Questo studio intende
fare il punto, in ottica storica, sul significato e sulla qualità dell’arte
italiana durante il periodo fascista, esaminando le opere di committenza
pubblica e quelle che si proponevano di esprimere idee e sentimenti generali
dell’epoca vicini all’ideologia del regime.
Un approccio
sistematico, di tipo sociologico-artistico oltre che estetico, con l’arte di
quel periodo, politicamente contrassegnato dalla necessità che la cronaca
diventasse storia, mostra che l’arte comprende una serie di opere di alta
qualità anche capaci di reggere il confronto con il panorama internazionale
rispetto al quale i contributi creativi, capaci di fornire una sintesi
originale, sono stati numerosi e variegati.
Tale produzione
artistica – secondo Nikolaus Pevsner variante italiana alle esperienze
europee dell’arte moderna ferventi in generale in tutta l’Europa – testimonia
che il suo rapporto con l’ideologia fascista e con le possibili normative
emesse dal regime non si presenti con un’unica e compatta fisionomia, anzi
mostri varie sfaccettature: tenuto conto del fatto che gli artisti dell’epoca
appartenevano a gruppi diversi per stile, scelte poetiche e ideologie, le opere
dei vari movimenti artistici e dei vari sodalizi culturali attivi nel
ventennio, mostrano un pluralismo dialettico con il potere e confermano, come
sostiene Federico Zeri, la straordinaria «vitalità culturale dell’Italia tra il
1910 e il 1938».
Nel 1910 siamo ancora
negli anni dell'età giolittiana, periodo in cui si fanno strada
alcune ideologie e forme di pensiero irrazionalista che hanno in
comune l'esaltazione della forza e dell'attivismo: il sindacalismo
rivoluzionario di Sorel, il nazionalismo, l'irredentismo, il massimalismo
socialista. A livello artistico il Futurismo si inserisce in questo animato clima
politico e culturale, affiancandosi anche all'intuizionismo di Bergson, alla
filosofia del superuomo di Nietzsche ed all'imperante dannunzianesimo.
Il Futurismo, primo
movimento del secolo ad aspirare ad un seguito di massa, era esploso nel 1910 in
tutta la sua vitalità. Quest’avanguardia, coniando nuovi linguaggi artistici
capaci di esprimere le esperienze di velocità, di mobilità e di progressi
tecnici inusitati che avevano trasformato o che stavano trasformando
radicalmente la vita dell'uomo, non cercava di identificare vita e arte in un’élite
di artisti e di intellettuali, ma voleva trasformare il senso estetico di
un'intera società, considerata sorpassata in ogni campo.
Il Futurismo fu
espressione dello spirito aggressivo delle posizioni d’avanguardia che
precedettero la prima guerra mondiale, fu il primo movimento organizzato e
cosciente di autodefinirsi, piuttosto che lasciare questo compito alla critica,
grazie alla capacità del suo fondatore Filippo Tommaso Marinetti di riunire
attorno al suo manifesto artisti di eccezionale talento che, con identità di
intenti, assunsero come tema conduttore delle loro opere la modernità, il
dinamismo, la velocità e tutti gli aspetti tecnici di un mondo in fermento,
alla vigilia di grandi conquiste sociali: modernità dinamismo e velocità sono
i tre elementi che, secondo Edward Lucie-Smith, rendono il Futurismo un movimento
di massimo interesse per l'arte moderna dell’intera Europa.
Alessandro Tempi, osserva a tal
proposito come il Futurismo giunga a una estetizzazione dei mezzi tecnici e a
un’estetica della macchina, considerando i mezzi tecnici nel loro significato
culturale, lontano da un'ottica materialistica, con l’atteggiamento tipico
dell’intellettuale che ne ricerca il significato simbolico come nel caso
esemplare della “Città che sale” – olio su tela di cm 200 x 290,5
realizzato nel 1910 da Boccioni oggi al “Museum of Modern Art” di New
York – dove sono presenti, concettualmente e formalmente tutti gli elementi più
propri della poetica futurista.
Nella Città che sale Boccioni vuole ritrarre «il frutto del nostro tempo industriale», come egli
sesso affermava, raffigurando un momento di lavoro in un cantiere industriale,
introducendo molti elementi realistici, il cantiere, gli elementi di una
periferia urbana, le impalcature e le ciminiere, mettendo in particolare
evidenza la simbiosi di uomini e cavalli fusi in un esasperato sforzo di grande
dinamicità, per simboleggiare l'importanza centrale del lavoro umano integrato
con il progresso industriale.
L'impianto prospettico
del dipinto, il punto di vista decentrato verso l'alto, il trattamento del
colore di matrice ancora divisionista, il tocco nervoso delle pennellate
direzionali dinamizza i volumi e introducono nella composizione tensione e
leggerezza, coinvolgendo tutti gli elementi della rappresentazione in uno
slancio vitale ascensionale come metafora dell'inarrestabile progresso della
modernità che sale, risucchiando in un turbine vorticoso uomini e cose.
La città che sale diventa l’impetuosa celebrazione della moderna
metropoli dove «tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non
è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la
persistenza delle immagini nella retina, le cose in movimento si moltiplicano,
si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono». Il dipinto ha la forza di un sasso
scagliato contro la stagnante apatia culturale e il peso morto di un passato
che andava rifondato.
Per la prima volta dalla
nascita della prospettiva, l'arte smette di essere confinata nella
rappresentazione di un singolo momento pietrificato e introduce l'idea
del passaggio del tempo entro i confini della tela. Un concetto
gravido di conseguenze per tutta l'arte successiva.
Anche Carlo Carrà,
proveniente come Boccioni dal Divisionismo, si avvicina fin da subito ai
fautori del Futurismo. Lo affascinavano le problematiche sociali e cominciò a
rappresentare stazioni ferroviarie, scene milanesi e manifestazioni politiche,
sia anarchiche sia interventiste. Proprio una di queste manifestazioni fu il
soggetto del suo primo importante quadro futurista, I funerali dell’anarchico Galli – olio su tela 199 cm x 259 cm, realizzato
nel 1911 e anch’esso oggi conservato al Museo di arte moderna a New York.
Carrà era venuto a
contatto con gruppi libertari e anarchici. Lo spunto per questo dipinto
proveniva addirittura dal 1904, quando si era trovato coinvolto nei tumulti che
avevano accompagnato il corteo funebre dell’anarchico Angelo Galli, ucciso a
Milano durante il primo sciopero generale proclamato in Europa nel 1904,
nonostante l’ordine trasmesso ai Prefetti di non usare le armi contro le
proteste dei contadini e degli operai.
Carrà, testimone oculare
dell’avvenimento, aveva realizzato un disegno-abbozzo della scena che gli era
rimasta così impressa che, sette anni dopo, la ricreò su tela, mostrandone il
forte dinamismo e il costante senso di un’energia trattenuta, ma sempre pronta a
esplodere. Si riconoscono le figure dei manifestanti, che corrono e si
divincolano, e quelle delle guardie a cavallo che intervengono con violenza e
che si fronteggiano su opposte spinte compositive, aumentandone il dinamismo.
Carrà vuole
rappresentare il vortice di emozioni che si accumulano nell’animo in momenti di
grande tensione e lo fa attraverso le linee e i colori. Dalla disposizione
delle linee in movimento si percepisce l'impressione di un movimento caotico.
