Rimasto per secoli un po'
nell'ombra perché su di lui è pesato il giudizio negativo di Vasari
ed ancora perché le sue opere sono sparse dovunque nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti,
Sebastiano del Piombo è stato un
grande dell'arte italiana, un illustre rappresentante della pittura
rinascimentale, forse il più grande ritrattista della sua epoca.
Il Cinquecento, già dal primo decennio, si
avviava verso un nuovo modo di trattare la pittura. Il supporto artistico, fino
a quel momento legato alla tavola, ora è quasi del tutto sostituito dalla tela,
più economica, leggera e facilmente trasportabile. Alcuni artisti, inoltre, sviluppando
e maturando tecniche personali, arriveranno addirittura a scegliere i nuovi
tipi di tela in base alla loro trama e al tipo di ordito, per sfruttarli come
mordente per la stesura del colore, alla ricerca di particolari effetti
pittorici. Si definisce inoltre in modo decisivo il ritratto
allegorico, in cui, oltre all’uso di simboli sottintesi, il soggetto stesso si
mostra in veste allegorica o di personificazione.
Nel Veneto,
la generazione di artisti che si affaccia al Cinquecento, stimolata anche dal mercato,
aderisce al tonalismo e riconosce in Giorgione
il punto di riferimento, a prescindere dall’effettivo contatto con il maestro. È
difficile, infatti, definire i limiti di scuola
o bottega intorno a Giorgione,
poiché i rapporti fra gli artisti del circolo giorgionesco non ricalcano lo
schema maestro-allievo tipico della
bottega, ma possono essere definiti un rapporto di collaborazione-competizione
continua che coinvolgeva alcuni degli artisti più promettenti.
Un rapporto di
collaborazione e non di discepolato lega Giorgione
e il coetaneo Sebastiano Luciani
(1485 – 1547), meglio noto come Sebastiano del Piombo, come del resto
avviene per Tiziano
(1480\85 – 1576).
Sebastiano iniziò la sua carriera a
Venezia intorno al 1505 e, come scrisse Carlo Volpe (Bologna, 1926 - 1984), vi svolse il ruolo di mediatore
fra l'antico, rappresentato da Giovanni
Bellini, ed il nuovo, rappresentato da Giorgione.
L’eredità di Giorgione
si estinse comunque rapidamente: Tiziano e Sebastiano si contesero il primato di guida
della generazione emergente. Tra il giugno del 1510 e l’agosto del 1511 Sebastiano del Piombo si occupò
dell’esecuzione della Pala di San Giovanni
Crisostomo, l’opera più importante e ricca di nuovi elementi che egli realizzò
a Venezia, su richiesta di Caterina Contarini e di suo marito
Niccolò Morosini.
La Pala di San Giovanni Crisostomo segna una tappa decisiva nello
sviluppo tipologico della pala d'altare veneziana, oltre che nel percorso
personale dell'autore, con il riaffermarsi di una decisa tendenza verso una
maggior pienezza volumetrica e nello stesso tempo una più rigorosa essenzialità
plastico-luministica, tanto dal punto di vista delle soluzioni iconografiche
quanto per le scelte di ordine compositivo e strutturale: la libertà spaziale,
l’asimmetria nella disposizione dei personaggi, la figura principale vista di
profilo.
Intanto, Tiziano,
per sfuggire alla peste, si era trasferito a Padova e nell’aprile del 1511
affrescò tre Episodi della vita di
Sant’Antonio nella Scuola del Santo.
Con i dipinti padovani il poco più che ventenne Tiziano
afferma la propria autonoma personalità. Nuovi, forti accordi cromatici superavano
le armonie elegantemente e pazientemente costruite da Giorgione, alle quali lo
stesso Sebastiano era rimasto legato.
Questi aspetti salienti
possono spiegare con quale atteggiamento Sebastiano accolse l'opportunità di
trasferirsi a Roma,
che gli fu offerta dal banchiere del papa, Agostino Chigi, in
visita presso la Serenissima.
Con la partenza di Tiziano
per Padova, anche Sebastiano, nella primavera del 1511, lasciò definitivamente Venezia alla volta di Roma. La sua scelta
dovette essere radicale, nel senso che Sebastiano non solo cambiava città, ma si
recava in un luogo in cui la pittura era concepita molto diversamente da come
era pensata dai veneti, tuttavia non era un salto nel buio: Sebastiano aveva un mentore di eccezione, Agostino Chigi.
