mercoledì 14 ottobre 2009

Scienze in camicia nera. Il regime e gli scienziati di Valentino Somma

In questo lavoro si cercano di individuare i più celebri protagonisti della matematica e della fisica negli anni del Fascismo e di scoprire se questi erano completamente estranei alle vicende politiche, grigi e fedeli sostenitori dell'establishment o intellettuali impegnati a difendere il valore universalistico della scienza.
Il filo conduttore di questo lavoro è la contestualizzazione del rapporto che, in generale, ebbero tutti gli intellettuali con il Fascismo, dapprima come fenomeno politico incipiente, successivamente nel suo consolidamento come regime, infine nel suo momento declinante, affinché si possa abbracciare, attraverso una campionatura mirata, il rapporto che nei vari campi della cultura gli intellettuali si relazionarono con un potere forte e totalitario.
Dalla pubblicazione della vasta opera di recupero affrontata da Renzo De Felice nella monumentale Mussolini e il Fascismo, preceduta dalla più agile Interpretazioni del Fascismo, sembra che, decantati i furori postresistenziali, si sia verificato un pullulare di studi nei vari settori della cultura, che, in parte, stanno cercando di recuperare aspetti non trascurabili della civiltà italiana negli anni del ventennio, sottraendola alla damnatio memoriae, che di solito segue ogni scontro ideologico in cui la violenza della battaglia, il più delle volte condotta senza esclusione di colpi, porta inevitabilmente il vincitore a scrivere la Storia. Da questo concetto è nata l’esigenza di un’interpretazione revisionistica del Fascismo, un'interpretazione che, pur senza adesione, intende però recuperarlo alla storia e ripensare l'intera vicenda, allontanandosi da quella versione di guerra che lo riduceva a semplice barbarie e pensava di poter chiudere il discorso con la frase dove c'è cultura non c'è fascismo, dove c'è fascismo non c'è cultura.
In tal senso Costanzo Casucci, direttore tra il '50 e il '70 della sezione del Ministero dell'Interno e dell'Archivio Centrale dello Stato in un suo articolo, apparso sul’Mulino’ del 1960 scrive: «In effetti, la storiografia sul fascismo patisce un difetto di fondo: un atteggiamento di invincibile, pregiudiziale opposizione che la porta ad una negazione tanto più assoluta quanto più frettolosa. Quasi una fuga da se stessi, una evasione angosciosa dal proprio vergognoso passato. Ciò impedisce il realizzarsi della condizione prima per fare storia, identificarsi con l'oggetto della propria indagine, riceverne dall'interno l'intero processo di sviluppo; nella fattispecie farsi fascisti con i fascisti. Questo limite inficia ogni opera storica che sia stata fin qui scritta, ogni critica che sia stata fin qui fatta, per cui in realtà si è impoverito il giudizio e spuntata la condanna che giustamente del fascismo si voleva promuovere».
Da quest’articolo che è diventato un manifesto del revisionismo sono iniziati studi approfonditi sul periodo soprattutto nel campo della storia dell’architettura e delle arti figurative parzialmente nella storia della letteratura ed in quella del pensiero filosofico soprattutto con gli studi che si stanno effettuando su Giovanni Gentile, anche se due personaggi di spicco del pensiero filosofico fascista come Ugo Spirito e Julius Evola rimangono ancora in ombra, pur meritando una certa attenzione.
Decisamente in ritardo risultano invece gli studi sulla matematica, sulla fisica e sulla chimica, che furono portati avanti negli anni del regime. Questa è stata l’idea guida di questo lavoro: una ricerca, anche se solo compilativa, degli studi di queste discipline, prendendo spunto del libro Matematica in camicia nera. Il regime e gli scienziati scritto a quattro mani da Angelo Guerreggio e da Pietro Nastasi, edito nel 2005 da Mondadori.
Da una prima indagine apparirebbe che il grado di compromissione degli scienziati italiani con il Fascismo sia stato, anche se per ragioni diverse, senz'altro elevato e che, se gli economisti in modo più eclatante presero molto sul serio il corporativismo e l'’autarchia, un contributo alla preparazione della seconda guerra mondiale giunse anche da chimici e da ingegneri.
In ogni caso anche il rapporto fra scienziati e Fascismo è un aspetto più specifico del rapporto complesso che è esistito fra intellettuali e potere in uno ‘Stato totalitario’.
Il taglio dell’indagine seguente sarà fondamentalmente socioculturale: il fil rouge ha il fine di osservare il rapporto fra regime fascista e scienza e di osservare, attraverso esemplificazioni solo apparentemente casuali, come tutti i settori della cultura scientifica si relazionarono con il Fascismo.
Nonostante i risultati nell'anali­si, nella geometria differenziale, nella probabilità e nel­la biomatematica, la storia della matematica italia­na fra le due guerre è interessante soprat­tutto dal punto di vista sociologico e istituzionale.
Le vicende della matematica nel ventennio fascista si intrecciarono essenzialmente con quelle della cultura e più in generale della società.
In effetti, al di là delle attività di ricerca e di insegnamento comuni a tutti i periodi, le iniziative del regime sia relative alle Università sia a quelle più generalmente rivolte all'intera società italiana, divisero profondamente la comunità scientifica e determinarono forti tensioni interne.
Dal punto di vista istituzionale, il ventennio fu caratterizzato da un'attenzione marcata verso le istituzioni di ricerca, per lo più organismi per la promozione della ricerca scientifica indipendenti dalle Università e non collegati con l'insegnamento.
Per quanto riguarda la matematica, nel giro di venti anni furono creati alcuni istituti nazionali, che da allora hanno esercitato ed esercitano tuttora un ruolo importante nella ricerca matematica avanzata.
Il Centro Nazionale delle Ricerche (Cnr) costituito il 18 novembre del 1923 e trasformato nel 1945 in organo dello Stato ha svolto prevalentemente attività di formazione, di promozione e di coordinamento della ricerca in tutti i settori scientifici e tecnologici.
Subito dopo lo scoppio della prima guerra mondiale in molti paesi europei gli scienziati cercarono di dar vita ad organismi in grado di aggregare tutte le attività relative alle invenzioni e alla ricerca. Nel 1916 fu costituito il Comitato nazionale scientifico tecnico per lo sviluppo e l'incremento dell'industria italiana (CNST) con il compito di «stringere maggiormente i legami fra la Scienza e le sue applicazioni»; mentre nel 1917 fu autorizzata, con decreto del 25 novembre, una spesa straordinaria di 3 milioni di lire per «gli impianti e gli arredamenti degli Istituti Superiori di fisica, chimica e le loro applicazioni tecniche»; sempre nel 1917 fu costituito l'’Ufficio Invenzioni e Ricerche.
Attraverso queste iniziative, cominciava a farsi avanti una maggiore sensibilità verso il tema della scienza, confermata dalla costituzione nel novembre del 1918 di un Consiglio Internazionale delle Ricerche (CIR), al quale l'Italia prese parte con Vito Volterra con rappresentanti di Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Belgio. Ma soprattutto da un decreto presidenziale del 17 febbraio 1919, che istituiva una commissione «con l'incarico di preparare un progetto di costituzione del Consiglio Nazionale delle Ricerche», il quale in un articolo precisava che «il Consiglio Nazionale delle Ricerche deve avere per fine di organizzare e promuovere ricerche a scopo scientifico industriale e per la difesa nazionale». Con questo atto era sancito il punto d'inizio ufficiale del processo di costituzione del CNR, che si sarebbe concluso con l'emanazione del decreto del 18 novembre 1923.
l'Unione matematica italiana (Umi), l'Istituto nazionale di statistica (Istat), l'Istituto per le applicazioni del calcolo (Inac), che ancora oggi rappresentano quanto di più avanzato la ricerca italiana in campo matematico possa produrre.
Salvatore Pincherle (Trieste, 11 febbraio 1853 – Bologna, 19 luglio 1936) è stato il padre, con Vito Volterra, dell'analisi funzionale, una delle più importanti branche della matematica moderna. Tuttavia egli restò troppo ancorato allo schema impostato da Weierstrass e non approfondì quelli che sono ora considerati i più interessanti aspetti del nuovo ramo di analisi, limitandosi a considerarne degli aspetti meno fecondi; fu però tra i primi a studiare in dettaglio la trasformata di Laplace.
Grazie alla sua prolifica attività scientifica e didattica, Pincherle contribuì a portare l'Italia all'avanguardia nel campo delle scienze matematiche. Nonostante non amasse incarichi, che lo avrebbero potuto distogliere dalle sue occupazioni, fondò l'’Unione Matematica Italiana’ nel 1922, della quale fu il primo presidente, e fu socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei.
Pincherle, firmatario del Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile, si adoperò con successo al riavvicinamento fra matematici francesi e tedeschi e alla riammissione di questi ultimi al consesso internazionale della ricerca matematica, dal quale erano stati allontanati dopo la Prima guerra mondiale, quando l'Italia era considerata un paese leader nella ricerca matematica a livello mondiale, specialmente in tre filoni di ricerca che si delineano a fine Ottocento:
la geometria algebrica
la fisica matematica
l'analisi.
I personaggi che, direttamente o tramite i loro allievi, contribuirono all'affermazione italiana in questi tre campi furono:
Corrado Segre e i suoi allievi Federico Enriques, Francesco Severi e Guido Castelnuovo per quanto riguarda la geometria algebrica,
Tullio Levi-Civita e Vito Volterra nel campo della fisica matematica.
Giuseppe Peano, ma anche Volterra per quanto attiene all'analisi.
Molti di costoro furono anche personalità di rilievo in campo politico-istituzionale, ricoprendo ruoli di primo piano anche a livello parlamentare. Con l'avvento del Fascismo, tuttavia, per la matematica italiana niente fu più come prima: pur continuando, infatti, ad essere ai vertici della ricerca scientifica internazionale quanto a pubblicazioni ed a lavori prodotti, con la I guerra mondiale iniziò un lento declino della scienza matematica italiana che raggiunse il culmine con le leggi razziali del 1938.
Per ricostruire i tratti principali dei rapporti fra i chimici ed il regime fascista è opportuno seguire le tracce lasciate da tre capi-scuola dell'epoca ed ancora prima è opportuno osservare i prodromi della situazione dall'inizio del XX secolo fino alla prima guerra mondiale.
Giuseppe Bruni (1873-1946), allievo di Ciamician e cultore di molti temi avanzati di chimica fisica, parlò ad una settimana dalle elezioni vinte da Mussolini (65% dei voti) con la violenza delle camicie nere e dell'apparato dello Stato, già piegato ad esigenze di regime. L'argomento scelto da Bruni fu La chimica nella preparazione e nella difesa nazionale; il discorso inizia con l'affermazione che la guerra si è rivelata inutile per l’inettitudine del liberalismo e passa attraverso un'esaltazione del pensiero incomparabilmente chiaro e profondo del Capo del Governo, e si conclude con una dedica alla difesa della patria delle menti dei chimici, ferme e unite come le verghe del fascio per operare e per servire.
La precoce adesione di Bruni, come quella di altri importanti scienziati e imprenditori italiani, al regime da parte fu presto ricompensata con la concessione di un ruolo diretto negli organismi rappresentativi dello Stato fascista.
