Il dovere del medico è un atto unico un atto unico, scritto
nel 1911 e tratto dalla novella Il
gancio del 1902 alla quale fu successivamente cambiato il titolo ne Il dovere del medico.
La novella, pubblicata per la
prima volta col titolo provvisorio Il
gancio su La settimana, il 22 giugno 1902,
nella redazione definitiva fu pubblicata con titolo cambiato de Il dovere del medico nella raccolta di novelle La vita nuda, edita da Treves
nel 1910, infine in Novelle
per un anno, edizione Bemporad, 1922 e Mondadori, 1935.
La trama è comune a novella e
atto. Adriana, ignara di quanto è successo, lavora a maglia nella tranquillità
domestica, quando giunge il dottore ad informarla dell’arrivo del marito ferito,
trasportato poco dopo assieme ad una folla di curiosi ed alla madre di lei che
le rivela l’accaduto per convincerla ad abbandonare il marito. Un giornalista
annota la situazione, mentre Adriana prende coscienza dell’accaduto, rivivendo
con un excursus narrativo la propria situazione
matrimoniale, per collocarvi l’adulterio nella giusta posizione di semplice
capriccio passeggero.
Il ferito ricorda l’episodio che
lo ha portato in una tale condizione, per poi ricadere nel letargo febbrile,
vegliato dal dottore. Solo gradualmente esce dallo stato di incoscienza causato
dalle gravi complicazioni conseguenti al ferimento, ed in concomitanza con il
miglioramento aumenta la sorveglianza, motivo per cui egli comincia a rendersi
conto di quanto lo attende: processo e carcere. Per questo motivo, dopo il
colloquio chiarificatore con la moglie accusa il medico di averlo strappato
alla morte che egli stesso aveva tentato di darsi come espiazione della propria
colpa e di avergli restituito una vita destinata al carcere. Decide, quindi, di
lasciarsi morire dissanguato in seguito ad un eccesso d’ira che gli ha riaperto
la ferita. Il dovere del medico, a questo punto, sarà quello di non
costringerlo ad una vita che non apparirà più tale ma di rispettare la volontà
del malato. Cosicché il dottore si astiene dall’intervenire, bloccato dallo
sguardo dell’ormai moribondo Tommaso: ha
ragione… io non posso, non debbo…
La soluzione pirandelliana
riguardo questo delicato tema si basa sull’idea della libertà umana che nessuno
può coartare, nemmeno in una situazione così drammatica. Trama delicata,
inoltre, per le implicazioni etiche e morali: la deontologia medica,
l’adulterio, l’omicidio, il diritto di scegliere quando e come morire.
La novella fu scritta in
occasione di una gara di composizione tra amici letterati in casa Ugo Fleres,
il cui regolamento era di svolgere narrativamente un tema di cronaca nel tempo
di una settimana.
Il testo è contrassegnato da
numeri romani in sette segmenti narrativi. I personaggi sono Adriana, non
ancora trentenne, ma già sposata da dieci anni; il marito Tommaso, uomo vitale
e generoso; il dottor Vocalopulo, votato interamente alla scienza medica, «non vedeva uomini ma casi da
studiare… quasi le infermità umane dovessero servire per gli esperimenti della
scienza, e non la scienza per le infermità» la madre
di Adriana, signora Montesani, particolarmente petulante nell’esporre l’accaduto
nella peggiore luce possibile; il giornalista che prende informazioni circa la
situazione familiare e assiste alle prime cure; il dottor Sià, collaboratore
dell’altro medico; l’avvocato Camillo Cimetta, «dotto più di filosofia che
di legge».
Fuori di scena, nell’antefatto, i
coniugi Lori: lui, sostituto procuratore del Re e padrino del loro ultimo
figlio, vissuto appena venti mesi; lei, donna vanesia che tradiva continuamente
il marito, da ultimo proprio con Tommaso; gesto che questa volta aveva però
indotto il marito a vendicarsi, con il conseguente suicidio della moglie e la
sua uccisione da parte di Tommaso che poi tenta il suicidio, non
riuscendovi.
Il dovere del medico
I.
E sono miei, - pensava Adriana,
udendo il cinguettio de' due bambini nell'altra stanza; e sorrideva tra sé, pur
seguitando a intrecciare speditamente una maglietta di lana rossa. Sorrideva,
non sapendo quasi credere a se stessa, che quei bambini fossero suoi, che li
avesse fatti lei, e che fossero passati tanti anni, già circa dieci, dal giorno
in cui era andata sposa. Possibile! Si sentiva ancor quasi fanciulla, e il
maggiore dei figli intanto aveva otto anni, e lei trenta, fra poco: trenta!
possibile? vecchia a momenti! Ma che! ma che! - E sorrideva.
- Il dottore? - domandò a un
tratto, quasi a se stessa, sembrandole di udir nella saletta d'ingresso la voce
del medico di casa; e si alzò, col dolce sorriso ancora su le labbra.
Le morì subito dopo quel sorriso,
assiderato dall'aspetto sconvolto e imbarazzato del dottor Vocalòpulo, che
entrava ansante, come se fosse venuto di corsa, e batteva nervosamente le
palpebre dietro le lenti molto forti da miope, che gli rimpiccolivano gli
occhi.
- Oh Dio, dottore?
- Nulla... non si agiti...
- La mamma?
- No no! - negò subito, forte, il
dottore. - La mamma, no!
- Tommaso, allora? - gridò
Adriana. E, poiché il dottore, non rispondendo, lasciava intendere che si
trattava proprio del marito: - Che gli è accaduto? Mi dica la verità... Oh Dio,
dov'è, dov'è?
Il dottor Vocalòpulo tese le
mani, quasi per opporre un argine alle domande.
- Nulla, vedrà... Una feritina...
- Ferito? E lei... Me l'hanno
ucciso?
E Adriana afferrò un braccio al
dottore, sgranando gli occhi, come impazzita.
- Ma no, ma no, signora... si
calmi... una ferita... speriamo leggera...
- Un duello?
- Sì, - lasciò cadersi dalle
labbra, esitando, il dottore vieppiù turbato.
- Oh, Dio, Dio, no... mi dica la
verità! - insistette Adriana. - Un duello? Con chi? Senza dirmi nulla?
- Lo saprà. Intanto... intanto,
calma: pensiamo a lui... Il letto?...
- Di là... - rispose ella,
stordita, non comprendendo in prima. Poi riprese con ansia più smaniosa: - Dove
l'hanno ferito? Lei mi spaventa... Non era con lei, Tommaso? Dov'è? Perché s'è
battuto? Con chi? Quand'è stato?... Mi dica...
- Piano, piano... - la interruppe
il dottor Vocalòpulo, non potendone più. - Saprà tutto... Adesso, è in casa la
serva? Per piacere, la chiami. Un po' di calma, e ordine: dia ascolto a me.
E mentre ella, quasi istupidita,
si faceva a chiamare la serva, il dottore, toltosi il cappello, si passò una
mano tremolante su la fronte, come si sforzasse di rammentare qualcosa; poi,
sovvenendosi, si sbottonò in fretta la giacca, trasse dalla tasca in petto il
portabiglietti e scosse più volte la penna stilografica, pensando alle
ordinazioni da scrivere.
Adriana ritornò con la serva.
- Ecco, - disse il Vocalòpulo,
seguitando a scrivere. E, appena ebbe finito: - Subito, alla farmacia più
vicina... Fiaschi... no, no... andate pure, ve li darà il farmacista stesso.
Lesta, mi raccomando.
- È molto grave, dottore? -
domandò Adriana, con espressione timida e appassionata, come per farsi
perdonare la insistenza.
- No, le ripeto. Speriamo bene, -
le rispose il Vocalòpulo e, per impedire altre domande, aggiunse: - Mi vuol far
vedere la camera?
- Sì, ecco, venga...
Ma, appena nella camera, ella
domandò ancora, tutta tremante:
- Ma come, dottore; lei non era
con Tommaso? Assistono pure due medici ai duelli...
- Bisognerebbe trasportare il
letto un po' più qua... - osservò il dottore, come se non avesse inteso.
Entrò, in quel punto, di corsa un
bellissimo ragazzo, dalla faccia ardita, coi capelli neri ricci e lunghi,
svolazzanti.
- Mamma, una barella! Quanta
gen...
Vide il medico e s'arrestò di
botto, confuso, mortificato, in mezzo alla stanza.
La madre diè un grido e scostò il
ragazzo per accorrere dietro al dottore. Su la soglia questi si voltò e la
trattenne:
- Stia qua, signora: sia buona!
Vado io, non dubiti... Col suo pianto gli potrà far male...
Adriana allora si chinò per
stringersi forte al seno il figlioletto che le si era aggrappato alla veste, e
ruppe in singhiozzi.
- Perché, mamma, perché? -
domandava il ragazzo sbigottito, non comprendendo e mettendosi a piangere anche
lui.
II.
A piè della scala il dottore
accolse la barella condotta da quattro militi della carità, mentre due
questurini, ajutati dal portinajo, impedivano a una folla di curiosi d'entrare.
- Dottor Vocalòpulo! - gridava un
giovanotto tra la folla.
Il dottore si voltò e gridò a sua
volta alle guardie:
- Lo lascino passare: è il mio
assistente. Entri, dottor Sià.
I quattro militi si riposavano un
po', preparando le cinghie per la salita. Il portone fu chiuso. La gente di
fuori vi picchiava con le mani e coi piedi, fischiando, vociando.
- Ebbene? - domandò il dottor Vocalòpulo
al Sià che sbuffava ancora, tutto sudato. - La donna?
- Che corsa, caro professore! -
rispose il dottor Cosimo Sià. - La donna? All'ospedale... Sono tutto sudato!
Frattura alla gamba e al braccio...
- Congestione?
- Credo. Non so... Son venuto a
tempesta. Che caldo, per bacconaccio! Se potessi avere un bicchier d'acqua
Il dottor Vocalòpulo scostò un
poco la tendina di cerata della barella per vedere il ferito; la riabbassò
subito e si volse ai militi:
- Andiamo, su! Piano e
attenzione, figliuoli, mi raccomando.
Mentre si eseguiva con la massima
cautela la penosa salita, allo scalpiccio, al rumor delle voci brevi affannose,
si schiudevano sui pianerottoli le porte degli altri casigliani.
- Piano, piano... - ammoniva,
quasi a ogni scalino, il dottor Vocalòpulo.
Il Sià veniva dietro,
asciugandosi ancora il sudore dalla nuca e dalla fronte, e rispondeva ai
casigliani:
- Il signor... come si chiama?
Corsi... Quarto piano, è vero?
Una signora e una signorina,
madre e figlia, scapparono su di corsa per la scala con un grido d'orrore, e,
poco dopo, s'intesero le grida disperate di Adriana.
Il Vocalòpulo scosse la testa,
contrariato, e voltosi al Sià:
- Ci badi lei, mi raccomando, -
disse, e salì a balzi le altre due branche di scala fino alla porta del Corsi.
- Via, si faccia forza, signora:
non gridi così! Non capisce che gli farà male? Prego, signore, la conducano di
là!
- Voglio vederlo! Mi lascino!
Voglio vederlo! - gridava, piangendo e smaniando, Adriana.
E il medico:
- Lo vedrà, non dubiti, non ora
però... La conducano di là!
La barella era già arrivata.
- La porta! - gridò uno dei
militi, ansimando.
Il dottor Vocalòpulo accorse ad
aprire l'altro battente della porta, mentre Adriana, divincolandosi, trascinava
seco le due vicine, imbalordite, verso la barella.
- In quale camera? Prego... Dov'è
il letto? - domandò il dottor Sià.
- Di qua... ecco! - disse il
Vocalòpulo, e gridò alle due pigionali accorse: - Ma la trattengano, perdio!
Non son buone neanche da trattenerla?
- Oh Dio benedetto! - esclamò la
signora del secondo piano, tozza, popputa, parandosi davanti ad Adriana
furibonda.