Dall’uso del colore pastoso che risente ancora della tecnica divisionista dell’accostamento
dei colori complementari, l’azione assordante e tumultuosa si propaga
confusamente sulla tela, grazie ai contrasti cromatici ed ai contorni
riconoscibili delle figure umane a piedi e a cavallo. Il ruolo dei colori è
importante come la disposizione delle linee: il rosso domina su tutto e
accentua il carattere aggressivo della scena, spasmodica, preludio alla
catastrofe. Tutta la scena è un caos dai colori infernali che si aggroviglia su
se stesso in un vortice grandioso di mobili, di persiane, di porte sbattenti,
di inferriate, uno sforzo gigantesco di resistenze fisiche e morali che
rappresentano la massa.
Nel dipinto quello che
conta non è la cosa rappresentata quanto l’anima della cosa, il suo significato
più profondo fatto di linee e di colori. La folla in tumulto, animata da
tensioni e passioni, è rappresentata attraverso un moltiplicarsi
indefinito di linee: forme taglienti e aguzze, urto di segmenti,
ripetizione di volumi. Il ritmo è convulso, i colori sono cupi. Un
sole rovente genera ombre tagliate da lame di luce.
Le Esposizioni universali
segnavano il trionfo del progresso della società industriale della
meccanizzazione e della tecnicizzazione. Due cavalli di battaglia del Futurismo.
Luigi Russolo, divenuto famoso nell’ambito del Futurismo non tanto per la
pittura quanto per il contributo dato nell’ambito musicale, realizzò alcuni
dipinti, non molti per la verità, ma declinando attraverso essi i concetti
fondamentali del Futurismo. Uno di questi dipinti, fra i primi e quello forse
destinato a maggior fortuna, fu “Dinamismo di un’automobile” del 1912-13, oggi
conservato al Museo Nazionale d’Arte Moderna presso il Centro
Pompidou di Parigi.
Il quadro celebra uno
dei miti ruggenti del Futurismo: l’automobile. E contiene tutti gli elementi
fondamentali del Futurismo, sia tematicamente, sia stilisticamente: il mito
della macchina e della velocità, la violenza aggressiva del colore, le "linee-forza"
costituite da cunei a mano a mano più acuti da sinistra a destra per rendere il
senso della penetrazione dell'oggetto nell'aria.
Il pittore, assecondando
il dinamismo e la velocità e riprendendo l’automobile come soggetto e simbolo
di innovazione, si serve di un colore aggressivo per dar vitalità al quadro: lo
studio del colore anche in questo caso risente dell’influenza del Divisionismo
a cui aveva aderito inizialmente il pittore che quindi arrivò all’interesse per
il dato luminoso. I sapienti contrasti tra i colori primari molto corposi e
l’introduzione di una particolare luce contribuiscono alla resa del dinamismo
di una figura che si cala nel contesto industriale del periodo.
Il moto dell’autovettura
è inoltre evidenziato dalle linee convergenti in una sola direzione, che
individuano l’aumento della velocità oltre che la direzione, facendo emergere
la tensione dinamica dell'automobile in corsa. La ripetizione seriale dei
vettori ha la funzione delle linee-forza, concepite dai futuristi come il
fulcro di ogni cosa.
L’automobile, oltre che
essere uno dei soggetti privilegiati, diviene un simbolo celebrato da diversi
futuristi della prima ora che ripresero l’innovazione della macchina e la
trasposero nelle loro opere per esaltare il progresso e la modernità.
L’automobile è, infatti, considerata, nella rivoluzione tecnologica, un mezzo
capace di cambiare l’ambiente e la percezione della realtà agli occhi dell’uomo
essendo essa contemporaneamente il simbolo del movimento e dell'energia vitale.
I Futuristi si legano quindi al pensiero del filosofo Henry Bergson riguardo al
flusso vitale, secondo il quale la vita è un continuo fluire. Nel Manifesto
del Futurismo del 1909, Marinetti aveva esaltato l'automobile da corsa, nella
quale vedeva espressa l'irrazionalità istintiva. Un automobile da corsa col
suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un
automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della
Vittoria di Samotracia – dal Manifesto futurista del 1909.
Ma non solo il pensiero
di Bergson. Quest’immagine dell’automobile-cuneo che non solo fende l’aria, ma
piega anche lo spazio-tempo, che – impossibilitato a resisterle – si deforma al
suo passaggio sembra preconizzare la teoria della relatività generale di Albert
Einstein.
Al di là delle singole
macchine che eccitano la creatività dei futuristi (le motociclette, le
automobili e gli aerei), la Macchina rappresenta di per sé il loro oggetto
simbolico fondamentale, la cifra della modernità. I futuristi prediligono ciò
che è artificiale a ciò che è naturale, contrappongono le lune elettriche al chiaro di luna, arrivano a sentire la macchina come un essere
vivente ("le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie
come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi" – dal
Manifesto futurista citato), anzi addirittura senziente, dotato di
personalità, e viceversa vedono gli esseri viventi come ingranaggi e meccanismi
animati: il corto circuito tra ciò che è vivente e ciò che è meccanico,
inorganico, è caratteristico delle metafore futuriste e le identifica a colpo
sicuro.
Questo concetto si
allinea pienamente alle avanguardie che rilevano la necessità di avanzare in
modo continuo per porsi in contrasto con la tradizione e fondare una nuova arte
legata al presente.
Se si dovesse stabilire
una cesura, per indicare l’inizio di un’arte veramente moderna in cui per
moderno si intende l’ingresso delle masse nella storia della cultura
occidentale e quindi l’interesse dell’artista per un pubblico di massa, il Futurismo
è una cesura importante per il desiderio che esso nutrì sia nel chiudere con il
mondo ottocentesco sia per l’interesse che ebbe nel considerare le masse come
suo pubblico.
Il Futurismo usò con
piena consapevolezza i mezzi più appropriati per raggiungere ogni spazio
culturale, sociale e politico, facendo un uso consapevole e spregiudicato di
tutte le tecniche di propaganda pubblicitaria già affermate nel commercio e, anziché
disdegnare il grosso pubblico, le masse, i futuristi lo cercarono, lo
attiravano, lo scandalizzavano, cercavano di provocarne le reazioni emotive. La
campagna culturale futurista si attuava con i modi di una campagna
pubblicitaria: uso sistematico dei giornali, fondazione di case editrici e
riviste, distribuzioni omaggio, annunci pubblicitari, volantini, organizzazione
di eventi spettacolari e scandalistici, servendosi senza scrupoli di tutte le
tecniche di comunicazione di massa disponibili all'epoca.
Fin dalla sua nascita
nel 1909, quando Marinetti lanciò il primo Manifesto politico con invettive
contro il vecchio e i preti, il Futurismo aspirava ad essere politica, nel
senso che il partito del Futurismo ebbe sempre un suo preciso punto di vista sia
sulla guerra, sia sulle intenzioni rivoluzionarie dei sintomi premonitori del
Fascismo.
Nel suo furore
distruttivo nei confronti del passato, Marinetti fu sempre un bellicista
convinto: salutò con entusiasmo la guerra
di Libia, nel 1913 con Boccioni stilò il Programma politico futurista, fu un acceso interventista con tutto
il gruppo dei futuristi italiani e con la rivista Lacerba,
nata come superamento de La Voce, e rimprovero sprezzante, irriverente e
iconoclasta del Futurismo della prima generazione.