Mussolini mantenne la numerazione delle legislature dello Statuto Albertino, ma le elezioni nel 1929 non si svolsero secondo le regole dello Stato liberale: gli elettori furono chiamati ad esprimersi su una lista bloccata di 400 candidati, nominati dal Gran Consiglio del Fascismo (tra i quali lo stesso Bruni).
Nicola Parravano, chimico metallurgico ed allievo prediletto di Paternò, si fece portatore di una decisa concezione della scienza come “forza sociale” e dello “scienziato fascista” come “uomo di cultura, tecnico applicatore ed individuo etico e politico”.
Nel 1938, Parravano, divenuto Presidente dell’Associazione Italiana di Chimica, organizzò a Roma il X Congresso Internazionale di Chimica, che si rivelò un vero trionfo per la comunità scientifica italiana e per il regime che lo aveva finanziato.
Nell’imponente scenario dato dalla nuova sede dell’Università intervennero 2500 scienziati, di cui 1600 stranieri, per affrontare il tema generale: “La chimica al servizio dell’uomo”, articolato in 11 sezioni, che toccavano temi della vita scientifica, produttiva e civile.
Un altro scienziato da prendere in considerazione indubbiamente è Livio Cambi, allievo di Ciamician e di Angeli. Coetaneo di Parravano, Cambi ebbe un ruolo politico di grande rilievo nel 1939, quando fu nominato Rappresentante del Partito Nazionale Fascista nella Corporazione della siderurgia e metallurgia. Cambi sentiva l’“Era nuova” in stretto collegamento con “l’impulso di rinnovamento della borghesia lombarda” (1927). Il suo stile di pensiero è più sobrio di quello di Parravano, ma altrettanto ostile al ‘grigiore del regime liberale’ in cui ‘naufragava ogni iniziativa per il disinteresse, l'assenteismo delle classi dirigenti e dei governi’ (1936). Cambi sentiva l'’Era nuova’ in stretto collegamento con l'impulso di rinnovamento [della] borghesia lombarda (1927), non c'è quindi da stupirsi che la maggiore differenza di accenti e di contenuti rispetto a Parravano si ritrovi nella sua attenzione continua ai rapporti di produzione, dalle condizioni delle classi lavoratrici alla necessità della concentrazione monopolistica per un più avanzato sviluppo tecnologico.
Tra le responsabilità maggiori dei chimici durante il ventennio fascista vi è certo quella di aver alimentato e giustificato la politica autarchica, che sembrava concepita dai sogni più improbabili della grande industria chimica. Certamente i chimici non furono i soli scienziati a corteggiare il regime, né le motivazioni di chi fra loro lo fece furono sempre le stesse.
L'adesione al Fascismo fu sentita spesso come una costrizione e molti mantennero un atteggiamento riservato, ma solo uno fra tutti i chimici accademici ebbe il coraggio di rifiutare il giuramento di fedeltà all'inizio dell'anno accademico 1931-32: Michele Giua (1889-1966), che dovette abbandonare il posto di assistente presso l'Istituto di chimica industriale del Politecnico di Torino, quando gli fu richiesta formalmente l'iscrizione al Partito Nazionale Fascista. Due righe negative, come risposta alla sollecitazione del direttore della Scuola di Ingegneria, fecero sì che Giua fosse privato dagli incarichi di insegnamento, trovando come unico rifugio la libera professione. Ma ormai Giua era impegnato nella lotta antifascista con il gruppo torinese di Giustizia e Libertà, mettendo al servizio del movimento le sue capacità tecniche e politiche. Ma per la delazione di un infiltrato il 15 maggio 1935 l'attività clandestina del nucleo torinese fu stroncata con l'arresto dei suoi principali esponenti, fra cui Giua. Quanto il regime lo riteneva pericoloso è testimoniato in una nota dello Schedario degli affiliati ai partiti sovversivi redatta subito dopo l'arresto; con una certa sopravvalutazione si affermava che: "Nel movimento antifascista di Torino, Giustizia e Libertà, Giua continuava ad essere la mente direttiva". Portato innanzi al Tribunale Speciale con questo profilo politico Giua fu condannato a 15 anni di reclusione ed il suo pellegrinaggio nelle carceri durò fino all'agosto del 1943.
Non ci fu bisogno dell'intervento di nessun oracolo per convincere gli altri storici del carattere opportunistico dell'adesione di massa dei chimici al regime. Da questo generale opportunismo si differenziarono con diversi destini solo figure come Giua e Cambi, e l'attenzione degli storici dovrà rivolgersi in futuro proprio a costruttori come Cambi, per cogliere fino in fondo le contraddizioni fra le aspirazioni di ammodernamento sociale ed economico di una parte degli intellettuali fascisti, che pure qualcosa ottennero, e la realtà complessiva che risultava dalla struttura illiberale dell'Italia di Mussolini.
Dal 5 settembre 1938, preceduto da un Manifesto degli scienziati razzisti, in cui si proclamava l'appartenenza del popolo italiano alla razza ariana e l'estraneità degli ebrei alla comunità nazionale, furono promulgati i Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista, che decretavano l'espulsione di tutti i cittadini ebrei dalle scuole italiane di ogni ordine e grado, sia come insegnanti sia come studenti. Sulla base di questa legge, tutti i matematici di origini ebraiche furono dichiarati decaduti e persero la cattedra.
La comunità scientifica italiana contribuì attivamente alla variante fascista del razzismo. Il decreto del governo, che privava d'un colpo la scienza italiana di alcuni tra i suoi massimi esponenti, non incontrò praticamente opposizione nella comunità matematica, che si mobilitò solo per evitare che le cattedre che si liberavano andassero perdute e le vittime nella matematica annoverarono alcuni dei suoi più prestigiosi esponenti: Volterra, Castelnuovo, Enriques e Levi-Ci­vita.
Un’altra figura importante di questo periodo è Enrico Fermi, che non aveva nessuna particolare propensione per l’ambiente politico: Fermi non fu costretto a partire per l'America, ma fu una sua scelta. Il rettore Pegram della Columbia University, conoscendo la sua fama, gli offrì una posizione stimabile. La scienza americana è quella che è grazie alle dittature che hanno costretto alla fuga verso gli Stati Uniti i migliori scienziati europei: questo esodo massiccio ha fatto grande la fisica e, più in generale, la scienza americana.
Fermi era seriamente preoccupato che i nazisti avessero per primi un ordigno nucleare e dell’uso che se ne poteva fare. Quando gli proposero di continuare l'attività di ricerca nel campo degli ordigni nucleari, realizzando la bomba all'idrogeno, molto più devastante di quella atomica, Fermi si rifiutò perché consapevole dei danni provocati da un tale ordigno. Egli partecipò solo alla parte finale del progetto, ovvero due anni più tardi quando seppe che l’Unione Sovietica ne era in possesso; allora, in nome della teoria chiamata L'equilibrio del terrore, secondo cui se più Paesi hanno una bomba, non si colpiranno mai, Fermi collaborò al programma.
Il nome di Enrico Fermi viene quasi sempre collegato alla bomba atomica, ma ci sono sue ricerche che hanno prodotto vantaggi concreti. La radiomedicina, ad esempio, ottenuta dalla produzione di varianti radioattive di tutti gli atomi conosciuti. Parliamo di studi sul metabolismo, che hanno contribuito alla scoperta di numerose malattie dell’organismo umano. Poi la Pila di Chicago, che era il primo reattore funzionante, in grado di produrre energia nucleare controllata. Senza la Statistica di Fermi, poi, nessuno avrebbe capito come funziona un semiconduttore, anche se lui non ha scoperto proprio il semiconduttore, bensì la teoria interpretativa del comportamento di un semiconduttore.
Un altro scienziato di grande rilievo è il marchese Guglielmo Marconi (Bologna, 25 aprile 1874 – Roma, 20 luglio 1937) conosciuto per aver sviluppato un sistema di telegrafia senza fili via onde radio che ottenne una notevole diffusione: evoluzioni di tale sistema portarono allo sviluppo dei moderni metodi di telecomunicazione come la televisione, la radio, il telefono cellulare, i telecomandi, e in generale tutti i sistemi che utilizzano le comunicazioni senza fili.
Egli effettuò la prima trasmissione senza fili sul mare da Ballycastle (Irlanda del nord) all'isola di Rathlin nel 1898. Stabilì un ponte radio tra la residenza estiva della regina Vittoria e lo yacht reale sul quale c'era il principe di Galles, il futuro Edoardo VII convalescente per una brutta ferita al ginocchio. Nel dicembre dello stesso anno, da un battello attrezzato con radio parte una richiesta di soccorso: è il primo caso di richiesta di salvataggio. Il 29 maggio i segnali attraversano il canale della Manica superando la distanza di 51 chilometri.
Marconi installò un analogo trasmettitore a scintilla nel Centro Radio di Coltano, presso Pisa, nel 1903, che fu utilizzato fino alla seconda guerra mondiale prima per comunicare con le colonie d'Africa, quindi con le navi in navigazione, ed in seguito ampliata e potenziata tanto diventare una delle più potenti stazioni radio d'Europa.
Marconi non ottenne comunicazioni transoceaniche completamente attendibili fino al 1907.
Nel 1909 Guglielmo Marconi condivise con il fisico tedesco Karl Ferdinand Braun il premio Nobel per la fisica.
Nell'autunno 1911 Marconi visitò le colonie italiane in Africa per sperimentare i collegamenti a lunga distanza con la stazione di Coltano; in particolare fu a Tripoli da poco occupata dalle truppe italiane dove effettuò in collaborazione con Luigi Sacco, comandante della locale stazione radio, alcuni esperimenti di collegamento radio con Coltano, che diedero impulso all'allestimento da parte dell'arma del Genio del primo servizio di radiotelegrafia militare su larga scala.
Il 30 dicembre 1914 fu nominato senatore a vita del Regno d'Italia, mentre nel giugno 1915 si arruolò volontario nell'Esercito italiano col grado di tenente di complemento del Genio dirigibilisti, per poi diventare ufficiale di vascello di complemento nel 1916, benché prestasse servizio nell'Istituto Radiotelegrafico della Marina.
Nel 1920 lo stabilimento di Marconi di Chelmsford fu sede della prima trasmissione audio annunciata pubblicamente del Regno Unito; una delle annunciatrici fu Nellie Melba. Nel 1922 il primo servizio regolare di trasmissioni di intrattenimento cominciò dal Marconi Research Centre a Writtle, vicino Chelmsford.
Fu nominato presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche nel 1927 e della Regia Accademia d'Italia (l'attuale Accademia Nazionale dei Lincei) il 19 settembre 1930, diventando automaticamente membro del Gran Consiglio Fascista, pur partecipando ad una sola seduta.
La figura di Marconi fu utilizzata dalla propaganda del regime fascista come esempio di patriottismo e genialità italica. Benito Mussolini, in discorso al Senato del 9 dicembre 1937, affermò: "Nessuna meraviglia che Marconi abbracciasse, sin dalla vigilia, la dottrina delle Camicie Nere, orgogliose di averlo nei loro ranghi". Lo stesso Marconi non nascose le sue simpatie per il regime, affermando: "Rivendico l'onore di essere stato in radiotelegrafia il primo fascista, il primo a riconoscere l'utilità di riunire in fascio i raggi elettrici, come Mussolini ha riconosciuto per primo in campo politico la necessità di riunire in fascio le energie sane del Paese per la maggiore grandezza d'Italia".
Dal 1933 alla morte fu presidente dell'Istituto Treccani. Nel 1934 fu nominato primo presidente del CIRM che era nato su iniziativa sua e del suo medico, il dottor Guido Guida.