Le due guardie erano dietro la
barella e se ne stavano innanzi alla porta d'ingresso. A un tratto, per la
scala, un vociare e un salire frettoloso di gente. Certo il portinajo aveva
riaperto il portone, e la folla curiosa aveva invaso la scala.
Le due guardie tennero testa
all'irruzione.
- Lasciatemi passare! - gridava
tra la ressa su gli ultimi scalini, facendosi largo con le braccia, una signora
alta, ossuta, vestita di nero, con la faccia pallida, disfatta, e i capelli
aridi, ancor neri, non ostante l'età e le sofferenze evidenti. Si voltava ora
di qua ora di là, come se non vedesse: aveva infatti quasi spento lo sguardo
tra le palpebre gonfie semichiuse. Pervenuta alla fine innanzi alla porta, con
l'aiuto di un giovinotto ben vestito, che le veniva dietro, fu su la soglia
fermata dalle guardie:
- Non si entra!
- Sono la madre! - rispose
imperiosamente e, con un gesto che non ammetteva replica, scostò le guardie e
s'introdusse in casa.
Il giovinotto ben vestito
sguisciò dentro, dietro a lei, dandosi a vedere come uno della famiglia anche
lui.
La nuova arrivata si diresse a
una stanza quasi buja, con un sol finestrino ferrato presso il tetto. Non
discernendo nulla, chiamò forte:
- Adriana!
Questa, che se ne stava tra le
due pigionali che cercavano Scioccamente di confortarla, balzò in piedi,
gridando:
- Mamma!
- Vieni! vieni con me, figlia
mia! povera figlia mia! Andiamocene subito! - disse in fretta, con voce
vibrante di sdegno e di dolore, la vecchia signora. - Non m'abbracciare! Tu non
devi rimanere più qua un solo minuto!
- Oh! mamma! mamma mia! -
piangeva intanto Adriana, con le braccia al collo della madre. Questa si
sciolse dall'abbraccio, gemendo:
- Figlia disgraziata, più di tua
madre!
Poi dominando la commozione,
riprese con l'accento di prima:
- Un cappello, subito! uno
scialle! Prendi questo mio... Andiamocene subito, coi bambini... Dove sono? Già
mi scottano i piedi, qua... Maledici questa casa, com'io la maledico!
- Mamma... che dici, mamma? -
domandò Adriana, smarrita nell'atroce cordoglio.
- Ah, non sai? Non sai nulla
ancora? non t'hanno detto nulla? non hai nulla sospettato? Tuo marito è un
assassino! - gridò la vecchia signora.
- Ma è ferito, mamma!
- Da sé s'è ferito, con le sue
mani! Ha ucciso il Nori, capisci? Ti tradiva con la moglie del Nori... E lei
s'è buttata dalla finestra...
Adriana cacciò un urlo e
s'abbandonò su la madre, priva di sensi. Ma la madre, non badandole,
sorreggendola, seguitava a dirle tutta tremante:
- Per quella lì... per quella
lì... te, te, figlia, angelo mio, ch'egli non era degno di guardare...
Assassino!... Per quella lì... capisci? capisci?
E con una mano le batteva
dolcemente la spalla, carezzandola, quasi ninnandola con quelle parole.
- Che disgrazia! che tragedia! Ma
com'è avvenuto? - domandò sottovoce la signora tozza del secondo piano al
giovinotto ben vestito che si teneva in un angolo, con un taccuino in mano.
- Quella è la moglie? - domandò
il giovinotto a sua volta, in luogo di rispondere. - Scusi, saprebbe dirmi il
casato?
- Di lei?... Sì, fa Montesani,
lei.
- E il nome, scusi?
- Adriana. Lei è giornalista?
- Zitta, per carità! A servirla.
E mi dica, quella è la madre, è vero?
- La madre di lei, la signora
Amalia, sissignore.
- Amalia, grazie, grazie. Una
tragedia, sì signora, una vera tragedia...
- È morta lei, la Noti?
- Ma che morta! La mal'erba, lei
m'insegna... È morto lui, invece, il marito.
- Il giudice?
- Giudice? No, sostituto
procuratore del re.
- Sì, quel giovane... brutto,
insomma, mingherlino, calabrese, venuto da poco... Erano tanto amici col signor
Tommaso!
- Eh, si sa! - sghignò il
giovinotto. - Avviene sempre così, lei m'insegna... Ma, scusi, il Corsi dov'è?
Vorrei vederlo... Se lei m'indicasse...
- Ecco, vada di là... Dopo quella
stanza, l'uscio a destra.
- Grazie, signora. Scusi un'altra
domanda: Quanti figliuoli?
- Due. Due angioletti! Un
maschietto di otto anni, una bambina di cinque...
- Grazie di nuovo; scusi...
Il giovinotto s'avviò, seguendo
l'indicazione, alla camera del ferito. Passando per la saletta d'ingresso,
sorprese il bel ragazzo del Corsi che, con gli occhi sfavillanti, un sorriso
nervoso su le labbra e le mani dietro la schiena, domandava a una delle
guardie:
- E dimmi una cosa: come gli ha
sparato, col fucile?
III.
Tommaso Corsi, col torso nudo,
poderoso, sorretto da guanciali, teneva i grandi occhi neri e lucidissimi
intenti sul dottor Vocalòpulo, il quale, scamiciato, con le maniche rimboccate
su le magre braccia pelose, premeva e studiava da presso la ferita. Di tanto in
tanto gli occhi del Corsi si levavano anche su l'altro medico, come se,
nell'attesa che qualcosa a un tratto dovesse mancargli dentro, volesse
coglierne il segno o il momento negli occhi altrui. L'estremo pallore cresceva
bellezza al suo maschio volto di solito acceso.
Ora egli fissò sul giornalista,
che entrava timido, perplesso, uno sguardo fiero, come se gli domandasse chi
fosse e che volesse. Il giovinotto impallidì, appressandosi al letto, pur senza
poter chinare gli occhi, quasi ammaliato da quello sguardo.
- Oh, Vivoli! - disse il dottor
Vocalòpulo, voltandosi appena.
Il Corsi chiuse gli occhi,
traendo per le nari un lungo respiro.
Lello Vivoli aspettò che il
Vocalòpulo gli volgesse di nuovo lo sguardo; ma poi, impaziente:
- Ss, - lo chiamò piano e,
accennando il giacente, domandò come stesse, con un gesto della mano.
Il dottore alzò le spalle e
chiuse gli occhi, poi con un dito accennò la ferita alla mammella sinistra.
- Allora... - disse il Vivoli,
alzando una mano in atto di benedire.
Una goccia di sangue si partì
dalla ferita e rigò lungamente il petto. Il dottore la deterse con un bioccolo
di bambagia, dicendo quasi tra sé:
- Dove diavolo si sarà cacciata
la palla?
- Non si sa? - domandò
timidamente il Vivoli, senza staccar gli occhi dalla ferita, non ostante il
ribrezzo che ne provava. - E di', sai di che calibro era?
- Nove... calibro nove, -
interloquì con evidente soddisfazione il giovine dottor Sià. - Dalla ferita si
può arguire...
- Suppongo, - rispose il
Vocalòpulo accigliato, assorto, - che si sia cacciata qua sotto la scapola...
Eh sì, purtroppo... il polmone...
E torse la bocca.
Indovinare, determinare il corso
capriccioso della palla: per il momento, non si trattava d'altro per lui. Gli
stava davanti un paziente qualunque, sul quale egli doveva esercitare la sua
bravura, valendosi di tutti gli espedienti della sua scienza: oltre a questo
suo compito materiale e limitato non vedeva nulla, non pensava a nulla. Solo,
la presenza del Vivoli gli fece considerare che, essendo il Corsi
conosciutissimo nella città e avendo quella tragedia sconvolto tutta la
cittadinanza, poteva giovargli che il pubblico sapesse che il dottor Vocalòpulo
era il medico curante.
- Oh, Vivoli, dirai che è
affidato alle mie cure.
Il dottor Cosimo Sià dall'altra
sponda del letto tossì leggermente.
- E puoi aggiungere, - riprese il
Vocalòpulo, - che sono assistito dal dottor Cosimo Sià: te lo presento.
Il Vivoli chinò appena il capo,
con un lieve sorriso. Il Sià, che s'era precipitato con la mano tesa per
stringer quella del Vivoli, all'inchino sostenuto di questo, restò goffo,
arrossì, trinciò in aria con la mano già tesa un saluto, come per dire: «Ecco,
fa lo stesso: Saluto così!».
Il moribondo schiuse gli occhi e
aggrottò le ciglia. I due medici e il Vivoli lo guardarono quasi con paura,
- Adesso lo fasceremo, - disse
con voce premurosa, chinandosi su lui, il Vocalòpulo.
Tommaso Corsi scosse la testa sul
guanciale, poi riabbassò lentamente le palpebre su gli occhi foschi, come se
non avesse compreso: così almeno parve al dottor Vocalòpulo, il quale,
storcendo un'altra volta la bocca, mormorò:
- La febbre...
- Io scappo, - disse piano il
Vivoli, salutando con la mano il Vocalòpulo e di nuovo inchinando appena il
capo al Sià, che rispose, questa volta, con un inchino frettoloso.
- Sià, venga da questa parte.
Bisogna sollevarlo. Ci vorrebbero due dei nostri infermieri... - esclamò il
Vocalòpulo. - Basta, ci proveremo. Ma tengo a fare una sola fasciatura, ben
solida, e lì.
- Lo laviamo, ora? - domandò il
Sià.
- Sì! L'alcool dov'è? e il
catino, prego. Così, aspetti... Intanto, lei prepari le fasce. Preparate? Poi
la vescica di ghiaccio.
Tommaso Corsi, allorché il dottor
Vocalòpulo si fece a fasciarlo, aprì gli occhi, s'infoscò in volto, tentò con
una mano di scostar dal petto quelle del dottore, dicendo con voce cavernosa:
- No... no...
- Come no? - domandò, sorpreso,
il dottor Vocalòpulo.
Ma un empito di sangue impedì al
Corsi di rispondere, e le parole gli gorgogliarono nella strozza soffocate
dalla tosse. Poi giacque, prostrato, privo di sensi.
E allora fu ripulito e fasciato a
dovere dai due medici curanti.
IV.
- No, mamma, no... E come potrei?
- rispose Adriana, appena rinvenuta, all'ingiunzione della madre d'abbandonar
la casa del marito insieme coi figliuoli.
Si sentiva quasi inchiodata lì,
su la seggiola, stordita e tremante, come se un fulmine le fosse caduto da
presso. E invano la madre le smaniava innanzi e la spingeva:
- Via, via, Adriana! Non mi
senti?
Si era lasciata mettere uno
scialletto addosso e il cappello, e guardava innanzi a sé, come una mendicante.
Non riusciva ancora a farsi un'idea dell'accaduto. Che le diceva la madre?
d'abbandonar quella casa? e come mai, in quel momento? O prima o poi avrebbe
dovuto abbandonarla pur sempre? Perché? Il marito non le apparteneva più? Si
era spenta in lei l'ansia di vederlo. Che volevano intanto quelle due guardie
che la madre le accennava lì nella saletta d'ingresso?
- Meglio che muoja! Se vive, in
galera!
- Mamma! - supplicò, guardandola.
Ma riabbassò subito gli occhi per trattenere le lagrime. Sul volto della madre
rilesse la condanna del marito: «Ha ucciso il Nori; ti tradiva con la moglie
del Nori». Non sapeva però, né poteva ancor quasi pensarlo, né immaginario: si
vedeva ancora la barella sotto gli occhi e non poteva immaginare altri che lui
- Tommaso - ferito, forse moribondo, lì... E Tommaso dunque aveva ucciso il
Nori? aveva una tresca con Angelica Nori, e tutt'e due erano stati scoperti dal
marito? Pensò che Tommaso portava sempre con sé la rivoltella. Per il Nori? No:
l'aveva sempre portata, e il Nori e la moglie erano in città da un anno
soltanto.
