Nel racconto di oggi parlerò di alcuni dei più
bei dipinti dell'Arte francese dell’Ottocento. Si tratta di opere di che già
impressionarono i suoi contemporanei, da Vincent Van Gogh a Odillon Redon. Oltre
al Museo d'Orsay e al Museo di Cherbourg, molte opere di Millet si
trovano negli Stati Uniti per una serie di tortuosi sentieri che spesso la
Storia imbocca.
Come per “Gustave Courbet” anche
per “Jean-François Millet” (1814-1875), di cui molte opere hanno a che fare
con il lavoro umano, si pone il problema di quanto l'arte dovrebbe recare
in sé un messaggio politico-sociale, sebbene per Millet il problema del
rapporto fra arte e impegno sociale sollevi maggiori dubbi rispetto al più
palesemente schierato a sinistra Courbet.
Figura importante della pittura francese
della metà del secolo, Millet è stato uno dei fondatori e uno degli esponenti
di spicco della “Scuola di Barbizon”, quel gruppo informale di pittori
paesaggisti che vivevano a sud di Parigi vicino alla foresta di Fontainebleau,
dove anche Millet si era stabilito nel 1849.
Millet assurse alla notorietà per i suoi
“paesaggi” ma soprattutto per le sue “scene di genere”, che mostrano
l'estenuante vita dei contadini francesi, e fu uno di quegli intellettuali, che
seppe trasformare l'esperienza personale della miseria e del dolore in
autentica bellezza.
Cantore sublime dei compiti quotidiani dei
contadini, per i quali la questione stessa dell'esistenza, della vita e della
morte, è decisa dai capricci della terra, in questo Millet ha trovato il dramma
supremo dell'umanità. La terra di Normandia è la scena su cui si svolge quest'epica
tragedia e il contadino intento al suo incessante è il protagonista paziente e
devoto lavoro.
Nella devozione e nella fatica del contadino
c’è sempre la compassione del pittore, uno spettacolo che porta l’artista alla
preghiera e alle lacrime.
Jean-François Millet era nato il 4 ottobre
1814 a Grèville in Normandia all'estremità nord occidentale del dipartimento
della Manica, più precisamente nella frazione di L’Hague, il luogo più remoto e
selvaggio di quel distretto, un gruppo di poche casette a cento metri dal mare.
Jean-François era il figlio maggiore di una
famiglia di fittavoli normanni. Pastore da bambino e poi più grande addetto all’aratura
dei campi, nonostante un’origine così modesta, riuscì ad avere accesso ad una
certa cultura, soprattutto grazie a un suo zio, un prete con fama locale di
letterato: grazie a lui imparò infatti il latino, lesse Montaigne, La Fontaine,
Omero e soprattutto Virgilio, che dovette colpirlo particolarmente, Shakespeare
e Milton, Chateaubriand e Victor Hugo e questi autori lo accompagnarono per
tutta la vita. La sua lettura preferita rimase però sempre la Bibbia. Jean-François
sentiva una fede profonda che riecheggiava la devozione incondizionata e un po'
terrificante di sua madre e di sua nonna.
I suoi genitori erano dei fittavoli, quindi non
erano proprietari, e il guadagno era scarso a fronte della molta fatica: il
bambino, poi ragazzo, viveva con la sua famiglia l'esistenza tipica di un
giovane contadino povero.
Le sue capacità di disegno furono tuttavia piuttosto
rapidamente notate e apprezzate, fin dalla sua infanzia da coloro che lo
circondavano, ma fino a vent’anni Jean-François lavorò i campi con la famiglia,
poi, nel 1833, grazie ai contatti dello zio prete, fu mandato dal padre a
Cherbourg, una cittadina a poca distanza dal suo paesello, per apprendere il
mestiere di pittore, prima nello studio del ritrattista “Paul Dumouchel”, un
artista di terz'ordine che vantava un alunnato presso David, senza comunque trascurare
di aiutare la famiglia nel lavoro dei campi.
Nel 1835 poi frequentò, ma questa volta a
tempo pieno, l’atelier del pittore di storia e ritrattista “Lucien-Théophile
Langlois de Chèvreville”, allievo del barone Gros, dove completò il suo
apprendistato e con il quale realizzò numerose copie di opere dei grandi
maestri che il collezionista locale Thomas Henry aveva appena donato al comune
di Cherbourg e che Millet riproduceva con molta assiduità.
La sua copia de “I pastori dell'Arcadia” (92 × 110 cm)
di “Nicolas-Antoine Taunay” fu uno dei suoi primi tentativi di paesaggio. Sullo
sfondo di una composizione mitologica, dipinse una natura artificiale, uno
sfondo semplice su cui si stagliano i personaggi, che già sono i veri centri d’interesse
dell'artista.
Fig.1
Grazie all’interessamento di Langlois,
estimatore del suo allievo, il vecchio e simpatico maestro intercedette presso
un comitato cittadino affinché Jean-Francois potesse ottenere una borsa di
studio dal comune di Cherbourg per poter continuare gli studi a Parigi e quindi
migliorare le sue capacità.
Nel 1837, il ventitreenne Jean-Francois si
trasferì nella capitale, dove avrebbe studiato all'”Ecole des Beaux-Arts” sotto
la guida del pittore accademico “Paul Delaroche” (1797 – 1856), autore di
soggetti storici ed eccellente ritrattista oltre ad essere un professore di
profonda sensibilità.
Millet lasciò dunque la sua casa e si recò a
Parigi, ma appena giunto, fu colto da una grande nostalgia della sua campagna.
Dalle terse giornate della Normandia, in una nevosa sera di gennaio Jean-François
era giunto in "una Parigi nera, fangosa e fumosa", come egli stesso
la definì.
Il traffico dei mezzi, la luce dei lampioni
soffocata dalla nebbia, i vicoli stretti e le baraccopoli sporche gli facevano
venire le lacrime agli occhi. Per controllare un improvviso scoppio di pianto,
si gettò in faccia manciate d'acqua fredda da una fontana di strada. Questo lo
fece sentire meglio. Dopotutto, era a Parigi per un pellegrinaggio “religioso”:
la religione dell’arte. Gli tornarono allora in mente le ultime parole di sua
nonna, una cattolica severa e maestosa con l'animo di una puritana che, prima
di congedarsi da lei gli aveva detto: "Preferirei vederti morto, figlio
mio, piuttosto che essere ribelle e infedele ai comandamenti di Dio... Ricorda,
sei un cristiano prima di essere un artista".
Quando Jean-François si unì al corso d'arte a
Parigi, gli eleganti studenti cittadini ridevano delle sue rudi maniere
campagnole. Alcuni di loro, più sinceri degli altri, provarono però la forza
dei suoi pugni.
I compagni di classe avevano soprannominato
quel ragazzone normanno, un po' ridicolo ma anche ammirato, il ”selvaggio uomo
dei boschi”.
All'”Ecole des Beaux-Arts”, Jean-François rimase
due anni fino al 1839 quando, in seguito al suo fallimento al concorso del “Prix
de Rome”, la borsa di studio non gli fu più rinnovata e ritornò in Normandia,
dove incominciò la sua carriera di ritrattista.
Durante le sue prime visite al museo di
Cherbourg, poi al Louvre quando era a Parigi, Millet si era soffermato, innanzitutto
e soprattutto, davanti ai dipinti olandesi del Seicento che raffiguravano quelle
scene di vita quotidiana che lo affascinavano tanto e che lo avrebbero maggiormente
appassionato durante la sua carriera di pittore. Di tutta la Storia
dell’Arte, il modello “olandese” fu quello che Jean-François principalmente apprezzò,
sentendosi a poco a poco incoraggiato a dipingere soggetti comuni “allo stile
olandese”.