Agostino Chigi (1466 - 1520), nato a Siena da un’intraprendente
dinastia di mercanti, passata poi all’attività bancaria, ricevette la sua
formazione presso la banca paterna. Alla fine del Quattrocento, suo padre Mariano,
facoltoso banchiere senese che aveva avuto anche molti incarichi politici nella
Repubblica, lo aveva inviato a Roma,
affinché vi impiantasse una succursale della compagnia di famiglia. L’intraprendente
Agostino entrò presto in contatto con lo Stato della Chiesa e con le sue
finanze ed aprì a Roma,
appena ventenne, la sua prima società. Perspicace banchiere, accumulò enormi
capitali, diventando uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo, in tal
modo poté finanziare papi e regnanti. Noti sono, infatti, i suoi ingenti
prestiti a Cesare Borgia e, in
seguito a Giulio II Della Rovere,
papa dal 1503 al 1513, per le rispettive spedizioni militari; tali finanziamenti
gli fruttarono enormi ricavati. Ma la vera base della sua immensa ricchezza
furono i diritti di sfruttamento delle miniere
di allume di Tolfa, presso Roma,
di cui ottenne da Giulio II
il monopolio sull’estrazione e sulla commercializzazione dell'allume: il
monopolio di questo prezioso minerale consentì, infatti, ad Agostino di dettare
i prezzi a suo piacimento e da questo derivarono commerci ed esportazioni in
tutta Europa, con ricavi esorbitanti che nel 1502 gli permisero di fondare a Roma il banco Chigi. Agostino diventò
uno dei banchieri più potenti d’Italia forse d’Europa e, durante il pontificato
di Giulio II
e di Leone X,
Papa dal 1513 al 1521, fu anche tesoriere della Curia.
Diventato ben presto noto
come Agostino Chigi il
Magnifico per i grandissimi meriti in ambito finanziario e culturale, all’alba
del Cinquecento quindi, Agostino Chigi era ormai
un personaggio fondamentale nel panorama economico e finanziario romano, e
inoltre era uno degli uomini più potenti della corte pontificia. Grande
appassionato d'arte e sapiente mecenate, Agostino aveva lo stesso fiuto per gli
affari che aveva anche nel riconoscere le stigmate di un artista.
Banchiere ricchissimo,
eppure tenuto ai margini del mondo aristocratico per la sua origine mercantile,
Agostino, volle una dimora che fosse il segno tangibile della propria
personalità e della propria cultura e decise di farne edificare una sontuosa lungo
le rive del Tevere, che stupisse gli ospiti con raffinati riferimenti culturali
e con un gusto artistico non già ereditato col sangue, ma frutto
dell’intelligenza e dell’educazione. La villa, oggi nota come Farnesina, è in
realtà un’emanazione della biografia di Agostino.
Per l’edificazione della sua
dimora suburbana, il banchiere mecenate chiamò a Roma il suo conterraneo Baldassarre Peruzzi,
che dal 1508 si mise all’opera e già nel 1512 aveva completato la costruzione, secondo
un progetto tanto elegante e funzionale da fornire un modello di riferimento
per i secoli successivi. E siccome una così bella villa doveva essere
affrescata adeguatamente, Agostino la fece decorare con magnificenza scegliendovi
il meglio del meglio: intorno a lui e al cantiere della villa gravitavano i più
famosi artisti del tempo tra i quali Raffaello, Il Sodoma, Baldassarre Peruzzi,
Giulio Romano ed altri, nonché Sebastiano del Piombo che aveva
conosciuto a Venezia.
Presto la villa divenne uno dei luoghi più frequentati da intellettuali da
artisti e da uomini di potere dell’epoca.
Il 3 febbraio 1511, quando i
lavori per le decorazioni della prima loggia del pianterreno della sua villa –
la futura Loggia di Galatea –
erano appena cominciati, il ricco banchiere si recò a Venezia, inviato dal papa
per trattare con il doge. Durante questo soggiorno Agostino fece due incontri
importanti. Il primo è quello con Sebastiano del Piombo, che in seguito
collaborò alla decorazione della sua Villa, il secondo è quello con una
giovane donna, Francesca Ordeaschi,
di cui Chigi
si innamorò perdutamente e che portò con sé a Roma
nell’agosto 1511: Francesca entrò ufficialmente nella splendida Villa Chigi, divenendone a tutti gli
effetti l’invidiata, ma indiscussa première dame.
Quando Sebastiano giunse a Roma, il più importante
laboratorio artistico del pieno Rinascimento, aveva ventisei anni. Roma gli si rivelò in
tutto il suo antico splendore e in tutti i suoi cantieri moderni guidati da Bramante.