Nello scompiglio della coscienza,
una moltitudine d'immagini si ridestavano in lei tumultuosamente: l'una
chiamava l'altra e insieme si raggruppavano in balenanti scene precise e subito
si disgregavano per ricomporsi in altre scene con vertiginosa rapidità. Quei
due eran venuti da un paese di Calabria accompagnati da una lettera di
presentazione a Tommaso, il quale li aveva accolti con la festosa espansione
della sua indole sempre gioconda, con aria confidenziale, col sorriso schietto
di quel suo maschio volto, in cui gli occhi lampeggiavano, esprimendo la
vitalità piena, l'energia operosa, costante, che lo rendevano caro a tutti.
Da quest'indole vivacissima, da
questa natura esuberante, in continuo bisogno d'espandersi quasi con violenza,
ella era stata investita fin dai primi giorni del matrimonio: s'era sentita
trascinare dalla fretta ch'egli aveva di vivere: anzi furia, più che fretta:
vivere senza tregua, senza tanti scrupoli, senza tanto riflettere; vivere e
lasciar vivere, passando sopra a ogni impedimento, a ogni ostacolo. Più volte
ella si era arrestata un po' in questa corsa, per giudicare fra sé qualche
azione di lui non stimata perfettamente corretta. Ma egli non dava tempo al
giudizio, come non dava peso ai suoi atti. Ed ella sapeva ch'era inutile
richiamarlo indietro a considerare il mal fatto: scrollava le spalle,
sorrideva, e avanti! aveva bisogno d'andare avanti a ogni modo, per ogni via,
senza indugiarsi a riflettere tra il bene e il male; e rimaneva sempre alacre e
schietto, purificato dall'attività incessante, e sempre lieto e largo di favori
a tutti, con tutti alla mano: a trent'otto anni, un fanciullone, capacissimo di
mettersi a giocar sul serio coi due figliuoli, e ancora, dopo dieci anni di
matrimonio, così innamorato di lei, che ella tante volte, anche di recente,
aveva dovuto arrossire per qualche atto imprudente di lui innanzi ai bambini o
alla serva.
E ora, così d'un colpo, quest'arresto
fulmineo, questo scoppio! Ma come? come? La cruda prova del fatto non riusciva
ancora a dissociare in lei i sentimenti, più che di solida stima, d'amore
fortissimo e devoto per il marito, da cui si sentiva in cuor suo ricambiata.
Forse qualche lieve inganno, sì,
sotto quella tumultuosa vitalità; ma la menzogna, no, la menzogna non poteva
annidarsi sotto l'allegria costante di lui. Che egli avesse una tresca con
Angelica Nori, non significava, no, aver tradito lei, la moglie; e questo la
madre non poteva comprenderlo, perché non sapeva, non sapeva tante cose... Egli
non poteva aver mentito con quelle labbra, con quegli occhi, con quel riso che
allegrava tutti i giorni la casa. - Angelica Nori? Oh ella sapeva bene che cosa
fosse costei, anche per il marito: neppure un capriccio: nulla, nulla! la prova
soltanto d'una debolezza, nella quale nessun uomo forse sa o può guardarsi dal
cadere... Ma in quale abisso era egli adesso caduto? e la sua casa e lei coi
figliuoli giù, giù con lui?
- Figli miei! figli miei! -
proruppe alla fine, singhiozzando, con le mani sul volto, quasi per non veder
l'abisso che le si spalancava orribile davanti. - Portali via con te, -
aggiunse, rivolgendosi alla madre. - Loro sì, portali via, ché non vedano... Io
no, mamma: io resto. Te ne prego...
Si alzò e, cercando alla meglio
di trattener le lagrime, andò, seguita dalla madre, in cerca dei bambini che
giocavano tra loro in un camerino, ove la serva li aveva chiusi. Si mise a
vestirli, soffocando i singhiozzi che le irrompevano dal petto a ogni loro
lieta domanda infantile.
- Con la nonna, sì... a spasso
con la nonna... E il cavalluccio, sì... la sciabola pure... Te li compra la
nonna...
Questa contemplava, straziata, la
sua cara figliuola, la creatura sua adorata, tanto buona, tanto bella, per cui
tutto ormai era finito; e, nell'odio feroce contro colui che gliela faceva
soffrir così, avrebbe voluto strapparle dalle mani quel bambino che somigliava
tutto al padre, fin nella voce e nei gesti.
- Non vuoi proprio venire? -
domandò alla figlia, quando i bambini furono pronti. - Io, bada, qua non metto
più piede. Resti sola... La casa di tua madre è aperta. Ci verrai, se non oggi,
domani. Ma già, anche se non morisse...
- Mamma! - supplicò Adriana,
additandole i bambini.
La vecchia signora tacque e andò
via coi nipotini, vedendo uscire dalla camera del ferito il dottor Vocalòpulo.
Questi si appressò ad Adriana per
raccomandarle di non farsi vedere per il momento dal marito.
- Un'emozione improvvisa, anche
lieve, potrebbe riuscirgli fatale. Non si faccia nulla, per carità, che possa
contrariarlo o impressionarlo in qualche modo. Questa notte resterà a vegliarlo
il mio collega. Se ci fosse bisogno di me...
Non terminò il discorso, notando
che ella non gli dava ascolto né gli domandava notizie intorno alla gravità
della ferita, e che aveva in capo il cappellino, come se stesse per abbandonare
la casa. Socchiuse gli occhi, scosse un po' il capo, sospirando, e andò via.
V.
Nella notte, Tommaso Corsi si
riscosse incosciente dal letargo. Stordito dalla febbre, teneva gli occhi
aperti nella penombra della camera. Un lampadino ardeva sul cassettone,
riparato da uno specchio a tre luci: il lume si projettava su la parete
vivamente, precisando il disegno e i colori della carta da parato.
Aveva solo la sensazione che il
letto fosse più alto, e che soltanto per ciò notasse in quella camera qualcosa
che prima non vi aveva mai notato. Vedeva meglio l'insieme dell'arredo, il
quale, nella quiete altissima, gli pareva spirasse, dall'immobilità sua quasi
rassegnata; un conforto familiare, a cui le ricche tende, che dall'alto
scendevano fin sul tappeto, davano un'aria insolita di solennità. «Noi siamo
qui, come tu ci hai voluti, per i tuoi comodi» pareva gli dicessero, nella
coscienza che man mano si risentiva, i varii oggetti della camera: «siamo la
tua casa: tutto è come prima».
A un tratto richiuse gli occhi,
quasi abbagliato bruscamente nella penombra da un lampo di luce cruda: la luce
che s'era fatta in quell'altra camera, quando colei, urlando, aveva aperto la
finestra, d'onde s'era buttata.
Riebbe allora, d'un subito, la
memoria orrenda: rivide tutto, come se accadesse proprio allora.
Egli, trattenuto dall'istintivo
pudore, non riusciva a balzar dal letto, svestito com'era, e il Noti, ecco, gli
esplodeva contro il primo colpo che infrangeva il vetro di un'immagine sacra al
capezzale; egli tendeva la mano alla rivoltella sul comodino, ed ecco il sibilo
della seconda palla innanzi al volto... Ma non ricordava d'aver tirato sul
Noti: solo quando questi era caduto a sedere sul pavimento, e poi s'era
ripiegato bocconi, egli s'era accorto d'aver l'arma ancor calda e fumante in
pugno. Era allora saltato dal letto e, in un attimo, entro di sé, la tremenda
lotta di tutte le energie vitali contro l'idea della morte; prima, l'orrore di
essa; poi la necessità e il sorgere d'un sentimento atroce, oscuro, a vincere
ogni ripugnanza e ogni altro sentimento. Aveva guardato il cadavere, la
finestra donde quella era saltata; aveva udito i clamori della via sottostante,
e s'era sentito aprire come un abisso nella coscienza: allora la determinazione
violenta gli s'era imposta lucidamente, come un atto a lungo meditato e
discusso. Sì. Così era stato.
«No», diceva a se stesso, un
istante dopo, riaprendo gli occhi brillanti di febbre. «No; se questa è la mia
casa, se io sto qui sul mio letto...»
Gli pareva di udir voci liete e
confuse di là, nelle altre stanze.
Aveva fatto mettere quelle tende
nuove e i tappeti alle stanze per il battesimo dell'ultimo bambino, morto di
venti giorni. Ecco, gli invitati tornavano or ora dalla chiesa. Angelica Noti,
a cui egli offriva il braccio, glielo stringeva a un tratto furtivamente con la
mano; egli si voltava a guardarla, stupito, ed ella accoglieva quello sguardo
con un sorriso impudente, da scema, e chiudeva voluttuosamente le palpebre su i
grandi occhi neri, globulenti, in presenza di tutti.
«Quel bambino è morto», pensava
ora egli, «perché l'ha tenuto a battesimo colui, ch'era fra l'altro un
jettatore.»
Immagini imprevedute, visioni
strane, confuse, sensazioni fantastiche, improvvise, pensieri lucidi e precisi,
si avvicendavano in lui, nel delirio intermittente.
Sì, sì, lo aveva ucciso. Ma due
volte quel forsennato s'era messo per uccider lui, ed egli nel volgersi per
prendere l'arma dal comodino gli aveva gridato sorridendo: - Che fai? - tanto
gli pareva impossibile che colui, prima ch'egli si vedesse costretto a
minacciarlo e a reagire, non comprendesse ch'era un'infamia, una pazzia
ucciderlo a quel modo, in quel momento, uccider lui che si trovava lì per caso,
che aveva tant'altra vita fuori di lì: i suoi affari, gli affetti suoi vivi e
veri, la sua famiglia, i figli da difendere. Eh via, disgraziato!
Come mai tutt'a un tratto,
quell'omiciattolo sbricio, brutto, scialbo, dall'anima apatica, attediata, che
si trascinava nella vita senza alcuna voglia, senz'alcun affetto, e che da
tant'anni si sapeva spudoratamente ingannato dalla moglie e non se ne curava, a
cui pareva costasse pena e fatica guardare o trar fuori quella sua voce molle
miagolante; come mai, tutt'a un tratto, s'era sentito muovere il sangue e per
lui soltanto? Non sapeva che donna fosse sua moglie? e non sentiva ch'era una
cosa ridicola e pazza e infame nello stesso tempo difender a quel modo ancora
l'onor suo affidato a colei, che ne aveva fatto strazio tant'anni, senza che
egli avesse mai mostrato d'accorgersene? Ma aveva pure assistito - sì, sì - a
tante scene familiari, in cui ella, proprio sotto gli occhi di lui, sotto gli
occhi stessi d'Adriana, aveva cercato di sedurlo con quei suoi lezii da
scimmietta patita. Adriana sì se n'era accorta, e lui no? Ne avevano riso tanto
insieme, lui e Adriana. Per una donna come quella lì, dunque, sul serio, una
tragedia? Lo scandalo, la morte di lui, la sua morte? Oh, per quel disgraziato,
forse, era stata un bene la morte; un regalo! Ma egli... doveva egli morire per
così poco? Sul momento, col cadavere sotto gli occhi, assalito dai clamori
della via, aveva creduto di non poter farne a meno. Ebbene, e intanto come mai
non era tutto finito? Egli viveva ancora, lì, nella sua stessa camera
tranquilla, coricato sul suo letto, come se nulla fosse accaduto. Ah, se
veramente fosse un sogno orribile!... No: e quel dolore cocente al petto, che
gli toglieva il respiro? E poi il letto...
Stese pian piano un braccio nel
posto accanto; vuoto... ecco! Adriana... Sentì di nuovo l'abisso aprirglisi
dentro. Dov'era ella? e i figliuoli? Lo avevano abbandonato? Solo, dunque,
nella casa? e come mai?
Riaprì gli occhi per accertarsi,
se quella fosse veramente la sua camera da letto. Sì: tutto come prima. Allora
un dubbio crudele, in quell'alternativa di delirio e di lucidità mentale, lo
vinse: non sapeva più se, aprendo gli occhi, vedesse per allucinazione la sua
camera che spirava la pace consueta, o se sognasse chiudendo gli occhi e
rivedendo, con lucidezza di percezione ch'era quasi realtà, l'orribile tragedia
della mattina. Emise un gemito, e subito davanti a gli occhi si vide un volto
sconosciuto; sentì posarsi una mano su la fronte, la cui pressione lo confortava,
e richiuse gli occhi sospirando, sentendo di dover rassegnarsi a non
comprendere più nulla, a non saper che cosa fosse veramente accaduto. Era
fors'anche sogno quel volto or ora intraveduto, la mano che gli premeva la
fronte... E ricadde nel letargo.