Col tempo a Parigi incominciò a stringere
alcune interessanti amicizie che contribuirono alla sua emancipazione
artistica. In particolare, simpatizzò con Honoré Daumier che, oltre alla
satira dei potenti, eccelleva nella rappresentazione dei poveri. Millet
incontrò anche un giovane che, dopo essere stato marinaio, era diventato
commerciante di carta: si chiamava “Eugène Boudin” (1824 – 1898) e si dedicava
alla pittura. I due amici si incoraggiavano a vicenda nel loro cammino
verso il “Realismo”.
Tornato in provincia sposò “Pauline Ono”,
figlia di un sarto di Cherbourg, della quale fece un bel ritratto e con lei si trasferì
ancora a Parigi, ma Pauline, di salute fragile, morì di tubercolosi
nell'aprile 1844.
Fig.2
Rimasto solo e con l’anima dolorante, Millet se
ne tornò quindi a Cherbourg dove però incontrò “Catherine Lemaire”, un'ex
domestica che lo colmò di tenerezza con cui intraprese una relazione e ne
dipinse il ritratto nel 1845.
Fig.3
Catherine gli avrebbe dato nove figli e lui l’avrebbe
sposata solo nel 1853 per le profonde inibizioni religiose di Jean-François che
riteneva peccaminoso risposarsi.
Per sfuggire allo scandalo, si trattava in
realtà di una coppia di fatto in un paesino di provincia, si trasferirono nella
città portuale di “Le Havre”, in Normandia, dove Millet viveva facendo
ritratti e scene di genere leggero.
Tornato a Parigi nel 1846, incontrò “Constant
Troyon”, “Narcisse Diaz de la Peña”, “Charles Jacques” con i quali Millet
strinse amicizia e, l'anno dopo, nel 1847 conobbe anche “Théodore Rousseau” con
il quale strinse un’amicizia fraterna. Erano alcuni dei pittori che avrebbero costituito
la futura “scuola di Barbizon”.
Gli anni Quaranta dell’Ottocento furono
quelli della cosiddetta “maniera fiorita” di Millet: per sopravvivere e
per attrarre il favore di una clientela borghese, Millet creava infatti composizioni
aggraziate scene pastorali e nudi, nello stile di “Watteau” o di
“Fragonard”, oltre a una serie di bellissimi ritratti apprezzati dalla
committenza borghese.
La carriera di Millet iniziò quindi in
sordina: dipinti su commissione di carattere più commerciale in cui non
mostrava originalità nella scelta dei soggetti, realizzava principalmente
ritratti su richiesta, il suo stile era spesso povero e
piatto. "Un'esecuzione secca e goffa", come aveva annotato
Delacroix nel suo diario.
La natura però rimaneva ancora lo scenario
privilegiato per schizzi leggeri e piacevoli: il trattamento era ancora in gran
parte convenzionale anche se la natura incominciava a guadagnare gradualmente
terreno sulla superficie del dipinto e la sua pittura diventava sempre più
rigogliosa e animata.
Nello stesso tempo, Millet incominciò a
sperimentare un altro stile, meno settecentesco e più segnato dal Romanticismo
di “Géricault” e di “Delacroix” in cui la natura fungeva da supporto
per l'espressione di emozioni e di sentimenti drammatici: non era più un
luogo ameno e addomesticato delle prime opere, ma un universo oscuro e
inquietante che mostrava per esempio nel bellissimo “Al riparo dalla tempesta”
del 1847.
Fig.4
Risale sempre a questo periodo anche il primo
paesaggio puro e privo di aneddoti di Millet, direttamente ispirato a un sito
esistente, “Castel Vendon” che rappresenta le scogliere di Gréville, il primo dipinto
di una lunga serie perché, nel corso della sua vita, Millet non smise mai di
trarre ispirazione dal suo paese natale per le sue composizioni.
Fig. 5
In questo periodo incominciò anche a
realizzare le prime grandi scene di vita contadina che lo avrebbero reso famoso,
come “Lo Spulatore” del 1848 e “Il seminatore” del 1850.
La rivoluzione del 1848, che aveva portato
alla caduta del re “Luigi Filippo” e all'instaurazione della “Seconda
Repubblica”, e il sentimento di libertà, che vibrando nell’aria la accompagnava,
giocarono un ruolo importante anche nella carriera e nella vita di
Millet. Viveva con la sua compagna a Parigi, una città che odiava. Era
inquieto in quella città troppo tumultuosa ed era come se stesse vivendo al di
"fuori di se stesso".
Tutto però accadde come se il 1848 gli avesse
permesso finalmente di fare ciò che aveva in mente di raffigurare, di raccontare
quel mondo contadino da cui era lontano e che amava, che era parte di sé e che
aveva ampiamente osservato e vissuto e del quale avrebbe reso gli aspetti più
belli nel corso della sua successiva carriera.
Gli artisti parteciparono a questo sussulto
delle menti, dei costumi e della politica. Fraternizzarono, fra di loro,
proclamarono la libertà dell’arte. La “Seconda Repubblica” poi influiva sulla
vita artistica tra il 1848 e il 1852: opere e paesaggi realisti erano
apprezzati e in quel periodo sembravano apprezzati anche dallo Stato.
E 'Lo spulatore' fu sintomo di questa sterzata
anche per Millet.
Nel 1849 allo scoppio di una brutta epidemia
di colera che minacciava Parigi, influenzato dagli amici Constant Troyon,
Narcisse Diaz, Charles Jacque e soprattutto Rousseau, e spinto anche da un desiderio
di riavvicinarsi di nuovo alla natura Millet, a 35 anni, si stabilì con la
famiglia a Barbizon ai margini della foresta di Fontainebleau e a Barbizon
risiedette per tutta la vita, vivendo da contadino in povertà quasi come un
eremita e non lasciando mai questo luogo campestre, se non per qualche sortita
a Parigi o nella sua nativa Normandia.
A Barbizon trascorreva ore osservando la
natura e la vita contadina. Non dipingeva ancora assiduamente sul tema, ma
osservava e prendeva appunti, schizzi su piccoli pezzi di carta, catturando i
gesti dei lavoratori sul campo e qui la sua pittura ebbe un'enorme
influenza sull’omonima scuola che si era orientata verso il “Naturalismo”,
scegliendo di dipingere direttamente la natura – un metodo che sarebbe
diventato noto come pittura “en plein air” abbandonando la formalità
della pittura classica.
Ma che cos’era Barbizon? E che cosa fu per
Millet?
La “Scuola di Barbizon” prende il nome da un
paesino vicino alla foresta di Fontainebleau a sud di Parigi e fu la più importante
“scuola” di pittura paesaggistico-rurale francese alla metà
Ottocento: era costituita da un gruppo “informale” di artisti inizialmente
ispirati dal “naturalismo”, un linguaggio che – almeno nel caso di Millet – si
spostò intorno al 1850 verso il “realismo”.
I Barbisonnier svilupparono una forma di vita
e di arte che ignorava molti canoni dell'arte accademica e attirava
l'attenzione anche sul lavoro dei contadini.
Questo gruppo di pittori, per nulla turbato
dalle fazioni rivali classiche e romantiche, aveva preso le distanze da Parigi,
ritirandosi nella terra di Barbizon, per sperimentare un nuovo
approccio più vero e più immediato con la pittura di paesaggio. Ciò che era
"moderno" nei paesaggi di Barbizon rispetto a quelli di Constable,
era che essi erano dipinti all’aperto, sul posto: essi furono infatti i
pionieri della tecnica della “pittura en plein air” che avrebbe raggiunto
il suo apice nelle mani degli impressionisti come Monet, Pissarro, Sisley e
Renoir.
L’aspetto contemplativo che si insinua sempre
quando un pittore si ritira nel suo studio per "costruire"
un'immagine partendo dagli schizzi che aveva realizzato, non si interpose mai
tra gli artisti di Barbizon e le loro opere soprattutto dei migliori esponenti
di questa “scuola”: “Théodore Rousseau” (1812-1867), “Camille Corot” (1796-1875),
“Charles Daubigny” (1817-1878) e lo stesso Jean-François Millet,
anche se quest’ultimo non fu mai pienamente un “barbisonnier” per l’impegno
sociale che veicola attraverso nelle sue “scene di genere”.
