lunedì 18 gennaio 2016

Agostino Chigi e la prima ritrattistica di Sebastiano del Piombo. Di Massimo Capuozzo

Rimasto per secoli un po' nell'ombra perché su di lui è pesato il giudizio negativo di Vasari ed ancora perché le sue opere sono sparse dovunque nel mondo,  soprattutto negli Stati Uniti, Sebastiano del Piombo è stato un grande dell'arte italiana, un illustre rappresentante della pittura rinascimentale, forse il più grande ritrattista della sua epoca.
Il Cinquecento, già dal primo decennio, si avviava verso un nuovo modo di trattare la pittura. Il supporto artistico, fino a quel momento legato alla tavola, ora è quasi del tutto sostituito dalla tela, più economica, leggera e facilmente trasportabile. Alcuni artisti, inoltre, sviluppando e maturando tecniche personali, arriveranno addirittura a scegliere i nuovi tipi di tela in base alla loro trama e al tipo di ordito, per sfruttarli come mordente per la stesura del colore, alla ricerca di particolari effetti pittorici. Si definisce inoltre in modo decisivo il ritratto allegorico, in cui, oltre all’uso di simboli sottintesi, il soggetto stesso si mostra in veste allegorica o di personificazione.
Nel Veneto, la generazione di artisti che si affac­cia al Cinquecento, stimolata anche dal mercato, aderisce al tonalismo e riconosce in Giorgione il punto di riferimento, a prescindere dall’effettivo contatto con il maestro. È difficile, infatti, definire i limiti di scuola o bot­tega intorno a  Giorgione, poiché i rapporti fra gli artisti del circolo giorgionesco non ricalcano lo schema maestro-allievo tipico della bottega, ma possono essere definiti un rapporto di collaborazione-competizione continua che coinvolgeva alcuni degli artisti più promettenti.
Un rapporto di collaborazione e non di discepolato lega Giorgione e il coetaneo Sebastiano Luciani (1485 – 1547), meglio noto come  Sebastiano del Piombo, come del resto avviene per Tiziano (1480\85 – 1576).
Sebastiano iniziò la sua carriera a Venezia intorno al 1505 e, come scrisse Carlo Volpe (Bologna, 1926 - 1984), vi svolse il ruolo di mediatore fra l'antico, rappresentato da Giovanni Bellini, ed il nuovo, rappresentato da Giorgione.
L’eredità di Giorgione si estinse comunque rapida­mente: Tiziano e Sebastiano si contesero il primato di guida della generazione emergente. Tra il giugno del 1510 e l’agosto del 1511 Sebastiano del Piombo si occupò dell’esecuzione della Pala di San Giovanni Crisostomo, l’opera più importante e ricca di nuovi elementi che egli realizzò a Venezia, su richiesta di Caterina Contarini e di suo marito Niccolò Morosini.
La Pala di San Giovanni Crisostomo segna una tappa decisiva nello sviluppo tipologico della pala d'altare veneziana, oltre che nel percorso personale dell'autore, con il riaffermarsi di una decisa tendenza verso una maggior pienezza volumetrica e nello stesso tempo una più rigorosa essenzialità plastico-luministica, tanto dal punto di vista delle soluzioni iconografiche quanto per le scelte di ordine compositivo e strutturale: la li­bertà spaziale, l’asimmetria nella disposizione dei personaggi, la figura principale vista di profilo.
Intanto, Tiziano, per sfuggire alla peste, si era trasferito a Padova e nell’aprile del 1511 affrescò tre Episodi della vita di Sant’Antonio nella Scuola del Santo. Con i dipinti padovani il poco più che ventenne Tiziano afferma la propria autonoma personalità. Nuovi, forti accordi cromatici superavano le armonie elegantemente e pazientemente costruite da Giorgione, alle quali lo stesso Sebastiano era rimasto legato.
Questi aspetti salienti possono spiegare con quale atteggiamento Sebastiano accolse l'opportunità di trasferirsi a Roma, che gli fu offerta dal banchiere del papa, Agostino Chigi, in visita presso la Serenissima.
Con la partenza di Tiziano per Padova, anche Sebastiano, nella primavera del 1511, lasciò definitivamente Venezia alla volta di Roma. La sua scelta dovette essere radicale, nel senso che Sebastiano non solo cambiava città, ma si recava in un luogo in cui la pittura era concepita molto diversamente da come era pensata dai veneti, tuttavia non era un salto nel buio: Sebastiano aveva un mentore di eccezione, Agostino Chigi.
Agostino Chigi (1466 - 1520), nato a Siena da un’intraprendente dinastia di mercanti, passata poi all’attività bancaria, ricevette la sua formazione presso la banca paterna. Alla fine del Quattrocento, suo padre Mariano, facoltoso banchiere senese che aveva avuto anche molti incarichi politici nella Repubblica, lo aveva inviato a Roma, affinché vi impiantasse una succursale della compagnia di famiglia. L’intraprendente Agostino entrò presto in contatto con lo Stato della Chiesa e con le sue finanze ed aprì a Roma, appena ventenne, la sua prima società. Perspicace banchiere, accumulò enormi capitali, diventando uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo, in tal modo poté finanziare papi e regnanti. Noti sono, infatti, i suoi ingenti prestiti a Cesare Borgia e, in seguito a Giulio II Della Rovere, papa dal 1503 al 1513, per le rispettive spedizioni militari; tali finanziamenti gli fruttarono enormi ricavati. Ma la vera base della sua immensa ricchezza furono i diritti di sfruttamento delle miniere di allume di Tolfa, presso Roma, di cui ottenne da Giulio II il monopolio sull’estrazione e sulla commercializzazione dell'allume: il monopolio di questo prezioso minerale consentì, infatti, ad Agostino di dettare i prezzi a suo piacimento e da questo derivarono commerci ed esportazioni in tutta Europa, con ricavi esorbitanti che nel 1502 gli permisero di fondare a Roma il banco Chigi. Agostino diventò uno dei banchieri più potenti d’Italia forse d’Europa e, durante il pontificato di Giulio II e di Leone X, Papa dal 1513 al 1521, fu anche tesoriere della Curia.