Sul soglio di Pietro dominava Giulio II
Della Rovere, uno dei papi più energici, grandi e controversi della storia,
il papa che avviò la ricostruzione di San Pietro, che costrinse Michelangelo a
dipingere la volta della Cappella Sistina e che chiese a Raffaello di decorare il
suo appartamento privato in Vaticano. A Roma Sebastiano trovò, secondo le parole di Claudio
Strinati, un “momento di apparente
fervore artistico”. Era avvenuto il primo scoprimento ufficiale della volta
della Cappella Sistina è c’era stato il trionfo di Raffaello nelle Stanze
Vaticane, ma “al di fuori dell'area di San Pietro e dei palazzi vaticani, non
sembrava che ci fosse granché da fare”. Per di più la Roma artistica della
corte del Papa era avvelenata Roma
dalla rivalità fra Michelangelo e Raffaello.
L'ammirazione di Raffaello per Michelangelo
si era trasformata presto in un vero e proprio scontro artistico. Probabilmente
non furono i due interessati a schierarsi volontariamente l’uno contro l’altro,
ma il clima molto competitivo della corte papale, surriscaldato probabilmente
da Bramante, che cercava di tirare l'acqua al proprio mulino, screditando
il fiorentino Michelangelo e favorendo invece il suo conterraneo Raffaello. Le risorse
papali, per quanto immense, non erano infinite e Bramante, architetto e
sovrintendente ai lavori del Vaticano, impegnato nella difficile
impresa della ricostruzione di San Pietro, non vedeva di buon occhio
le spese che il Papa aveva stanziato per l’immensa opera della
sua tomba che per le dimensioni sarebbe assomigliata ad un mausoleo, che
sarebbe stato eseguito da Michelangelo: Bramante temeva che questa impresa
colossale di scultura avrebbe sottratto risorse alle decorazioni del
Vaticano, per le quali aveva chiamato Raffaello, e soprattutto
che avrebbe bloccato il cantiere ricostruzione della basilica. In combutta con Giuliano di San Gallo (1445 – 1516) i
due si adoperarono a distogliere il Papa dalla continuazione della sua
tomba: alla fine Bramante riuscì a persuaderlo a rinunciare al
progetto e suggerì al Papa di far dipingere le volte della
cappella costruita da papa Sisto, suo zio, e d’incaricare
Michelangelo di quel lavoro. Pare che il suggerimento fosse inspirato da un
poco di malignità, al solo fine di far inciampare Michelangelo, poco abile
nella pittura a fresco, ed un fallimento avrebbe esaltato le capacità del suo
protetto, Raffaello
e gli avrebbe definitivamente sgombrato il campo.
Michelangelo, il quale non
temeva rivale in scultura, dubitando di compromettere la sua carriera, si
rifiutò a lungo d’accettare quel lavoro, cercando addirittura di farlo
affidare a Raffaello,
ma Giulio II persistette nei suoi desideri, e Michelangelo dovette
ubbidire. Cercò aiuti e collaboratori a Firenze che lo aiutassero in
questa impresa per lui tanto ostica, ma non ne fu soddisfatto e li rimandò
indietro, decidendo di lavorare da solo, per molti anni.
La rivalità tra i due
pittori portò presto al nascere di veri e propri schieramenti, con sostenitori
dell'uno e dell'altro, ai quali si aggiunse Sebastiano del Piombo, preso sotto la
protezione di Michelangelo. Un clima che, senza scendere nei dettagli, si
poteva definire senz’altro infuocato al cui centro c’era il vulcanico Giulio
II.
In questo clima, certamente
fervido di ricerche artistiche, ma anche di grandi rivalità, cominciava
l’esperienza romana di Sebastiano e cominciava in un luogo
eccezionale: la partecipazione ai lavori di decorazione di Villa Chigi
dove gli fu affidata la loggia terrena. Qui affrescò, su richiesta del ricco
mecenate senese, le lunette del soffitto con soggetti mitologici tratti
dalle Metamorfosi di Ovidio e ispirati unitariamente al tema dell'aria.
L'esecuzione dell'opera, caratterizzata da un'inedita immediatezza disegnativa
e soprattutto da una programmatica, squillante chiarezza di colorito può
definirsi veramente aerea. A questi tratti si legano però la coscienza e la diretta
esperienza dei livelli raggiunti dall'arte, da un lato di Raffaello e dall'altro di
Michelangelo.
Lo scontro fra i due artisti
di punta alla corte del Papa era accentuato dal clima molto competitivo della
corte del Papa. Sebastiano aveva un modo di fare arte
affine a quello di Michelangelo, quindi ne conseguì che, appena giunto a Roma, stringesse amicizia
col difficile Michelangelo, inserendosi, suo malgrado, nella rivalità tra i
due. L’amicizia con uno equivaleva ad una vera e propria scelta di campo per
cui Sebastiano diventò rivale di Raffaello.