Nel 1914 i futuristi
promossero manifestazioni interventiste dei futuristi contro l'Austria.
Lo stesso incontro di
Marinetti con Mussolini – che, appena espulso dal Partito socialista scriveva a
Paolo Buzzi di aver parlato con Boccioni delle sue simpatie per gli innovatori
e per i demolitori, per i futuristi che avevano manifestato prima di lui
intenti rivoluzionari e interventisti – avvenne proprio in occasione dei comizi
e dei tafferugli interventisti.
Marinetti combatté da
volontario nella prima guerra mondiale con Giacomo Balla, Boccioni, Antonio
Sant'Elia e Carlo Carrà.
Nel primo quindicennio
del Novecento, il vecchiume cui voltare le spalle sembrava un unico blocco come
univoca e facilmente riconoscibile sembrava la rerum novarum cupiditas. L’eccesso
di ottimismo fu sconfessato per la prima volta dal Titanic nel 1912 con cui
naufragò la fiducia nella scienza e nel progresso civile e la belle époque tramontò definitivamente nel 1914 con la Grande Guerra.
Ma con la fine della
guerra mondiale, agognata igiene del mondo, divenne però chiaro che il nuovo
aveva molte facce, che non esisteva un solo futuro e che erano possibili molti
futuri.
Qual era però il futuro
per il quale si voleva combattere?
Se, prima della guerra,
l'opposizione era stata tra chi era disposto a battersi, a rischiare, a mettere
in gioco la propria vita, ad usare semmai anche la violenza, e chi invece
rimaneva prudentemente alla finestra, paralizzato dall'inerzia e dalla paura,
dopo la guerra bisognava compiere una scelta di campo.
Si doveva stare dalla
parte della guerra nazionalista o da parte della rivoluzione internazionalista?
Futurismo e Fascismo si
basavano entrambi su un'elaborazione teorica non molto robusta, ma, con tipica
impazienza del giovanilismo, entrambi si affidavano ad alcune affermazioni di
massima, a slogan che sembravano chiarissimi solo perché erano asciutti e
decisi, ma che, non appena si fosse andato a scavare più a fondo e a
confrontarli tra loro, avrebbero mostrato molte delle loro contraddizioni.
Le simpatie socialiste e
anarcoidi con cui era nato il Futurismo, pronto ad apprezzare chiunque lottasse
per sovvertire l'ordine costituito, ed il massimalismo interventista di
Mussolini che gli aveva causato l’estromissione dal Partito socialista, come il
radicalismo di Marinetti, non poggiavano su una rigorosa analisi marxista
della società, ed entrambi i movimenti finivano per sposare in gran parte gli
interessi della borghesia industriale del Nord che esigeva la modernizzazione e
l'industrializzazione del paese e per questo era stata era
stata interventista, contrapponendosi alla borghesia parassitaria e
agraria del Sud.
Su questi presupposti si
innesta l’ascesa del Fascismo.
Ripercorrere ora il
cammino del rapporto tra “arte e potere” nell’Italia negli anni
del Fascismo, significa saper indicare le complesse linee e le dense trame che
uniscono le diverse parti di un unico scenario di cui Mussolini fu, di volta in
volta, regista, ideatore di strategie, sagace calcolatore di opportunità,
capace anche di valutare l’autonomia dei propri collaboratori (come mostrano i
casi emblematici di Margherita Sarfatti e di Giuseppe Bottai o infine di saper
bilanciare le fortune dei gruppi e dei diversi movimenti, come rivelano le
vicende del Futurismo e di Novecento.
Ripercorrere inoltre
questo cammino complesso e articolato significa anche eliminare partigianerie e
antichi pregiudizi propri della storiografia successiva al Fascismo, con i suoi
connessi meccanismi di alterazione ideologica che hanno spesso influenzato le
successive interpretazioni, auspicando una rigenerazione dell'arte italiana
per lo più in senso informale e astratto, dettata dal desiderio di dimenticare
un’epoca che, con i suoi valori borghesi, nazionalisti e autarchici, aveva
condotto il paese alla guerra e sconvolto le coscienze della nazione.
Ripercorrere infine
questo cammino a distanza di settant’anni, significa poter finalmente studiare
e rivalutare, nei vari aspetti culturali e soprattutto in quello artistico, quest’affascinante pezzo di storia con l’illusione di non aver più nulla da temere, al di là di
tutte le trappole possibili delle ideologie, ora che il secolo breve è
definitivamente concluso.
I pregiati contributi,
offerti negli ultimi anni dagli studi di Renzo De Felice e di altri importanti
studiosi, forniscono oggi
un’ipotesi di lettura più ampia e serena in cui anche lo studio dello spaccato
dei rapporti tra arte e potere si può sviluppare più armoniosamente di quanto
non sia avvenuto in passato, almeno in quelle parti in cui gli interessi
dell’arte e del potere offrirono frutti consistenti. Questo atteggiamento nasce
dall’esigenza di rileggere la storia a distanza, per desiderio critico di
riabilitare figure di artisti che, vivendo più o meno consapevolmente quel
periodo storico, hanno espresso con le loro opere la poetica dell'ordine, del
ritorno alla solida tradizione italiana, dell'esaltazione di valori sociali
come famiglia, lavoro, patria, ritenuti prioritari in quel particolare momento storico.
Il regime fascista sosteneva e incoraggiava gli artisti e garantiva loro
(fenomeno nuovo, sebbene avvenuto a determinate condizioni) opportunità di
commissioni statali e comunque possibilità espositive davvero frequenti. Questa
ricerca storica, come ogni altra ricerca, deve essere animata dalla passione di
conoscere l’altro rispetto al nostro tempo, rispetto alle nostre convinzioni
infine rispetto ai nostri sistemi di valori, sebbene sia difficile, in epoca di
democrazia e di pluralismo, leggere e decodificare un periodo che esclude per
cinici quanto brutali interessi di classe, proprio l’altro. Un totalitarismo,
anche se imperfetto quale fu il Fascismo, tende a informare di sé ogni analisi
prevenuta, che cerchi di dimostrare tesi date a priori. Il meglio che
probabilmente può dare un simile atteggiamento mentale è la tesi di Norberto
Bobbio, che fa di fascismo e
comunismo categorie dello spirito che si generano reciprocamente, non dalla
storia, ma dalla Necessità Storica.
La posizione di Bobbio certo
seduce, ma affrontare la nozione estetica del Fascismo necessita di ben più
complesse strategie che esulino dalle categorie convenzionali: proprio perché imperfetto,
il totalitarismo fascista presenta difficoltà maggiori di decodificazione,
anche nel settore artistico, anzi, proprio addentrandosi in questo campo, è
come penetrare in un mondo magmatico e richiede coraggio per penetrare nelle
viscere di una vicenda molto più confusa, disordinata e vitale di quanto non la
si sia, il più delle volte, rappresentata per convenzioni e per luoghi comuni.
Esiste nella Storia qualcosa peggiore
della “damnatio memoriae” ed è il tentativo di svincolare ciò che è positivo di
un’epoca “damnata” dalla “damnatio” generale della stessa, falsificando o ignorando
gli intrecci con quella parte di passato che si era condannato.