Diventato ben presto noto come Agostino Chigi il Magnifico per i grandissimi meriti in ambito finanziario e culturale, all’alba del Cinquecento quindi, Agostino Chigi era ormai un personaggio fondamentale nel panorama economico e finanziario romano, e inoltre era uno degli uomini più potenti della corte pontificia. Grande appassionato d'arte e sapiente mecenate, Agostino aveva lo stesso fiuto per gli affari che aveva anche nel riconoscere le stigmate di un artista.
Banchiere ricchissimo, eppure tenuto ai margini del mondo aristocratico per la sua origine mercantile, Agostino, volle una dimora che fosse il segno tangibile della propria personalità e della propria cultura e decise di farne edificare una sontuosa lungo le rive del Tevere, che stupisse gli ospiti con raffinati riferimenti culturali e con un gusto artistico non già ereditato col sangue, ma frutto dell’intelligenza e dell’educazione. La villa, oggi nota come Farnesina, è in realtà un’emanazione della biografia di Agostino.
Per l’edificazione della sua dimora suburbana, il banchiere mecenate chiamò a Roma il suo conterraneo Baldassarre Peruzzi, che dal 1508 si mise all’opera e già nel 1512 aveva completato la costruzione, secondo un progetto tanto elegante e funzionale da fornire un modello di riferimento per i secoli successivi. E siccome una così bella villa doveva essere affrescata adeguatamente, Agostino la fece decorare con magnificenza scegliendovi il meglio del meglio: intorno a lui e al cantiere della villa gravitavano i più famosi artisti del tempo tra i quali Raffaello, Il Sodoma, Baldassarre Peruzzi, Giulio Romano ed altri, nonché Sebastiano del Piombo che aveva conosciuto a Venezia. Presto la villa divenne uno dei luoghi più frequentati da intellettuali da artisti e da uomini di potere dell’epoca.
Il 3 febbraio 1511, quando i lavori per le decorazioni della prima loggia del pianterreno della sua villa – la futura Loggia di Galatea – erano appena cominciati, il ricco banchiere si recò a Venezia, inviato dal papa per trattare con il doge. Durante questo soggiorno Agostino fece due incontri importanti. Il primo è quello con Sebastiano del Piombo, che in seguito collaborò alla decorazione della sua Villa, il secondo è quello con una giovane donna, Francesca Ordeaschi, di cui Chigi si innamorò perdutamente e che portò con sé a  Roma nell’agosto 1511: Francesca entrò ufficialmente nella splendida Villa Chigi, divenendone a tutti gli effetti l’invidiata, ma indiscussa première dame.
Quando Sebastiano giunse a Roma, il più importante laboratorio artistico del pieno Rinascimento, aveva ventisei anni. Roma gli si rivelò in tutto il suo antico splendore e in tutti i suoi cantieri moderni guidati da Bramante. Sul soglio di Pietro dominava Giulio II Della Rovere, uno dei papi più energici, grandi e controversi della storia, il papa che avviò la ricostruzione di San Pietro, che costrinse Michelangelo a dipingere la volta della Cappella Sistina e che chiese a Raffaello di decorare il suo appartamento privato in Vaticano. A Roma Sebastiano trovò, secondo le parole di Claudio Strinati, un “momento di apparente fervore artistico”. Era avvenuto il primo scoprimento ufficiale della volta della Cappella Sistina è c’era stato il trionfo di Raffaello nelle Stanze Vaticane, ma “al di fuori dell'area di San Pietro e dei palazzi vaticani, non sembrava che ci fosse granché da fare”. Per di più la Roma artistica della corte del Papa era avvelenata Roma dalla rivalità fra Michelangelo e Raffaello.
L'ammirazione di Raffaello per Michelangelo si era trasformata presto in un vero e proprio scontro artistico. Probabilmente non furono i due interessati a schierarsi volontariamente l’uno contro l’altro, ma il clima molto competitivo della corte papale, surriscaldato probabilmente da Bramante, che cercava di tirare l'acqua al proprio mulino, screditando il fiorentino Michelangelo e favorendo invece il suo conterraneo Raffaello. Le risorse papali, per quanto immense, non erano infinite e Bramante, architetto e sovrintendente ai lavori del Vaticano, impegnato nella difficile impresa della ricostruzione di San Pietro, non vedeva di buon occhio le spese che il Papa aveva stanziato per l’immensa opera della sua tomba che per le dimensioni sarebbe assomigliata ad un mausoleo, che sarebbe stato eseguito da Michelangelo: Bramante temeva che questa impresa colossale di scultura avrebbe sottratto risorse alle decorazioni del Vaticano, per le quali aveva chiamato Raffaello, e soprattutto che avrebbe bloccato il cantiere ricostruzione della basilica. In combutta con Giuliano di San Gallo (1445 – 1516) i due si adoperarono a distogliere il Papa dalla continuazione della sua tomba: alla fine Bramante riuscì a persuaderlo a rinunciare al progetto e suggerì al Papa di far dipingere le volte della cappella costruita da papa Sisto, suo zio, e d’incaricare Michelangelo di quel lavoro. Pare che il suggerimento fosse inspirato da un poco di malignità, al solo fine di far inciampare Michelangelo, poco abile nella pittura a fresco, ed un fallimento avrebbe esaltato le capacità del suo protetto, Raffaello e gli avrebbe definitivamente sgombrato il campo.
Michelangelo, il quale non temeva rivale in scultura, dubitando di compromettere la sua carriera, si rifiutò a lungo d’accettare quel lavoro, cercando addirittura di farlo affidare a Raffaello, ma Giulio II persistette nei suoi desideri, e Michelangelo dovette ubbidire. Cercò aiuti e collaboratori a Firenze che lo aiutassero in questa impresa per lui tanto ostica, ma non ne fu soddisfatto e li rimandò indietro, decidendo di lavorare da solo, per molti anni.