Il dottor Sià si accostò in punta
di piedi a un angolo della camera quasi al bujo, dove Adriana vegliava
nascosta.
- Forse è meglio, - le disse
sottovoce, - che si mandi per il dottor Vocalòpulo. La febbre cresce e
l'aspetto non mi...
S'interruppe; le domandò:
- Vuol vederlo?
Adriana fece segno di no col
capo, angosciata. Poi, sentendo di non poter trattenere un empito improvviso di
pianto, balzò in piedi e scappò via dalla camera.
Il dottor Sià richiuse, cauto,
l'uscio per impedire che giungesse all'orecchio del morente il pianto convulso
della moglie; poi tolse dal petto di lui la vescica, ne vuotò l'acqua e,
riempitala novamente di pezzetti di ghiaccio, la ripose su la fasciatura al
posto della ferita.
- Ecco fatto.
Osservò quindi di nuovo, a lungo,
il volto del giacente, ne ascoltò la respirazione affannosa; poi, non avendo
altro da fare, e come se per lui bastasse l'aver provveduto al ghiaccio e
l'aver fatto quelle osservazioni, ritornò al proprio posto, alla poltrona,
dall'altra parte del letto.
Lì, con gli occhi chiusi, godeva
di lasciarsi prendere a mano a mano dal sonno, spegnendo gradatamente in sé la
volontà di resistervi, fino al punto estremo in cui il capo gli dava un crollo:
schiudeva allora gli occhi e tornava da capo ad abbandonarsi a quella voluttà
proibita, che quasi lo inebriava.
VI.
Le complicazioni temute dal
dottor Vocalòpulo si verificarono pur troppo: prima e più grave fra tutte,
l'infiammazione polmonare, che cagionava quell'altissima febbre.
Senza alcuna preoccupazione
estranea alla scienza, di cui era fervidamente appassionato, il dottor
Vocalòpulo raddoppiò lo zelo, come se si fosse fatta una fissazione di salvare
a ogni costo quel moribondo.
Negli infermi sotto la sua cura
egli non vedeva uomini ma casi da studiare: un bel caso, un caso strano, un
caso mediocre o comune; quasi che le infermità umane dovessero servire per gli
esperimenti della scienza, e non la scienza per le infermità. Un caso grave e
complicato lo interessava sempre a quel modo; ed egli allora non sapeva
staccare più il pensiero dal malato: metteva in pratica le più recenti
esperienze delle primarie cliniche del mondo, di cui consultava scrupolosamente
i bollettini, le rassegne e le minute esposizioni dei tentativi, degli
espedienti dei più grandi luminari della scienza medica, e spesso adottava le
cure più arrischiate con fermo coraggio, con fiducia incrollabile. Si era
costituita così una grande reputazione. Ogni anno faceva un viaggio e ritornava
entusiasta degli esperimenti a cui aveva assistito, soddisfatto di qualche
nuova cognizione appresa, provvisto di nuovi e più perfezionati strumenti
chirurgici, che disponeva - dopo averne studiato minutamente il congegno e
averli ripuliti con la massima cura - entro l'armamentario di cristallo, che
aveva la forma di un'urna, lì, in mezzo al camerone da studio, e, chiusi, li
contemplava ancora, stropicciandosi le mani solide, sempre fredde, o stirandosi
con due dita il naso armato di quel pajo di lenti fortissime, che accrescevano
la rigidezza austera del suo volto pallido, lungo, equino.
Attorno al letto del Corsi
condusse alcuni suoi colleghi, a studiare, a discutere; spiegò tutti i suoi
tentativi, l'uno più nuovo e più ingegnoso dell'altro, finora però riusciti
vani. Il ferito, sotto quell'altissima febbre, restava in uno stato quasi
letargico, interrotto tuttavia da certe crisi di smania delirante, nelle quali,
più d'una volta, eludendo la vigilanza, aveva finanche tentato di disfare la
fasciatura.
Di questo «fenomeno» il
Vocalòpulo non si era curato più di tanto; gli era bastato di raccomandare al
dottor Sià maggiore attenzione. Aveva potuto, per mezzo della radiografia,
estrarre il projettile di sotto l'ascella, aveva rischiosamente applicato i
lenzuoli freddi per abbassare la temperatura. E finalmente c'era riuscito! La
febbre era abbassata, l'infiammazione polmonare era vinta, il pericolo quasi
superato. Nessun compenso materiale avrebbe potuto uguagliare la soddisfazione
morale del dottor Vocalòpulo. Era raggiante; e il dottor Sià con lui, per
riflesso.
- Collega, collega, qua la mano!
Questo si chiama vincere.
Il Sià gli rispondeva con una
sola parola:
- Miracoloso!
Ora la primavera imminente
avrebbe senza dubbio affrettato la convalescenza.
Già l'infermo cominciava a
risentirsi un po', a uscir dallo stato d'incoscienza in cui s'era mantenuto per
tanti giorni. Ma non sapeva ancora, non sospettava neppure, come si fosse
ridotto.
Una mattina, si provò a sollevare
le mani dal letto, per guardarsele e, nel veder le dita esangui tremolare,
sorrise. Si sentiva ancora come nel vuoto, in un vuoto però tranquillo, soave,
di sogno. Solo qualche minuzia, lì, nella camera, gli s'avvistava di tratto in
tratto: un fregio dipinto nel soffitto, la peluria verde della coperta di lana
sul letto, che gli richiamava alla memoria i fili d'erba d'un prato o d'una
ajuola; e vi concentrava tutta l'attenzione, beato; poi, prima di stancarsene,
richiudeva gli occhi e provava un dolce smarrimento d'ebbrezza, vaneggiava in
una delizia ineffabile.
Tutto, tutto era finito; la vita
ricominciava adesso... Ma non era forse rimasta sospesa anche per gli altri?
No, no: ecco: un rumor di vettura... Fuori, per le vie, la vita in tutto quel
tempo aveva seguito il suo corso...
Provò come una vellicazione
irritante al ventre, a questo pensiero che oscuramente lo contrariava; e si
rimise a guardar la calugine verde della coperta, dove gli pareva di veder la
campagna: qua la vita, sì, ricominciava veramente, con tutti quei fili
d'erba... E anche così per lui ricominciava... Nuovo, tutto nuovo, egli si
sarebbe riaffacciato alla vita... Un po' d'aria fresca! Ah, se il medico avesse
voluto aprirgli un tantino la finestra...
- Dottore, - chiamò; e la sua
stessa voce gli fece una strana impressione.
Ma nessuno rispose. Si provò a
guardar nella camera. Nessuno... Come mai? Dov'era? - Adriana! Adriana! -
Un'angosciosa tenerezza per la moglie lo vinse; e si mise a piangere come un
bambino, nel desiderio cocente di buttarle le braccia al collo e stringersela
forte, forte al petto... Chiamò di nuovo, nel dolce pianto:
- Adriana! Adriana!... Dottore!
Nessuno sentiva? Sgomento,
allora, soffocato, stese un braccio al campanello sul comodino; ma avvertì
subito un'acuta trafittura interna, che lo tenne un tratto quasi senza respiro,
col volto pallido, contratto dallo spasimo; poi sonò, sonò furiosamente.
Accorse, con la sua aria spiritata, il dottor Sià:
- Eccomi! Che abbiamo, signor
Tommaso?
- Solo! Mi hanno lasciato solo...
- Ebbene? E perché codesta
agitazione? Eccomi qua.
- No. Adriana! Mi chiami
Adriana... Dov'è? Voglio vederla.
Comandava ora, eh? Il dottor Sià
fece un viso lungo lungo e piegò il capo da un lato:
- Così, no! Se non si calma, no.
- Voglio veder mia moglie! -
replicò egli stizzito, imperioso. - Può proibirmelo lei?
Il Sià sorrise, perplesso:
- Ecco... vorrei che... No no, si
stia zitto: vado a chiamargliela.
Non ce ne fu bisogno. Adriana era
dietro l'uscio: si asciugò in fretta le lagrime, accorse, si buttò
singhiozzando tra le braccia del marito, come in un abisso d'amore e di
disperazione. Egli non provò dapprima che la gioja di tenersi così stretta
quella sua adorata, il cui calore, l'odor dei capelli, lo inebriavano. Quanto,
quanto, quanto la amava... Ma, a un tratto, la sentì singhiozzare. Si provò a
sollevarle con tutt'e due le mani il capo che si affondava su lui; non ne ebbe
la forza, e si volse, stordito, al dottor Sià. Questi accorse e costrinse la
signora a strapparsi dal letto; la condusse, sorreggendola in quella crisi
violenta di pianto, fuori della camera; poi ritornò presso il convalescente.
- Perché? - domandò il Corsi,
sconvolto.
Un pensiero gli attraversò la
mente, in un baleno. Senza badare alla risposta del medico, il Corsi richiuse
gli occhi, trafitto. «Non mi perdona» pensò.
VII.
Alle notizie di miglioramento, di
prossima guarigione era cresciuta la sorveglianza alla casa del ferito. Il
dottor Vocalòpulo, temendo che l'autorità giudiziaria desse intempestivamente
l'ordine che fosse tradotto in carcere, pensò di recarsi da un avvocato amico
suo e del Corsi, e a cui il Corsi certamente avrebbe affidato la sua difesa,
per pregarlo di andare insieme dal questore a impegnar la loro parola, che
l'infermo non avrebbe in alcun modo tentato di sottrarsi alla giustizia.
L'avvocato Camillo Cimetta
accettò l'invito. Era un uomo sui sessant'anni, smilzo, altissimo di statura,
tutto gambe. Gli spiccavano stranamente nel volto squallido, giallognolo,
malaticcio, gli occhietti neri, acuti, d'una vivacità straordinaria. Dotto più
di filosofia che di legge, scettico, oppresso dalla noja della vita, stanco
delle amarezze che essa gli aveva procacciate, non aveva mai posto alcun
impegno a guadagnarsi la grandissima fama di cui godeva e che gli aveva
procurato una ricchezza di cui non sapeva più che farsi. La moglie, donna
bellissima, insensibile, dispotica, che lo aveva torturato per tanti anni, gli
s'era uccisa per neurastenia; l'unica figliuola gli era fuggita di casa con un
misero scritturale del suo studio ed era morta soprapparto, dopo aver sofferto
un anno di maltrattamenti dal marito indegno. Era rimasto solo, senza più scopo
nella vita, e aveva rifiutato ogni carica onorifica, la soddisfazione di far
valere le sue doti non comuni in una grande città. E mentre i suoi colleghi si
presentavano al banco dell'accusa o della difesa armati di cavilli, abbottati
di procedura, o si empivano la bocca di paroloni altisonanti, egli, che non
poteva soffrire la toga che l'usciere gli poneva su le spalle, si alzava con le
mani in tasca e si metteva a parlare ai giurati, ai giudici, con la massima
naturalezza, alla buona, cercando di presentare con la maggiore evidenza
possibile qualche pensiero che potesse logicamente far loro impressione;
distruggeva con irresistibile arguzia le magnifiche architetture oratorie de'
suoi avversarii, e riusciva così talvolta ad abbattere i confini formalistici
del tristo ambiente giudiziario, perché un'aura di vita vi spirasse, vi
passasse un soffio doloroso di umanità, di pietà fraterna, oltre e sopra la
legge, per l'uomo nato a soffrire, a errare.
Ottenuta dal questore la promessa
che la traduzione in carcere non sarebbe avvenuta se non dopo il consenso del
medico, egli e il dottor Vocalòpulo si recarono insieme alla casa del Corsi.
In pochi giorni Adriana si era
cangiata così, che non pareva più lei.