È questo il caso del Futurismo che,
dagli anni Ottanta del Novecento è stato oggetto di importanti studi e di altrettanto
fondamentali mostre a partire da quella importantissima “Ricostruzione futurista dell’universo” curata da Enrico Crispolti e
tenuta a Torino nel 1980, fino a giungere a quella del 2014 “Italian Futurism,
1909–1944: Reconstructing the Universe”, curata da Vivien Greene al “Museo
Guggenheim” di New York, in cui si tenta di sdoganare dal Fascismo il Futurismo
successivo alla Prima guerra mondiale.
La questione rilevante non è tanto
dimostrare fino a che punto il Futurismo sia stato o meno un movimento
artistico al servizio del regime, aspetto inequivocabile innegabile nella sua
seconda fase, quanto capire come esso abbia nutrito in sé quel sostrato
culturale – la definizione di un rinnovato stile di vita, l’ossessione per
virilità e per la fisicità, l’insistenza sull’interventismo – che il regime
fascista condivise.
Lo storico inglese Adrian Lyttelton scrive
in un’opera fondamentale: “Il Fascismo non sarebbe potuto esistere senza
Futurismo o per lo meno sarebbe stato qualcosa di molto diverso”. Consapevole del dubbio
alla base di un ricongiungimento del Fascismo con l’arte futurista, è doveroso non
cadere nell’operazione disonesta di accantonare – con una forma depotenziata di
negazionismo – il ruolo che la politica ha giocato nella sua costituzione, ma rintracciare
l’energia che il Futurismo ha dato al Fascismo.
Siccome il Futurismo ha avuto una
lunga parabola è opportuno individuarne le scansioni. Si può affermare che il
primo Futurismo entra in crisi quando Umberto Boccioni muore improvvisamente,
nel 1916, mentre Carlo Carrà e Gino Severini sono in una fase di evoluzione
verso il Cubismo, pertanto il gruppo milanese si scioglie ed il cuore pulsante
del movimento futurista diventa Roma, con la conseguente nascita
del Secondo Futurismo.
Il secondo Futurismo, si può suddividere in due fasi: la prima fase dal 1918 al
1928 è caratterizzata dallo scioglimento del gruppo di futuristi milanesi che
si ricompattano a Roma intorno a Marinetti e in questa fase i pittori futuristi
sono impegnati nel superamento del Divisionismo
evolvendosi in forme
astratto-geometriche, mediate dalla conoscenza del cubismo, delle prime
intuizioni post cubiste e costruttiviste
Enrico Prampolini, Fortunato Depero, Francesco Cangiullo, R. Zatkova e
ancora Giacomo Balla.
Nel 1929 i Futuristi entrarono nella seconda fase del secondo Futurismo
(1929-38) e firmarono il “Manifesto della Aeropittura”, che proponeva uno
stile pittorico capace di dare al pubblico sensazioni collegate al volo con il
risultato di avvicinare gli artisti alle idee suggerite dal surrealismo: fra
questi emerse l'attività del gruppo torinese (Luigi Colombo Fillia, Medardo
Rosso, Nicolay Diulgheroff, P. Oriani, Farfa ecc.). Momenti di adesione alla
poetica futurista sono rilevabili nell'opera anche di altri artisti, come Mario
Sironi, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Arturo Martini, Giorgio Morandi, Achille
Funi, e altri.
Le responsabilità politiche del Futurismo
rispetto all’avanguardia sono legate all’esaltazione dell’avanguardia stessa,
non dei suoi temi: l’estetica del Futurismo dopo la Prima guerra mondiale fu un’estetica
dell’avanguardismo, più che un’avanguardia artistica. Quest’ideologia della
rottura fine a se stessa creò l’humus culturale perfetto per la diffusione del
Fascismo: basterebbe il solo famosissimo slogan sulla guerra, come “sola
igiene del mondo", della guerra come unica forza generatrice. Per quanto
lo si voglia contestualizzare, calarlo nel suo tempo, non si può dimenticare
che questo slogan ha avuto delle responsabilità influenti sulle sorti della
gente, giustificando culturalmente una politica di morte. L’amore della morte
degli squadristi e tutte le altre simbologie macabre che hanno nutrito la
peggiore cultura fascista, non sono per nulla estranee a quegli atteggiamenti
del Futurismo.
Il Fascismo come sistema totalitario,
confrontato con il totalitarismo nazista e con quello sovietico, presenta moltissime
smagliature nel suo progetto – se ve ne fu uno – di una politicizzazione
dell’estetica a causa della sua imperfezione leggibile anche come una
sua debolezza rispetto ad altri regimi totalitari.
Di estetiche ve ne furono diverse. Alcune
accomunate dalle categorie del disagio, altre dalla volontà politica di
acquisire comunque potere, altre ancora dall’adesione eccessiva al Fascismo,
altre infine dal disincanto e dall’ironia. Nei confronti di queste estetiche il
Fascismo ebbe, sebbene con modalità e finalità differenti, sempre un
atteggiamento possibilista, almeno fino al 1938.
Per comprendere l’atteggiamento del
Fascismo nei confronti dell’arte in generale, vanno innanzitutto differenziati
i periodi, distinguendo i due decenni l’uno dall’altro, e quindi ponendo
attenzione alla geografia dell’arte, della quale è ancora necessario parlare,
perché l’Italia – quell’Italietta da poco formata come entità nazionale –
nonostante le tendenze omogeneizzatrici espresse dal Fascismo, continuava a
mantenere fortissime eterogeneità e specifiche culturali.
La politica del Fascismo nei confronti
dell’arte fu inizialmente cioè dopo la marcia
su Roma nel 1922 abbastanza flessibile e priva di esasperate ostinazioni.
L’inizio era ancora un’occasione di ricerca, capace al momento di respirare
l’aria dei grandi ingegni del primo quindicennio del secolo: a Milano il salotto
cremisi della signora Sarfatti – vera musa della cultura milanese – continuava
a riunire gli eredi delle istanze plastico costruttive dell’ultimo Boccioni, e
Mussolini, non ancora consolidato al potere, aveva ancora bisogno di tenere
buoni i giovani intellettuali delle avanguardie.
Sul piano dell'immagine e della
retorica, Mussolini aveva fatto ampiamente tesoro della lezione del Futurismo e
continuò a farne uso parlando fino all'ultimo di “Rivoluzione fascista”,
reclamando i diritti dell'“Italia proletaria” e ostentando quel
giovanilismo e quello stile dinamico, sprezzante, fiero e spregiudicato,
quell’amore del rischio e della sfida che i futuristi avevano proposto fin da quando
il Fascismo ancora non esisteva.
Per questi motivi, nel tribolato
periodo dell’immediato primo dopoguerra, norme e metodi futuristi erano
travasati nel Fascismo, senza traumatici cambiamenti. Per una certa comunione
di intenti: le posizioni polemiche del Fascismo contro l’oscillante borghesia
liberale giolittiana, senz’altro traducibili in atteggiamenti anticapitalistici
– la demagogia populistica e l’azione sediziosa volevano significare coraggio
rivoluzionario – coincidevano con quelle dei futuristi, come la polemica
fascista agli estremi tentennamenti del vecchio liberalismo trasformista della
borghesia postrisorgimentale coincideva con la polemica futurista. In questi attacchi
si inseriva bene anche la battaglia estetica futurista contro la limitatezza e il
vecchiume dei gusti artistici borghesi.