Scienze in camicia nera. Il regime e gli scienziati di Valentino Somma Salotto culturale Stabia
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venerdì 2 ottobre 2009

Il profilo socioletterario: dall’Unità d’Italia alla Grande guerra di Massimo Capuozzo

a) Dopo l’unità: dagli eroici furori all’integrazione borghese - Al clima di entusiasmo e di tensione morale degli anni eroici del Risorgimento subentra, dopo l’unità, uno stato d’animo diffuso di incertezza e di delusione. All’integrazione politica della penisola non si è accompagnato il formarsi di quella nazione unita, solidale, armo­niosa che l’ingenuo - o interessato - interclassimo risorgimentale aveva vaticinato. Vengono ben presto alla luce stridenti disugua­glianze e divisioni fra le classi e fra regione e regione - in special modo fra Nord e Sud. Il nuovo Stato anziché sanarle le consolida e le accresce, scaricando sulle classi e le regioni più deboli i costi della sua politica finanziaria di risanamento e di sviluppo e dando al potere una struttura centralizzata e verticista a tutto vantaggio del blocco sociale dominante: si estende a tutto il regno la legge elettorale piemontese, consentendo cosi il diritto di voto a 500 mila elettori su una popola­zione di 20 milioni di abitanti; si scarta la proposta del decentramento regionale a vantaggio di una struttura amministrativa rigidamente unitaria, si avvia il risanamento del debito pubblico con l’esazione di pesantissime tasse indirette che «spreme tutto ciò che può essere spremuto dai ceti popolari», si falcidia con il libero scambio (fino al 1878) la debole industria meridionale. «Lo Stato italiano nasceva così con una forte impronta burocratica e censitaria e alla grande maggioranza dei suoi nuovi cittadini esso appariva impersonato dall’agente delle tasse e nella coscrizione militare obbligatoria. Di qui la sua rapida impopolarità, tanto più acuta quanto più grandi erano le speranze suscitate dal generale rivolgimento politico avvenuto» (G. Procacci).
In questo nuovo quadro la posizione del ceto dei letterati muta sensibilmente. Viene loro a mancare, anzitutto, quella funzione di iniziativa e di guida che essi avevano svolto negli anni del Risorgimento. Ora che non c’è più da incitare la balda gioventù borghese a imprese coraggiose essi perdono molta della loro importanza, rima­nendo esclusi dalla coalizione sociale di potere che le altre «avanguar­die risorgimentali» formano attorno alla dinastia sabauda. La rea­zione dei letterati si muove confusamente in varie direzioni. Si tenta di prolungare il clima battagliero degli anni precedenti sostenendo il garibaldinismo del partito d’azione e agitando la questione delle terre irredente e di Roma capitale; si rimprovera acerbamente alla classe dirigente la sua tendenza al compromesso, alla manovra poli­tica, la sua attenzione quasi esclusiva all’amministrazione; si denuncia con spirito populistico che per le masse popolari l’unificazione poli­tica non ha recato alcun vantaggio. Carducci, nella sua fase repubbli­cana e populista, sfiora accenti addirittura marxiani: «... E pur non fai / tu leggi, o plebe, e, diradato gregge, / patria non hai».
A Milano, poi, con la scapigliatura, emerge un tipo di contesta­zione più inquietante e radicale. Nella «capitale economica» d’Italia, che ha già i tratti di una grande moderna metropoli, dove si fa più spesso un ceto medio urbano e s’avvia una netta polarizzazione fra un’aggressiva borghesia imprenditoriale e un emergente proletariato industriale, un gruppetto di giovani bohémien è il primo ad avvertire che i letterati non solo hanno perso l’iniziativa politica e la leadership ideologica sulla vita nazionale, ma che si sta avviando un divorzio profondo fra società borghese e intellettuali. C’è già l’accenno di una rottura della solidarietà di classe, la coscienza di uno sradicamento sociale. Gli scapigliati, scrive Cletto Arrighi nel 1862, «meritano di essere inclusi in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia sociale». Essi si ispirano a Baudelaire e ai maudit francesi, testimoni smarriti e acuti del nuovo mondo urbano e industrializzato; si sentono idealmente legati con gli altri gruppi affini che si trovano, dice Arrighi, «in tutte le grandi città e ricche del mondo incivilito» e avvertono di essere «più avanti del loro tempo».
In effetti il movimento scapigliato precorre sviluppi sociali non ancora maturati in Italia. Dopo i burrascosi anni sessanta, la contesta­zione intellettuale si smorza alquanto. Anche se non si sente del tutto integrato e organico, il letterato avverte che l’Italietta è pur sempre un’Italia definitivamente dominata dalla classe borghese, quella stessa da cui provengono oramai indistintamente tutti gli ope­ratori di cultura. Borghese è il pubblico che con l’urbanizzazione e lo sviluppo dell’istruzione (dalla legge Casati alla legge Coppino) si accresce sensibilmente. Borghesi sono i committenti, cioè, indiretta­mente, il pubblico stesso e direttamente un’industria editoriale vivace, pronta a trarre profitto dalla crescente domanda di beni culturali. Cresce il numero degli scrittori che riescono a vivere del provento dei loro libri: molti sono quelli che hanno la possibilità di trovar lavoro come insegnanti, giornalisti, collaboratori editoriali. Perciò, sebbene un po’ declassato, il letterato si sente a casa sua nell’Italia nuova, tanto più quando, con l’avvento della sinistra (1876), si allarga l’ambito del blocco sociale dominante fino a includere le fasce di media borghesia a cui il ceto intellettuale è più legato. Naturalmente esistono diffe­renze anche marcate fra quei letterati che ripiegano più decisamente su posizioni di schietto conservatorismo, timorosi delle prime consi­stenti anifestazioni di protesta sociale e coloro che, interpreti della borghesia più radicale e avanzata, insistono nella critica delle ingiusti­zie sociali del sistema. Nessuno tuttavia mette in discussione le basi del sistema stesso, borghese e nazionale, e tutti partecipano con convinzione di un medesimo clima culturale: quello che ha la sua base filosofica nel trionfante scientismo e positivismo europei ed esprime la sicurezza e l’ottimismo di una borghesia convinta che la scienza e la tecnica assicureranno un illimitato progresso economico al mondo e ad essa una inattaccabile supremazia sociale.
Dal punto di vista letterario questa cultura si traduce sia nella «rinascita di quel classicismo illuminista e giacobino che non aveva mai accettato la sconfitta di fronte al romanticismo e al manzonismo» (A. Asor Rosa), patriotticamente geloso della tradizione culturale italiana, che ha la sua roccaforte nell’Emilia e nella sua «fedeltà gelosa alla tradizione formale, che è tipica della civiltà letteraria della re­gione» (Sapegno) ed in Carducci il suo più autorevole esponente; sia in quella tendenza al naturalismo, che raccoglie l’esortazione di De Sanctis a volgersi al reale e non ha esitazioni ad accettare una poetica straniera e a proseguire l’operazione di superamento della tradizione classicistica operata dall’illuminismo e dal romanticismo. Da questa seconda tendenza emergeranno gli spunti più critici sulla società borghese, in nome di un populismo piuttosto paternalistico ma sincero. Con il realismo generico e con il verismo la letteratura riscopre il carattere policentrico regionale della società italiana. Natu­ralmente il potere politico unitario spinge decisamente verso l’inte­grazione culturale e linguistica: scuola, servizio militare, amministra­zione pubblica centralizzata stimolano la lenta diffusione di una lingua comune parlata (l’obiettivo fallito della «strategia culturale» di Manzoni che con i Promessi sposi contava di insegnare a parlare italiano a tutti gli italiani). Ma è un processo lento. Frattanto i veristi, nell’atto di ricostruire scrupolosamente il milieu secondo i precetti della poetica naturalista, scoprono che l’uso di una lingua nazionale - manzoniana o purista - suona irrimediabilmente falso. Da ciò una reviviscenza della letteratura dialettale oppure, come per