Sebastiano ingaggiò una dura sfida con Raffaello, una sfida fatta
di diffidenza e di aspra lotta, che iniziò fin dal loro primo incontro, nella
villa di Agostino Chigi:
qui Raffaello
dipinse la Galatea, Sebastiano il Polifemo che l'accompagna nonché gli affreschi delle lunette.
Tra questo suo primo lavoro a
Roma nel 1511 e la svolta
decisiva del 1516, con opere a soggetto
religioso ispirate direttamente a Michelangelo, si colloca un nucleo
consistente di ritratti nei quali Sebastiano del Piombo sembra coniugare la
maniera veneta con le suggestioni del variegato panorama artistico romano, nel
quale sfolgorava incontrastato l’astro di Raffaello.
È significativo che la
carriera romana di Sebastiano sia iniziata in quelle stesse
stanze di quella Villa in cui, Raffaello lavorava al Trionfo
di Galatea, una delle più alte pagine della sua parabola artistica: la grandezza
di Raffaello
– prima che Sebastiano, in seguito al suo sodalizio
con Michelangelo, si discostasse definitivamente dai modi del raffinato e
gentile urbinate – dovette senz’altro esercitare, almeno inizialmente, la
propria attrazione nei confronti di Sebastiano.
Grazie alle conoscenze di Agostino Chigi, Sebastiano del Piombo ebbe l’occasione di
trovare nella ritrattistica il genere che lo rese celebre: nell’ambiente romano
Chigi gli procurò una serie di personaggi di riferimento a cui eseguire
ritratti.
La luce e gli influssi della
pittura fiamminga con pochi colori e l’influenza delle opere monumentali di
Michelangelo offrirono a Sebastiano l’opportunità di esprimersi al
meglio in questo genere. La ritrattistica è la cifra stilistica in cui sia a
giudizio di Vasari sia a giudizio di Paolo
Giovio, che in quegli anni era a Roma, sia stato insuperato.
Le caratteristiche della ritrattistica di Sebastiano sono la mediazione della sua
eredità veneziano fiamminga, ma anche della monumentalità scultorea che aveva
assimilato dalla pittura fiorentina impersonata a Roma da Michelangelo.
In questi primi anni di
attività romana, Sebastiano ricevette varie richieste di
ritratti, alcune particolarmente prestigiose e ugualmente legate al mondo della
Curia, come quella di Ferry Carondelet, umanista rinascimentale che visse
a Roma tra il 1510 e il
1512, prima di trasferirsi a Viterbo occupato in alte cariche da Papa Giulio II.
Il Ritratto del Cardinale Ferry Carondelet con i suoi segretari si
trova oggi nel Museo Thyssen-Bornemisza
di Madrid, in esso si coglie la
seduzione di Raffaello,
tanto che anticamente quest’opera era attribuita al genio urbinate, spinta alle
sue estreme conseguenze e la freschezza del contatto con Raffaello si fonde
mirabilmente con il tonalismo post-giorgionesco. Quella vena lagunare, che si
apprezza nel ritratto del presule belga nella vampata calda sulle carni dei
personaggi immersi nella sfrangiata luce crepuscolare, evidenzia la
perseveranza con cui Sebastiano si dimostra fedele alla propria
formazione, fedeltà alla quale, forse, egli non verrà mai meno e che in questo
ristretto periodo di tempo, tuttavia, emerge ancor più prepotentemente evidente
in alcuni ritratti informati, anche a livello compositivo, ad un’impostazione
profondamente veneziana.
Generalmente i ritratti di Sebastiano presentano una figura
centralissima di primo piano, spesso presa di spalla d’angolo e che si illumina
tra i contrasti del fondo costruiti attraverso un’architettura ortogonale che
apre una finestra paesaggistica contrapposta ad una parte di parete oscura su
cui si illumina l’incarnato dei personaggi.
Dello stesso periodo sono
pure due ritratti femminili, più o meno ideali e allegorici, quali la cosiddetta Fornarina,
del 1512 e la cosiddetta Dorotea di Berlino. Su questi due ritratti si
congettura che uno dei due sia il ritratto di Francesca Ordeaschi, compagna poi moglie di Agostino Chigi.