Osservando più da vicino il fenomeno
delle relazioni fra Fascismo e Futurismo
– che sono in sostanza le relazioni fra Mussolini e Marinetti – si nota che i
futuristi e gli altri artisti d’avanguardia erano confluiti facilmente nel
nascente Fascismo: Marinetti era stato al fianco di Mussolini negli anni dell’“interventismo”,
durante e dopo il conflitto, ed era stato presente al discorso di piazza San
Sepolcro del 23 marzo 1919 e alla relativa fondazione dei “Fasci italiani di
Combattimento”.
Eppure, a ben guardare le dinamiche fra
i due movimenti ci si accorge che fin dal principio Mussolini era in ritardo
rispetto a Marinetti: nel 1918, immediatamente dopo la guerra quindi con un
anno di anticipo su Mussolini, Marinetti aveva organizzato con decisione un partito
politico futurista e aveva pubblicato su “Lacerba” il “Manifesto del Partito
politico futurista” che voleva essere nettamente, per quanto possibile a un
intellettuale come lui, distinto dal movimento artistico, ma più che un
programma di partito esso era lo specchio dello spirito vitalistico ed estetico
dell'avanguardia futurista.
Questo manifesto tuttavia alimentò per
molti aspetti il movimento fascista.
Subito dopo, nel 1919, Marinetti sostenne
la costituzione dei Fasci politici futuristi che nacquero in diverse città
italiane e, solo dopo quelli futuristi, Mussolini organizzò i suoi fasci per la
scalata al potere.
I futuristi, durante il periodo
antecedente la Prima guerra mondiale, erano stati espressione del malessere e della
contestazione intellettuale che erano tuttavia tipici della società, lo stesso
malessere che anche il Fascismo esprimeva. Da questo, dal dichiarato
interventismo di Marinetti e dal suo incitamento alla guerra come “unica igiene
del mondo”, nasce probabilmente l’equivoco di fondo dell’equivalenza delle due
posizioni.
Dal 1909 al 1919 il Futurismo aveva
svolto una funzione progressista, rivoluzionaria, perché fino alla Prima guerra
mondiale quella continua provocazione culturale palingenetica poteva avere una
sua “raison d'être” nel processo di emancipazione della borghesia, certamente in
modo più efficace rispetto alla vecchia cultura cattolica e alla statica
cultura idealistica e romantica, entrambe legate ancora a un passato rurale ed
entrambe incapaci di riformarsi e di rinunciare a stili di vita obsoleti.
Per questo nel suo programma di critica
anti-istituzionale, anti-accademica, anti-passatista, il Futurismo riuscì a
trovare degli alleati anche nelle forze progressiste della sinistra, si pensi
al seguito che ebbe perfino nella Russia bolscevica. Gramsci, in un celebre
articolo su “L’ordine nuovo”, scrive: «I futuristi […] hanno avuto
fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la
concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria,
della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove
forme, di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa
concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i
socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione, quando i
socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo
della politica e dell’economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e
si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava
spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica. I
futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in
questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non
riuscirà per molto tempo a fare di più di quanto hanno fatto i futuristi:
quando sostenevano i futuristi, i gruppi operai dimostravano di non spaventarsi
della distruzione, sicuri di potere, essi operai, fare poesia, pittura, dramma,
come i futuristi, questi operai sostenevano la storicità, la possibilità di una
cultura proletaria, creata dagli operai stessi». Lo stesso
Gramsci in una lettera a Trotzky ricordò anche che a Torino e a Milano il Futurismo
era stato talmente popolare tra i lavoratori che la rivista
"Lacerba", a prezzi ridotti, vendette quasi tutte le sue copie tra la
classe operaia.
Purtuttavia, già nel Manifesto del
1909, Marinetti si mostra notevolmente militarista quando considera la guerra, il
militarismo, il patriottismo, la retorica delle belle idee "per cui si
muore", "il gesto distruttore dei libertari" e persino "il
disprezzo della donna", come strumenti privilegiati per ripulire il
presente dalle incrostazioni del passato. Già da questo primo Manifesto si
possono scorgere elementi che anticipano alcune derive autoritarie e alcuni
miti che saranno poi fatti propri dal Fascismo. Se si osserva poi con
attenzione il programma del “Partito politico futurista” del 1918 si nota che
esso ancora una volta anticipa molti punti del programma dei Fasci italiani di
combattimento del 1919 tanto che la storiografia odierna ha rivalutato l'influenza
dell'attività politica dei futuristi che, pur essendo una piccola élite, ebbero
un ruolo notevole nella fase iniziale del movimento fascista.
Il rapporto fra Futurismo e Fascismo
fu sempre un rapporto ambiguo e se ne osservino le ragioni. Il Futurismo
era nato come reazione al culto per l'antichità e per la tradizione e anche in
politica l’obiettivo futurista era rappresentato dalla critica alle istituzioni
più tradizionali: Monarchia e Chiesa. Con la stessa foga i futuristi si
opponevano però anche ai rivoluzionari socialisti o
anarchici, che per loro erano colpevoli
di non aver voluto la guerra, "sola igiene del mondo". A questo punto
l'alleanza politica con le organizzazioni di reduci come gli “Arditi” e
con gli ex esponenti del “socialismo interventista” come Mussolini era un
percorso obbligato.
Quest’alleanza coincise con l’apogeo
dell’impegno politico futurista che vide la fondazione, alla fine del 1918, dei
“Fasci futuristi”, la cui rapida diffusione in diverse città italiane fu
prontamente testimoniata dagli articoli pubblicati su «Roma futurista», il
giornale del partito politico futurista.
Nella fase che immediatamente precedeva
la fondazione dei “Fasci di combattimento”, il Fascismo era ancora un vago
movimento che assorbiva molto dal “nazionalismo rivoluzionario” di Marinetti
per una notevole convergenza ideologica e politica con il Partito futurista. E
il debito del Fascismo nei confronti del Futurismo non si esauriva soltanto nella
risolutezza violenta di "imporre coi cazzotti le proprie idee", ma si
estendeva a diversi atteggiamenti ideologici: il combattentismo,
l’interventismo, l’anti egualitarismo, il nazionalismo, l’antisocialismo, il
disprezzo per la democrazia parlamentare, le idee repubblicane e l’attenzione
per il rapporto con le piazze. In altre parole un miscuglio fra idee di
sinistra e di destra. I due movimenti condividevano inoltre una simile
concezione della vita e un simile sistema di valori: il culto della giovinezza
e della forza, l'irrazionalismo e il primato dell’azione, l'esaltazione della
modernità e del mito dell’italianità. Marinetti a buon diritto disse nel 1924
che “il fascismo nato dall'interventismo e dal futurismo si nutrì di principi
futuristi” E, in effetti, i fasci di combattimento, si rifecero ampiamente al
nazionalismo rivoluzionario di Marinetti, non solo per la risolutezza
nell’imporre le proprie idee, ma anche scendendo in piazza, e per le filosofie
d’azione e i sistemi organizzativi, che Mussolini certamente mutuò dai
futuristi. Benedetto Croce, sulle pagine de “La Critica” spiegò:
“Veramente per chi abbia senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del
fascismo si ritrova nel futurismo: in quella risolutezza a scendere in piazza,
a imporre il proprio sentire, a turare la bocca ai dissidenti, a non temere
tumulti e parapiglia, in quella sete del nuovo, in quell’ardore a rompere ogni
tradizione, in quella esaltazione della giovinezza, che fu propria del
futurismo”.