La rivalità tra i due pittori portò presto al nascere di veri e propri schieramenti, con sostenitori dell'uno e dell'altro, ai quali si aggiunse Sebastiano del Piombo, preso sotto la protezione di Michelangelo. Un clima che, senza scendere nei dettagli, si poteva definire senz’altro infuocato al cui centro c’era il vulcanico Giulio II.
In questo clima, certamente fervido di ricerche artistiche, ma anche di grandi rivalità, cominciava l’esperienza romana di Sebastiano e cominciava in un luogo eccezionale: la partecipazione ai lavori di decorazione di Villa Chigi dove gli fu affidata la loggia terrena. Qui affrescò, su richiesta del ricco mecenate senese, le lunette del soffitto con soggetti mitologici tratti dalle Metamorfosi di Ovidio e ispirati unitariamente al tema dell'aria. L'esecuzione dell'opera, caratterizzata da un'inedita immediatezza disegnativa e soprattutto da una programmatica, squillante chiarezza di colorito può definirsi veramente aerea. A questi tratti si legano però la coscienza e la diretta esperienza dei livelli raggiunti dall'arte, da un lato di Raffaello e dall'altro di Michelangelo.
Lo scontro fra i due artisti di punta alla corte del Papa era accentuato dal clima molto competitivo della corte del Papa. Sebastiano aveva un modo di fare arte affine a quello di Michelangelo, quindi ne conseguì che, appena giunto a Roma, stringesse amicizia col difficile Michelangelo, inserendosi, suo malgrado, nella rivalità tra i due. L’amicizia con uno equivaleva ad una vera e propria scelta di campo per cui Sebastiano diventò rivale di Raffaello.
Sebastiano ingaggiò una dura sfida con Raffaello, una sfida fatta di diffidenza e di aspra lotta, che iniziò fin dal loro primo incontro, nella villa di Agostino Chigi: qui Raffaello dipinse la Galatea, Sebastiano il Polifemo che l'accompagna nonché gli affreschi delle lunette.
Tra questo suo primo lavoro a Roma nel 1511 e la svolta decisiva del 1516, con  opere a soggetto religioso ispirate direttamente a Michelangelo, si colloca un nucleo consistente di ritratti nei quali Sebastiano del Piombo sembra coniugare la maniera veneta con le suggestioni del variegato panorama artistico romano, nel quale sfolgorava incontrastato l’astro di Raffaello.
È significativo che la carriera romana di Sebastiano sia iniziata in quelle stesse stanze di quella Villa in cui, Raffaello lavorava al Trionfo di Galatea, una delle più alte pagine della sua parabola artistica: la grandezza di Raffaello – prima che Sebastiano, in seguito al suo sodalizio con Michelangelo, si discostasse definitivamente dai modi del raffinato e gentile urbinate – dovette senz’altro esercitare, almeno inizialmente, la propria attrazione nei confronti di Sebastiano.
Grazie alle conoscenze di Agostino Chigi, Sebastiano del Piombo ebbe l’occasione di trovare nella ritrattistica il genere che lo rese celebre: nell’ambiente romano Chigi gli procurò una serie di personaggi di riferimento a cui eseguire ritratti.
La luce e gli influssi della pittura fiamminga con pochi colori e l’influenza delle opere monumentali di Michelangelo offrirono a Sebastiano l’opportunità di esprimersi al meglio in questo genere. La ritrattistica è la cifra stilistica in cui sia a giudizio di Vasari sia a giudizio di Paolo Giovio, che in quegli anni era a Roma, sia stato insuperato. Le caratteristiche della ritrattistica di Sebastiano sono la mediazione della sua eredità veneziano fiamminga, ma anche della monumentalità scultorea che aveva assimilato dalla pittura fiorentina impersonata a Roma da Michelangelo.
In questi primi anni di attività romana, Sebastiano ricevette varie richieste di ritratti, alcune particolarmente prestigiose e ugualmente legate al mondo della Curia, come quella di Ferry Carondelet, umanista rinascimentale che visse a Roma tra il 1510 e il 1512, prima di trasferirsi a Viterbo occupato in alte cariche da Papa Giulio II.
Il Ritratto del Cardinale Ferry Carondelet con i suoi segretari si trova oggi nel Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, in esso si coglie la seduzione di Raffaello, tanto che anticamente quest’opera era attribuita al genio urbinate, spinta alle sue estreme conseguenze e la freschezza del contatto con Raffaello si fonde mirabilmente con il tonalismo post-giorgionesco. Quella vena lagunare, che si apprezza nel ritratto del presule belga nella vampata calda sulle carni dei personaggi immersi nella sfrangiata luce crepuscolare, evidenzia la perseveranza con cui Sebastiano si dimostra fedele alla propria formazione, fedeltà alla quale, forse, egli non verrà mai meno e che in questo ristretto periodo di tempo, tuttavia, emerge ancor più prepotentemente evidente in alcuni ritratti informati, anche a livello compositivo, ad un’impostazione profondamente veneziana.
Generalmente i ritratti di Sebastiano presentano una figura centralissima di primo piano, spesso presa di spalla d’angolo e che si illumina tra i contrasti del fondo costruiti attraverso un’architettura ortogonale che apre una finestra paesaggistica contrapposta ad una parte di parete oscura su cui si illumina l’incarnato dei personaggi.
Dello stesso periodo sono pure due ritratti femminili, più o meno ideali e allegorici, quali la cosiddetta Fornarina, del 1512 e la cosiddetta Dorotea di Berlino. Su questi due ritratti si congettura che uno dei due sia il ritratto di Francesca Ordeaschi, compagna poi moglie di Agostino Chigi.