Verga, l’af­fermarsi di una «lingua... tramata di espressioni, vocaboli, costrutti, propri del dialetto» (G. Petronio). Giova qui sottolineare il fatto un po’ paradossale che la letteratura italiana non è mai forse stata tanto regionalista come dopo il compimento dell’unità politica. Ciò si spiega non soltanto con la voga del verismo, ma anche e soprattutto con il fatto che per la prima volta nella storia della penisola i letterati italiani si sentono sollevati dal compito di dover rappresentare la coscienza unitaria della patria italiana. L’unità c’è già, è nelle cose: è l’amministrazione regia e l’esercito, il disavanzo pubblico e l’impo­sta sul macinato, le ferrovie e la Triplice. I letterati possono smettere di rappresentare una patria fantomatica, parlando a suo nome in una lingua morta e possono invece abbandonarsi, dopo secoli, al gusto di rappresentare la realtà ossia, nella fattispecie, il mondo sociale circostante. Nella maggior parte della letteratura realista e verista, di tale mondo sono rappresentati gli strati piccolo-borghesi e quelli popolari della provincia italiana. Mentre i primi sono descritti molto impietosamente verso i secondi si dispiega una vena populista mirante a idealizzare il popolo come depositario di sani sentimenti ed istinti. In suo nome la critica alla società borghese si fa, spesso, dura, acerba, appassionata. Ma non si rinuncia a vedere il riscatto delle classi subalterne in funzione dell’ideale patriottico, come mezzo cioè di una vera unità nazionale, col risultato di rendere inevitabile che «la visione di concordia nazionale offerta ai ceti subalterni come meta del loro riscatto si risolvesse in puro strumentalismo da parte borghese. Da questo miscuglio di contestazione e di compromesso, di denuncia e di mistificazione escono risultati letterari mediocri. Fa eccezione la grande arte di Verga che si accosta al popolo non in modo ambiguo e ideologico, per consolare e promettere, ma con fermo pessimismo, per capire e conoscere: «proprio il rifiuto della speranza populista e delle suggestioni socialiste porta lo scrittore siciliano alla rappresentazione più convincente che del mondo popolare sia stata data in Italia durante l’Ottocento» (A. Asor Rosa).
b) L’ora delle scelte - Nel venticinquennio a cavallo del ‘900 (1890-1915) fra gli intel­lettuali si diffonde un atteggiamento di ostilità verso la società di massa che si sta formando in Occidente e nella quale si va creando una polarizzazione netta fra grande borghesia ed élite politica, da un lato, e masse proletarie in aumento e in ascesa dall’altro, mentre, intanto, i ceti medi (piccola borghesia imprenditoriale ed agraria, commer­cianti, artigiani, impiegati pubblici e privati) - dai quali per lo più gli intellettuali provengono e nei quali per la loro professione si collocano - rischiano una progressiva proletarizzazione.
La prospettiva di tale declassamento spazza via gli atteggiamenti moderatamente progressisti dei decenni precedenti, e impone una scelta più netta: o diventare progressisti in modo radicale e abbrac­ciare il socialismo in una delle forme in cui esso si presenta o, rifiutando questa scelta di campo:
a) passare dalla parte dei gruppi dominanti in primo luogo da loro stessi;
b) rifiutare ogni impegno politico-sociale rifugiandosi nell’arte e nella cultura fine a se stesse;
c) proporsi come leader di movimenti piccolo-borghesi miranti a una società di tipo diverso, antisocialista e anticapitalista, dominata da aristocrazie spirituali e intellettuali.
Solo una piccola parte sceglie la prima soluzione. E si tratta per lo più di adesioni tiepide e passeggere. Si pensi a Pascoli a cui un po’ di prigione fa cambiare subito parere e a De Amicis e al suo socialismo edulcorato e «deamicisiano».
Dalla parte del potere economico e politico si schierano soprattutto gli scienziati e i tecnologi, produttori di quel tipo di cultura che più interessa al modo di produzione capitalista (spesso convinti di svol­gere solo un’attività neutrale al di sopra delle parti), alcuni grandi intellettuali, come Benedetto Croce, filosofo idealista, storico e cri­tico, dittatore per decenni della cultura italiana («un feudatario d’i­dee», lo chiamerà Corrado Alvaro), e molti letterati di mezza tacca, produttori di cultura volgare, «di massa», utili come persuasori di obbedienza.
Nel filone dei disimpegnati, di coloro che si rifugiano nell’autoa­nalisi e nella commiserazione di sé e del mondo, i letterati formano una schiera nutrita: dai crepuscolari che, a partire da Marino Moretti, si chiedono «Chinar la testa che vale? Che vai nuova fermezza?», da Svevo e Tozzi coi loro personaggi abulici e infelici, a Pirandello che disegna e anticipa ora, nella sua opera narrativa, il protagonista del suo teatro futuro: l’uomo senza identità, «risultato della scomposi­zione della persona romantica e borghese, del frantumarsi di quella unità psicologica e morale in un mosaico di apparenze ingannevoli» (A. Leone De Castris); a Pascoli che cerca rifugio nell’intimità dome­stica «come nido, caldo, chiuso, segreto, raccolto in una sua esistenza senza rapporti con l’esterno», ambito primordiale e istintivo dei rapporti di sangue, ai quali è affidato ogni legame, con la negazione di tutti i modi di contatto e di rapporto collegati con una più alta organizzazione della ragione» (G. Bàrberi Squarotti).
Ma vasta e variopinta è anche la schiera dei letterati che nutrono velleità di primato sociale. Momento di coagulo sono per essi le cosiddette riviste fiorentine, da Marzocco a Leonardo, da Il Regno a Hermes a La Voce a Lacerba.
Specialmente interessante fu il tentativo della Voce di Prezzolini di organizzare «un gruppo di pressione per tutto il ceto bor­ghese», anzi un «partito intellettuale» che però «se promuove la consapevolezza della propria autonomia di fronte alla classe domi­nante... dall’altra parte tuttavia si prepara ad assolvere il nuovo ruolo di persuasore intellettuale, di tecnico dell’opinione, di organizzatore del consenso ideologico e culturale al sistema» (G. Sca­lia). Più francamente e focosamente contro il sistema fu il movimento futurista con la sua titanica e abbastanza istrionica pretesa di rico­struire da cima a fondo l’universo: «I futuristi, come più tardi i surrealisti, volevano di fatto... cambiare la vita: il furore tecnolo­gico, non era fine a se stesso ma si accompagnava all’empito prome­teico, all’ansia di un rinnovamento totale che doveva esplicarsi anche nell’ambito sociale e politico» (L. De Maria). Naturalmente il com­pito di «rifare la vita» doveva toccare agli esseri superiori, ai superuomini, i soli degni di vivere nell’universo ricostruito, perciò se Prezzolini aveva scritto che la guerra era un esame in cui «tutto ciò che è sano e nascosto si rivela», Marinetti affermerà perentoriamente che essa è «la sola igiene del mondo».
Il tema del superuomo evoca subito il ricordo di D’Annunzio, ossia del più vistoso esempio di letterato, che abbia cercato in questo e, forse, in ogni altro periodo, con l’arte e con l’azione, di proporsi a guida carismatica di un popolo e di una generazione. È difficile sottovalutare l’influenza che D’Annunzio ebbe nell’introdurre in Italia un clima e una mentalità fascisti. Anche se si può dire che tutta l’intellettualità italiana, che cercò di rilanciare nel primo Novecento il primato politico del dotto esprimendo essen­zialmente i sentimenti di frustrazione e di rivincita dei ceti medi a cui apparteneva e solleticando nella pletora dei laureati e dei diplomati l’orgoglio della loro mezza cultura, contribuì a questo risultato. Ma D’Annunzio fu più di ogni altro «l’uomo e il poeta della classe media italiana che vedeva realizzati in lui tutti i suoi sogni proibiti: la forza fisica e le straordinarie capacità erotiche, il coraggio indomito e l’eleganza raffinata, l’eloquenza sonora e l’avventura impossibile, il vivere pericolosamente e il lusso sfarzoso, l’esaltazione della patria e la difesa dell’ordine costituito, l’aspirazione alla potenza e alla gloria e il disprezzo per la plebe» (C. Salinari).