- Eccole, signora, il nostro caro
avvocato, - le disse il Vocalòpulo. - Sarà meglio preparare a poco a poco il
convalescente alla dura necessità...
- E come, dottore? - esclamò
Adriana. - Pare che egli non ne abbia ancora il più lontano sospetto. È come un
fanciullo... si commuove per ogni nonnulla... Giusto questa mattina mi diceva
che, appena in grado di muoversi, vuole andare in campagna, in villeggiatura
per un mese...
Il Vocalòpulo sospirò, stirandosi
al solito il naso. Stette un po' a pensare, poi disse:
- Aspettiamo qualche altro
giorno. Intanto facciamogli vedere l'avvocato. Non è possibile che il pensiero
della punizione non gli si affacci.
- E lei crede, avvocato, -
domandò Adriana, - crede che sarà grave?
Il Cimetta chiuse gli occhi, aprì
le braccia. Gli occhi di Adriana si riempirono di lagrime.
Giunse, in quella, dall'altra
stanza la voce dell'infermo. Subito Adriana accorse.
- Mi permettano!
Tommaso le tendeva le braccia dal
letto. Ma appena le vide gli occhi rossi di pianto, le prese un braccio e,
nascondendovi il volto, le disse:
- Ancora, dunque? non mi perdoni
ancora?
Adriana strinse le labbra
tremanti, mentre nuove lagrime le sgorgavano dagli occhi; e non trovò in prima
la voce per rispondergli.
- No? - insistette egli, senza
scoprire il volto.
- Io sì, - rispose Adriana,
angosciata, timidamente.
- E allora? - ripigliò il Corsi,
guardandola negli occhi lagrimosi.
Le prese il volto tra le mani, e
aggiunse:
- Lo comprendi, lo senti, è vero?
che tu mai, mai, nel mio cuore, nel mio pensiero, non sei venuta mai meno, tu
santa mia, amore, amore mio...
Adriana gli carezzò lievemente i
capelli.
- È stata un'infamia! - riprese
egli. - Sì, è bene, è bene che te lo dica, per togliere ogni nube fra noi.
Un'infamia sorprendermi in quel momento vergognoso, di stupido ozio... Tu lo
comprendi, se mi hai perdonato! Stupido fallo, che quel disgraziato ha voluto
rendere enorme, tentando d'uccidermi, capisci? due volte... Uccider me, proprio
me, che dovevo per forza difendermi... perché... tu lo comprendi! non potevo
lasciarmi uccidere per quella lì, è vero?
- Sì, sì, - diceva Adriana,
piangendo, per calmarlo, più col cenno che con lavoce.
- È vero? - seguitò egli con
forza. - Non potevo... per voi! Glielo dissi; ma egli era come impazzito,
tutt'a un tratto; m'era venuto sopra, con l'arma in pugno... E allora io, per
forza...
- Sì, sì, - ripeté Adriana,
ringojando le lagrime. - Calmati, sì... Queste cose...
S'interruppe, vedendo il marito
abbandonarsi sfinito sui guanciali, e chiamò forte:
- Dottore! Queste cose, - seguitò
alzandosi e chinandosi sul letto, premurosa, - tu le dirai... le dirai ai
giudici, e vedrai che...
Tommaso Corsi si rizzò
improvvisamente su un gomito e guardò fiso il dottore e il Cimetta che gli si
facevano incontro.
- Ma io, - disse, - eh già... il
processo...
Allividì. Ricadde sul letto,
annichilito.
- Formalità... - si lasciò cadere
dalle labbra il Vocalòpulo, accostandosi di più al letto.
- E quale altra punizione, - fece
il Corsi, quasi tra sé, guardando il soffitto con gli occhi sbarrati, - quale
altra punizione maggiore di quella che mi son data io, con le mie mani?
Il Cimetta trasse una mano dalla
tasca e agitò l'indice in segno negativo.
- Non conta? - domandò il Corsi.
- E allora?... - si provò a replicare; ma si riprese: - Eh già! Sì, sì... Ci
credi? Mi pareva che tutto fosse finito... Adriana! - chiamò, e le buttò di
nuovo le braccia al collo. - Adriana! Sono perduto!
Il Cimetta, commosso, tentennò a
lungo il capo, poi sbuffò:
- E perché? per una minchioneria
di passata. Sarà difficile, difficilissimo, caro dottore, farne capace quella
rispettabile istituzione che si chiama giuria. Non tanto, vedete, per il fatto
in sé, quanto perché si tratta d'un sostituto procuratore del re. Se fosse
almeno possibile dimostrare che delle corna precedenti il poveretto s'era già
accorto! Ma i mezzi? Un morto non si può chiamare a giurare su la sua parola
d'onore... L'onore dei morti se lo mangiano i vermi. Che valore può avere
l'induzione contro la prova di fatto? Del resto, siamo giusti: su la propria
testa ciascuno è padrone di accoglier quelle corna che gli garbano. Le tue,
caro Tommaso, è chiaro, non le volle. Tu dici: «Ma potevo lasciarmi uccidere da
lui?». No. Ma se volevi rispettato questo diritto di non aver tolta la vita,
non dovevi andare a prendergli la moglie, quella bertuccia vestita! Così facendo,
- bada, io vedo adesso le ragioni dell'accusa, - tu stesso hai derogato al tuo
diritto, ti sei esposto al rischio, e non dovevi perciò reagire. Capisci? Due
falli. Del primo, dell'adulterio, dovevi lasciarti punire da lui, dal marito
offeso; e tu invece l'hai ucciso...
- Per forza! - gridò il Corsi,
levando il volto rabbiosamente contratto. - Istintivamente! Per non farmi
uccidere!
- Ma subito dopo, invece, -
rimbeccò il Cimetta - hai tentato di ucciderti con le tue mani.
- E non deve bastare?
Il Cimetta sorrise.
- Non può bastare. È anzi a tuo
danno, caro mio! Perché, tentando d'ucciderti, hai implicitamente riconosciuto
il tuo fallo.
- Sì! E mi sono punito!
- No, caro, - disse con calma il
Cimetta. - Hai tentato di sottrarti alla pena.
- Ma togliendomi la vita! -
esclamò, infiammato, il Corsi. - Che potevo fare di più?
Il Cimetta si strinse nelle
spalle, e disse:
- Avresti dovuto morire. Non
essendo morto...
- Ma sarei morto, - riprese il
Corsi, allontanando la moglie e additando fieramente il dottor Vocalòpulo, -
sarei morto, se lui non avesse fatto di tutto per salvarmi!
- Come... io? - balbettò il
Vocalòpulo, tirato in ballo quando meno se l'aspettava.
- Voi! Sì. Per forza! Io non
volevo le vostre cure. Per forza avete voluto prodigarmele, ridarmi la vita. E
perché, dunque, se ora...
- Con calma, con calma... - disse
il Vocalòpulo, sorridendo nervosamente a fior di labbra, costernato. - Vi fate
male, agitandovi così...
- Grazie, dottore! Quanta
premura... - sghignò il Corsi. - Vi sta tanto a cuore l'avermi salvato? Ma
senti, Cimetta, senti! Io voglio ragionare. M'ero ucciso. Viene un dottore,
codesto nostro dottore. Mi salva. Con qual diritto mi salva? con qual diritto
mi ridà la vita ch'io m'ero tolta, se non poteva farmi rivivere per le mie
creaturine, se sapeva ciò che m'aspettava?
Il Vocalòpulo tornò a sorridere
nervosamente, intorbidandosi in volto.
- Dopo tutto, - disse, - è un bel
modo di ringraziarmi, codesto. Che dovevo fare?
- Ma lasciarmi morire! - proruppe
il Corsi, - se non avevate il diritto di sottrarmi alla pena ch'io m'ero data,
molto maggiore del mio fallo! Non c'è più pena di morte; e io sarei morto,
senza di voi. Ora come faccio io? Di che debbo ringraziarvi?
- Ma noi medici, scusate, -
rispose, smarrito, il Vocalòpulo, - noi medici non abbiamo di questi diritti:
noi medici abbiamo il dovere della nostra professione. E me n'appello
all'avvocato qua presente.
- E in che differisce, allora, -
domandò con amaro scherno il Corsi, - codesto vostro dovere da quello d'un
aguzzino?
- Oh insomma! - esclamò,
scrollandosi tutto, il Vocalòpulo, - vorreste che un medico passasse sopra la
legge?
- Ah, bene! Voi dunque la legge
avete servito, - riprese il Corsi, con foga rabbiosa. - La legge; non me,
poveretto... Mi ero tolta la vita; voi me l'avete ridata a forza. Tre, quattro
volte tentai di strapparmi le fasce. Voi avete fatto di tutto per salvarmi, per
ridarmi la vita. E perché? Perché la legge, ora, di nuovo me la ritolga, e in
un modo più crudele. Ecco: a questo, dottore, vi ha condotto il dovere della
vostra professione. E non è un'ingiustizia?
- Ma, scusa, - si provò a
interloquire il Cimetta, - del male che hai fatto...
- Mi sono lavato, col mio sangue!
- compì subito la frase il Corsi, tutto acceso e vibrante. Io sono un altro,
ora! Io sono rinato! Come posso restar sospeso a un solo momento di quell'altra
mia vita che non esiste più per me? sospeso, agganciato a quel momento, come se
esso rappresentasse tutta la mia esistenza, come se io non fossi mai vissuto
per altro? E la mia famiglia? mia moglie? i miei figli, a cui devo dare il
pane, la riuscita? Ma come! come! Che volete di più? Non avete voluto che
morissi... E allora perché? Per vendetta? Contro uno che s'era ucciso...
- Ma che pure ha ucciso! -
ribatté forte il Cimetta.
- Trascinato! - rispose; pronto,
il Corsi. - E il rimorso di quel momento io me lo son tolto; in un'ora, io
scontai il mio fallo; in un'ora che poteva esser lunga quanto l'eternità. Ora
non ho più nulla da scontare, io! Questa è un'altra vita per me, che m'è stata
ridata. Debbo rimettermi a vivere per la mia famiglia, debbo rimettermi a
lavorare per i miei figliuoli. M'avete ridato la vita per mandarmi in galera? E
non è un atroce delitto, questo? E che giustizia può esser quella che punisce a
freddo un uomo ormai privo di rimorsi? come starò io in un reclusorio a
scontare un delitto che non ho pensato di commettere, che non avrei mai
commesso, se non vi fossi stato trascinato; mentre, meditatamente, ora, a
freddo, coloro che approfitteranno della vostra scienza, dottore, la quale mi
ha tenuto per forza in vita solo per farmi condannare, commetteranno il delitto
più atroce, quello di farmi abbrutire in un ozio infame, e di fare abbrutire
nei vizii della miseria e nell'ignominia i miei figliuoli innocenti? Con quale
diritto?
Si rizzò sul busto, sospinto da
una rabbia che il sentimento della propria impotenza rendeva feroce: cacciò un
urlo e s'afferrò con le dita artigliate la fascia e se la stracciò; poi si
riversò bocconi sul letto, convulso; tentò di scoppiare in singhiozzi, ma non
poté. Nella vanità di quello sforzo tremendo, rimase un tratto stordito, come
in un vuoto strano, in un attonimento spaventevole. Diventò cadaverico nel
volto segnato dallo strappo recente delle dita.
Adriana spaventata, accorse; gli
sollevò prima il capo, poi, ajutata dal Cimetta; si provò a rialzarlo, ma
ritrasse subito le mani con un grido di ribrezzo e di terrore: la camicia, sul
petto, era zuppa di sangue.
- Dottore! Dottore!
- Gli s'è riaperta la ferita! -
esclamò il Cimetta.
Il dottor Vocalòpulo sbarrò gli
occhi, impallidì, allibito.
- La ferita?
E, istintivamente, s'appressò al
letto. Ma il Corsi lo arrestò d'un subito, con gli occhi invetrati.
- Ha ragione, - disse allora il
dottore, lasciandosi cader le braccia. - Hanno sentito? Io non posso, non
debbo...