Millet si era stabilito con la moglie e i
figli in una casupola di Barbizon, ai margini della grande foresta: scavava,
coltivava la terra, dipingeva nel suo giardino e allevava la sua famiglia quasi
sempre al livello più basso di sussistenza.
Il dipinto della svolta nella sua carriera era
stato “Lo spulatore” un olio su tela di 100 × 71 cm, oggi
alla “National Gallery” di Londra. L’opera fu esposta al “Salon” nel 1848 fra
5000 opere, perché in quell'anno di rivoluzione, il “Salon” fu libero dalla
giuria, esponendo il peggio e il meglio della pittura, e questa fu una delle
prime scene rurali che dipinse sulla base dei suoi ricordi d'infanzia.
Osserviamo ora l’opera.
Fig. 6
Uno spulatore, piegandosi sotto il peso del
suo grande ventilabro, il cesto che serve per separare la pula dal grano,
lancia una nuvola dorata di paglia nell'aria. L’opera fu notata dall’ondivago
Théophile Gautier che ne elogiò i colori e "l'effetto polveroso dei grani
sparsi".
Dopo questo dipinto, la pittura di Millet si
orientò sempre di più verso soggetti rurali: le sue origini contadine spiegano
la sua passione per questo tipo di scene che si possono definire il nucleo
essenziale, ma non unico, della sua opera.
Quelli che Millet realizza non sono ritratti
di contadini, ma quelli che lui stesso avrebbe definito delle "sintesi",
dei tipi disumanizzati, i cui volti non hanno lineamenti, ma in essi l’artista
voleva catturare il corpo nello sforzo e il gesto nel lavoro.
A partire dal 1850 circa, Millet iniziò a
farsi una reputazione nazionale, ma soprattutto internazionale come uno dei
principali pittori realisti in Francia.
Il suo successo, almeno al momento, gli
permise di acquistare incisioni e disegni degli artisti che ammirava, tra
cui “Pieter Bruegel il Vecchio” (1525 - 1569) e “Rembrandt” (1606 -
1669) – anche per Millet come per Courbet la matrice fiammingo olandese risulta
dunque fondamentale –, nonché del romantico “Eugène Delacroix” (1797 – 1863).
Il realismo dettagliato delle opere di questi pittori fu una fonte di
ispirazione per i lavoratori agricoli di Millet. Si aggiunga a questo che Millet
era un avido collezionista di fotografie, tra le quali privilegiava quelle di
“scatti non in posa” della popolazione locale.
Millet incominciò dunque a dipingere
contadini, un “mileu” che conosceva bene, una realtà che aveva incontrato e che
aveva vissuto, e lo faceva con talento: nelle sue tele restituiva i gesti
semplici e ordinari di questi contadini della sua epoca, se ne percepiscono i
movimenti, il lavoro quotidiano, l’ordinarietà della loro immutevole vita,
scandita solo dal ritmo delle stagioni.
I contadini diventano il centro dei suoi
dipinti e Millet mostra chiaramente la loro umanità, il loro lavoro incessante.
In quel momento i lavoratori rurali
costituivano ancora la stragrande maggioranza della popolazione francese:
spigolatrici, pastorelle, vignaioli, piantatori di patate, seminatori,
lavandaie, spaccalegna, mietitori erano l’universo della campagna francese e
Millet li riproduce tutti con grande precisione, mostrando al pubblico la
difficile vita della popolazione rurale del suo tempo.
In questo consiste il realismo di Millet e la
sua differenza dagli altri Barbisonner: nella sua capacità di mettere in
risalto lo splendore del gesto umano. Se osserviamo attentamente i suoi
lavoratori, è il loro gesto, preciso ed efficace, che attira la sua attenzione e
che egli si sforza, da designatore provetto – non si dimentichi la sua
formazione accademica -, di ripristinare sulla tela quei gesti.
Millet riesce a magnificare l'universo
contadino e la sua miseria facendo percepire all’osservatore il duro lavoro di
questi oscuri lavoratori della terra, dipingendo sì una profonda armonia tra
uomo e natura, dove il gesto contadino trova il suo vero significato, ma
mostrando anche con chiarezza la sua personale simbiosi con gli esseri che
dipinge.
Perché Millet li ama, perché è stato uno di
loro.
Quest’opera fu molto apprezzata da Courbet e
lo colpì tanto che fu forse questa la fonte di ispirazione per la realizzazione
degli “Spaccapietre”.
Millet riesce a collegare con successo l’arte
con il sociale, la poesia e l’ideale artistico con l’attualità della vita
contemporanea. E questo ha determinato il suo riconoscimento anche da parte di artisti
molto diversi fra loro.
Nel buio di un fienile, uno spulatore
mantiene con entrambe le mani un cesto largo e poco profondo sulle cosce,
leggermente inclinato verso il basso. Più lontano da lui si alza una
nuvola di pula dorata.
Indossa zoccoli aperti dietro, i sabot,
imbottiti di paglia per mantenere caldi i piedi, pezzi di stoffa blu legati
sopra le ginocchia e un fazzoletto rosso annodato sui capelli.
Il cesto è uno speciale ventilabro, senza
bordo anteriore, in modo tale che, scuotendolo abilmente, la pula possa essere
spostata in avanti e spinta oltre il bordo, lasciando indietro il grano nella
parte fonda del cesto.
Gli spulatori erano considerati lavoratori
esperti, operai specializzati si direbbe oggi.
Millet iniziò forse questo dipinto, il primo
a trattare il tema della vita contadina, già alla fine del 1846 e lo espose al
“Salon” del 1848, anno della rivoluzione.
Con la rivoluzione del 1848 era ritornata
alla luce una nuova visione dei temi popolari. Millet si sentì sempre più
giustificato nel dipingere ciò che veramente gli interessava: le sue origini
povere e il mondo della campagna.
Cominciò quindi a rappresentare scene di vita
contadina in modo sorprendentemente sobrio, quasi oggettivo se non per quella
sua cordiale partecipazione.
Fino ad allora i contadini erano stati spesso
rappresentati come simpatiche comparse, utili a decorare i paesaggi o come
bucolici pastori e pastorelle. Millet dipinse invece il mondo rurale così
come lo vedeva, senza aggiungere nessuna edulcorazione, senza mai cedere al
sentimentalismo, al “miserabilismo” commovente o peggio ancora al pittoresco.
Fu solo e semplicemente realistico.
La destra dell'epoca tuttavia, come in
genere tutte le destre e come tutti i conservatori di ogni tempo e paese, lesse
nelle scene contadine di Millet una critica sociale e addirittura, vide in
alcuni suoi dipinti successivi come “Le spigolatrici” o come l’”Uomo con
la vanga”, un invito alla sedizione. Nell’immaginario collettivo i
contadini erano infatti ancora percepiti come una classe pericolosamente
sovversiva: il ricordo delle “jacquerie” era ancora l’incubo costante
dell’aristocrazia e della borghesia francese e tormentava i loro sonni; per
giunta la “Seconda Repubblica”, con il suffragio “universale” maschile, aveva
esteso il diritto di voto alle masse contadine e questo preoccupava molti oltre
misura.
Da questo sorge un problema che si profila ogni
volta che si parla di Millet: Millet fu assolutamente apolitico? Non prese
mai posizione?
In molti credono di sì e ritengono che i suoi
dipinti non illustrino alcuna idea e che non servano alcuna ideologia.
Diversamente dal realismo socialista che
attraversa l’opera di Courbet e di Daumier e poi di molte opere figurative del
Novecento, Millet colloca la sua pittura nel terreno stesso dell'esperienza a
monte di interpretazioni e di ingiunzioni?