Giuseppe Prezzolini, in un articolo
intitolato “Fascismo e futurismo”, pubblicato il 3 luglio del '23, scrive:
"Evidentemente nel Fascismo c'è stato del Futurismo e lo dico senza alcuna
intenzione. Il futurismo ha rispecchiato fedelmente certi bisogni contemporanei
e certo ambiente milanese. Il culto della velocità, l'amore per le soluzioni
violente, il disprezzo per le masse e nello stesso tempo l'appello fascinatore
alle medesime, la tendenza al dominio ipnotico delle folle, l'esaltazione di un
sentimento nazionale esclusivista, l'antipatia per la burocrazia, sono tutte
tendenze sentimentali passate senza tara nel fascismo dal futurismo".
Nella fase del tormentato dopoguerra, il
legame tra Futurismo e Fascismo si concretizzò dapprima con l’adesione di
Marinetti alla proposta di Mussolini di creare una “Costituente
dell’interventismo” nel dicembre del 1918, che si rivelò tuttavia fallimentare.
Futuristi e fascisti furono ancora uniti nel gennaio del 1919, nella manifestazione
al “Teatro alla Scala” contro “Leonida Bissolati”, poi ancora con la
partecipazione di Marinetti e di altri futuristi alla fondazione dei Fasci di
combattimento il 23 marzo 1919, il cui programma fu anche presentato sul numero
del 16 aprile 1919 di «Roma futurista».
È ulteriormente indicativo che i
futuristi fossero tra gli organizzatori e animatori di alcuni dei primi episodi
di squadrismo fascista: l’assalto squadrista e l'incendio della
redazione milanese dell'“Avanti!” il 15 aprile del 1919, la partecipazione di
Marinetti all’assalto squadrista di un corteo socialista di Milano, l’attacco
insieme a De Vecchi di un corteo di cattolici, i cui stendardi furono gettati
nel Naviglio.
Nei delicati momenti del diciannovismo,
Marinetti e Mussolini finirono insieme in carcere per connesse attività
politiche sovversive ed è chiaro che Mussolini avesse accolto e riutilizzato
nella mistica fascista molte delle istanze proprie dell'ideologia futurista:
candidato nella lista fascista alle elezioni del 1919, Marinetti fu secondo
solo a Mussolini per numero di preferenze.
Si è soliti considerare la connessione
fra Futurismo e Fascismo sul terreno comune d’incontro dell'esaltazione
dell'aggressività e della guerra: in realtà la questione è ben più
complessa, per cui occorre tener presenti alcune questioni fondamentali. Si
è visto che il Futurismo era stato sempre un passo avanti al Fascismo e che
quest’ultimo ne utilizzò, nella sua fase rivoluzionaria diciannovista, idee ed
energie. Marinetti dal canto suo si era
convinto di poter trovare, nel nascente movimento fascista, il braccio politico
del Futurismo, sebbene considerasse il Fascismo, solo una realizzazione minima
e depotenziata del programma politico futurista che, di fatto, aveva preceduto
il programma fascista del 1919.
La battaglia condotta da futuristi e
fascisti per le vie di Milano costituì non soltanto uno degli eventi
anticipatori di quel clima di violenza diffusa che avrebbe portato alla marcia
su Roma, ma rese anche evidente la totale convergenza sul terreno
dell’illegalità di due organizzazioni politiche che pure non rinunciavano a
partecipare alla lotta parlamentare e alle competizioni elettorali, mescolando
l’apparente rispetto delle regole del gioco democratico con il ricorso a
pratiche illegali caratteristiche della tradizione antipolitica nazionale.
Bisogna inoltre considerare che, fin
dalla sua fondazione, il movimento futurista, al pari del
Fascismo, presentava forti ambiguità che non si evidenziarono subito, ma
solo gradualmente e quando i contrasti di fondo tra le varie forze in gioco si
chiarirono, nel corso degli eventi storici della prima fase del Novecento.
La relazione fra i due movimenti fu
piuttosto ondeggiante e non sempre tranquilla.
In seguito all’accordo del 1919 e per poco
più di un anno Marinetti procedette al fianco di Mussolini, ma dopo il secondo
Congresso nazionale dei fasci di combattimento nel maggio 1920 uscì dai Fasci e
voltò le spalle alla politica: Mussolini mirava ad una rivoluzione possibile
mentre Marinetti insisteva sulla necessità di "svaticanare l'Italia",
di abolire la monarchia e di "appoggiare gli scioperi giusti", a
fronte di un Mussolini che, pur continuando a rivolgersi soprattutto ai ceti
popolari, attenuava il proprio anticlericalismo, tranquillizzava la borghesia e
si preparava a venire a patti con il re. Il poeta iniziò lentamente, ma
decisamente a divergere dal Fascismo. Anche il
Fascismo agli occhi di Marinetti aveva acquistato il sapore di passatismo e così
insieme a tanti altri futuristi si dimise dai fasci prima della fine del
1920, attestandosi su posizioni di sinistra che
gli valsero l’inimicizia del Fascismo ufficiale. Si racconta che il duce in
quell’occasione avrebbe affermato: “Marinetti
è uno stravagante buffone che vuol fare della politica e che nessuno, nemmeno
io, prende sul serio in Italia”.
In seguito al suo distacco dai Fasci Marinetti
non prese parte alla marcia su Roma, nel 1922, pur essendo era nella redazione
del "Popolo d'Italia", a Milano, quando Mussolini manteneva frenetici
contatti telefonici con Roma che portarono poi alla sua convocazione al
Quirinale, con il conseguente incarico di formare il Governo.
Marinetti continuava ad essere dalla
parte di Mussolini, come quasi tutti i futuristi risparmiati dalla guerra, ma aveva
della rivoluzione un’idea più radicale, inframmezzata da utopistiche
eccentricità, ben diversa da quella pragmatica, perfino cinica di Mussolini: se
l'alleanza si era rotta, era stato soprattutto per il trasformismo di
Mussolini.
All’inizio degli anni Venti,
l’atteggiamento del Fascismo, asceso al potere, ma non ancora affermato come
regime – pertanto ancora privo di una sua immagine rappresentativa quindi non
ancora costretto ad identificare le tendenze artistiche con un’ideologia di
sistema – manifestava una certa apertura di fronte alle varie correnti
artistiche. Tuttavia la concezione dell’arte o l’uso che il Fascismo ne fece
andò progressivamente trasformandosi, seguendo le vicende politiche che la sua “governance”
assunse nel corso del suo ventennio di potere.
Il Futurismo si muove da una parte
parallelamente al Fascismo della fase “diciannovista” (dal quale poi si separa
polemicamente nel momento in cui il movimento mussoliniano cominciò la sua
virata verso destra), e dall’altra in consonanza con la sinistra anarchica e
con il sindacalismo rivoluzionario. Quando nel 1922 il Fascismo aveva
trasformato il suo empito rivoluzionario in un accomodamento, scendendo a patti
con la Monarchia, Marinetti e i futuristi sentirono di essere stati traditi:
tuttavia, anche quando Marinetti e Mussolini furono più lontani, la tensione nasceva
dal rimprovero ai fascisti di essere troppo poco radicali, troppo poco
spregiudicati, troppo poco aggressivi. Marinetti sognava un Fascismo
perennemente immerso nell’effervescenza squadrista, che bastonasse,
metaforicamente e non solo, tutti i residui dell’Italietta giolittiana. Indipendentemente
dal fatto che queste aspirazioni fossero davvero traducibili in politica, di
sicuro quello che voleva Marinetti era un Fascismo più fascista. Ma l’allontanamento
di Marinetti da Mussolini era dovuto anche alla sua delusione che il
"Duce" non avesse riconosciuto il Futurismo come arte ufficiale del
regime.