La
pièce teatrale fu edita col titolo definitivo Il dovere del medico sul mensile Noi
e il mondo del gennaio 1912 e
fu rappresentata il 20 giugno dell’anno successivo alla Sala Umberto di Roma
dalla Compagnia del Teatro per Tutti. Il dramma entrò senza variazioni nella
raccolta definitiva Maschere
Nude.
La novella si presenta suddivisa
in sette segmenti e solamente l’ultimo corrisponde in parte all’atto unico:
nell’atto, per i primi sei, il drammaturgo utilizza dei flash-back che riescono
a far comprendere l’antefatto senza appesantire la narrazione. La somiglianza
tra il settimo paragrafo della novella e l’atto è convalidata non soltanto dal
punto di vista contenutistico ma anche da quello formale. Le ultime cinque
pagine della novella sono interamente dialogate, anche se il dialogo non segue
alla lettera quello dell’atto, ma le battute sono quasi simili fatta eccezione
per qualche spostamento nell’ordine.
La novella si svolge in più tempi
mentre l’atto inizia dopo che l’omicidio-suicidio è avvenuto e la moglie del
Corsi risulta già essere informata dei fatti. Nella novella, la moglie Adriana
(nell’atto si chiamerà Anna), risultava essere ignara dell’accaduto e come i
lettori apprendeva il fattaccio da sua madre, accorsa per prelevare figlia e
nipoti dalla casa dello scandalo.
Nella
pièce teatrale, pur restando identico l’antefatto, esso è soltanto
espresso dalle battute dei personaggi, con la conseguente riduzione del tempo
della messa in scena: pochi momenti – solo gli ultimi di cui parla il VII
segmento – al posto dei giorni e delle notti descritti nella novella.
Tutti i personaggi, tranne il
protagonista maschile, cambiano nome, mentre cadono addirittura quelli
secondari e le semplici comparse. La visione della vita dell’avvocato e del dottore
non è più rappresentata in una contrapposizione così netta come nella novella.
Infine le idee sulla “colpa” di Angelica
e le conseguenti riflessioni espresse da Tommaso solo nella novella, precorrono
opere successive, dove compare la figura del ragionatore che usa la logica per
convincere personaggi e lettori a guardare la realtà in modo non convenzionale.
Nell’atto, come si può ben comprendere,
sono state tagliate quelle parti che sarebbero risultate difficoltose per una
messa in scena a causa dei frequenti
cambi d’ambientazione e soprattutto perché presupponevano una scansione
cronologica troppo lunga, impensabile per un atto unico che presenta l’unità
spaziale e temporale.
La collocazione geografica, una città dell’Italia meridionale
è poi esplicitamente rivelata, in una sala di passaggio della casa di Tommaso,
dove il convalescente è trasportato, per evitare gli altrimenti necessari cambi
di scena.
Dei primi tre segmenti della
novella non si ha nessuna traccia nella trasposizione teatrale, mentre
degli altri tre permangono solo alcuni brani esplicativi dell’antefatto. Mentre
l’attenzione che il testo narrativo presta alle varie implicazioni morali
dell’accaduto l’atto unico si sofferma maggiormente su quello che è il
principale dovere del medico,
che non a caso dà il titolo alle due stesure.
E proprio per quanto riguarda il
titolo, esso indica lo spostamento dell’attenzione dell’autore. Più filosofico
l’originario Il gancio, infatti,
indicava la sospensione esistenziale cui si rimane appunto agganciati per l’eternità a causa di quello che è invece un momento
passeggero di debolezza che non implica affatto il comportamento di tutta una
vita. Un qualcosa che ricorda un po’ i dannati dell’Inferno dantesco su cui Pirandello tornerà
successivamente con le battute del Padre nei Sei
Personaggi.
I temi più sviluppati
specialmente nella versione teatrale, che condizionano anche il cambiamento del
titolo, sono fondamentalmente tre: 1.
la società ha il diritto di giudicare un uomo per un solo atto, soprattutto se
l’individuo non si riconosce in esso? 2. Si
può determinare il carattere di un uomo con una sola azione? 3. Chi decide, l’individuo o la
società?
Il dovere del medico
Un atto 1911
PERSONAGGI
Tommaso Corsi
Anna, sua moglie
La signora Reis, madre di Anna
Il dottor Tito Lecci
L'avvocato Franco Cimetta
Rosa, cameriera
Un Questurino
Un Infermiere, che non parla
In una città dell'Italia meridionale, Tempo presente.
Una stanza di passaggio in casa Corsi, con armadii, un lavabo,
un'ottomana, una grande antica poltrona, una gruccia con abiti appesi,
seggiole, ecc. ecc. ‑ Una finestra guarnita con tende a sinistra dello
spettatore). Due usci: uno, in fondo, che dà nella camera da letto; l'altro, a
destra: entrambi con tende.
Al levarsi della tela sono in iscena la signora Reis e il Questurino:
questi, seduto presso l'uscio a destra, di guardia, in atteggiamento di
stanchezza e di noja; quella, in piedi, presso l'ottomana, cupa arcigna
impaziente: è vestita di nero, con la cuffia vedovile sui capelli lanosi; gli
occhi, sotto le folte ciglia aggrottate, le lampeggiano d'odio e di diffidenza
nel volto pallido e aspro, contratto e macerato dall'angoscia e dai dolori. t
lì, evidentemente, in attesa; e due o tre volte guata il Questurino di guardia,
come se volesse domandargli qualche cosa, ma si trattiene.
Signora Reis (alla fine risolvendosi, con durezza): Farete
qua la guardia ancora per molto tempo?
Questurino: No, signora. Forse
finiremo oggi.
Signora Reis: Ah, oggi?
Finalmente! Ve lo porterete via?
Questurino: Non lo so di certo.
Mi pare d'aver sentito dire così.
Entra dall'uscio di fondo Rosa, che subito cautamente lo richiude, e
dice alla signora Reis:
Rosa: Ecco, viene subito.
Indica l'uscio da cui è entrata e va via per l'uscio a destra.
Pausa d'attesa, piuttosto lunga. Alla fine, l'uscio in fondo si riapre,
e appare Anna, che subito con la stessa cautela lo richiude. Ha circa
trent'anni; disfatta nella disperazione d'un cordoglio atroce, spettinata, con
gli occhi quasi bruciati dal pianto e dalle veglie. Accorre alla madre, con le
braccia aperte; si abbandona su lei, soffocando i singhiozzi irrompenti.
Anna: Mamma, mamma mia! mamma
mia!
Si domina, si stacca dalla madre e si volge al Questurino:
Non potrebbe, scusi, ritirarsi un
momento? stare anche dietro l'uscio dall'altra parte?
Questurino: Veramente, l'ordine
che ho io è di crescere, non di scemare la sorveglianza.
Anna: Ma se non può neanche
muoversi da sé sul letto!
Questurino (perplesso): Capisco, ma...
Risolvendosi:
Per un momentino, sissignora.
Anna: Grazie. Prenda pure di là
codesta seggiola.
Il Questurino s'inchina e si ritira dietro l'uscio a destra, con la
sedia.
Anna (rivolgendosi alla madre e riabbracciandola): Ah, mamma! Ti
sono tanto riconoscente che tu sia ritornata! No, non ti rimprovero d'avermi
lasciata sola.
Signora Reis: Non volesti
seguirmi; volesti rimanere qua, ad assistere a queste belle scene; per ridurti
in codesto stato!
Anna: Ma come avrei potuto
lasciarlo, mamma; che dici? Ti ringrazio d'aver portato via con te i ragazzi.
Come stanno? Didi? Federico?
Signora Reis: Stanno bene.
Anna: Anche Didi?
Signora Reis: Tutti e due. Ma
verrai via presto anche tu, a quanto pare. M'hanno detto che se lo porteranno
via oggi.
Anna (stupita, costernatissima): Oggi? Chi te l'ha detto?
Signora Reis: La guardia.
Anna: Oggi? Ma non è possibile!
T'ha detto così?
Corre all'uscio a destra e chiama il Questurino:
Senta, venga qua.
E subito al Questurino che rientra impacciato:
Ma come, oggi? Ve lo porterete
via oggi?
Questurino: Sicuro non lo so,
signora. Mi pare d'avere inteso così.
Anna: Ma se è ancora a letto! La
ferita non è ancora rimarginata. Il medico non lo permetterà. È ancora sotto la
responsabilità del medico. Jersera appunto ha detto che oggi per la prima volta
vedrà se potrà farlo alzare per qualche minuto.
Signora Reis: Se già può alzarsi!
Anna: Ma che! Non si regge in
piedi! Neanche a sedere sul letto, se non è tenuto.
Ritorna presso l'uscio, a destra, e chiama:
Rosa! Rosa!
Alla madre e al Questurino:
Sarebbe un'infamia!
E subito a Rosa, che si presenta all'uscio a destra:
Manda subito Enrico a casa del
dottore a dirgli che venga qua; subito, senza perder tempo.
Rosa: Ho capito. Sissignora.
Via.
Anna: Proprio in questo momento,
che comincia a riaversi appena! Dopo aver fatto tanto per salvarlo!
Questurino: Io sto qua agli
ordini, signora. Posso per un momento ritirarmi.
Anna: Ma sì, stia sicuro: non può
muoversi.
Il Questurino torna a ritirarsi.
Anna (aprendo le braccia e levando il volto, disperatamente): Anche
questo! Dopo tanto strazio, quest'altro strazio!
Signora Reis: Non ha voluto
morire! Assassino.
Anna: Ah, mamma, tu l'odii: tu
non gli perdoni.
Signora Reis (con aspra foga): L'odio, sì, l'odio
per tutto quello che t'ha fatto patire, per l'ignominia che ha gettato su te,
sui figli, su tutta la mia casa! E ancora non è finita! Poteva almeno morire!
Anna: Sarebbe stato meglio,
certo, anche per lui, che fosse morto sul colpo. Ma credi, mamma, che egli
volle morire.
Signora Reis: Io vedo questo: che
il Neri, sì, lo seppe uccidere; e lui è ancora vivo là.
Anna: Si tirò al cuore.
Signora Reis: Alla testa doveva
tirarsi, alla testa!
Anna: E tre, quattro volte s'è
strappate le fasce dal petto. Hanno voluto salvarlo i medici, per forza. Quel
che hanno fatto, notte e giorno qua, attorno a lui! Ma credi, credi che ha
fatto anche lui di tutto per morire.
Signora Reis: Sfido! Sa quello
che lo aspetta!
Anna: No, mamma. Per punirsi. Tu
non sai vedere altro che il fatto.
Signora Reis: Non è più, forse,
un assassino, perché ha voluto morire? Non ha ucciso il Neri? Non ti tradiva
con la moglie del Neri?
Anna: Sì, Sì.
Signora Reis: Dici ch'io vedo
soltanto i fatti!
Anna: Ma ci sono pure tante cose
che tu non puoi sapere e che io so.
Signora Reis: Ecco che parli come
lui! Dio, mi par di sentirlo! I fatti che non sono fatti: sacchi vuoti che non
si reggono... Così, così t'ha sempre ingannata, accecata...
Anna: Ma no, mamma.
Signora Reis: Sì, sì, accecata,
accecata.
Anna: Era una furia di vivere, la
sua, senza riflettere.
Signora Reis: Senza scrupoli!
Anna: Sì, come vuoi. Mi sono
fermata tante volte per giudicare tra me e me qualche sua azione; ma non dava
tempo al giudizio, come non dava peso ai suoi atti. Inutile richiamarlo
indietro a considerare il mal fatto. Una scrollata di spalle, un sorriso, e
via. Bisognava che andasse avanti, comunque, senza indugiarsi a riflettere tra
il bene e il male.
Signora Reis: Ah, lo sai dire!