Della vita di questa ragazza prima del suo arrivo a Roma si sa poco o nulla. Per alcuni Francesca Ordeaschi sarebbe una bellissima e raffinata cortigiana, per altri una fanciulla di umili origini, per altri la figlia di uno speziale. Non si sa in quali circostanze, durante quella sua missione a Venezia, Agostino Chigi incontrò Francesca e la portò con sé a Roma, ma quando vi giunse, agli occhi di tutti fu considerata un trofeo in più tra le numerose amanti del banchiere, ben noto per la sua tumultuosa vita sentimentale. Prima di trasferirsi a Villa Chigi, Agostino Chigi aveva vissuto in una casa in Via dei Banchi con la giovane moglie Margherita Saracini, morta nel 1508 senza avergli dato figli. Poi aveva intrecciato una relazione con una cortigiana, la divina Imperia, famosa per la sua bellezza e la sua cultura. Ma già prima della morte della donna nel 1511, aveva cominciato a corteggiare invano Margherita Gonzaga, figlia naturale di Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, con la quale però non riuscì a terminare il matrimonio, nonostante avesse promesso di rinunciare ai suoi affari per superare la diffidenza della corte Gonzaga.
Quando giunse a Roma, Francesca non andò subito ad abitare a Villa Chigi: Agostino, infatti, scelse di farla educare in un convento affinché completasse la propria istruzione.
Sulle prime la figura di Francesca non sembrò interferire nella vita sociale e mondana del banchiere e non richiamò l’attenzione della famiglia Chigi
Chigi, ma, quando nel 1512, nacque il loro primogenito Lorenzo, l’indifferenza mostrata fino a quel momento dai Chigi nei confronti di questa relazione si trasformò improvvisamente in aperta ostilità.
I Chigi ed in particolare Sigismondo, fratello di Agostino, il quale aveva sposato una figlia di Pandolfo Petrucci, signore di fatto di Siena e un cui discendente sarebbe stato Papa Alessandro VII Chigi, espressero apertamente il loro disappunto. Nel pensiero dei Chigi, l’eventualità di un matrimonio o anche di una semplice relazione con questa veneziana di origini umili forse un’ex prostituta, era inammissibile: per loro infatti, la fortuna di Agostino, benché considerevole, non gli permetteva di avere automaticamente la stima dell’aristocrazia. Era necessario adeguarsi a quella società dai codici ferrei ed agire con avvedutezza per rimanere il banchiere di questa notevole clientela. Già i Chigi non avevano origini nobili e le ambizioni del talentuoso uomo d’affari lo costringevano a farsi accettare da questo ceto aristocratico per mantenerlo tra i suoi clienti. Era quindi più saggio, perché la fama dei Chigi fosse totale, sposare una giovane donna di stirpe nobile, che avrebbe assicurato alla famiglia una legittimità presso le cerchie più alte. Infatti, era già previsto un matrimonio di Agostino con la giovane Margherita Gonzaga, figlia di Francesco II Gonzaga, marchese di Mantova.
Questo progetto però fallì, Margherita, infatti, rifiutò il matrimonio, avanzando il pretesto dell’età già avanzata di Agostino, ma si può supporre che fosse a conoscenza della sua relazione.
Così, quando Sigismondo si rese conto che l’atteggiamento di Agostino lo distraeva dalle priorità familiari, prese alcuni provvedimenti per separare i loro affari. L’attaccamento di Agostino alla bella veneziana minacciava apertamente i progetti di sviluppo dell’impresa di famiglia. Quando Francesca partorì il suo primo figlio, i due fratelli erano in disaccordo per la futura gestione degli affari familiari: i beni dei beni dei Chigi furono divisi, affinché i figli di Francesca non ereditassero i beni comuni ai membri della famiglia e questo determinò una rottura all’interno della famiglia.
La relazione di Agostino con questa giovane veneziana provocò un vero scandalo, non solo nella famiglia Chigi, ma anche nell’alta società romana, ma Agostino incurante, per celebrare il loro amore, commissionò a Raffaello l’illustrazione della favola di Amore e Psiche tratta da Le metamorfosi di Apuleio nella Loggia di Psiche, al pianterreno della Villa.
Dopo diversi anni di rapporto more uxorio Agostino, con grande sorpresa di tutti, sposò Francesca Ordeaschi il 28 agosto 1519, con rito officiato dallo stesso Leone X a Villa Chigi.
Quel giorno, Agostino invitò i suoi rispettabili ospiti ad uno dei suoi principeschi conviti, come accadeva spesso, ma gli invitati non sospettavano di recarsi ad un matrimonio.
Su insistenza di Papa Leone X dei Medici, Agostino regolarizzò la sua relazione, legittimando così i quattro figli nati da quell’unione illegittima. Da molto tempo, il papa pregava Agostino di affrettare il matrimonio, ma Chigi aspettava che Raffaello avesse terminato le decorazioni della Loggia di Psiche che alludono direttamente alla sua storia d’amore. Il banchetto fu un evento memorabile, ma non più degli altri conviti durante i quali Agostino Chigi aveva accolto nella sua nuova dimora le più insigni personalità del suo tempo, tra cui poeti, principi, cardinali e lo stesso pontefice. I cronisti dell'epoca ricordano per esempio che nel 1518 le suppellettili d'oro e d'argento usate per il banchetto furono gettate nel Tevere in segno di munificenza, anche se sembra che l'accorto banchiere avesse fatto stendere segretamente nel fiume delle reti recuperando così il prezioso vasellame.
Quello tra Agostino Chigi e Francesca Ordeaschi rappresentò un matrimonio rivoluzionario: una donna dai trascorsi per l’epoca discutibili, era riuscita a sposare uno degli uomini più influenti del tempo. Un uomo che, per amor suo, aveva mandato a monte le trattative di nozze con la nobile Margherita Gonzaga, il cui blasone avrebbe dovuto portare ulteriore lustro alla famiglia Chigi.
Nonostante il felice esito del matrimonio la prosecuzione della storia di Francesca finì invece per somigliare ad una tragedia. Agostino, infatti, morì pochi mesi dopo, il 10 aprile 1520 all’età di cinquantacinque anni. I suoi funerali, cui parteciparono migliaia di persone, rappresentarono un vero e proprio trionfo post mortem, del tutto coerenti con la sua magnificenza di mecenate e con la sua fama di abilissimo ed elegante uomo di affari. Doti, queste, che l’avevano reso amico e in molti casi ascoltato consigliere dei più potenti nomi dell’Europa rinascimentale.