È poco credibile che sia così. Apartitico lo
fu di sicuro, ma apolitico è impossibile. La politicità indica una scelta che
non è mai neutra e Millet compie la sua scelta: le sue “scene di genere” non
sono momenti di abbandono idillico o di evasione dalla realtà, ma sono per lo
più un racconto “drammatico” della vita contadina e Millet, figlio di fittavoli,
conosceva bene le dure condizioni dei fittavoli e, se non alza barricate, se
non grida “proletari di tutto il mondo unitevi” racconta, mette in evidenza e,
a ben leggere questi suoi racconti, soprattutto alcune di queste scene di
genere, pare che esprima con chiarezza le dure e servili condizioni di
contadini non proprietari.
Se poi si considera poi che uno dei motivi
che portarono alla rivoluzione del 1848 era stata proprio la miseria rurale,
compresi i cattivi raccolti, qualche studioso di Millet ha individuato un
aspetto politico nel dipinto, come in altre scene rurali, o una grande compassione
dell'artista verso questi poveri braccianti.
È stato spesso e da più parti suggerito, ad
esempio, che questa figura solitaria si sia cercata un secondo lavoro per
guadagnare qualche soldo in più per meglio contribuire al sostentamento della
sua famiglia. È una congettura probabile.
Nel complesso la critica reagì favorevolmente
all'esposizione del dipinto al “Salon”, sebbene l’onnipresente Théophile
Gautier sia stato molto critico nei confronti del trattamento pittorico di
Millet scrivendo: “Stende sulla sua tela uno strofinaccio, senza usare olio o
essenza, grandi croste di colore, pittura così secca che nessuna vernice
potrebbe mitigarla. Niente potrebbe essere più aspro, selvaggio e rozzo'.
Ma dall’interno degli ovattati salotti
parigini Gautier non capiva che uno dei motivi di quell'applicazione spessa della
pittura era senza dubbio responsabile il fatto che Millet stava dipingendo su
un quadro preesistente e che in questa fase della sua carriera, con il successo
economico non ancora arrivato, Millet riutilizzava spesso le sue tele,
dipingendo su composizioni già esistenti e persino tagliando le tele.
Del 1850 è “Il seminatore” un olio su
tela di 102 × 83 cm un dipinto di cui Millet realizzò due esemplari
quasi identici con lo stesso titolo.
Il dipinto che segue appartiene alla
collezione del “Museum of Fine Arts” di Boston mentre
l'altro fa parte della collezione del “Museo d'arte della prefettura di
Yamanashi” a Kofu in Giappone.
Fig. 7
Il dipinto raffigura un contadino nell'atto “maestoso”
di seminare la terra, apparentemente durante l’inverno. La luce splende nella
parte alta dell’orizzonte visivo, il che fa supporre che sia l'alba.
L’uomo è vestito con il tipico abbigliamento
contadino, con le gambe avvolte nella paglia per sentire meno freddo, cammina a
lunghe falcate e porta un sacco di semi sulle spalle, mentre sparge con la mano
destra quel che rimane del suo raccolto dell’anno precedente.
A sinistra del dipinto appaiono diversi
corvi, nemici naturali dei contadini ma pur sempre parte del ciclo della
natura, che beccano i chicchi sottraendoli alla coltivazione.
Sul lato destro, in lontananza, si vede un altro
uomo che sta arando il terreno con i buoi per preparare il lavoro dei
seminatori.
Il dipinto è una rappresentazione reale del
vigore e dello stile di vita laborioso del contadino.
“Il seminatore” è stato il primo dipinto
veramente importante fra quelli realizzati a Barbizon.
Al “Salon” di
Parigi nel 1850 ricevette molta attenzione, ma anche molte
critiche. “Clément de Ris” lo elogiò come "uno studio energico e
pieno di movimento", mentre “Théophile Gautier” lo derise di
nuovo, definendolo un "raschiamento di cazzuola". La storica dell'Arte
australiana “Anthea Callen” ha scritto invece che "Millet ha
intenzionalmente trasformato il suo lavoratore umano in un muscoloso gigante
allungando le sue proporzioni. Rafforzato dal dominio del seminatore nello
spazio pittorico e dal nostro punto di vista ribassato, è quindi facilmente
spiegabile il suo aspetto minaccioso per la borghesia parigina del 1850."
Millet ritornò sullo stesso tema del
seminatore almeno altre tre volte con tecniche diverse per quanto se ne sa, e “Vincent
van Gogh”, che trovò ispirazione in molti dipinti di Millet raffiguranti
paesaggi e lavoratori
agricoli, copiò “Il seminatore” in molti dei suoi
dipinti, ma trasformò l'immagine utilizzando colori più brillanti.
Fig. 8
Nel 1854 Millet ritornò per un breve periodo in
Normandia dove realizzò numerosi disegni della sua città natale e della
campagna circostante, che sarebbero serviti come punto di partenza per le
future tele realizzate poi a Barbizon.
Del 1855 è “La raccolta delle
patate” conservato al “Walters Art Museum” di Baltimora.
“La Raccolta delle Patate” raffigura il lavoro dei contadini nella pianura
situata tra Barbizon e Chailly-en-Bière. Millet per questo
lavoro utilizza pigmenti in pasta applicati in strati spessi su una
tela a trama grossa.
Fig. 9
Il tema della “raccolta delle patate” fu
trattato anche da “Camille Pissaro” nel 1874 a Pontoise e da
“Vincent van Gogh” nel 1883 a L’Aia.
Fig. 10
Fig. 11
Del 1857, è la tela “sovversiva” esposta al
Salon di quell’anno, “Le spigolatrici” del Museo d’Orsay, un olio su tela di
83 × 110 cm. Quest’opera – oggi considerata una dei fondamenti
del modernismo – subì allora grandi attacchi da parte della critica più
conservatrice, che stigmatizzò questi soggetti ignobili trattati dall'artista
con un registro nobile e monumentale. Mani pesanti, schiene piegate, volti
segnati dal sole.
Che cos’altro doveva raccontare Millet?
Il suo realismo svela la realtà cruda delle
cose senza filtri. Come un cronista, Millet mostra le differenze di classe
sociali e così il lavoro duro dei contadini. Anche se la genuflessione delle
donne sembrerebbe sottolineare il legame simbolico con la terra madre, le tre
protagoniste raccolgono gli avanzi della raccolta delle spighe di grano mentre
il sole, alle loro spalle, allunga le ombre sul campo.
Il dipinto indignò l’alta borghesia in visita
al “Salon”: la miseria della vita contadina svettava sulla nobiltà e sulla
pittura elevata del tempo, quella di Storia, quella di grandi eventi.
Ma non è forse Storia anche questo che Millet
raffigura?
Il suo realismo è direttamente proporzionale al
senso di pesantezza della vita nei campi. La ripetitività dei gesti è la chiave
di lettura di quel mondo e i volti sono semplificati con l’intento di rendere manifesta
la fatica.
Fig. 12
Millet dipinse quest’opera con grande
tenerezza. Tenerezza e solidarietà umana perché conosceva bene le difficoltà
del contadino francese. Ma il pubblico parigino accolse il dipinto con un coro misto
di derisione, di sarcasmo e di insulti. Quasi si volessero essi stessi difendere
da un insulto. Riferendosi alle figure delle tre spigolatrici, un critico
osservò: "Sono semplici spaventapasseri vestiti di stracci e installati in
un campo: la bruttezza e la volgarità di Millet sono irrilevanti". Qualcun
altro le definì sarcasticamente “le tre Grazie dei poveri”. Come se la povertà
fosse una colpa.
A questo sfogo, Millet avrebbe potuto
rispondere che anche nelle cose così semplici c'è una bontà che va al di là
dell’incomprensione di un critico cieco. Alcuni misero addirittura in dubbio
gli aspetti tecnici del dipinto, ma si tratta di critiche infondate perché “Le
spigolatrici” ha un’impaginazione perfetta ed esemplifica perfettamente il
profondo rispetto che Millet nutriva per la dignità senza tempo del lavoro
umano.