Della vita di questa ragazza
prima del suo arrivo a Roma
si sa poco o nulla. Per alcuni Francesca Ordeaschi sarebbe una bellissima e
raffinata cortigiana, per altri una fanciulla di umili origini, per altri la
figlia di uno speziale. Non si sa in quali circostanze, durante
quella sua missione a Venezia,
Agostino Chigi incontrò
Francesca e la portò con sé a Roma,
ma quando vi giunse, agli occhi di tutti fu considerata un trofeo in più
tra le numerose amanti del banchiere, ben noto per la sua tumultuosa vita
sentimentale. Prima di trasferirsi a Villa Chigi, Agostino Chigi aveva
vissuto in una casa in Via dei Banchi
con la giovane moglie Margherita Saracini, morta nel 1508 senza avergli dato
figli. Poi aveva intrecciato una relazione con una cortigiana, la divina Imperia,
famosa per la sua bellezza e la sua cultura. Ma già prima della morte della
donna nel 1511, aveva cominciato a corteggiare invano Margherita Gonzaga,
figlia naturale di Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, con la quale però
non riuscì a terminare il matrimonio, nonostante avesse promesso di rinunciare
ai suoi affari per superare la diffidenza della corte Gonzaga.
Quando giunse a Roma, Francesca non andò subito
ad abitare a Villa Chigi: Agostino, infatti, scelse di farla educare in un
convento affinché completasse la propria istruzione.
Sulle prime la figura di
Francesca non sembrò interferire nella vita sociale e mondana del
banchiere e non richiamò l’attenzione della famiglia Chigi
Chigi, ma, quando nel
1512, nacque il loro primogenito Lorenzo, l’indifferenza mostrata fino
a quel momento dai Chigi
nei confronti di questa relazione si trasformò improvvisamente in aperta
ostilità.
I Chigi ed in particolare
Sigismondo, fratello di Agostino, il quale aveva sposato una figlia
di Pandolfo Petrucci, signore di fatto di Siena e un cui discendente
sarebbe stato Papa Alessandro VII Chigi, espressero apertamente il loro
disappunto. Nel pensiero dei Chigi,
l’eventualità di un matrimonio o anche di una semplice relazione con questa
veneziana di origini umili forse un’ex prostituta, era inammissibile: per loro
infatti, la fortuna di Agostino, benché considerevole, non gli permetteva di
avere automaticamente la stima dell’aristocrazia. Era necessario
adeguarsi a quella società dai codici ferrei ed agire con avvedutezza per
rimanere il banchiere di questa notevole clientela. Già i Chigi non avevano origini
nobili e le ambizioni del talentuoso uomo d’affari lo costringevano a farsi
accettare da questo ceto aristocratico per mantenerlo tra i suoi clienti. Era
quindi più saggio, perché la fama dei Chigi fosse totale,
sposare una giovane donna di stirpe nobile, che avrebbe assicurato alla
famiglia una legittimità presso le cerchie più alte. Infatti, era
già previsto un matrimonio di Agostino con la giovane Margherita
Gonzaga, figlia di Francesco II Gonzaga, marchese di Mantova.
Questo progetto però fallì, Margherita,
infatti, rifiutò il matrimonio, avanzando il pretesto dell’età già
avanzata di Agostino, ma si può supporre che fosse a conoscenza della sua
relazione.
Così, quando Sigismondo si
rese conto che l’atteggiamento di Agostino lo distraeva dalle priorità
familiari, prese alcuni provvedimenti per separare i loro affari.
L’attaccamento di Agostino alla bella veneziana minacciava apertamente i
progetti di sviluppo dell’impresa di famiglia. Quando Francesca partorì il suo
primo figlio, i due fratelli erano in disaccordo per la futura gestione degli
affari familiari: i beni dei beni dei Chigi furono divisi,
affinché i figli di Francesca non ereditassero i beni comuni ai
membri della famiglia e questo determinò una rottura all’interno della
famiglia.
La relazione di Agostino con
questa giovane veneziana provocò un vero scandalo, non solo nella famiglia Chigi, ma anche
nell’alta società romana, ma Agostino incurante, per celebrare il loro
amore, commissionò a Raffaello
l’illustrazione della favola di Amore
e Psiche tratta da Le
metamorfosi di Apuleio nella Loggia di Psiche, al pianterreno della Villa.
Dopo diversi anni di
rapporto more uxorio Agostino, con grande sorpresa di tutti, sposò
Francesca Ordeaschi il 28 agosto 1519, con rito officiato dallo stesso
Leone X a Villa Chigi.
Quel giorno, Agostino invitò
i suoi rispettabili ospiti ad uno dei suoi principeschi conviti, come
accadeva spesso, ma gli invitati non sospettavano di recarsi ad un
matrimonio.