Tramontata l’ipotesi di
un’alleanza a sinistra e constatata l’impossibilità di trovare per il Futurismo
– nel contesto del nascente regime – un proprio spazio politico autonomo,
Marinetti optò per un sostanziale disimpegno del suo movimento dalla sfera
politica, assumendo il Fascismo quale «realizzazione del programma minimo
futurista», pur continuando a mantenere viva la tensione rivoluzionaria della
fase diciannovista.
Dopo la tiepida accoglienza che aveva
avuto Parigi con il “tattilismo” nel 1924 – quando ormai non era più
considerato la “caffeina d’Europa” e il nuovo verbo delle avanguardie era
recitato dai dada – si era avvicinato di nuovo al Fascismo: Mussolini, che
ormai stava consolidando il suo potere e il regime, lo colmò di onorificenze, più
formali che sostanziali come le Onoranze a Marinetti il 23 novembre. Dal canto suo Marinetti col I Congresso
Nazionale futurista, tenuto a Milano nel pomeriggio della stessa giornata, portò
il movimento futurista di nuovo in seno al Fascismo, concedendo riconoscimenti
al Fascismo che contribuirono a connettere sempre più il Futurismo al P.N.F. Sempre
durante il congresso, Marinetti invitò Mussolini a tornare “il Grande
mussolini, capace di restituire al fascismo e all’Italia la meravigliosa anima
diciannovista, disinteressata, ardita, antisocialista, anticlericale,
antimonarchica”.
L’evento fu ripreso nelle numerose
cronache dell’epoca sia giornali sia volantini sia nella lucida analisi di
Piero Gobetti che nell’articolo “Marinetti il precursore” sostenne che
Marinetti aveva rinunciato alla politica solo per evitare lo sfascio del
movimento.
In ogni caso se c’era stato un periodo
in cui Marinetti aveva visto Mussolini come uno strumento positivo di
svecchiamento dei costumi, la sua delusione prese il posto dell’illusione: la
spinta dei futuristi alla rivoluzione creativa non poteva accordarsi con la
filosofia conservatrice verso cui si volgeva il Fascismo. D’altro canto però l’irrequietezza,
l’anarchismo, il ribellismo, le stesse polemiche dei futuristi non erano più
utili, anzi apparivano eccessi che cominciavano a trasmettere un certo senso di
disagio e di inquietudine.
Dopo il 1925, consolidata ormai la
propria posizione di governo e instaurato definitivamente il regime, il
Fascismo doveva presentarsi come il partito che avrebbe dovuto ricomporre
l’armonia lacerata dalla crisi che ne aveva consentito la sua stessa ascesa,
quindi era costretto ad elaborare una dottrina d’ordine che desse un’adeguata
risposta a tale esigenza in tutti i campi, anche in quello delle arti e per
questo continuò a guardare al Futurismo con perplessità, perché quell’audacia
sfrontata contrastava con il principio fascista di quel momento di dare
un’immagine di sé tranquilla e rassicurante. Il Futurismo, così irrequieto e
violento, poteva essere tornato comodo negli anni dello squadrismo, ma una
volta al potere Mussolini aveva certo bisogno di orientamenti sicuramente
moderni, ma più moderati, che s'intonassero al clima romano e alla piena
riconciliazione con la tradizione.
Del Futurismo rimasero solo alcuni
motivi formali che però avevano già improntato non solo l'ideologia del regime,
ma soprattutto lo stile e il linguaggio della dirigenza fascista, come
l'estremismo verbale e il gusto per l'iperbole, la propensione per le imprese
temerarie, l'esibizione di uno spirito gladiatorio. Di fatto, altri erano i
cardini su cui il regime aveva edificato un «nuovo ordine fascista».
L'organizzazione di un regime
totalitario aveva comportato il ripudio sia di concezioni attivistiche
elitarie, sia di atteggiamenti dissacranti, tipici del Futurismo e aveva
imposto il controllo di un partito unico su ogni aspetto della vita individuale
e collettiva.
I futuristi non presero più alcuna
posizione politica, avallando in questo modo l’ipotesi di una loro adesione al Fascismo
regime, ma non è facile stabilire se la
mancata dissociazione rappresenti una piena condivisione alla politica
fascista.
Quello che è certo è che il Futurismo
non fu proposto dal Fascismo come arte del regime e che fu, talvolta
vezzeggiato da alcuni gerarchi, ma più spesso apertamente attaccato da altri.
Al riguardo vale la pena ricordare l'episodio del 1924 quando i futuristi non erano
stati ammessi alla Biennale di Venezia e Marinetti aveva inscenato una protesta
all'inaugurazione della mostra alla presenza del re. Per i fascisti i futuristi
continuavano a rappresentare personaggi inquieti e quindi non del tutto
affidabili. Del resto il Fascismo non sviluppò una propria cultura, ma accettò
via via diversi stili artistici e un’ampia parte dei suoi aderenti mostrava
un'irriducibile avversione verso la modernità.
Nel 1925 Marinetti, pur dimostrando
scarsa simpatia verso alcuni gerarchi fascisti, per la sua amicizia con
Mussolini e, presumibilmente, per fornire supporti al movimento futurista appose
la sua firma al “Manifesto degli intellettuali fascisti”.
La riconciliazione con Mussolini era avvenuta in
prospettiva di una affermazione del Futurismo come unica arte innovatrice, cosa
che gli riuscì soltanto in minima parte: il poeta infatti si tenne o fu tenuto
lontano da ogni importante carica di partito o di governo, ma restò sempre un
ascoltato amico di Mussolini, ben consapevole del prestigio internazionale
goduto dal fondatore del Futurismo. I futuristi continuarono ad avere uno
spazio: furono presenti con le loro opere alla terza Biennale di Roma del 1925
e poi a quella di Venezia del 1926 dove ebbero uno spazio tutto loro, ma sempre
nello spirito della tolleranza che si riserva ad amici sostanzialmente troppo facinorosi.
Nella sua ambiguità il rapporto fra Futurismo
e Fascismo fu fondamentalmente un rapporto basato da un lato sulla nostalgia del
passato sansepolcrista, da un altro sul compromesso: se nel 1928 Marinetti accettò
la nomina a “Segretario del Sindacato Autori e Scrittori” e se l'ex incendiario
della cultura accademica nel 1929 accettò quella di membro dell’“Accademia
d’Italia” – atto che ovviamente neutralizzò le
spinte moderniste del Futurismo e che di certo cozzava con gli ideali
antiaccademici professati dal movimento – fu per rimanere sempre
fedele a quel Fascismo – quello rivoluzionario diciannovista – che lo
aveva deluso, ma nei cui confronti continuava sempre a nutrire nostalgico
affetto, ma fu anche per continuare a rinforzare il Futurismo rimanendo nel
sistema. Su questo è fondamentale la testimonianza di Francesco Cangiullo, che
così ricorda le parole di Marinetti: “Se non accettavo l’Accademia non vi
potevo lanciare. Mussolini non vi accetta. E poi non è stato Mussolini a
entrare nel futurismo ma è stato il futurismo a sfondare nel fascismo è il
futurismo che entra nell’Accademia non è l’Accademia che entra nel futurismo”.