Solo sette mesi dopo la sua morte, Francesca fu probabilmente avvelenata dopo aver partorito il loro quinto figlio, da lei chiamato Agostino in memoria del defunto marito. L’ancor giovane moglie gli sopravvisse solo sette mesi, morendo da ricchissima ereditiera, e forse per questo avvelenata. Su questo dubbio, tuttavia, la fama della leggendaria coppia fece prevalere la convinzione che la prematura e misteriosa morte di Francesca fosse stato un suicidio di vero amore: un amore degno dei sublimi affreschi, raffaelleschi e non solo, della Villa Farnesina.
Il rifiuto del loro matrimonio continuò anche dopo la loro scomparsa. Raffaello e il suo mecenate avevano progettato insieme la cappella funeraria dove il banchiere e la sua consorte dovevano riposare entrambi in tombe piramidali. Ma Francesca non fu inumata con lui nella seconda tomba piramidale della Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, ma vicino alla porta di San Pietro in Montorio. Nella tomba piramidale di fronte a quella del grande banchiere riposa invece Sigismondo.
Rifiutata sin dal suo arrivo dalla famiglia Chigi, non vi è dubbio che vi sia stato il desiderio di sbarazzarsi di colei che provocò uno scandalo e mandò in rovina i progetti dell’impresa di famiglia. A questo punto, la favola di Psiche, scelta da Agostino per decorare una delle stanze principali della sua Villa, permette di trasporre la loro storia d’amore in immagini, prima della futura tragedia finale, e al contempo offre a Raffaello la possibilità di rinnovare la sua pittura.
I due ritratti che potrebbero dare un volto a Francesca sono la cosiddetta Fornarina e la cosiddetta Dorotea.
Il Ritratto di donna, ancor oggi da alcuni indicato come la Fornarina, è un dipinto a olio su tela (68x55 cm), datato 1512, in basso a sinistra, poco sopra la manica, e conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
Su questo dipinto si sono addensati molti enigmi. Il primo è quello dell’attribuzione. L’opera è stata dapprima attribuita a Raffaello, identificando il personaggio ritratto con l’amante di Raffaello, Margherita Luti, figlia di Francesco, fornaio della contrada di Santa Dorotea a Roma, e per questo detta la Fornarina; poi è stata attribuita a Giorgione; in seguito vi è stata riconosciuta Vittoria Colonna, ritenendo che il ritratto fosse stato impostato da Michelangelo, amico della poetessa, ed eseguito da Sebastiano del Piombo; infine la maggior parte degli studiosi più recenti, da Giovanni Morelli (1816 – 1891) a Bernard Berenson (1865 – 1959), da Lionello Venturi (1885 – 1961) a Mauro Lucco (1949) hanno chiarito il lungo equivoco, assegnando senza riserve l'opera a Sebastiano del Piombo e sull’identificazione del personaggio la Professoressa Anna Baldazzi diversamente dal resto della critica, ha ipotizzato la figura di Francesca Ordeaschi. Nonostante ciò, talvolta il dipinto è ancora indicato col titolo tradizionale settecentesco di Fornarina. Recentemente Lucco ha inoltre riconosciuto nella figura di donna ritratta con la coroncina d'alloro una poetessa e ha indicato una copia del dipinto nel quadro conservato al Museo di Palazzo Venezia a Roma, probabilmente eseguito dal Maestro stesso.
Il dipinto di Sebastiano, che ha suscitato tante perplessità di attribuzione, ha sicuramente una base raffaellesca, riconoscibile nella posa, nell'illuminazione e nell'attenzione riservata alla resa degli effetti materici del vestiario, come nella pelliccia che la donna tiene appoggiata su una spalla. L'effetto col quale la donna emerge dallo sfondo scuro e con malizioso sorriso guarda verso lo spettatore ricorda lo sfumato leonardesco. Incontrovertibilmente veneto è invece il colore denso e pastoso, soprattutto nell'incarnato che risente dell'influenza di Giorgione e della formazione veneziana e rende attribuibile l’esecuzione al solo Sebastiano nei primi anni del suo soggiorno romano, quando lavorava per Agostino Chigi.
La donna è effigiata a mezza figura con il capo elegantemente chinato in avanti e lo sguardo volto verso lo spettatore. Il colore scuro degli occhi è perfettamente in sintonia con quello dei capelli, lisci e raccolti sulla nuca, impreziositi da un delicato fermaglio con piccole foglie probabilmente di alloro.
A prima vista l'abito appare modesto – un'ampia camicia bianca plissettata e bordata alla scollatura da un nastrino verde scuro con ricami dorati, una veste con spalline – ma l'aspetto signorile della donna e la pelliccia, realizzata con grande perizia ricorrendo a pennellate ruvide, che le scivola disinvoltamente lungo la spalla sinistra lasciano intuire che forse si tratta di un elegante personaggio, abbigliata con queste vesti per espressa volontà di Sebastiano del Piombo, che va letta come un'allegoria della Poesia. I gioielli che indossa sono discreti, adeguati a una classe medio-alta, non certo a una regnante: al dito mignolo mostra un anello con pietra preziosa, agli orecchi due pendenti di perle, nella scollatura un filo dorato. È probabile, infatti, che la commissione del quadro sia nata proprio in un ambiente di grande interesse per la letteratura, quando nei circoli culturali frequentati da artisti, letterati e dilettanti era di moda leggere i sonetti di Petrarca.
Appena successiva al Ritratto di donna è la cosiddetta Dorotea, noto anche come Ritratto di una giovane donna romana con cesto di frutta.
La Dorotea è un dipinto a olio su tavola (78x61 cm), databile all’incirca al 1512 e conservato nella Gemäldegalerie di Berlino.