Anna: Ma in questa sua furia
continua, vedi, nessun vizio gli s'era mai attaccato: restava schietto; e
sempre lieto; con tutti alla mano. A trent'otto anni, un fanciullo, capace di
mettersi a giocare sul serio con Didi e Federico, fino ad arrabbiarsi; e dopo
dieci anni, ancora con me... ancora... No, no... Forse qualche torto
passeggero, qualche inganno... Ma che mentisse con me, no: la menzogna, no; non
poteva mentire con quelle labbra, con quegli occhi, con quel sorriso che
rallegrava tutti i giorni la casa. Angelica Neri? Ma vuoi sul serio che mi
abbassi fino a credere che Tommaso, tra me e lei... Guarda, non era per lui
nemmeno un capriccio; niente, la prova soltanto d'una debolezza nella quale forse
nessun uomo sa o può guardarsi dal cadere. E non poteva farsi scrupolo neppure
dell'amicizia col marito, che sapeva bene che razza di donna fosse sua moglie e
lo strazio che faceva del suo onore, con tutti, apertamente. Ma se qua, ti dico
qua, in casa nostra, sotto gli occhi di lui, sotto i miei stessi occhi, cercava
di sedurre Tommaso, con quei lezii da scimmia malata: qua, qua. Me ne sono
accorta io, e lui no? Ne abbiamo tanto riso insieme, io e Tommaso! Sì, sì: ne
ridevamo! ne ridevamo!
Scoppia, irrefrenabilmente, in una convulsione di riso e pianto
insieme.
Signora Reis: Figliuola mia,
figliuola mia! Tu impazzisci!
Anna: Mi fai impazzire tu! I
fatti... i fatti... i fatti sono questi, che lui sapeva, e non solo di Tommaso,
ma di tutti; e non se n'era mai curato. All'ultimo ha voluto far questa
tragedia, mentre doveva uccidere soltanto la moglie, come una cagna arrabbiata,
e non l'avrebbe pagata niente! I fatti... Ma allora possono anche dire che
Tommaso portava la rivoltella per il Neri? Mentre l'ha sempre portata per i
suoi lavori d'appalto in campagna.
Entrano a questo punto il dottore Tito Lecci e l'avvocato Franco
Cimetta: il primo, alto, rigido, conforti lenti da miope; il secondo, più
vecchio, con un'arguta barbetta quasi bianca e capelli lunghi ancor neri, volti
all'indietro.
Anna: Ah, ecco il dottore! C'è
anche lei, avvocato?
Lecci: Questa chiamata
improvvisa... Che c'è di nuovo?
Anna (indicando la madre a Cimetta): La mamma.
Poi, volgendosi al Lecci:
Ah, dottore, mi vogliono fare
impazzire. Se lo vogliono portar via oggi!
Lecci: Ma no, chi l'ha detto?
Anna: La guardia, là. Glielo
domandi. Ha detto così.
Lecci: Oh, l'impediremo, stia
tranquilla: l'impediremo. Andrò io, ora stesso, dal Commissario. Verrai anche
tu, Cimetta?
Anna: Sì, sì, vada, vada anche
lei, avvocato!
Cimetta: Per me, pronto: ora
stesso. È qua a due passi.
Lecci: Non se ne dia pensiero.
Senza il mio consenso, non possono portarlo via. Eh, non ci mancherebbe altro,
in questo momento.
A Cimetta:
Abbiamo operato un miracolo,
amico mio, un vero miracolo.
Anna: Lo vedi, mamma, se è vero?
Più che su lui, contro di lui.
Lecci (senza dare importanza alla cosa): Già, sa. Qualche resistenza.
Forse nel delirio. La resistenza vera, caro mio, l'ho trovata in un cumulo di
complicazioni, una più grave dell'altra e inopinate, che costringevano a ripari
improvvisi e spesso opposti tra loro, e tutti d'un tale rischio che, credi
pure, avrebbero scoraggiato e fatto indietreggiare chiunque altro al mio posto.
Se per un momento mi fossi lasciato vincere dalla minima esitazione, da una
perplessità, addio! Posso dire di non aver mai avuto dall'esercizio della mia
professione una soddisfazione uguale a questa.
Cimetta (ad Anna): Io le chiedo scusa,
signora, se non sono venuto prima a condolermi con lei. Ma creda che sono
rimasto atterrato da questo scoppio inatteso che ha costernato tutta la città.
Finora qua c'è stato bisogno del medico. Ora che, purtroppo, ci sarà bisogno
anche di me, sono venuto, non chiamato, perché conosco la fiducia che Tommaso
ha sempre avuto in quel poco che valgo.
Lecci: Ho pregato io il nostro
caro amico di venire oggi con me, perché sarà bene cominciare intanto a
preparare il convalescente alla dura necessità a cui deve andare incontro.
Anna: Sarà orribile, dottore:
pare non ne abbia sospetto, almeno finora, come un bambino. Si commuove,
piange, ride di nulla. E proprio questa mattina mi diceva che, appena rimesso,
vuol andare in campagna, in villeggiatura, per un mese.
Signora Reis: Eh sì, proprio in
villeggiatura!
Cimetta: Povero Tommaso!
Lecci: Aspettiamo ancora qualche
giorno. Intanto, gli faremo vedere l'avvocato. Non è possibile che il pensiero
della responsabilità non gli s'affacci.
Anna: E lei crede, avvocato, che
sarà grave?
Cimetta (chiudendo gli occhi, aprendo le braccia): Signora
mia...
Anna si copre il volto con le mani.
Lecci: Su, su, non è tempo adesso
di costernarci di questo! Per ora è tranquillo. Non ha notato nulla di nuovo da
jersera?
Anna: No, nulla.
Lecci: Bene. Vada allora di là e
si faccia ajutare dall'infermiere a vestirlo e a levarlo dal letto; pian piano,
eh? e veda un po' se, sorretto, potrà provarsi a muovere qualche passo. Noi
intanto, io e l'avvocato, passeremo dal Commissario. Saremo di ritorno tra
pochi minuti. Su, su, coraggio, signora Anna. Ne ha avuto tanto!
Anna (col volto tra le mani): Non ne ho più! non ne ho più!
Cimetta: E bisogna averne!
Lecci: La prego, signora.
Anna (dominandosi): Eccomi.
Si prova a sorridere.
Va bene così? Dunque, a
rivederla, avvocato.
Gli stringe la mano; poi, al dottore:
A rivederla. Tu, mamma?
Signora Reis (fosca, veemente): Io vado via, vado
via!
Anna: Eh, lo so...
Signora Reis: Addio.
Anna: I bambini. Salutameli.
Anna, via, per l'uscio in fondo.
Cimetta: Povera signora, non si
riconosce più!
Signora Reis (investendolo): Ma lo facciano andar
via subito! dentro, subito, quest'assassino! per pietà, per pietà della mia
povera figliuola!
Lecci: Sarà questione d'un
giorno, signora mia: se non oggi, domani.
A Cimetta:
È stata una concessione
straordinaria, lasciarlo qua, alle nostre cure fino ad ora: guardato, va bene,
ma anche con tutta la larghezza e la considerazione possibile; se pensiamo alla
qualità dell'ucciso!
Cimetta: È incredibile! Pare un
sogno, un incubo. Per quella donna là! Un uomo come quello, brutto, sbricio,
apatico; che si trascinava svogliato nella vita; che si sapeva da tanti anni
ingannato spudoratamente dalla moglie, e non se ne curava; che pareva penasse e
faticasse a guardare e tirar fuori quella sua vocetta molle, miagolante ‑
sissignori ‑ tutt'a un tratto, si sente muovere il sangue, e per chi? per
questo povero Tommaso.
Alla signora Reis:
Ma dica un po': Tommaso, come,
perché gli era amico?
Signora Reis: Per via del giudice
che fu trasferito, il giudice... come si chiamava? Làrcan, mi pare.
Cimetta: Ah, sì, il sostituto
procuratore Làrcan.
Signora Reis: Abitava qui, nel
quartierino accanto. Quando fu trasferito, scrisse al Neri che venne a
prenderne il posto, una lettera di presentazione a mio genero: così si
conobbero.
Cimetta: Mi pare che il Neri
tenne anche a battesimo un figlio di Tommaso.
Signora Reis: Sì, l'ultimo:
quello che morì.
Cimetta (a
Lecci): Capisci? Anche jettatore. Si può esser certi che, seccato com'era
sempre, sarà stata magari un regalo per lui, la morte. E intanto qua adesso
tutta una famiglia nel baratro.
Anna rientra frettolosamente dall'uscio infondo.
Anna: Dica, dottore; si potrebbe
farlo uscire un po' dalla stanza? Lo chiede.
Lecci: Se può; ma senza il minimo
sforzo... veda lei... Con una sedia sotto mano, per il caso che gli mancassero
le gambe, mi raccomando.
Alla signora Reis:
Viene via anche lei, signora?
Signora Reis: Sì, eccomi. Passo
avanti. Addio, Anna.
Via per l'uscio a destra.
Lecci (dando il passo): Andiamo, avvocato. Passa, senza cerimonie.
Cimetta: A rivederla, signora.
Anna: A rivederla.
Al Lecci:
Per carità, dottore, dica alla
guardia di non farsi vedere.
Lecci: Non dubiti. Quantunque,
forse...
Anna: No! la guardia, no!
Lecci: E allora, si provi lei;
nessuno potrebbe meglio di lei.
Cimetta: Eh già!
Lecci: Cogliendo la prima
occasione.
Anna: E come? E come?
Lecci: Basta. Noi torneremo
subito. A rivederla.
Via, col Cimetta. Anna prepara il seggiolone per il convalescente
e rientra per l'uscio in fondo, lasciandolo aperto con la tenda tirata. Poco
dopo, sorretto da Anna e dall'infermiere, viene in iscena Tommaso Corsi. È alto
di statura e d'aspetto bellissimo. Ha il volto pallido come di cera, e un po'
scavato, ma gli occhi gli ridono, quasi infantilmente. Stenta a respirare; lo
stento del respiro è però sulle labbra bianche un sorriso dolce e mesto. Tiene
la giacca sulle spalle, con le maniche penzoloni. Dall'apertura della camicia
s'intravede il petto fasciato. Anna e l'infermiere lo conducono a sedere sul
seggiolone ed egli vi s'abbandona con un sospiro di sollievo.
Tommaso: Ah, com'è bello qua. Ma
guarda quante cose che mi pajono nuove. Il lavabo, già. E il mio armadio. E
questo è il mio seggiolone dei giornali.
Riguarda attorno i mobili.
Stavano qua, zitti.
Indica l'armadio.
Ma quello, se lo apri, strilla.
Alla moglie:
Aprilo, aprilo: fammi sentire.
Ha come una trafittura:
Ahi!
Anna: Che è stato?
Tommaso: Niente. Mi sono mosso
male. È passato. Aspetta. M'appoggio. M'appoggio alla spalliera.
Anna: Sarà meglio, dietro le
spalle, un cuscino.
Tommaso: No. Cioè, forse sì.
L'infermiere corre a prendere di là un cuscino.
Anna (gridandogli dietro): E prendete anche una coperta!
Tommaso: Quella verde che è sul
letto.
Anna (facendosi all'uscio di fondo): Codesta del letto, sì.
L'infermiere rientra col cuscino e la coperta verde. Anna aggiusta
sulla spalliera del seggiolone il cuscino, mentre l'infermiere stende sulle
gambe del convalescente la coperta.
Tommaso (carezzando con le mani la coperta): Questa,
questa. Se sapessi quanto le voglio bene. I sogni che m'ha fatto fare. Quando
su questo verde mi rividi la mano. Poi la levai. Era anche più bianca. Mi
tremava tutta. Ah, mi sentivo come in un vuoto. In un vuoto però tranquillo,
soave, come di sogno. E mi pareva tutto lontano. Lontano, lontano. E questa
peluria verde qua mi pareva la campagna. I fili d'erba d'un prato infinito. E
ci vivevo in mezzo, beato, vaneggiando in una delizia che non ti so dire. Tutto
nuovo. La vita ricominciava adesso. Forse era rimasta sospesa anche per gli
altri. Ma no: ecco: sentivo passare una vettura. No, ecco ‑ mi dicevo ‑ fuori,
per le vie, la vita in tutto questo tempo ha seguitato ad andare. Questo mi
contrariava. E allora mi rimettevo a guardare questa coperta: qua la vita, sì,
ricominciava veramente, con tutti questi fili d'erba. E anche così per me ricominciava.