Da queste parole si capisce che anche la
componente opportunistica aveva giocato il suo ruolo nei rapporti tra artisti e
politica: gli eventi, le mostre, gli spettacoli e la copiosa attività
editoriale dei futuristi furono, infatti, finanziati dal regime fascista e lo
stesso Marinetti era personalmente stipendiato dal duce. In cambio durante il
regime i futuristi assecondarono il potere soprattutto con opere di propaganda celebrando
le imprese e le iniziative del Fascismo.
L’incontro tra Futurismo e Fascismo
produsse certamente alcuni tra i risultati artisticamente più deludenti del
movimento. Giacomo Balla, Fortunato Depero, Tato, Corrado Forlin, Thayaht
dipinsero e scolpirono Mussolini, le squadre d'azione, i legionari. Alcune opere
futuriste sono un chiaro inno alle imprese fasciste, si pensi ad
Alessandro Bruschetti e alla sua didascalica “Sintesi fascista” del
1935, ma anche ad artisti straordinariamente originali e centrali nella seconda
fase del futurismo come Fortunato Depero, nel cui bozzetto per un mosaico
dedicato alla “Proclamazione e trionfo della bandiera nazionale” del 1935
non si ritrova altro che la sterile ideologia del “Minculpop” che stride per lo
scontro modernismo e realismo sociale.
Le pagine artisticamente più
interessanti della fusione tra l’estetica futurista e la propaganda fascista
bellica, totalitaria e colonialista del periodo tra le due guerre sono quelli
della scoperta della dimensione del combattimento aereo. Dalla fine degli anni
venti e per tutto il decennio successivo, alla dromolatria e al culto futurista
della macchina si affianca la mitizzazione dell’aeroplano, un’immagine che
domina tutta l’ultima produzione del movimento,
dall’aeropittura all’aeropoesia, dall’architettura aerea – già anticipata
da Virgilio Marchi con il suo “Edificio visto da un aeroplano virante”.
Le opere di Tullio Crali, Enrico Prampolini e Benedetta, i cui murali
commissionati dal “Palazzo delle Poste” di Palermo rappresentano forse gli
esempi più convincenti di quest’ultima fase.
A fronte degli aspetti propagandistici,
in Italia la posizione del Fascismo nei confronti dell’avanguardia artistica fu
molto più morbida e questo soprattutto grazie a Marinetti che, occupando un
ruolo importante nella cultura italiana, fu costantemente in prima linea nel
difendere la libertà espressiva non solo dei futuristi, ma di tutti gli artisti
contemporanei.
Marinetti si oppose in prima persona
all'"Operazione arte degenerata" con cui il regime, sulla scia di
quanto accadeva nella Germania di Hitler, pretendeva di sbarazzarsi delle
avanguardie, cancellando di fatto la nuova arte del Novecento, Futurismo
compreso.
Il primo agosto 1937 dalle pagine del
periodico parigino “Il merlo” Marinetti attaccò duramente la politica culturale
di Hitler e precisò che in Italia Mussolini non seguiva la stessa linea e dava
spazio all’avanguardia futurista. Ma nel frattempo anche in Italia qualche
critico abbracciava posizioni simili a quelle hitleriane. È il caso di “Telesio
Interlandi” e di “Roberto Farinacci”, che attaccarono apertamente Marinetti e
il Futurismo.
Nel novembre del 1938 dalle pagine de
“Il Tevere”, Telesio Interlandi accusò di internazionalismo il Futurismo e
Marinetti, ma il poeta non era disposto a subire l’affronto e con decisione
respinse colpo su colpo le critiche: il 3 dicembre 1938 organizzò con successo
una manifestazione di protesta al Teatro delle Arti di Roma nella quale
Marinetti fu il grande protagonista della serata memorabile. In sala c’erano i
rappresentanti di tutta l’arte moderna, futuristi, razionalisti come Giuseppe
Terragni, astrattisti come Osvaldo Licini. Marinetti si presentò in sala con
una mitragliatrice in spalla e pronunciò parole di fuoco contro Farinacci,
Interlandi e gli altri critici filotedeschi e in difesa del futurismo e
dell’arte moderna.
Marinetti, che pure in diverse
circostanze dissentì dalle scelte di Mussolini, continuò sempre ad appoggiarlo: si arruolò volontario
durante l'invasione d'Etiopia e lo appoggiò durante la guerra arruolandosi
nella campagna di Russia forse nella speranza di finire "martire",
eroe della patria, come durante la I guerra mondiale Boccioni e Sant'Elia e
dopo la caduta del Regime, aderendo alla repubblica di Salò nel cui seno, a
Bellagio, Marinetti trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Marinetti scrisse opere
dichiaratamente e sentitamente fasciste, come “Il poema africano della
divisione "28 Ottobre"” del 1936, “Canto uomini e macchine della
guerra mussoliniana” del 1942 e “Quarto d'ora di poesia della X Mas”, in cui canta
le lodi della più scellerata delle Brigate Nere.
Quando Marinetti morì nel 1944 volle
essere sepolto in camicia nera: il funerale solenne di Stato, voluto da
Mussolini, fu celebrato a Milano simbolicamente nella chiesa di San
Sepolcro proprio in quella piazza dove era nato il Fascismo.
Quasi
nessuno dei futuristi sopravvissuti a Marinetti è diventato antifascista.
In quanto artista e critico d'arte, Marinetti fu senza dubbio un grande
innovatore, fondamentale per comprendere la letteratura e l’arte dell’Italia
del Novecento, ma politicamente ebbe posizioni sempre molto discutibili: non
solo perché s'illuse sull'effettiva carica rivoluzionaria del Fascismo, ma
anche perché accettò di convivere pacificamente con il volto reazionario dello
stesso Fascismo.
Sulle cause dell’imperfezione del fascismo come stato totalitari sono state,
come è noto, avanzate varie teorie, ad esempio, Hannah Arendt la riferisce alla
tradizionale bonarietà di fondo, per "struttura mentale" degli
italiani, Steinberg la attribuisce invece all'incapacità del Fascismo di darsi
regole ferree ed esecutori efficienti, altri ancora nella mai completa adesione
al Fascismo da parte degli italiani.
In ogni caso, si tratta di
semplificazioni e per lo più di luoghi comuni, perché se ci si addentra nello
studio dell'apparato fascista si rilevano piuttosto altri motivi della sua
mancata perfezione, a livello strutturale. La diarchia re-duce può essere prova
di imperfezione, certo vi furono segnali palesi del tentativo di accentrare
ulteriormente il potere nelle mani del Partito nazionale fascista e del suo
capo. Incompleta fu l'influenza del Fascismo nell'economia, la cui gestione fu
affidata ad enti parastatali, in cui la presenza dei privati rimase massiccia.
La componente cattolica fu troppo moralmente potente perché il Fascismo potesse
perfezionarsi come totalitarismo.