Il titolo la Dorotea, con cui è noto il dipinto, deriva dal cesto che richiama gli attributi iconografici di Santa Dorotea, costituiti appunto da un canestro di mele e di rose, secondo quanto narrano il Martyrologium Hieronymianum e la Leggenda Aurea di Iacopo da Varazze.
A lungo considerata un’opera di Raffaello, l'attribuzione definitiva a Sebastiano risale al 16 luglio 1835 per merito dello storico dell'arte Gustav Friedrich Waagen (1794 – 1868), primo conservatore della Gemaldegalerie.
Il ritratto rappresenta un’incantevole donna dallo sguardo enigmatico, infatti, non a caso è chiamata la Gioconda di Berlino.
Ritratta a mezzobusto con il volto girato a sinistra e con lo sguardo fermo sullo spettatore, la giovane donna è vestita in modo raffinato: indossa una camicia orlata d'oro e alcune perle e pietre incastonate nell'oro decorano l'omero in una doppia lista che scende al centro della manica. Con la mano destra trattiene una mantella di pregiato tessuto rosso e bordata di una pelliccia di lince che nell’atto di girarsi le è scivolata da dosso e lei, con un gesto composto cerca di ricoprirsi, come se si fosse trovata improvvisamente esposta allo sguardo altrui e desiderasse ricoprirsi per poi continuare ad osservare il paesaggio esterno. In grembo tiene con la mano sinistra un cesto colmo di frutta e fiori, tra cui si possono distinguere delle mele cotogne e delle rose. La folta capigliatura sembra raccolta da una treccia trattenuta da un copricapo di tessuto bianco con lacci, ma a sinistra sulla fronte alcuni capelli si liberano dall'intreccio dei capelli, evidenziando la naturalezza del ritratto.
La giovane siede accanto ad una finestra che si apre sul lato sinistro dello sfondo scuro della parete: dalla finestra si intravede un paesaggio crepuscolare di campagna, da cui emerge una fattoria, addossata a dei ruderi, ed un picco montuoso all'orizzonte. Il gioco delle luci è reso complicato dal cielo increspato di cirri che distribuisce la luce del tramonto in maniera diseguale sul paesaggio e sulla ragazza ritratta. Una nube più densa sembra oscurare la fattoria, lasciando solo metà di un torrione sotto una luce bianca che richiama la luminosità che si diffonde sulla donna.
Il tema iconografico della finestra che si apre su un paesaggio – reso malinconico dalle note ramate di un tramonto sull’azzurro cupo di un monte in lontananza – fa da contrappunto alla tavolozza cangiante che dà solidità volumetrica alle vesti della donna, mentre la luce, fissata nell’attimo fugace in cui, balenando sul capo e sulla spalla, le lascia bizzarramente in ombra il volto ed instaura, tra questo e il lirico brano paesistico, una sottile ed elegiaca consonanza emotiva e psicologica.
Tutto il dipinto, immerso in questa luce crepuscolare che dal paesaggio risale verso il primo piano della giovane donna, è lo splendido riflesso della formazione veneziana del pittore. Quella luce riflette sul volto della ragazza dalla linea degli occhi, mentre dalla fronte in su e su tutto il lato sinistro dalla spalla in giù, una luce chiara dà splendore alla figura in primo piano.
Forse la donna sta aspettando qualcuno: forse è la moglie di un mercante facoltoso che può permettersi di comprarle delle vesti lussuose, ma non appartiene all'aristocrazia: difficilmente un’aristocratica terrebbe in grembo un cesto di frutta. La splendida pelliccia simboleggia una condizione agiata raggiunta da quella borghesia che con il lavoro può riscattarsi dalla propria condizione sociale. Ma la sua identità rimane ignota, sebbene da più parti sia stato proposto, anche verosimilmente, il nome di Francesca Ordeaschi.
Stilisticamente la Dorotea è un esempio del prototipo pittorico del quadro come finestra che si era diffuso con l'uso della prospettiva lineare e che percorre la storia della pittura Quattrocento fino ai giorni nostri. La critica quasi unanimemente mette in relazione questo ritratto alla Velata della Galleria Palatina a Firenze di Raffaello, di cui sarebbe l'archetipo in virtù di due elementi compositivi particolari: la posa della mano destra a prossimità del seno ed il movimento dei capelli ribelli sul lato sinistro.
Il contatto diretto di Sebastiano con Raffaello era stato fondamentale in questi primi anni romani, quando i due pittori lavoravano insieme nella splendida Villa Chigi Raffaello vi dipinse Il trionfo di Galatea, uno dei suoi più famosi affreschi realizzato 1512.
Raffaello fu responsabile degli affreschi con le Storie di Eros e Psiche, che ornano la loggia aperta verso il parco, in origine ben più vasto di ora. La vicenda delle prove affrontate da Psiche per amore di Eros, e coronate dall’assunzione della fanciulla al cospetto di Giove, riflette quella reale di Agostino, legato a Francesca Ordeaschi, che, per la sua condizione di subalternità sociale, faticò non poco per veder riconosciuto in via ufficiale il proprio ruolo. Separati da festoni vegetali che proseguono in pittura il verde del giardino e delle sue siepi, gli affreschi che narrano l’accoglienza di Psiche da parte degli dei e il palpito sensuale di attesa per il ricongiungimento dei due amanti, furono pensati per far da sfondo alle nozze di Francesca e Agostino, celebrate nel 1519. La cornice della pittura di Raffaello e il racconto della felice vicenda matrimoniale trovano una singolare consonanza con l’avventura umana del banchiere, che giunto dalla provincia senese nella capitale della cristianità riuscì ad affermarsi – grazie al suo gusto e a capacità non comuni – tra i maggiori protagonisti del Rinascimento italiano.
Intorno al 1515 la pittura di Sebastiano comincia ad essere sempre più influenzata da Michelangelo con il quale inizia una vera e propria collaborazione artistica, ma questa è un’altra storia.