La Scapigliatura – La Scapigliatura per l’Italia rappresenta l’antesignana delle cosiddette avanguardie storiche, sorta dal calo di tensione etica postrisorgimentale e, come in altri Paesi europei, dalla dissoluzione critica del Romanticismo.
a) Il nome e la collocazione topografico-cronologica - La Scapigliatura, movimento il cui nome traduce il senso del termine francese bohème, è un movimento che si sviluppò a Milano, fra il 1860 e il 1890, cioè durante i primi trent’anni dell’Italia unita.
b) La Scapigliatura come reazione antiborghese - Gli Scapigliati, che pur appartengono per nascita all’ambiente borghese, si sentono e si dichiarano al di fuori della società borghese quale si è andata consolidando dopo il ‘60, con la raggiunta unità d’Italia. La borghesia infatti, messi ormai da parte gli ideali e le passioni risorgimentali che pu­re l’avevano animata negli anni del riscatto, mirava ora - e particolarmente a Milano, dove si stava diffondendosi l’industrializzazione - all’espansione economica, e face­va del successo economico il suo metro di valutazione e di giudizio. La sicurezza nella bontà dei propri principi, che è tipica di ogni classe che detenga il potere in modo indi­scusso, la rendeva inoltre avversa a tutto ciò che, rappresentando una trasformazione, minacciava la sua sicurezza.
In questo clima si inserisce la rivolta degli Scapigliati, che diventano gli accusatori di una società dedita al «dio metallo», cioè all’avida conquista del denaro, insensibile ai valori dell’arte, ipocritamente decisa a ignorare gli aspetti turpi e squallidi che pure nel­la realtà esistono. Parallelamente, essi rifiutano, nella vita concreta, l’ordine e gli agi di quella classe borghese cui appartengono per nascita e vivono polemicamente in modo disordinato e anomalo, dediti come sono, spesso, all’alcool e alla droga.
c) Il «realismo» degli Scapigliati - In letteratura, gli Scapigliati si autodefiniscono dei realisti. Ma il loro realismo ha un carattere del tutto particolare, protestatario ed ever­sivo. Non si propongono, cioè, una interpretazione ed una rappresentazione della realtà in tutti i suoi aspetti, ma vogliono soltanto denunciarne i risvolti turpi, abnormi, quei ri­svolti che la società dei benpensanti cancellava dalla propria attenzione. Sono quindi i cantori, fondamentalmente anarchici, dell’orrendo, del macabro, delle contraddizio­ni irrisolte, delle verità squallide che stanno al di sotto delle confortevoli apparenze.
Al Romanticismo, il grande movimento letterario che lì aveva preceduti, e allo stesso Manzoni gli Scapigliati furono avversi, anche se sentirono l’influsso di alcuni scrittori romantici stranieri.
d) L’influenza di Baudelaire - Recepirono invece, almeno embrionalmente, la lezione del decadentismo, il movimento che andava affermandosi in Francia, e soprattutto la lezio­ne di Baudelaire dal quale derivarono temi e tecniche innovatrici. L’opera maggiore di Baudelaire, I fiori del male, uscita nel 1857, diventò il loro breviario poetico. Fra gli scrittori scapigliati ricordiamo Emilio Praga, Arrigo Boito, Iginio Ugo Tarchetti, Giovanni Camerana, milanese dì nascita il primo, gravitanti tutti sull’area mila­nese gli altri o perché avevano fatto di Milano la loro città di adozione, o perché met­tevano capo culturalmente all’ambiente milanese.

L’estetica naturalista - Il grande prestigio che il pensiero scientifico acquistò nel corso del secondo Ottocento si fece sentire anche nel cam­po letterario. In particolare i narratori avvertirono l’impor­tanza di accordare il processo creativo sul modello del metodo della ricerca scientifica, giungendo alla formulazione di alcuni criteri generali:
· il narratore non deve inventare una storia più o meno interes­sante, ma rappresentare la vera vita dell’individuo e della società;
· la narrazione si qualifica come studio di un fenomeno di cui si in­dicano le cause, così che l’arte si risolve, in ultima analisi, in un processo di conoscenza;
· muta il rapporto tra narratore e opera, nel senso che l’autore è necessariamente portato a far parlare i fatti più che a darne una spiegazione attraverso interventi diretti nella narrazione;
· l’espressione dei sentimenti si trasforma in spiegazione dei sen­timenti, sfruttando a tal fine ciò che in quel periodo veniva sco­perto nell’ambito della fisiologia.
Tutte queste istanze, presenti nella narrativa francese che si disse naturalista, vennero ordinate in una teoria del ro­manzo da Emile Zola, il quale tra il 1868 e il 1893 si impegnò nella scrittura di una ventina di romanzi del ciclo dei Rougon-Macquart che, secondo l’indicazione dello stesso autore, è fa «sto­ria naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero».
Zola espresse le sue idee sul romanzo in uno scritto teorico che eb­be grande rilievo e che fu anche in Italia al centro dell’attenzione. Il titolo dell’opera, Il romanzo sperimentale, annuncia già la tesi di fondo: il romanziere è come lo sperimentatore scientifico, non si limita ad osservare, ma deve scegliere l’argomento, collocare i personaggi in situazioni determinate, studiarne, secondo l’espe­rienza, le reazioni, farli agire secondo la loro indole. In questo mo­do egli può rendere chiari i meccanismi dei comportamenti uma­ni e creare in laboratorio una scienza umana che sia in grado di guarire la società dai suoi mali. Egli indica pertanto nel Naturali­smo un metodo e non una scuola, e quindi non rivolge la sua at­tenzione ai problemi di stile; si limita a dire che la lingua deve es­sere omogenea all’ambiente rappresentato e che il romanziere-sperimentatore non deve in alcun caso comparire all’interno dell’opera.

L’Italia dei veristi e il regionalismo - Il Verismo nasce in Italia intorno al 1870, sulla scia di certa narrativa inglese e russa e soprattutto del naturalismo francese. Fu Luigi Capuana lo scrittore e critico che diffuse in Italia i princìpi del naturalismo francese e pose i presupposti teo­rici e pratici del verismo. Capuana attenua alcuni aspetti delle tesi di Zola, in particolare l’identificazione tra scrittore e speri­mentatore scientifico e imita il carattere di denuncia del roman­zo.
Contemporaneamente rivolge un’attenzione particolare ai problemi della forma, che ritiene centrali, e individua il caratte­re precipuo del romanzo naturalista proprio in un aspetto costitutivo della forma del romanzo, vale a dire nel concetto di imper­sonalità e di scomparsa dell’autore. Secondo la sua teorizzazione, il romanzo verista dovrebbe essere in grado di ritrarre ogni realtà sociale, non solo la vita semplice e schematizzabile delle classi in­feriori, ma anche la vita complessa, soprattutto a livello psicolo­gico, della borghesia, adeguando ogni volta lo stile e il linguag­gio al contenuto.
La realtà del proprio tempo, che essi vogliono ritrarre in presa diretta, costituisce abitualmente e programmaticamente la materia dei veristi. Ma in essa il loro interesse si rivolge non già alle classi egemoni, ma ai ceti poveri e frustrati, soprattutto a quel quarto stato che era rimasto ai margini del moto risorgimentale, non educato a parteci­parvi, e a cui l’unità d’Italia aveva recato più disagi che vantaggi, aggiungendo nuove imposizioni (tasse, leva militare obbligatoria) alle vessazioni antiche.
Poiché mancava all’Italia, dove l’industrializzazione era ancora agli inizi, quel prole­tariato operaio delle grandi città che in Francia offre materia ai romanzi di Zola, il mondo che essi ritraggono è quello dei ceti subalterni delle varie regioni italiane, che sono poi le loro regioni d’origine e che essi più profondamente conoscono: i vaccari e i mandriani della Toscana in Fucini, i pescatori, i pastori, i contadini siciliani in Verga e in Capuana.
Di qui il carattere regionalistico che connota il verismo, e che corrisponde alla reale fisionomia del nostro Paese, dove nonostante la raggiunta unità ogni regione ave­va continuato a mantenere le sue caratteristiche specifiche e diversificanti.