Su insistenza di Papa Leone
X dei Medici, Agostino regolarizzò la sua relazione, legittimando così i
quattro figli nati da quell’unione illegittima. Da molto tempo, il papa
pregava Agostino di affrettare il matrimonio, ma Chigi aspettava che Raffaello avesse terminato
le decorazioni della Loggia di Psiche che alludono direttamente alla sua
storia d’amore. Il banchetto fu un evento memorabile, ma non più degli altri
conviti durante i quali Agostino Chigi aveva
accolto nella sua nuova dimora le più insigni personalità del suo tempo, tra
cui poeti, principi, cardinali e lo stesso pontefice. I cronisti dell'epoca
ricordano per esempio che nel 1518 le suppellettili d'oro e d'argento usate per
il banchetto furono gettate nel Tevere in segno di munificenza, anche se sembra
che l'accorto banchiere avesse fatto stendere segretamente nel fiume delle reti
recuperando così il prezioso vasellame.
Quello tra Agostino Chigi e Francesca
Ordeaschi rappresentò un matrimonio rivoluzionario: una donna dai trascorsi per
l’epoca discutibili, era riuscita a sposare uno degli uomini più influenti del
tempo. Un uomo che, per amor suo, aveva mandato a monte le trattative di nozze
con la nobile Margherita Gonzaga, il cui blasone avrebbe dovuto portare
ulteriore lustro alla famiglia Chigi.
Nonostante
il felice esito del matrimonio la prosecuzione
della storia di Francesca finì invece per somigliare ad
una tragedia. Agostino, infatti, morì pochi mesi dopo, il 10 aprile 1520
all’età di cinquantacinque anni. I suoi funerali, cui parteciparono migliaia di
persone, rappresentarono un vero e proprio trionfo post mortem, del tutto coerenti con la sua magnificenza di mecenate
e con la sua fama di abilissimo ed elegante uomo di affari. Doti, queste, che
l’avevano reso amico e in molti casi ascoltato consigliere dei più potenti nomi
dell’Europa rinascimentale.
Solo sette mesi dopo la sua
morte, Francesca fu probabilmente avvelenata dopo aver partorito il loro quinto
figlio, da lei chiamato Agostino in memoria del defunto marito. L’ancor giovane
moglie gli sopravvisse solo sette mesi, morendo da ricchissima ereditiera, e
forse per questo avvelenata. Su questo dubbio, tuttavia, la fama della
leggendaria coppia fece prevalere la convinzione che la prematura e misteriosa
morte di Francesca fosse stato un suicidio di vero amore: un amore degno dei
sublimi affreschi, raffaelleschi e non solo, della Villa Farnesina.
Il rifiuto del loro matrimonio
continuò anche dopo la loro scomparsa. Raffaello e il suo
mecenate avevano progettato insieme la cappella funeraria dove il banchiere e
la sua consorte dovevano riposare entrambi in tombe piramidali. Ma Francesca
non fu inumata con lui nella seconda tomba piramidale della Cappella Chigi
in Santa Maria del Popolo, ma vicino alla porta di San Pietro in Montorio. Nella
tomba piramidale di fronte a quella del grande banchiere riposa invece Sigismondo.
Rifiutata sin dal suo arrivo
dalla famiglia Chigi,
non vi è dubbio che vi sia stato il desiderio di sbarazzarsi di colei che
provocò uno scandalo e mandò in rovina i progetti dell’impresa di
famiglia. A questo punto, la favola di Psiche, scelta da Agostino
per decorare una delle stanze principali della sua Villa, permette di
trasporre la loro storia d’amore in immagini, prima della futura tragedia
finale, e al contempo offre a Raffaello la possibilità
di rinnovare la sua pittura.
I due ritratti che
potrebbero dare un volto a Francesca sono la cosiddetta Fornarina e la
cosiddetta Dorotea.
Il Ritratto di donna, ancor oggi da alcuni indicato come la Fornarina,
è un dipinto a olio su tela (68x55 cm), datato 1512, in basso a sinistra,
poco sopra la manica, e conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
Su questo dipinto si sono
addensati molti enigmi. Il primo è quello dell’attribuzione. L’opera è stata
dapprima attribuita a Raffaello,
identificando il personaggio ritratto con l’amante di Raffaello, Margherita
Luti, figlia di Francesco, fornaio della contrada di Santa Dorotea a Roma, e per questo detta
la Fornarina; poi è stata attribuita a Giorgione; in seguito vi è stata riconosciuta
Vittoria Colonna, ritenendo che il ritratto fosse stato impostato da
Michelangelo, amico della poetessa, ed eseguito da Sebastiano del Piombo; infine la maggior
parte degli studiosi più recenti, da Giovanni Morelli (1816 – 1891) a Bernard Berenson
(1865 – 1959), da Lionello Venturi (1885 – 1961) a Mauro Lucco (1949)
hanno chiarito il lungo equivoco, assegnando senza riserve l'opera a Sebastiano del Piombo e
sull’identificazione del personaggio la Professoressa Anna Baldazzi
diversamente dal resto della critica, ha ipotizzato la figura di Francesca
Ordeaschi. Nonostante ciò, talvolta il dipinto è ancora indicato col titolo
tradizionale settecentesco di Fornarina. Recentemente Lucco ha inoltre riconosciuto
nella figura di donna ritratta con la coroncina d'alloro una poetessa e ha
indicato una copia del dipinto nel quadro conservato al Museo di Palazzo
Venezia a Roma,
probabilmente eseguito dal Maestro stesso.
