dovette partecipare anche lui.
Statue e pitture di Beauneveu erano così famose che Filippo l’Ardito inviò i suoi artisti Claus Sluter e Jean de Beaumetz a Mehun per studiare le sue opere. Da Mehun proviene infatti una bella testa frammentaria di statua, attribuita a Beauneveu oggi al Louvre.
La volontà di caratterizzare ogni figura è evidente negli attenti cambiamenti dei gesti, degli atteggiamenti, dei troni elaborati nei minimi dettagli.
La prospettiva è certamente ancora incerta e manifesta la scarsa familiarità dell'artista con le novità spaziali giunte dall'Italia.
L'aspetto più eccezionale di queste pagine del salterio è dovuto all'impiego della tecnica a grisaille che non sarebbe in sé e per sé una novità: le figure qui sono dipinte in una soffice tonalità di grigio pallido steso con minuscoli tratteggi paralleli, rialzato da tocchi delicati di rosso sulle guance, di blu e di marrone negli occhi.
Benché anche altri miniatori di Carlo V si fossero già serviti della tecnica a grisaille, come per esempio il grande Pucelle nelle “Ore di Jeanne d'Evreux” del Metropolitan di New York, in Beauneveu però questa tecnica è accostata a una ricca tavolozza di colori delicati nei pavimenti e negli sfondi. Questo singolare e raffinatissimo trattamento delle figure rivela una sensibilità di scultore, tanto che si potrebbe quasi paradossalmente affermare che proprio questa mirabile serie di figure riveli pienamente la grandezza di Beauneveu come scultore: la sottigliezza del panneggio, il dinamismo della posa instabile, l'individuazione di personalità fortemente caratterizzate anche psicologicamente differenzia profondamente queste immagini dalle prime statue che realizzò per le tombe di Carlo V.
Queste figure di profeti e di apostoli grigio perla inseriti in una profusione di colori delicati ricordano quei gioielli smaltati e circondati da pietre preziose molto apprezzati nella produzione artistica del tempo e oggetti frequenti di collezionismo, come risulta dagli inventari del duca di Berry. 6.da 14 in poi
Fra le opere di miniatura cui è frequentemente associato il nome di Beauneveu va citato il doppio foglio di un altro importante manoscritto, le “Très Belles Heures del duca di Berry” della “Bibliothèque Royale” di Bruxelles, raffigurante il duca, accompagnato dai SS. Andrea e Giovanni Battista. È una miniatura bellissima ma non è certo che sia di mano di Beauneveu.6.27
Nel 1397 Jean de Cambrai documentato a partire dal 1375, gli successe come direttore artistico del duca di Berry. Gli storici dell'arte presumono che Andre Beauneveu sia morto a Bourges tra il 1400 e il 1403.
La vastità delle perdite subite rende purtroppo impossibile valutare la portata della multiforme e intensa attività di Beauneveu, ma quanto rimane di lui consente di intuire il ruolo fondamentale che egli dovette svolgere negli anni fittissimi di produzione artistica che precedettero lo scadere del Trecento, anni decisivi per la grande stagione artistica che doveva schiudersi all'inizio del secolo seguente.
Jan van der Asselt era di Gand dove era nato tra il 1330 e il 1335, a Gand fu attivo per tutta la vita e a Gand morì nell'ottobre del 1398.
Figlio di un droghiere, la prima menzione di lui come pittore risale al 1364, quando decorò la cappella del “Prinsenhof” a Gand, residenza del conte di Fiandra Luigi II di Mâle almeno dal 1366.
Al servizio del conte di Mâle ricevette il titolo di pittore di corte, funzione che mantenne almeno fino al 1377 con un compenso annuo di venti grossi e il divieto di lavorare per altri senza la personale autorizzazione del conte.
Fra il 1364 e il 1365 fu dapprima incaricato di affrescare la cappella del “Castello dei conti” a Gand e successivamente tra il 1372 e il 1373, realizzò nella Chiesa di Nostra Signora di Kortrijk con ampia partecipazione di collaboratori, l'affresco della parete sud della Cappella dei Conti o Cappella di Santa Caterina, eretta per il conte di Fiandra.
Sotto una serie di archi trilobati figurano ventotto ritratti dei conti, compreso quello di Luigi di Mâle, tutti a figura intera, in armi e con i loro blasoni; alcuni sono accompagnati dalle loro mogli. Al ciclo iconografico appartengono quattro santi, un Giudizio universale e un Ritratto di Luigi di Mâle inginocchiato davanti alla Vergine con il Bambino completavano il ciclo.
Questi dipinti furono pesantemente restaurati e in seguito sovraverniciati per cui le alterazioni subite sono tali da non permettere più di individuare lo stile del maestro di Gand.
Si sa che questi dipinti erano molto apprezzati nel Quattrocento e che servirono da modello a due pittori Willem Van Axpoele e a Jan Martins per eseguire, nel 1419-1420, le pitture, oggi scomparse, del palazzo comunale di Gand.
Probabilmente Jan van der Asselt dovette eseguire anche il disegno della tomba di Luigi di Mâle, che doveva essere collocata nella “Cappella di Santa Caterina”, mentre nel giugno del 1379 realizzò un affresco con la Vergine per l'Hof ten Waele, la nuova residenza dei conti a Gand.