Le tecniche narrative del verismo - Come i naturalisti francesi, anche i veristi italiani sostengono il principio che lo scrittore deve essere distaccato e obiettivo nei confronti della materia che rappresenta e non deve interferire in essa né col suo giudizio né con la sua sensibilità. «La mano dell’artista» - scrive Verga nella prefazione a una sua novella, L’amante di Gramigna - deve rimanere «assolutamente invisibile», così che l’opera d’arte sembri «essersi fatta da sé, esser sorta ed esser maturata spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore».
Per aderire al reale e per adeguarsi alla «verità» della materia rappresentata, anche la lingua che i personaggi parlano dovrà mantenere caratteri regionali.

Giovanni Verga vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, è il massimo esponente del Verismo italiano.

La vita - Nato nel 1840 a Catania da una famiglia di proprietari terrieri di spiriti liberali, compì in questa città gli studi medi.
Negli anni della giovinezza si entusiasmò per gli ideali risorgimentali e si appassionò alla letteratura e si iscrisse alla facoltà di giuri­sprudenza catanese ai quali era stato avviato dal padre senza peraltro pervenire alla laurea.
Lasciati gli studi giuridici, iniziò la sua attività di narratore componendo ro­manzi storici e patriottici e si impegnò nel giornalismo politico.
Dal 1865 al 1871 soggiornò a Firenze, dove venne a contatto con un ambiente letterario più aperto di quello siciliano. Ivi co­nobbe il conterraneo Capuana che, ammiratore dei naturalisti francesi, ne fece cono­scere in Italia l’insegnamento, elaborando la poetica del verismo, cui più tardi Verga doveva aderire.
Dal 1872 al 1893 visse a Milano, dove frequentò l’ambiente degli Sca­pigliati, dove compose, dopo una vasta e mediocre produzione tardo-romantica (ro­manzi e novelle), e dove cominciò a respirare l’aria della cultura europea e accolse gradatamente i principi del Naturalismo. A questa realtà Verga rivolse la sua attenzione dal 1874 con il bozzetto Nedda, che segnò la cosiddetta «svolta al Verismo». Da quel momento compose prevalentemente novelle e romanzi am­bientati in Sicilia, fra cui i romanzi I Malavoglia e Mastro don Gesualdo.
Deluso dallo scarso successo dei suoi romanzi e dalla sempre maggiore diffusione, all’interno della società, della logica dell’utile e dell’egoismo, Verga tornò a Catania cessò quasi del tutto l’attività letteraria dedicandosi negli ultimi venti anni della sua vita alla fotografia e abbandonando la letteratura.
Mori a Catania nel 1922.

L’opera - La produzione letteraria di Verga è molto ricca e varia: spazia dal romanzo storico-patriottico alla nar­rativa verista.

a) I tre momenti della narrativa verghiana - Nella produzione narrativa di Verga sono distinguibili tre momenti:
· in un primo tempo, mediocri romanzi storici.
· Successivamente romanzi che rappresentano situazioni languide e lacrimo­se, come la vicenda di una giovinetta che diventa monaca a forza e che si conclude con la pazzia e la morte della protagonista (Storia di una capinera), oppure presentano personaggi d’eccezione, come artisti, donne bellissime e fatali, a volte non prive dell’alone fascinoso dell’esotismo (Una peccatrice, Eva, Eros, Tigre reale).
· Il terzo tempo, quello verista, nasce da una decisa svolta sia morale sia artistica dello scrittore. Stanco ormai del mondo egocentrico e superficiale rappresenta­to nei romanzi del secondo periodo, Verga torna col pensiero all’umile gente della sua Sicilia: pescatori, contadini, pastori, piccola borghesia di provincia, e alla loro vita dura e stentata, segnata da fatiche e dolori. Le opere più significative sono le raccolte di novelle, Vita dei campi (1880) che precede il romanzo I Malavoglia (1881) e le Novelle rusticane (1883), che precede Mastro-don Gesualdo (1889).
b) La grande stagione verista - La tecnica del verismo, col principio dell’adesione al rea­le e col rifiuto della interferenza e degli abbandoni emotivi dello scrittore, appare al Verga la migliore per rappresentare l’amara esistenza degli umili della sua terra.
Il momento verista di Verga è preannunciato da una novella, Nedda, composta nel 1874. Nedda è la storia di una povera ragazza siciliana, raccoglitrice di olive, oppressa dalla miseria anche nei suoi affetti, e la sua vita è narrata secondo la tecnica veristica di lasciare che le cose parlino da sé.
Su questa direttiva lo scrittore compone successivamente le sue opere maggiori: le novelle delle raccolte Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883) in cui sono rappresentati situazioni e ambienti siciliani, sentimenti e passioni elementari vissute spesso con drammatica violenza e i due romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1888).
Di questi, il primo narra le vicissitudini di una famiglia, i Malavoglia, che abitano ad Aci Trezza, un paesino vicino a Catania. Una tempesta ha distrutto la barca che era il loro mezzo di sostentamento, ed essi sono costretti, per pagare i debiti contratti, a vendere la casa, la «casa del nespolo», che è il simbolo della loro unione familiare.
Segue la storia delle loro fatiche per resistere al bisogno; il cedimento di alcuni di lo­ro, che abbandonano la famiglia e il paese per cercare altrove fortuna; le rinunce di tutti quelli che restano, che non saranno a sufficienza compensate dalla casa finalmente riacquistata, perché la famiglia non è ormai più quella di un tempo a causa di chi se ne è andato e di chi è morto.
Intorno ai Malavoglia si muovono, sfondo e coro a un tempo, gli abitanti di Aci Trezza, con le loro beghe, i loro sentimenti, le sofferenze, le chiacchiere, i pettegolezzi.
Il protagonista del secondo romanzo è Mastro don Gesualdo, un muratore di Vizzini, paese alle falde dell’Etna, dove il Verga aveva lungamente soggiornato da ragazzo. Mastro don Gesualdo, lavorando fino a stremarsi, è uscito dalla miseria ed è diventato un ricco imprenditore; vuole perciò elevarsi socialmente col matrimonio e il suo denaro gli permette di sposare l’ultima discendente di una famiglia nobile ormai decaduta, i Trao. Ma la donna, che lo ha accettato per necessità, non lo ama; la figlia, che egli fa educare nei collegi più esclusivi di Palermo, si vergogna dell’umile origine paterna.
Gesualdo morirà solo, in una fredda mattina, trascurato da tutti, nel palazzo paler­mitano del genero, dove ha assistito allo sperpero di quella ricchezza, della roba, per cui si è logorato la vita.
Tanto i Malavoglia quanto Mastro don Gesualdo sono, in modo diverso, dei vinti, ed il Ciclo dei vinti è stata chiamata da Verga la serie che essi aprono (gli altri tre romanzi, che dovevano completarlo, non furono mai scritti).
Con questa opera Verga si proponeva di rappresentare le manifestazioni, diverse a seconda dei gradini del­la scala sociale, di quelle irrequietudini per il benessere che spingono gli uomini a mutare stato, a usci­re dall’ambiente in cui sono nati per migliorare le proprie condizioni economiche e sociali. In qua­lunque modo si manifestino, queste aspirazioni sono destinate al fallimento, i più deboli, incapaci di adeguarsi alle ferree leggi dell’utile e dell’interesse, sono travolti, vinti dalla fiumana incessante del progresso; d’altra parte i vincitori di oggi saranno vinti domani e pagheranno il benessere mate­riale con la perdita della propria dimensione umana.
Nel suo radicale pessimismo, Verga considera queste sconfitte come fatalmente le­gate al destino degli uomini.
Nonostante l’impegno veristico di obiettività e di distacco, la pietas dello scrittore, di fronte a questa condizione umana, traspare, in modo implicito, nei gesti, negli atteggiamenti, nei pensieri dei personaggi e nel ritmo stesso del dialogo e del racconto. L’al­ta poesia di queste due opere nasce proprio dalla controllata emozione tradotta in «co­se».
c) Il linguaggio verghiano - Per aderire alla realtà rappresentata, Verga dà alla sua lin­gua una coloritura regionale, ottenuta qualche volta introducendo vocaboli dialettali si­ciliani, ma più spesso costruendo il periodo sulle strutture e sul ritmo del periodo dia­lettale. Inoltre, lo scrittore si sforza di trasferire nel linguaggio la «forma mentale» dei suoi personaggi, sia che essi parlino in discorso diretto, sia che i loro pensieri e le loro paro­le vengano riferiti nel discorso indiretto.
In questa direzione è significativo l’uso frequente dei proverbi, attraverso i quali essi esprimono la loro atavica tradizione sapienziale, la loro «cultura».
Allo stesso modo, per filtrare i concetti attraverso la levatura mentale, le abitudini dei suoi personaggi, lo scrittore ricorre alle similitudini tratte dall’umile esperienza quo­tidiana che essi vivono. Per esempio, il vecchio padron ‘Ntoni, parlando del giovane nipote che è andato a fare il soldato e che si lascia ingenuamente affascinare dalle meraviglie della città, dice che «è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero a un chiodo arrugginito». E sono esempi che possono abbondantemente moltiplicarsi.