Il dipinto di Sebastiano, che ha suscitato tante
perplessità di attribuzione, ha sicuramente una base raffaellesca,
riconoscibile nella posa, nell'illuminazione e nell'attenzione riservata alla
resa degli effetti materici del vestiario, come nella pelliccia che la donna
tiene appoggiata su una spalla. L'effetto col quale la donna emerge dallo
sfondo scuro e con malizioso sorriso guarda verso lo spettatore ricorda lo sfumato
leonardesco. Incontrovertibilmente veneto è invece il colore denso e pastoso,
soprattutto nell'incarnato che risente dell'influenza di Giorgione e della formazione
veneziana e rende attribuibile l’esecuzione al solo Sebastiano nei primi anni del suo
soggiorno romano, quando lavorava per Agostino Chigi.
La donna è effigiata a mezza
figura con il capo elegantemente chinato in avanti e lo sguardo volto verso lo
spettatore. Il colore scuro degli occhi è perfettamente in sintonia con quello
dei capelli, lisci e raccolti sulla nuca, impreziositi da un delicato fermaglio
con piccole foglie probabilmente di alloro.
A prima vista l'abito appare
modesto – un'ampia camicia bianca plissettata e bordata alla scollatura da un
nastrino verde scuro con ricami dorati, una veste con spalline – ma l'aspetto signorile
della donna e la pelliccia, realizzata con grande perizia ricorrendo a
pennellate ruvide, che le scivola disinvoltamente lungo la spalla sinistra
lasciano intuire che forse si tratta di un elegante personaggio, abbigliata con
queste vesti per espressa volontà di Sebastiano del Piombo, che va letta come
un'allegoria della Poesia. I gioielli che indossa sono discreti, adeguati a una
classe medio-alta, non certo a una regnante: al dito mignolo mostra un anello
con pietra preziosa, agli orecchi due pendenti di perle, nella scollatura un
filo dorato. È probabile, infatti, che la commissione del quadro sia nata proprio
in un ambiente di grande interesse per la letteratura, quando nei circoli
culturali frequentati da artisti, letterati e dilettanti era di moda leggere i
sonetti di Petrarca.
Appena successiva al Ritratto di donna è la cosiddetta Dorotea,
noto anche come Ritratto di una giovane
donna romana con cesto di frutta.
La Dorotea è
un dipinto a olio su tavola (78x61 cm), databile all’incirca al 1512
e conservato nella Gemäldegalerie di Berlino.
Il titolo la Dorotea, con
cui è noto il dipinto, deriva dal cesto che richiama gli attributi iconografici
di Santa Dorotea, costituiti appunto da un canestro di mele e di rose,
secondo quanto narrano il Martyrologium Hieronymianum e la Leggenda Aurea
di Iacopo da Varazze.
A lungo considerata un’opera
di Raffaello,
l'attribuzione definitiva a Sebastiano risale al 16 luglio 1835 per
merito dello storico dell'arte Gustav Friedrich Waagen (1794 – 1868),
primo conservatore della Gemaldegalerie.
Il ritratto rappresenta un’incantevole
donna dallo sguardo enigmatico, infatti, non a caso è chiamata la Gioconda di
Berlino.
Ritratta a mezzobusto con il
volto girato a sinistra e con lo sguardo fermo sullo spettatore, la giovane
donna è vestita in modo raffinato: indossa una camicia orlata d'oro e alcune
perle e pietre incastonate nell'oro decorano l'omero in una doppia lista che
scende al centro della manica. Con la mano destra trattiene una mantella di pregiato
tessuto rosso e bordata di una pelliccia di lince che nell’atto di girarsi le è
scivolata da dosso e lei, con un gesto composto cerca di ricoprirsi, come se si
fosse trovata improvvisamente esposta allo sguardo altrui e desiderasse
ricoprirsi per poi continuare ad osservare il paesaggio esterno. In grembo tiene
con la mano sinistra un cesto colmo di frutta e fiori, tra cui si possono
distinguere delle mele cotogne e delle rose. La folta capigliatura sembra
raccolta da una treccia trattenuta da un copricapo di tessuto bianco con lacci,
ma a sinistra sulla fronte alcuni capelli si liberano dall'intreccio dei capelli,
evidenziando la naturalezza del ritratto.