Quando Millet realizzò questo
capolavoro aveva quarantatré anni e per molti anni aveva inviato le sue
foto ai “Salon” parigini, per poi essere rifiutato più volte. Le sue
opere “contadine” non erano infatti accettabili per gli aristocratici e per la
classe di potere e tanto meno per gli aristocratici custodi dell’ortodossia
accademica. Che cosa essi potevano condividere con un uomo che sapeva
maneggiare l'aratro e che calpestava il suolo e il letame di Barbizon. Ma i
critici più avvisati seppero invece cogliere proprio questa qualità dell'arte
di Millet.
Ma ora osserviamo il quadro da vicino.
Il campo in cui lavorano le tre spigolatrici
è immerso in una luce d'agosto apparentemente calda e intensa, ma il finale
tonale sfocia in un blu torbido, opaco, cinereo che suggerisce l’idea di una
foschia.
Tre contadine in primo piano spigolano nei
campi, meccanicamente, stancamente, sotto il caldo ed estenuante sole
dell’estate, che brucia la terra e gli uomini con i suoi raggi potenti e
spossanti.
La "spigolatura" era un'attività concessa
ai contadini più poveri di raccolta del grano o di altri cereali caduti nei
campi dopo il grande raccolto del proprietario, prima del signore feudale.
Sullo sfondo, un gruppo di raccoglitori accatasta infatti le spighe dorate.
Un uomo a cavallo supervisiona il loro
lavoro.
È il padrone della tenuta o è un suo uomo di
fiducia che svolge per il padrone l’azione di controllo dei braccianti?
Non si sa, ma fa lo stesso.
Le tre povere contadine - gli
“spaventapasseri” dei critici sprezzanti – sono coinvolte in uno dei tre
momenti della spigolatura: cercare le spighe di grano, raccoglierle, e legarle
insieme in un covone.
Questo compito era estenuante, ma serviva a contribuire
al nutrimento delle loro famiglie ed era uno dei principali compiti assunti
dalle donne in quel periodo di difficoltà e di carestia.
Millet aveva trascorso quasi un decennio a
studiare quel processo.
Due delle spigolatrici portano in testa
fazzoletti rossi e blu e sono inclinate verso il basso con il capo al di sotto
della linea del bacino, cercando tastoni con le dita, meccanicamente ma
inappuntabilmente, le spighe fra le stoppie.
Una terza donna si alza per alleggerire per
un attimo la tensione della postura, forse per chiedersi, per un momento, quale
legge crudele l'abbia condannata a tanta sofferenza e fatica. Ma dopo questo
lampo momentaneo, dopo questa parziale accensione del fuoco divino che promette
di trasformare questa vile argilla in un essere umano, ma riprenderà il suo
posto accanto alle altre e ripiegherà ancora una volta la sua schiena a terra.
Di fronte a questa scena, è chiaro che la
bellezza dei soggetti non c'entri nulla.
Millet si limitava a dipingere ciò che
vedeva, senza imporre alcuna idea di ciò che doveva o di ciò che non doveva
essere. I contadini lavoravano la terra e Millet li dipingeva. Era talmente
semplice. C’è rassegnazione in lui come nelle tre donne perché come dice la
Bibbia nel libro della “Genesi”: "Mangerete il vostro pane col sudore
della fronte, finché non ritornerete sulla terra, perché siete stati tratti da
essa; poiché tu sei polvere e polvere ritornerai".
L'enfasi del dipinto sui ranghi più bassi
della società rurale attirò ovviamente ancora una volta la notevole opposizione
da parte delle classi superiori, sconvolte dalle sue pretese artistiche e dal
suo radicalismo sociale, e lo collegò immediatamente al crescente movimento
socialista. Tuttavia, il danno era stato fatto, il dipinto era stato accettato al
“Salon” e i repubblicani francesi gongolarono e lo ammirarono per il suo
apprezzamento dignitoso e realistico dei poveri delle campagne.
Millet aveva prestato molta attenzione alla
sua composizione, usando ogni espediente per infondere ai suoi soggetti una
grandezza semplice, ma monumentale.
La luce obliqua del sole al tramonto accentua
la qualità scultorea delle spigolatrici, mentre le loro espressioni non
perfettamente definite, “sintetiche”, secondo la definizione dell’artista
stesso, e i tratti spessi e pesanti tendono a enfatizzare la natura faticosa
del loro lavoro.
Inoltre, queste figure, piegate e dipinte in
primo piano scuro, si stagliano su una calda scena “georgica” di alacri mietitori
– con i loro covoni di fieno e quelli di grano, e con i loro carri – che hanno mietuto
un ricco raccolto dai campi di grano.
Il contrasto tra l’abbondanza e la scarsità,
tra la luce e l’ombra, è abilmente usato da Millet per enfatizzare la divisione
delle classi. E la lontananza della classe dei proprietari terrieri è
evidenziata anche dall'immagine sfocata del proprietario o del caposquadra che
sia, seduto su un cavallo a distanza sulla destra.
È lontano sta lì solo per controllare.
L'intera composizione diventa quindi una sottolineatura
sulla diversità di classi sociali in Francia e, in particolare, sull'incapacità
delle classi popolari di elevarsi al di sopra del loro rango.
Le tre donne sono mostrate piegate per non
oltrepassare la linea d’orizzonte, per confermare che esse vivono dove sono
nate e che sono ancora serve di quella gleba dalla quale raccolgono le briciole
contendendole ai passeri e ai corvi.
Nel frattempo, la linea di terra più alta è
occupata da contadini sorvegliati dal caposquadra, nessuno dei quali va oltre
l'orizzonte. Il cielo simboleggia l'inaccessibile classe superiore della
società che disprezza i suoi inferiori. L’uomo a cavallo è diverso dalle altre
persone, diverso come l'aria che sovrasta terra.
Ma c'è un segno o una speranza che il
cambiamento stia arrivando.
Il gilet bianco e i fazzoletti rossi e blu
delle spigolatrici formano i tre colori della bandiera – la bandiera della
Repubblica francese e il simbolo della rivoluzione popolare in Francia – come
era mostrato in “La libertà che guida il popolo” di Delacroix del 1830.
Millet vendette “Le
spigolatrici” per 3.000 franchi. Nel 1889 il dipinto, appartenuto al
banchiere Ferdinand Bischoffsheim, fu battuto all'asta per 300.000 franchi. Un
divario impressionante a distanza di poco più di trent’anni.
Poco dopo, fu donato al Louvre e, nel 1986,
trasferito al Museo d'Orsay.
“Le spigolatrici” è uno dei dipinti
di genere di Millet di più grandi dimensioni e ha ispirato una cospicua tradizione
di moderni dipinti di genere.
Nel 1859, Millet realizzò “L’Angelus”, il suo
più celebre dipinto considerato uno dei più grandi dipinti
religiosi della seconda metà dell'Ottocento e uno dei più iconici
dell’arte occidentale.
L’opera, diventata un’icona della pittura
francese, rappresenta una coppia di laboriosi contadini che si concede una
pausa dal loro duro lavoro nei campi per pregare.
Il dipinto è semplice e rappresenta le due
figure umane in perfetta armonia con l'ambiente circostante.
Quest’opera, insieme ad altre scene di vita
contadina, consolidò la reputazione di Millet come uno dei migliori
pittori di genere dell’Ottocento.
L'”Angelus” infatti sarebbe stata un’opera
molto copiata e, dopo la morte dell’autore, diventò un simbolo dei valori
borghesi, dell'etica del lavoro e della pietà religiosa.
Fig. 13
Il surrealista spagnolo Salvador
Dalì (1904 - 1989) ne fu talmente affascinato, quasi ossessionato, che
“L'Angelus” lo ispirò per la realizzazione di molte opere, tra
cui: “L'Angelus architettonico di Millet” del 1933 e il “Gala e
l'Angelus di Millet”, due opere che precedono di poco l'arrivo delle celeberrime
“anamorfosi coniche” del 1933.
Fig.14
e
Fig. 15
Nel 1938, Dalì scrisse anche un saggio
intitolato “Il mito tragico dell'Angelus di Millet”. Dalì era convinto che
l'opera di Millet rappresentasse una scena funeraria, non solo un momento di
preghiera e che le due figure stessero pregando per il loro bambino sepolto,
piuttosto che pregare durante l'Angelus.