Il romanzo del secondo Ottocento – La seconda metà dell’Ottocento, in Italia, come nel resto dell’occidente, è il mo­mento del trionfo della narrativa. Il pubblico della letteratura è in maggio­ranza composto da lettori di opere narrative come novelle e romanzi e, con la diminuzione dell’analfabetismo, buona parte delle masse capaci di leggere entra in contatto con le idee e i problemi del momento attraverso le pagine dei narratori.
Ciò che più colpisce della produzione narrativa di questo periodo è la varietà, difficilmente ricondurre a filoni o categorie, anche perché accanto al­le tendenze e alle scuole che si sviluppano in questo periodo, bisogna tener conto del distribuirsi del­la produzione su diversi livelli verticali.
Un fenomeno di carattere generale è il convergere dell’attenzione sulle tema­tiche sociali, la scelta di raccontare il presente, di rappresen­tare un ambiente, secondo un atteggiamento nuovo che potremmo chiamare realismo descrittivo.
Con la diffusione del realismo, le novelle naturaliste e veriste, la narrazio­ne diventa specchio ed interpretazione della realtà, con l’esplicito intento di riprodurre tranches de vie (scorci di vita) borghesi, popolari e contadini. L’intento dell’autore è quello di rispecchiare la realtà per rendere palesi le ingiustizie sociali, mettere in discussione i luoghi comuni, svelare le incongruenze del reale e le contraddizioni dell’individuo. Tali testi rappresentano, dunque, un impietoso spaccato di vita sociale da ritrarre in modo oggettivo ed impassibile: di qui il principio di impersonalità dello scrittore e dell’ope­ra, anche se non mancano spunti di analisi psicologica. In altri testi la narrazione è più attenta a cogliere le minime sfu­mature dell’animo, privilegiando moduli di analisi psicologica e ponendo in secondo piano l’intreccio e l’azione.
Il secondo Ottocento vi­de anche una ricchissima produzione di novelle: non esiste romanziere che non si sia cimentato anche nel genere narrativo di minore dimensione, spesso utilizzandolo come «labo­ratorio sperimentale» per trovare nuovi linguaggi e nuove soluzioni narrative.
Nell’ultimo decennio del secolo cominciò la crisi del verismo, la letteratura italiana visse un’epoca di profonda crisi della narrativa, la cui tradizione, già debole per motivi storici, venne ulteriormente compromessa dalle scelte antinarrative della letteratura decadente.
Ciò nonostante, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, sempre maggiori furono le influenze delle grandi letterature europee e dei grandi autori d’avanguardia.
Per orientarsi in un quadro caratterizza­to dalla pluralità e dalla varietà, si prova a schematizzare la produzione narrativa:
· narrativa scapigliata fu un’esperienza sviluppatasi soprattutto a Milano a partire dagli anni Sessanta a opera di un gruppo di intellettuali (i fratelli Camillo e Arrigo Boito, Ugo Tarchetti, Emilio Praga) in polemica con l’attardata cultura romantica e con il modello del romanzo manzoniano; ad essa si affianca la scapigliatura piemontese (Giovanni Faldella, Giovanni Camerana). Questi autori, accomunati dalla ricerca della novità sia tematica che formale, sperimentarono strade fra loro diverse. Introdussero il fantastico, l’onirico, la satira d’ambiente, il divertimento ironico, prediligendo forme narrative inusitate come il romanzo breve e la novella lunga.
· narrativa verista è il filone più importante della seconda metà del secolo. Al modello del naturalismo di Zola si rifece il verismo italiano, teorizzato da Luigi Capuana, che ebbe nei romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1889) e nelle novelle Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883) di Giovanni Verga le sue opere maggiori distin­te da tutte le altre per la qualità artistica e per la coerenza delle scelte; vanno comunque segnalati anche i nomi di Lui­gi Capuana, Federico De Roberto.
· narrativa d’ispirazione genericamente realista fu legata a molti autori di fine Ottocento che, pur non seguendo un metodo rigoroso come quello dei veristi, si richiamarono ad una solida tendenza realistica ritraendo nei loro romanzi e nelle loro novelle le realtà socio-culturali della regione cui appartengono. Ad esempio gli aspetti sociali del capitalismo nascente si riflettono negli scrittori d’area piemontese Gerolamo Rovetta ed Emilio De Marchi, mentre i romanzieri toscani come Rena­to Fucini e Mario Pratesi sono soprattutto attenti al mondo contadino e ai problemi della mezzadria colti in una fase di trasformazione sociale ed economica. Diversa ancora la narrativa degli scrittori dell’area napoletana (Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio) per i quali lo scenario naturale è Napoli, la grande metropoli meridionale, caratterizzata da una si­tuazione particolare per la presenza di una cultura popolare di grandi tradizioni. È una realtà di miseria e di degrado.
· romanzo d’appendice è propriamente quel romanzo che, a cavallo fra Otto e Novecento, veniva pubblicato a puntate sui giornali, solitamente nella parte inferiore della pagina dove occupava lo spazio rimasto libero dopo l’impaginazione de­gli articoli. L’espressione che nacque per indicare un dato oggettivo più tardi venne a coincidere con una defini­zione di valori e di qualità per distinguere una forma narra­tiva con una distinta fisionomia e una qualità minore. Il ro­manzo d’appendice che si rivolge a un pubblico popolare, non proponeva nuove invenzioni narrative ma temi, perso­naggi, schemi già collaudati. Tra gli autori di maggior suc­cesso Carolina Invernizio, Neera, Francesco Mastriani.
· bisogna, infine, ricordare alcuni scrittori che non rientrano nelle tendenze elencate:
Le voci di un’Italia bambina: Cuore e Pinocchio. Due romanzi che raggiunsero il maggior successo di pubblico furono due libri per l’infanzia: Cuore di De Amìcis che raggiunse un vastissimo pubblico e Pinocchio di Carlo Collodi, il libro più letto di tutto il secondo Ottocento. Cuore di Edmondo De Amìcis si colloca in un momento cruciale della storia italiana, quando la nazione appena nata stava ancora cercando principi comuni in cui identificarsi. Gli alunni del maestro Perboni rappresentano un inventario di modelli ideali del futuro cittadino perfetto, ad uso e consumo dei piccoli italiani: nella prospettiva risorgimentale di De Amicis, il bambino è visto come adulto in miniatura, già impegnato con i propri minuscoli mezzi nell’eterna lotta tra il bene e il male. Nulla è lasciato alla fantasia, all’illogicità magica e ammaliante propria della visione infantile. Anche Le avventure di Pinocchio di Collodi sembra sostenersi su un progetto di tipo pedagogico. La celebre favola mette in scena la trasformazione di un burattino in bambino vero, metafora del passaggio dall’età informe e irrazionale dell’infanzia al tempo regolato e maturo dell’età adulta. Eppure, se il capolavoro di Collodi è ancora attuale, è perché Pinocchio, con la sua credulità, la furbizia disinteressata, la pigrizia e gli slanci di affetto, rappresenta in modo geniale il mondo di ogni bambino. Così come tutti i personaggi che accompagnano il burattino nelle sue avventure, dalla Fata Turchina a Mangiafuoco, dal Grillo Parlante al Gatto e la Volpe, sono un riflesso della sua paura, dei sogni e dei più folli e irrealizzabili desideri. Il libro Cuore di De Amicis è, realista e urbano, quanto Pinocchio è fiabesco e contadino. Pinocchio è una favola rispetto al libro Cuore, perché vi troviamo elementi fantastici che nell’altro non vi sono. Il libro Cuore parla di ragazzi e non di burattini. Quello di De Amicis è un libro dove si parla di fatti concreti, reali, di giovani di scuola, di rapporti fra ragazzi e di sentimenti mentre in Pinocchio vengono raccontati fatti che sono frutto di una fantasia, talvolta sfrenata e spesso surreale.
Paolo Valera, l’unico scrittore militante sociali­sta che fece della sua narrativa uno strumento di propagan­da, fu autore de La folla. Protagonista di questo studio, allo stesso tempo psicologico e sociale, è la galleria dolente e multiforme di oppressi che popolavano il Casone del Terraggio di Porta Magenta. A questa folla ai margini appartiene Annunciata, esuberante popolana che per anni ha ovviato con disinvoltura a gravidanze indesiderate e che poi non ha pace al ricordo dei suoi delitti materni; Agata Maddaloni, madre di undici figli affamati che, nei momenti lugubri, è assalita dal pensiero spaventoso di gettarne uno dalla ringhiera “per far sapere con una tragedia che i suoi figli muoiono di fame”; indimenticabile anche la famiglia Cristaboni, che riassumeva tutto ciò che vi era di tragico e deforme nel Casone.
Antonio Fogazzaro ebbe idee decisamente contrarie alla poetica del Verismo. Risalendo alle esperienze idealistiche del primo romanticismo nordico, Fogazzaro propose un’arte che recuperasse alle radici, nella sua primordiale sublimità, la natura umana, sostenendola nella incessante e drammatica lotta contro la “bestia oscura che sopravvive in noi”. Fogazzaro sposta l’attenzione dalla realtà esterna a quella interiore e tenta le vie della scoperta del subconscio, rientrando per questo nell’area del decadentismo. I suoi romanzi, da Malombra, il primo ed il più esemplare, a Piccolo mondo antico, il suo capolavoro, e Piccolo mondo moderno, sono testimonianza di una vita tormentata, vissuta nella solitudine della propria coscienza. Spirito profondamente religioso, visse la sua religiosità con scarso equilibrio, ma con intenso fervore, pervaso spesso da una sorta di esasperato misticismo che più volte lo fece deviare dall’ortodossia cattolica. Smanioso di liberarsi dalle pastoie di un conformismo borghese opprimente, fu però incapace di formulare in termini di chiarezza una nuova visione della società, delle sue regole, della sua cultura. Le caratteristiche più salienti della sua arte sono da individuare appunto nel costante turbamento derivante dal contrasto insolubile tra la sua sensualità e il suo misticismo, nei continui tentativi di mettere a nudo tutto quanto è riposto nel più profondo dell’animo, nella tendenza a forgiarsi uno stile quanto più possibile alieno dalla tradizione.
Gabriele D’Annunzio fu autore di vari romanzi, in alcuni dei quali tuttavia è abbastanza visibile la traccia dell’esperienza naturalista e verista anche se per lo più la sua narrativa si svolse nell’ambito del Decadentismo. Il suo primo romanzo, Il piacere del 1889, mentre da un lato sembra indulgere all’analisi psicologica dell’amore secondo il metodo seguito da Flaubert e da Maupassant, dall’altro si compiace di esasperare l’egocentrismo del protagonista, Andrea Sperelli e la sua tendenza estetizzante nel godimento del piacere. E così pure nei due successivi romanzi, Giovanni Episcopo del 1891 e L’innocente del 1892, mentre è evidente che intende rifarsi al realismo di Dostoevskij e Tolstoj, dal primo soprattutto riprende il metodo di scandagliare fino in fondo la coscienza umana, riprende cioè quell’atteggiamento che lo avvicina ai decadenti. Insomma quello che maggiormente risalta nei suoi primi romanzi è una sorta di pendolarismo fra realismo e decadentismo, con la tendenza però a liberarsi gradualmente del primo per approdare con maggiore consapevolezza al secondo. Difatti è singolare l’esaltazione che il D’Annunzio fa del protagonista de L’innocente, Tullio Hermil, e finanche del suo terribile delitto: lo scrittore, con la chiara volontà di destare scandalo, fa dire a Tullio che “la giustizia degli uomini non lo tocca”, avvicinandosi così sempre più alla creazione del suo ideale di uomo, il superuomo. Altro passo innanzi in questa direzione si ha con il Trionfo della morte del 1894, il cui protagonista, non potendo possedere della sua donna anche l’anima, procura la morte ad entrambi. L’immagine del superuomo è finalmente compiuta nei tre romanzi successivi: Le vergini delle rocce, Il fuoco e Forse che sì, forse che no, rispettivamente del 1895, del 1898 e del 1910.