Massimo Capuozzo

martedì 12 gennaio 2016

L'elegia di Solone alle Muse

Elegia alle Muse
Di Solone[1]
La poesia di Solone risente spesso del suo impegno politico.
Fra i testi a lui attribuiti compaiono anche testi di carattere autobiografico, ma egli trattò principalmente di politica e di morale.
La triade concettuale da lui introdotta, fu fondamentale per la letteratura greca:
·         la ὕβρις (hýbris): il peccato di presunzione esso è il male, inteso come tracotanza, ed è una scelta dell'uomo;
·         ἄτη (ate): è un procedimento di degradazione (accecamento) a cui gli dei sottopongono chi si è macchiato di ὕβρις;
·         δίκη (dike): è il motore del processo di giustizia divina.
Nell’Elegia alle muse raggiunge una consapevolezza maggiore: non sono le Muse a prendere l’iniziativa di parlare all’uomo o di dare l’investitura, ma è l’uomo stesso che si rivolge loro, non come servo, ma con un invito ad ascoltare la sua richiesta di ottenere fama e celebrità e di poter trasmettere la verità con il consenso di quelle depositarie della memoria e della verità collettiva. Le Muse sono infatti le garanti della giusta relazione che si instaura tra gli uomini.

O di Mnemòsine[2] figlie fulgenti e del Sire d’Olimpo,
Pièrie[3] Muse, ascolto date a me che vi prego.
Fate che felicità mi concedano i Numi, e ch’io goda
presso i mortali fama perennemente buona,
ed agli amici sia gradevole, amaro ai nemici,
esultino a vedermi questi, e tremino quelli.
Ricchezza, averne bramo, ma farne empio acquisto non bramo:
ché sopraggiunse sempre, sia pur tarda, Giustizia.
Quanto a Ricchezza, quella che i Numi concedono, salda
dalla base alla cima rimane al possessore:
quella che col Sopruso si lucra, non sa regolarsi,
anzi, sedotta, i passi segue del Male Oprare,
sinché piomba improvvisa su lei la Vendetta Divina.
Comincia essa dal poco, come avviene pel fuoco:
debole su le prime: ma niuno alla fin le resiste:
chè Sopruso vantaggio non arreca ai mortali.
Ma d’ogni cosa Zeus preordina il fine; e, improvviso,
come subito vento primaverile sperde le nubi,
e dal profondo sconvolge gl’innumeri[4] flutti
del mar che non si miete, poi della terra i campi
belli, feraci di spelta[5], distrugge, ed ascende alla sede
alta dei Numi, al cielo torna sereno l’ètra.
E su la pingue terra scintilla la forza del sole
bella, né più si vede traccia di nube in cielo:
procede la Vendetta di Zeus così; né lo sdegno
affila, come gli uomini fanno, caso per caso;
ma non le resta sempre nascosto chi cuore malvagio
chiude nel seno; e tutto vien finalmente a luce.
E questi lì per lì paga il fio[6], quegli dopo; e se pure
gli sfugge alcuno, e l’Ira dei Numi non lo coglie,
pure il momento arriva: la colpa i figliuoli innocenti
per lui scontano, oppure la più tarda progenie.
Tutti noialtri mortali, sia buoni, sia tristi, nutriamo
opinione grande di noi, sinché ci colga
qualche malanno: allora son lagni[7]; ma fino a quel punto
ci lusinghiam[8] con vane speranze, a bocca aperta.
E quegli ch’è schiacciato dal peso di gravi malanni,
s’illude che fra poco godrà fior di salute:
un altro, ch’è pusillo[9], s’immagina d’essere un prode:
uno di forme poco venuste, d’esser bello:
uno senz’arte né parte, gravato d’eterna miseria,
spera d’averne, quando che sia, ricchezza a iosa[10].
Tutti, chi qua, chi là, si danno da fare. Va errando
questi sul mar pescoso, ché nel suo legno[11] deve
portare a casa il lucro: lo sbattono i venti funesti:
pure, egli alla sua vita non ha riguardo alcuno.
Serve per tutto l’anno, scalzando la terra alberata,
un altro, a cui la cura spetta dei curvi aratri.
Un altro che d’Atèna, d’Efesto, maestro dell’arti,
l’opere apprese, il pane con le braccia guadagna.
Un altro, a cui le Muse d’Olimpo largirono[12] il dono,