In effetti, Dalì insistette talmente tanto
sulla necessità di radiografare la tela, che il Louvre organizzò un
esame ai raggi X, solo per trovare la sagoma di una piccola bara sotto il cesto
delle patate che rivelò realmente una forma che assomigliava a una piccola
bara. Tuttavia, anche dai raggi X non risultò chiaro se Millet avesse cambiato
idea sul significato del dipinto o se quella forma che si intravedeva fosse
realmente una piccola bara. Gli analisti però scoprirono che anche il campanile
della chiesa in lontananza era stato aggiunto in un secondo momento. Sembra
dunque che Millet abbia originariamente dipinto una sepoltura – forse una
versione agreste del celebre dipinto di Courbet “Una sepoltura a
Ornans” del 1850 – ma che in seguito abbia convertito la tela in una
recita dell'Angelus, con un campanile della chiesa ben visibile.
Come sempre osserviamo il dipinto.
Il dipinto rappresenta due contadini, un uomo
e una donna, che si fermano per qualche minuto per recitare l'”Angelus”, una
preghiera tradizionalmente recitata tre volte al giorno che commemora
l'Annunciazione. "Angelus" (angelo), è infatti la prima parola
dell'Annunciazione: "Angelus Domini nuntiavit Mariae" ovvero "L'angelo
del Signore annunciò a Maria".
La scena si svolge durante la raccolta delle
patate, appena fuori dal villaggio di “Chailly-en-Bière” il cui campanile è
visibile in lontananza.
In mezzo ai campi, si vedono un giovane
contadino e probabilmente sua moglie che hanno appena finito o forse solo
interrotto il loro lavoro.
Non è chiaro quale sia il rapporto che esiste
tra la coppia: se siano marito e moglie, o colleghi di lavoro, o contadino e
servitrice. Un catalogo di vendita del 1889 li descrive vagamente come "un
giovane contadino e la sua compagna".
La coppia stava scavando patate, i cui sacchi
sono stati caricati su una carriola e si sono fermati appena hanno sentito
fluttuare nell'aria immobile i rintocchi lontani delle campane della chiesa.
Tutti i loro attrezzi, tra cui le borse, un
forcone, un cesto di patate e una carriola sono sparsi qua e là.
Le nebbie del crepuscolo sorvolano i campi.
All'orizzonte, si distingue un villaggio. Il
campanile della chiesa e alcuni tetti delle casette sono visibili attraverso
l'oscurità che incomincia ad addensarsi.
Silenziosi e immobili come statue, i due
personaggi, che occupano la scena, si perdono in una religiosa contemplazione,
l'uomo scoprendosi il capo lo china in silenziosa preghiera, così come la donna
che stringe le mani con riverenza, anche lei con il capo chino.
Il loro aspetto è povero e i loro abiti
grossolani.
A guardarli si direbbe che siano entrambi
composti di quella stessa terra che si attacca ai loro zoccoli di legno, le
loro forme dominano la scena nella calma del crepuscolo, immerse nella scura
sfocatura della sontuosità del tramonto e le ombre, sempre più profonde della
notte, smettono di sopraffarle con la loro immensità.
In quel momento non sono più due povere
creature isolate, ma sono due anime la cui preghiera riempie l'infinito ed esse
si riempiono dell’infinito.
Raffigurando questi due personaggi silenziosi
e anonimi nel mezzo di una vasta pianura coltivata, con solo pochi semplici
strumenti che li aiutano a racimolare il necessario dal terreno per la loro
esistenza, Millet fa luce sulla vita massacrante dei contadini con il loro duro
lavoro fisico quotidiano che non finisce mai e dura dall’alba al tramonto attraverso
tutte le stagioni.
Nello stesso tempo, il momento di silenzio
ricorda la nostra inevitabile connessione con il divino e la nostra
insignificanza di fronte a lui. È proprio questa combinazione di elementi che
rende questo dipinto uno dei grandi capolavori della pittura religiosa
francese dell'Ottocento, un incrollabile atto di fede, nonostante tutto.
Ma veniamo ora alla storia di questa
meraviglia.
Si tratta di un insolito esempio di arte
cristiana laicamente interpretata che esprime un profondo senso di devozione e
per questo L’Angelus diventò presto uno dei dipinti religiosi più
riprodotti dell’Ottocento, con acqueforti esposte da migliaia di devoti
capifamiglia in tutta la Francia.
Millet lo dipinse per nostalgia: nel 1865,
ammise che l'idea dell'”Angelus” era nato da un ricordo d'infanzia di sua
nonna, che insisteva affinché la famiglia smettesse di lavorare nei campi
quando sentivano la campana della chiesa suonare per l'Angelus.
Per mezzo secolo, dalla fine
dell'Ottocento al periodo tra le due guerre, “L'Angelus” diventò il
dipinto più famoso del mondo. Questo formato piccolo e un po' scontato
sembrava tuttavia un pezzo secondario agli occhi del suo autore: si ritiene che
il dipinto gli fosse stato commissionato dal collezionista d'arte americano
“Thomas Gold Appleton” (1812 – 1884) ma, siccome il committente non ripassava a
ritirarlo, Millet ne era preoccupato e decise allora di venderlo per meno
di 1.000 franchi a un altro collezionista che a sua volta lo ri vendette
rapidamente e il dipinto passò di mano in mano nel corso degli anni e ogni
volta che ritornava sul mercato d’arte dava luogo a fenomeni di speculazione di
prezzo.
Questi fenomeni speculativi non riguardavano
i grandi dipinti storici che dipendevano da un luogo e restavano per sempre fuori
mercato. I piccoli formati invece, come i titoli brevi, potevano suscitare
entusiasmo e fu questo fenomeno, tipico del mercato d’arte, che avrebbe portato
fortuna agli impressionisti e che portò alla ribalta “L’Angelus”. Se
questo dipinto fosse stato largo tre metri e alto due, probabilmente non
avrebbe conosciuto la stessa fortuna.
Nel 1889, L'Angelus raggiunse tali
vette che fu addirittura oggetto di dibattito alla Camera dei Deputati dove
alcuni parlamentari chiesero che lo Stato lo acquisisse. Il dibattito fu
acceso e si potrebbe immaginare che i conservatori dell'epoca fossero sensibili
a questo elogio della terra e della religione. In realtà furono loro i più
contrari, perché continuavano a vedere nelle opere di Millet una denuncia della
povertà contadina. Anche la sinistra fu, come spesso accade, divisa: in questo
caso il suo patriottismo artistico entrava in conflitto con l'esigenza di
laicità, minata dalla religiosità del dipinto. Infine, le autorità
pubbliche presero una decisione a favore dell’acquisto: ma il prezzo del
dipinto fu portato alle stelle da un ricco americano e fra la costernazione
generale partì per gli Stati Uniti. Qualche anno dopo, però fu acquistato
nuovamente per una somma altrettanto bizzarra da un collezionista francese, Alfred
Chauchard (1821-1909), proprietario dei “Grands Magasins du Louvre” per 750.000
franchi e alla sua morte l'opera finalmente passò in eredità allo Stato.
Da allora in poi “L'Angelus” iniziò la “carriera” museale e, oltre ad
essere un dipinto di “cult”, diventò anche uno strumento diplomatico come
biglietto di visita della Francia. Il “Museo d'Orsay” infatti lo manda qua
e là nei paesi che ne fanno richiesta per mostre d’arte di cui l’opera è spesso
una vedette acclamatissima. Nel 1932 il dipinto fu freggiato da uno
sconosciuto con un bastone come la “Venere” di Velázquez.
Si dice che questo sia l'unico dipinto in cui
si possono “sentire suonare le campane”.
In quel momento invece Millet aveva raggiunto
l'abisso della sua povertà. "Abbiamo solo abbastanza cibo per sostenerci
per due o tre giorni", scrisse, "e non sappiamo come lo
otterremo...".