La giovane siede accanto ad
una finestra che si apre sul lato sinistro dello sfondo scuro della parete:
dalla finestra si intravede un paesaggio crepuscolare di campagna, da cui
emerge una fattoria, addossata a dei ruderi, ed un picco montuoso
all'orizzonte. Il gioco delle luci è reso complicato dal cielo increspato di
cirri che distribuisce la luce del tramonto in maniera diseguale sul paesaggio
e sulla ragazza ritratta. Una nube più densa sembra oscurare la fattoria,
lasciando solo metà di un torrione sotto una luce bianca che richiama la luminosità
che si diffonde sulla donna.
Il tema iconografico della
finestra che si apre su un paesaggio – reso malinconico dalle note ramate di un
tramonto sull’azzurro cupo di un monte in lontananza – fa da contrappunto alla
tavolozza cangiante che dà solidità volumetrica alle vesti della donna, mentre
la luce, fissata nell’attimo fugace in cui, balenando sul capo e sulla spalla, le
lascia bizzarramente in ombra il volto ed instaura, tra questo e il lirico
brano paesistico, una sottile ed elegiaca consonanza emotiva e psicologica.
Tutto il dipinto, immerso in
questa luce crepuscolare che dal paesaggio risale verso il primo piano della
giovane donna, è lo splendido riflesso della formazione veneziana del pittore.
Quella luce riflette sul volto della ragazza dalla linea degli occhi, mentre
dalla fronte in su e su tutto il lato sinistro dalla spalla in giù, una luce
chiara dà splendore alla figura in primo piano.
Forse la donna sta
aspettando qualcuno: forse è la moglie di un mercante facoltoso che può
permettersi di comprarle delle vesti lussuose, ma non appartiene
all'aristocrazia: difficilmente un’aristocratica terrebbe in grembo un cesto di
frutta. La splendida pelliccia simboleggia una condizione agiata raggiunta da
quella borghesia che con il lavoro può riscattarsi dalla propria condizione
sociale. Ma la sua identità rimane ignota, sebbene da più parti sia stato
proposto, anche verosimilmente, il nome di Francesca Ordeaschi.
Stilisticamente la Dorotea è
un esempio del prototipo pittorico del quadro come finestra che si
era diffuso con l'uso della prospettiva lineare e che percorre la storia della
pittura Quattrocento fino ai giorni nostri. La critica quasi unanimemente mette
in relazione questo ritratto alla Velata della Galleria Palatina a
Firenze di Raffaello,
di cui sarebbe l'archetipo in virtù di due elementi compositivi particolari: la
posa della mano destra a prossimità del seno ed il movimento dei capelli
ribelli sul lato sinistro.
Il contatto diretto di Sebastiano con Raffaello era stato
fondamentale in questi primi anni romani, quando i due pittori lavoravano
insieme nella splendida Villa Chigi Raffaello vi dipinse Il
trionfo di Galatea, uno dei suoi più famosi affreschi realizzato 1512.
Raffaello fu responsabile
degli affreschi con le Storie di Eros e Psiche, che ornano la loggia
aperta verso il parco, in origine ben più vasto di ora. La vicenda delle prove
affrontate da Psiche per amore di Eros, e coronate dall’assunzione della
fanciulla al cospetto di Giove, riflette quella reale di Agostino, legato a
Francesca Ordeaschi, che, per la sua condizione di subalternità sociale, faticò
non poco per veder riconosciuto in via ufficiale il proprio ruolo. Separati da
festoni vegetali che proseguono in pittura il verde del giardino e delle sue
siepi, gli affreschi che narrano l’accoglienza di Psiche da parte degli dei e
il palpito sensuale di attesa per il ricongiungimento dei due amanti, furono
pensati per far da sfondo alle nozze di Francesca e Agostino, celebrate nel
1519. La cornice della pittura di Raffaello e il racconto
della felice vicenda matrimoniale trovano una singolare consonanza con
l’avventura umana del banchiere, che giunto dalla provincia senese nella
capitale della cristianità riuscì ad affermarsi – grazie al suo gusto e a
capacità non comuni – tra i maggiori protagonisti del Rinascimento italiano.
Intorno al 1515 la pittura
di Sebastiano comincia ad essere sempre più influenzata
da Michelangelo con il quale inizia una vera e propria collaborazione
artistica, ma questa è un’altra storia.
Massimo Capuozzo