Ah, se potessi respirare un po' d'aria fresca!
Si volta a guardare la moglie.
Tu piangi?
Anna (voltando il capo per non farsi scorgere): No, non ci badare.
Tommaso (all'infermiere, quasi in un sorriso): Piange.
Pausa.
Per piacere, andate un momento di
là.
L'infermiere se ne va per l'uscio in fondo.
Tommaso: Anna.
E come Anna si rivolge sollecita e si china a guardarlo con gli occhi
lacrimosi:
Perché?
Pausa. Poi, esitante:
Ancora... ancora dunque non mi
perdoni?
Le prende una mano e se la posa sugli occhi. Anna stringe le labbra
tremanti, mentre nuove lagrime le sgorgano dagli occhi, e non trova la voce per
rispondergli. Egli allora si leva dagli occhi la mano di lei, e le domanda:
No?
Anna (angosciata, timidamente): Io, sì... io, sì.
Tommaso: E allora?
Prendendole il volto tra le mani e accostandolo al suo con tenerezza
infinita:
Lo comprendi, lo senti che è
vero, se ti dico che mai, mai nel mio cuore, nel mio pensiero, mai sei venuta
meno, tu santa mia, amore, amore mio.
Anna (staccandosi lievemente, perché egli possa prendere una posizione più
comoda, e carezzandogli con una mano i capelli): Sì, sì, zitto. Così
ti affanni troppo.
Tommaso: È stata un'infamia.
Anna: Zitto, per carità: non ci
pensare.
Tommaso: No, è bene che te lo
dica.
Anna: Non voglio sentir nulla,
no; non mi dir nulla. Io so. So tutto.
Tommaso: Per togliere ogni nube
tra noi.
Anna: Ma non ce n'è.
Tommaso: Un'infamia, sorprendermi
in quel momento vergognoso, di stupido ozio.
Anna: Basta, basta, per carità,
Tommaso.
Tommaso: Tu lo comprendi, se è
vero che m'hai perdonato.
Anna: Sì, sì, basta.
Tommaso: Stupido fallo, che quel
disgraziato ha voluto rendere enorme, tentando d'uccidermi, due volte.
Anna: Lui? ah sì?
Tommaso: Due volte. Mi venne
sopra, con l'arma in pugno, e mi tirò, per uccidermi. Mi vidi costretto,
costretto a difendermi. Per forza. Non potevo ‑ tu lo comprendi ‑ lasciarmi
uccidere per quella lì. Non potevo, per voi. E glielo dissi. Ma era come
impazzito; addosso a me. E io non riuscivo a balzare in piedi, a levarmi da
quel letto lì, per... per vergogna. Mi sparò un primo colpo, che infranse il
vetro del quadro al capezzale. Mi volto e gli grido: «Che fai?» quasi ridendo;
tanto mi pareva impossibile ch'egli non comprendesse ch'era un'infamia, una
pazzia uccidermi a quel modo, in quel momento, uccidere me che non volevo esser
lì: c'ero per caso, chiamato da quella, con una scusa.
Anna: Vedi come ti agiti? Basta,
Tommaso, per carità. Ti fai male.
Tommaso: Avevo tutta la mia vita
fuori di lì: te, i miei figli da difendere, i miei affari. Mi sibila in faccia
un secondo colpo. Ah sì? Eh via, disgraziato! Ma non ricordo d'aver tirato su
lui. Cadde con un tonfo a sedere sul pavimento. Poi si ripiegò bocconi.
M'accorsi allora d'aver l'arma ancora calda e fumante in pugno. Sentii salirmi
dal petto... non so, una cosa torbida, atroce: Guardai il cadavere per terra;
la finestra donde quella s'era buttata; udii i clamori della via sottostante,
e... e con quell'arma stessa...
S'abbandona, spossato, sulla spalliera.
Anna: Vedi, vedi che male ti fai,
Tommaso? Oh Dio!
Tommaso: Non è niente. Un po' di
stanchezza.
Anna: Vuoi tornare a letto?
Tommaso: No, sto bene qui. È
passato. Sono forte abbastanza. Ora bisogna che mi rimetta subito. Volevo
soltanto dirti come ... com'è stato... e che per forza io...
Anna: Zitto, zitto, non
ricominciare. Queste cose tu ...
S'interrompe vedendo entrare il dottor Lecci e l'avvocato Cimetta.
Ah, ecco il dottore che ritorna.
Queste cose tu le dirai... le dirai ai giudici, e vedrai che...
Tommaso, a queste ultime parole di Anna che sta china su lui, si rizza
d'improvvìso su un gomito e guarda il Lecci e il Cimetta che si fanno avanti.
Tommaso: Ma io... Eh già... il
processo...
Illividisce; ricade sulla spalliera, annichilito.
Lecci (accostandosi): Su, su, formalità, formalità!
Tommaso (quasi tra sé, guardando il soffitto): E
quale altra punizione maggiore di quella che m'ero data io con le mie mani?
Cimetta (istintivamente, con un sospiro): Eh, caro, non basta.
Tommaso (scorgendolo e provandosi a replicare): Non basta? E allora...
Ma subito si riaccascia.
Eh già, sì... Ci credi? Mi pareva
che tutto fosse finito.
Buttando le braccia al collo di Anna, disperatamente:
Anna, Anna, sono perduto! sono
perduto!
Lecci: Ma no! ma no! ma perché?
chi l'ha detto?
Tommaso: Perduto. Il processo.
Ora m'arrestano. E come non ci ho pensato? Ma sì! E sarà tanto più grave ‑
di', di', Cimetta ‑ in quanto ho ucciso, non un povero disgraziato qualunque,
ma un sostituto procuratore del re, è vero?
Cimetta: Fosse almeno possibile
dimostrare che si era accorto dei precedenti torti della moglie!
Anna: Ma c'è la testimonianza di
tanti, avvocato!
Cimetta: Eh, ma non la sua! È un
morto, purtroppo, non si può chiamare a giurare sulla sua parola d'onore. Se lo
mangiano i vermi, signora mia, l'onore dei morti. Che valore può avere
l'induzione contro la prova di fatto? L'avrà saputo; ma il fatto dimostra il
contrario: che egli non ha voluto l'oltraggio e s'è ribellato. Tu dici: ‑ Ma
potevo io lasciarmi uccidere da lui? ‑ No. Ma se volevi rispettato codesto
diritto, di non aver tolta la vita, non dovevi farti trovare con sua moglie.
Così facendo, ‑ bada, io vedo adesso le ragioni dell'accusa ‑ tu stesso hai
derogato al tuo diritto, ti sei esposto al rischio, e non dovevi perciò
reagire. Capisci? Due colpe.
Tommaso (cercando d'interrompere): Ma io...
Cimetta: Lasciami dire. Della
prima, dell'adulterio, dovevi lasciarti punire da lui, dal marito offeso; e tu
invece l'hai ucciso.
Tommaso: Per forza!
Istintivamente! Per non farmi uccidere!
Cimetta: Ma subito dopo hai
tentato d'ucciderti con le tue mani!
Tommaso: E non deve bastare?
Cimetta: Non può bastare. È anzi
a tuo danno!
Tommaso: Ah sì? Per giunta?
Cimetta: Tentando d'ucciderti,
hai riconosciuto implicitamente la tua colpa.
Tommaso: Sì... E mi sono punito.
Cimetta: No, caro. Hai tentato di
sottrarti alla punizione.
Tommaso: Togliendomi la vita. Che
avrei potuto fare di più?
Cimetta: Già; ma avresti dovuto
morire! Non essendo morto...
Tommaso: Ah, il mio torto allora
è questo?
Scostando con un braccio la moglie per porsi di fronte il dottor Lecci:
Ma io sarei morto, se lui non
avesse voluto salvarmi.
Lecci (stupito, nel vedersi così tirato in ballo): Come? io?
Tommaso: Voi, voi! Io non volevo
le vostre cure! Voi avete voluto prestarmele per forza; ridarmi la vita: voi! E
perché me l'avete ridata, se ora...
Lecci: Piano, con calma. Vi
fate male agitandovi così.
Tommaso: Grazie, dottore. Vedo
che vi preme sul serio la mia guarigione! Ascolta, Cimetta: voglio ragionare.
Calmo, per non far dispiacere al dottore. Mi ero ucciso. Viene lui. Mi salva.
Con qual diritto, gli domando io ora?
Lecci (torbido in volto, pur cercando di sorridere): Dopo tutto,
scusate, è un bel modo codesto di ringraziarmi.
Tommaso: E di che, ringraziarvi?
Non avete inteso ciò che ha detto l'avvocato?
Lecci: Avrei dovuto
lasciarvi morire?
Tommaso: Appunto, morire, se non
avevate il diritto di disporre della vita ch'io m'ero tolta e che voi mi
ridavate.
Lecci: E come, disporne? Non si
può mica passare sopra la legge!
Tommaso: Io n'ero uscito dalla
legge, dandomi una punizione più grave di quella che la stessa legge può dare!
Non c'è più pena di morte; ed io sarei morto, senza di voi.
Lecci: Ma io avevo il dovere
della mia professione, caro Corsi: tentare in tutti i modi di salvarvi.
Tommaso: Per ridarmi in mano alla
giustizia e farmi condannare? E con qual diritto ‑ io vi domando appunto questo
‑ con qual diritto voi esercitate su un uomo che ha voluto morire il vostro
dovere di medico, se non avete in cambio dalla società il diritto che quest'uomo
possa vivere la vita che voi gli ridate?
Cimetta: Ma scusa, e del male che
hai fatto?
Tommaso: Mi sono lavato, col mio
sangue! Non basta? Avevo ucciso; m'ero ucciso. Lui non m'ha lasciato morire. Mi
sono ribellato alle sue cure. Tre volte mi sono strappate le fasce. Ora sono
qua: rinato, per opera sua: un altro. Come volete che resti sospeso a un
momento di quell'altra mia vita che per me non esiste più? Il rimorso di quel
momento io me lo sono levato; in un'ora scontai la mia colpa, in un'ora che
poteva essere lunga quanto l'eternità! Ora non ho più nulla da scontare, io!
Debbo rimettermi a vivere per la mia famiglia, a lavorare per i miei figliuoli!
Come volete che stia in un reclusorio a scontare un delitto che non pensai di
commettere, che non avrei mai commesso se non vi fossi stato trascinato; mentre
a freddo, ora, coloro che approfitteranno della vostra scienza, del vostro
dovere di tenermi in vita solo per farmi condannare, commetteranno il delitto
di farmi abbrutire in un ozio infame, e i miei figliuoli, i miei figliuoli
innocenti, nella miseria, nell'ignominia? Con qual diritto?
Si rizza sul busto, sospinto da una rabbia che il sentimento della
propria impotenza rende furibonda: caccia un urlo e s'afferra con le dita
artigliate il viso e se lo straccia; poi si riversa bocconi sul braccio della
poltrona, convulso; tenta di scoppiare in singhiozzi ma non può. Nella vanità
di questo sforzo tremendo, rimane un pezzo stordito, come in un vuoto strano,
in un attonimento spaventevole, tra lo stupore e il raccapriccio muto degli
altri. Sul volto cadaverico s'allungano rosse le tracce dello strappo recente
delle dita.
Anna (spaventata, accorre; gli solleva prima il capo; poi, ajutata dal
Cimetta, si prova a rialzarlo; ma ritrae subito le mani con un grido di
ribrezzo e di terrore: la camicia sul petto è rossa del sangue della
ferita): Dottore! Dottore!
Cimetta: Gli s'è riaperta la
ferita!
Lecci (sbarrando gli occhi e impallidendo, allibito): La ferita?
Istintivamente s'appressa alla poltrona; ma è arrestato subito dal
Corsi con un suono rauco, di minaccia. Allora, come basito, lasciandosi cadere
le braccia:
No, no. Ha ragione. Hanno
sentito? Io non posso. Non debbo.
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