Oggi è Millet noto soprattutto la serie di
opere che mettono in luce la difficile situazione dei contadini e la dura
realtà della loro vita quotidiana. La vita contadina fu la sua specialità anche
se fu pittore piuttosto poliedrico ma queste scene contadine sono alcune delle
più belle e significative “scene di genere” dell’Ottocento e, insieme alle
opere di “Gustave Courbet”, rappresentano la prima apparizione di una
modernizzazione dell'arte, nel senso che i loro dipinti trattano
questioni di attualità sociale.
Millet conosceva da vicino la durezza della
vita contadina, in gran parte dovuta al ciclo costante delle stagioni e ai
faticosi compiti ad esse associati, ma anche dovuta ai capricci del tempo. Per
esempio, quando la produzione è stata raccolta e immagazzinata, giunge il
momento di preparare i campi per la nuova seminagione ma, prima che possano
essere arati, i campi devono essere ripuliti dalle erbacce e dalle stoppie. Un
ciclo continuo che non conosce soste. E in Francia come altrove, del resto,
questa pulizia dei campi era effettuata utilizzando la vanga, un pesante
attrezzo con un lungo manico, con una lama larga come quella di una pala ad
angolo retto ed era particolarmente faticoso da usare perché richiedeva e richiede
ancora oggi, una notevole forza fisica e una lunga resistenza: anche il più
forte dei lavoratori trova dolorosa la vangatura e ha bisogno di pause
regolari.
Il contadino raffigurato in questo dipinto di
Millet non fa eccezione.
Il suo magistrale “L'Uomo con la Zappa”, appoggiato
al suo arnese, tutto rigido, la bocca semiaperta, trasmette la sofferenza, la
stanchezza del contadino dopo una giornata di lavoro. È un contadino senza
identità, senza individualità, che lavora la terra e che è tutt'uno con
essa. Un disegno preparatorio in cui l'uomo con la vanga conserva ancora
alcune sembianze umane, mostra come è stata effettuata questa
"sintesi".
“L’uomo con la vanga”, olio su tela di
82 × 100 cm, databile fra il 1860 e il 1862, fa parte delle
collezioni del “J. Paul Getty Museum” di Los Angeles.
Fig. 16
Osserviamolo.
Appoggiato sul manico della vanga e ancora
molto affannato, il bracciante si ferma per una pausa e sembra sfinito.
In realtà non si tratta di una zappa come di
solito il titolo è tradotto, ma di una vanga, un attrezzo che serve
per dissodare il terreno suddividendolo in zolle che sono rivoltate e non per
scavare buche come la zappa. La vanga è diversa dalla zappa perché è spinta
nel terreno con la forza del piede anziché delle braccia. Una volta separata la
zolla e sollevata, l’altra mano afferra il manico il più possibile verso la
lama per completarne il sollevamento e per poi sbriciolarla. E questo per tutto
il campo da dissodare e da pulire da stoppie e da erbacce.
Coperto di sudore e con indosso solo la
camicia, dei ruvidi pantaloni e gli zoccoli, quando il caldo ha cominciato ad
incalzare ha tolto la giacca e il cappello e tiene le maniche allungate per
proteggersi dal sole intenso. Il viso e il collo sono già di un bruno intenso,
cotti dal sole, mentre le sue labbra sono screpolate e secche. L'espressione
sul suo volto è vuota e l’artista lo mostra privo di qualsiasi energia,
rivelandolo come un uomo allo stremo delle sue forze.
Sta solo, moderno Prometeo, in un campo
accidentato e ricoperto di rovi, di stoppie e di ciuffi d'erba, e da solo
lavora la terra e la pulisce.
Sullo sfondo di questa solitudine, in
lontananza alcuni mucchi di foglie secche e di erbe indesiderate stanno
bruciando, emettendo colonne di fumo.
Il contadino è alto, legnoso e appare
brutale.
Non ha via di scampo da quell’esistenza che
sembra un supplizio, una maledizione, una condanna ai lavori forzati.
La sua fisionomia poco attraente è simile a
quella del “Seminatore” del 1850 e delle “Spigolatrici” del 1857, ma
come in loro, sebbene abbrutito dalla fatica, anche in lui c’è dignità e calma
solidità, dettate dalla consapevolezza dell’immutabilità del proprio destino.
Questo sembrerebbe contraddire quei critici
d'arte che affermavano che Millet aveva concentrato tutta la sua attenzione
artistica sulla bruttezza della classe operaia rurale.
In realtà le opere di Millet sono prive del
sentimentalismo dello stanco Romanticismo e cercano solo di raccontare il lavoratore,
il suo ambiente e la sua strenua fatica.
Per lui la bellezza dei soggetti non conta.
Eppure “L'uomo con la vanga” è forse uno dei
pochi momenti della ribellione personale di Millet. L’opera fu infatti dipinta
in un momento in cui Millet non era più neanche in grado di pagare il prezzo
della visita medica a sua madre morente e aveva alzato le mani al cielo in
preda alla disperazione. Scrive in quel periodo: "Sono inchiodato alla
roccia e condannato a lavori forzati senza fine!"
Non è forse l’immagine che sembra esprimere
l’uomo con la vanga?
E allora, quando ancora una volta la povertà
si prendeva gioco di lui e lo schiacciava, dipinse nella sua opera l'amarezza
della sua disperazione.
Millet era ben consapevole di quali
sensazioni quell'immagine avrebbe suscitato nei borghesi infatti scrisse a un
amico: “L'uomo con la vanga mi metterà nei guai con un bel numero di persone
che non amano essere invitate a guardare con attenzione un mondo diverso da
quello a cui sono abituate, che odiano essere disturbate dalla loro
tranquillità”.
E aveva visto giusto. Raramente un'immagine è
riuscita a provocare opinioni così discordanti: da un lato la più grande
tempesta di insulti e dall'altro l'effusione più fanatica di elogi rispetto a
questa rappresentazione di un lavoratore dei campi, tormentato e disperato, che
si ferma per un momento ad appoggiarsi e a riprendere respiro.
In quell’immagine è impresso il peso dei
secoli di servitù. Lo spirito di quest’uomo è stato infatti fiaccato, ucciso da
generazioni di lavoro forzato imposte a lui e a tutta la sua classe. Nei suoi
occhi c'è uno sguardo vuoto. Ogni espressione sul suo volto è stata soffocata
dalla fatica, l’uomo era ridotto al rango della bestia.
Nel Seicento, in pieno Assolutismo, il
pensatore moralista Jean de La Bruyère, parlando di questa categoria di uomini
aveva scritto: “Certi animali selvatici si possono vedere sparsi per il paese,
maschi e femmine, neri, lividi e bruciati dal sole, legati alla terra, nella
quale crescono con invincibile ostinazione. Eppure, hanno una sorta di
linguaggio articolato, e quando si alzano, mostrano un volto umano e in realtà
sono uomini”.
Verrebbe da dire: non subumani?
I critici rabbrividirono di fronte al
doloroso realismo di quest’opera.
Nessuno prima di allora aveva mai osato
scuotere quell'uomo dalle sue tenebre – questo contadino con la vanga, con la
schiena piegata, con il cranio teso come una pera per la lunga e interminabile
fatica, con quegli occhi vacui, gelidi, insensibili a ogni pensiero – la bestia
feroce e muta dell'aratro.
Uno dei critici scrisse sprezzante:
"Millet dovette cercare per un bel po' di tempo prima di trovare un
ragazzo così. Tali tipi non si incontrano comunemente, nemmeno nei manicomi.
Immaginate un mostro con uno stupido sorriso stampato in faccia, piantato di
traverso come uno spaventapasseri in mezzo al campo. Nessun barlume di
intelligenza dà un tocco umano a questa cosa brutale, quindi si tratta di un
lavoro o di un omicidio che ha commesso? Sta scavando il terreno o sta scavando
una fossa?”
E di fronte a questo giudizio siamo
nell’anticamera di Lombroso?