apprese i modi tutti dell’amabil scienza.
Concesse a un altro il Dio dell’arco[13] il profetico dono,
e il mal da lungi vede che contro un uomo avanzi,
quando lo inviano i Numi; ma quello che vuole il Destino,
nessun augurio[14] può schermir, nessuna offerta.
Chi l’arte di Peòne[15], maestro di farmachi, apprese,
è medico; e pur egli non va mai sul sicuro;
sovente si sviluppa da piccola doglia un gran male,
né veruno[16] curarlo può coi farmachi blandi;
ed uno ch’è gravato da pena d’orribile morbo,
basta su lui la mano porre, ed eccolo sano.
Reca la Parca ai mortali malanni commisti a fortune,
né può l’uomo schivare ciò che mandano i Numi.
In ogni opera a tutti sovrasta pericolo: e niuno
sin da principio sa quale sarà la fine.
(traduzione di Ettore Romagnoli)





[1] Solone di Atene fu un grande legislatore, che credeva in quello che faceva, e ciò che ci è giunto sotto il suo nome ci è giunto testimonia della sua volontà di trasmettere ai suoi concittadini le sue idee e la saggezza acquisita nella sua attività politica, l'ispirazione morale delle sue riforme.

Solone nacque ad Atene nel 640 da una famiglia aristocratica. Si era già segnalato come poeta con una celebre elegia per la conquista di Salamina intorno al 600, quando fu nominato arconte con poteri straordinari nel 594: gli aristocratici al potere ebbero la paura di perdere il potere per cui nominarono lui. Solone respinse la richiesta popolare di una ridistribuzione delle terre, ma sancì retroattivamente l'abolizione delle ipoteche sui terreni dei contadini e decretò l'illegalità della schiavitù per debiti. I suoi provvedimenti (legge sull'eredità, riforma monetaria, legge sulla tutela statale degli orfani ecc.) fornì la base costituzionale alla repubblica ateniese. La sua opera poetica è il primo documento letterario di Atene. Restano frammenti di elegie politiche e morali (intera ci è giunta la cosiddetta Elegia alle Muse, una specie di repertorio delle sue idee).

Solone è poeta della giustizia: su questa divinità fonda il benessere e la pace sociale della città; basa la convivenza sulla legge. Le sue idee, familiari fin dall'infanzia a tutti gli ateniesi, furono alla base della grandezza civile di Atene.

[1] Nella mitologia greca, Mnemosine (dea della memoria) è figlia di Gea, dea della terra, e di Urano, il cielo stellato.

Il mito vuole che all’inizio fosse solo il caos, una massa enorme e confusa che comprendeva in sé tutti gli elementi, senza ordine né distinzione. Dal Caos nacque, un giorno, Gea, la Terra ed essa generò l’Erebo (la notte), l’Etere (il giorno), Urano (il cielo stellato), l’Oceano e i Monti.

Unendosi poi con Urano, Gea diede vita a Mnemosine, dea della Memoria, di cui si invaghì Zeus.

Il re dell’Olimpo si intrattenne con Mnemosine per nove notti, generandone le nove Muse, protettrici delle arti. Attribuire carattere divino alla figurazione astratta della memoria distingue la concezione greca di memoria da quella di altre civiltà antiche. La presenza di un Dio a sovrintendere alla memoria, significa ed implica la consapevolezza della funzione fondamentale del ricordare come fattore di cultura e garanzia della storia dell’uomo che è posta sotto il volere della divinità.

[1] lett. Della Pieria, regione della Grecia, o del monte Pierio, sacro ad Apollo e alle Muse
[1] innumerevoli
[1] farro
[1] lett. Castigo, pena || pagare il fio, subire la giusta punizione
[1] Lamento provocato da sofferenza
[1] Illudiamo da lusingarsi
[1] servo
[1] In abbondanza
[1] Nave || per sineddoche
[1] Sta per elargirono
[1] Apollo
[1] profezia
[1] Mitico medico degli dei
[1] Pron. e agg. Indefinito|| Alcuno, nessuno

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