In questo quadro, la gente di città, i
borghesi videro una propaganda socialista.
Ma l'uomo con la vanga non era un
manifesto politico, era piuttosto una figura molto tipica delle grandi masse di
braccianti agricoli che da dieci secoli lavoravano nei campi di Francia senza
un mormorio. Era forse apparso un artista per dar voce a questa povera gente?
Forse sì. Nei suoi quadri Millet mostrava un
lamento, ma senza l’idea di una disperazione sociale, ma di quella individuale.
Per una volta, Millet aveva dipinto però un autentico discorso politico.
“L'Uomo con la zappa” è un servo
paziente che compie l'opera di Dio nella sua cattedrale della terra e del
cielo.
Alle accuse di socialismo Millet chiese
retoricamente "L'opera di questi uomini è forse il tipo di opera futile
che alcuni vorrebbero farci credere? Per me, almeno, riflette la vera dignità,
la vera poesia della razza umana".
Poesia certamente, caro Jean François, ma
poesia tragica. Arare i campi, dipingere quadri, scrivere inni: queste nobili
opere devono essere fatte. Ma perché danno tanto amaro dolore nel compierle?
Le “scene di genere” di Millet
impressionarono molti pittori progressisti e crearono una tendenza che fu poi
sviluppata in opere come “I raschiatori del pavimento” del 1875 di
Gustave Caillebotte, “I Cantonieri in rue de Berne” del 1878 di Edouard Manet,
la “Donna che dipinge se stessa” del 1887-90 di Degas e “I giocatori
di carte” di Cézanne del 1892-6. Per non dire delle opere di Daumier
e di Rosa Bonheur, anche se quest’ultima con uno spirito alquanto diverso.
Queste opere furono molto discusse in un
momento in cui la Francia stava ancora cercando di assestarsi e di sanare le
sue divisioni interne all'indomani della Rivoluzione del 1848, anche se Millet
era un artista più umanitario che fazioso. Da questo punto di vista, era
diverso da “Gustave Courbet” (1819-1877), pittore decisamente di
sinistra, le cui opere come “Gli spaccapietre” e “Lo studio dell'artista”
del erano così sfacciatamente politiche.
Tuttavia, Millet condivise con Courbet lo
stesso desiderio di rendere omaggio agli operai e ai braccianti di Francia e le
sue immagini diedero una nuova monumentalità alle loro esistenze.
Per lui, i contadini e le campagne facevano
parte di un mondo arcaico fuori dal tempo ed erano una parte unica del
patrimonio della Francia. Essendo anche i più vicini alla natura erano anche i
più vicini a Dio.
Per fortuna il dolore per il mancato
apprezzamento di quest’artista non rimase con lui per sempre: alla fine opere
come “Il seminatore”, “Le spigolatrici” e
“L'Angelus” convertirono un piccolo, ma influente gruppo di persone e di
critici alla religione della sua arte. Queste persone non erano né sconcertate
né spaventate dal suo realismo. Un'artista “fratello”, “Théodore Rousseau”, fu
uno dei primi a riconoscere il genio di questo pittore così tristemente
paziente e, quando Millet stava affrontando le sue schiacciati difficoltà
economiche, Rousseau comprò uno dei suoi dipinti per poche centinaia di franchi
e, per non metterlo in imbarazzo, finse che l'aveva comprato per un ricco
americano. Un altro amico aveva raccolto abbastanza soldi attraverso una
lotteria per pagare l'affitto e le note del macellaio. Alexandre Dumas
scrisse articoli entusiastici sul suo lavoro, e un ricco collezionista
accettò di anticipargli 1.000 franchi al mese in cambio della produzione totale
di Millet per un periodo di tre anni. Un altro cliente ancora gli commissionò
delle opere a pastello per una collezione che si prevedeva che
sarebbe cresciuta fino a più di 90 unità: dal 1865 Millet fece quindi del
pastello il suo campo privilegiato di sperimentazione pittorica e lo utilizzò
per lavorare sulla resa della luce e dei colori.
Sembrava che il destino di Millet stesse
cambiando.
Nel 1867, in occasione dell’”Esposizione
Universale” di Parigi fu ospitata un’importante antologica delle sue opere fra
cui “Le spigolatrici”, “L'Angelus” e “I piantatori di patate” del 1861.
Fig. 17
Il primo vero riconoscimento ufficiale gli
giunse tuttavia l’anno successivo, il 1868, quando fu nominato cavaliere della
“Legion d'Onore”, e poi nel 1869, quando il “Museo delle Belle Arti” di
Marsiglia acquistò “La Bouillie” del 1861, la sua prima opera ad entrare in una
collezione pubblica. Nell’anno in cui fu insignito della Legion d'Onore
ebbe anche il suo dolore più grande: perse il più caro dei suoi amici, Rousseau
che affetto da paralisi, questo "più di un fratello" morì tra le sue
braccia.
Fig. 18
Tra il 1853 e il 1871 Millet aveva compiuto
brevi soggiorni nella sua regione natale, da dove aveva sempre riportato
numerosi studi che rappresentavano i luoghi della sua infanzia, la sua casa, i
monumenti locali, la costa della Normandia. “Le Bout du hameau de Gruchy”
del 1854, tela preparatoria per una composizione presentata poi al Salon del
1866, è un primo esempio.
Fig. 19
Col passare del tempo, la sua tavolozza tese
ad alleggerirsi un poco e, man mano che le sue pennellate si
allentavano, dava luogo a un certo impressionismo: diversamente dagli
impressionisti, però non dipinse mai all'aperto, vi realizzava i disegni, che
poi riutilizzava nel suo atelier per creare le sue composizioni, e non prestò
mai troppa attenzione ai valori tonali.
Nell'agosto 1870 Millet fuggì dalle truppe
prussiane che minacciavano l'Île-de-France in cui si trova anche Barbizon e si
rifugiò a Cherbourg con la moglie e i loro nove figli.
La fine della sua vita fu segnata da un
appassionato interesse per il paesaggio, in particolare per i siti legati alla
sua infanzia (Le Lieu Bailly, vicino a Gréville) e per i monumenti emblematici
della sua regione.
La serie “Falaises de Gréville” è
particolarmente caratteristica di questa lenta maturazione dai primi
schizzi rapidamente abbozzati al disegno preparatorio finale, passando per gli
studi più precisi alla matita, alla penna o al pastello.
L'ultimo soggiorno di Millet nel Cotentin,
dal 1870 al 1871, segna il trionfo assoluto del paesaggio nella sua
opera. La resa degli effetti atmosferici e luminosi osservati all'aperto
diventa importante quanto il soggetto stesso del dipinto.
“La Chiesa di Gréville”, ultimo capolavoro
dell'artista che non lasciò mai il suo studio, è l'emblema delle sue origini,
l'espressione del suo attaccamento alla sua terra natale.
Fig. 20
Completata nel 1874, anno della prima mostra
impressionista, l'opera è inondata di luce solare. Il tocco è libero,
vivace e veloce. Millet si unisce qui alle ricerche della nuova
generazione di artisti che si preparava a rivoluzionare ancora la pittura.
Millet morì a Barbizon il 20 gennaio 1875.
L’eredità di Millet ebbe tuttavia una
notevole influenza su altri giovani artisti, tra cui “Eugène Boudin” (1824
– 1898) nella rappresentazione della vita rurale e contadina, “Claude
Monet” (1840 – 1926) influenzato dalla rappresentazione della vita rurale e
anche dalla luce naturale e dal colore dei dipinti di Millet e più tardi influenzò
anche “Pablo Picasso” (1881 – 1973) che a Parigi lo studiò molto in particolare
il suo uso di luci e ombre per creare effetti drammatici nei suoi dipinti. Il suo
talento di disegnatore e l'attenzione per la gente comune nelle sue opere
piacquero ad artisti come Van Gogh, che ricordò più volte l'opera di
Millet nelle lettere a suo fratello, e come “Georges Seurat”, padre del
“pointillisme”.
Massimo Capuozzo