La lirica del secondo Ottocento – Accanto alla multiforme vitalità del ro­manzo la produzione lirica continuò ad avere un posto di prestigio, anche se non poteva certo competere con le ca­pacità di farsi leggere del romanzo. Come per la prosa, bisogna allargare lo sguardo al­le esperienze straniere che offrono modelli nuo­vi ai nostri poeti. In primo luogo va però ricordata la diversità della situazione italiana rispetto a quella europea: mentre in Europa l’esperienza della lirica romantica era sta­ta ricca di opere e di autori che avevano dato vita a una nuo­va poesia, in Italia emergeva da un panorama piuttosto piatto, altissima ma inimitabile, la voce poetica di Leopardi. Questo ci aiuta a spiegare perché i grandi mutamenti che caratte­rizzarono il genere lirico nella seconda metà del secolo avvengono al di là delle Alpi, in Francia in particolare e solo più tardi giungono anche da noi. Si trattò di un processo rilevan­te nella storia della lirica, una vera e propria svolta che segnò la nascita della lirica moderna. In questo processo il linguaggio lirico divenne più difficile e la poesia si trasformò in ge­nere d’elite nel momento in cui gli altri generi andavano in­vece conquistando un pubblico più vasto. Mutarono in primo luogo la figura del poeta e l’idea stessa di poesia: il poeta non sentì più se stesso come portavoce dei valori e dei senti­menti generali colti nella eccezionalità della sua esperienza individuale, rifiutò ogni funzione di «poeta-vate», deposita­rio e trasmettitore di messaggi, per rivendicare invece un’estraneità rispetto al proprio tempo, il rifiuto di una società rispetto alla quale si sentiva diverso.
Questo atteggiamento, che contrasta decisamente con l’idea romantica, venne teorizzato per la prima volta dal poeta francese Charles Baudelaire che ispirò la sua stessa vita alla irregolarità, al disordi­ne, all’eccentricità, divenendo il modello per molti altri arti­sti e letterati sia francesi sia europei. Insieme a Baudelaire, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé diede­ro vita ad un movimento detto simbolismo, che ebbe una na­scita ufficiale col Manifesto del simbolismo pubblicato nel 1886. Il dato che più colpisce nell’opera di questi poeti è il caratte­re inconsueto dei loro versi: essi teorizzano la libertà d’in­venzione, l’importanza decisiva del suono, la rottura della sintassi e delle forme metriche tradizionali fino alla disarmo­nia. Il linguaggio poetico abbandona ogni modo descrittivo per cercare l’espressione più elaborata, soggettiva, oscura; la struttura prevalente è analogica, abolisce cioè i nessi logici espliciti e procede per accostamenti, parallelismi, contrapposizioni. S’impose anche l’inconsueta scelta tematica: in parte si trattò di temi nuovi quali le immagini della città caotica, lo spettacolo della folla, il vagheggiamento di evasioni esotiche oppure lo smascheramento polemico delle apparenze, del perbenismo; in altri casi i temi nascevano dall’introspezione ed erano quelli da sempre presenti nella poesia, quali la me­moria, il sogno, i dissidi interiori, ma trasformati in espe­rienze eccezionali, estreme, e trasfigurate in simboli. In questo modo entrarono nella poesia anche il brutto, il demonia­co, il peccato, e più in generale cadde la convenzione per la quale i temi bassi erano esclusi dall’espressione lirica. La poesia e le teorizzazioni dei simbolisti francesi furono pre­sto note in Italia ed esercitarono un’influenza sui nostri poeti. Tuttavia i veri eredi del movimento furono gli scrittori del Novecento, nel senso che soltanto allora si col­se la globalità di quell’esperienza.
In particolare il quadro della produzione lirica dalla metà dell’Ottocento fino al primo decennio del secolo successivo può essere così disegnato:
· la tradizione classicista: ha un momento di rinascita e di rinnovamento nell’opera di Giosuè Carducci, che la rivitalizza riproponendo la missione etico-civile del poeta e l’esaltazione del lavoro rigoroso sulla forma. Carducci, che scriveva negli stessi anni di Baudelaire, fu maestro di una tendenza che, se oggi è poco apprezzata, sicuramente ebbe un peso rile­vante nella cultura del tempo ed ebbe i seguaci più illustri in Severino Ferrari, Enrico Panzacchi, Giovanni Marradi;
· la poesia scapigliata: Emilio Praga, Arrigo Boito, Giovanni Camerana, Ugo Tarchetti produssero una poesia che rappre­senta la punta avanzata verso il nuovo, ma che si esaurisce nel rinnovamento tematico e in qualche limitata sperimenta­zione formale. Essi furono affascinati dai temi audaci e in­consueti dei simbolisti, e li assunsero come propri svuotandoli dei significati più profondi e inquietanti e riducendoli a espressioni di bizzarria, di originalità, di anticonformismo;
· l’esperienza poetica legata al verismo: alcuni scrittori traspor­tarono in versi l’idea di una nuda e veritiera rappresentazione della realtà; ricordiamo qui il nome di Olindo Guerrini, che usava lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti;
· la poesia dialettale: spiccano, fra gli altri, i nomi del romano Cesare Pascarella e del napoletano Salvatore di Giacomo;
· la poesia crepuscolare: è un fenomeno abbastanza circoscrit­to che si sviluppò tra il 1903 e il 1911 e coinvolse un gruppo di poeti che, schiacciati tra l’eredità pascoliana e quella dannunziana, presero una strada comune e furono in genere uni­ti da rapporti di amicizia e di solidarietà nelle scelte lettera­rie e negli atteggiamenti esistenziali. Il termine crepuscolare nacque in sede critica e fu scelto perché indica sia la luce del­l’alba sia quella del tramonto e rimanda quindi ai significati di estenuazione, fine, ma anche a quelli di alba, di realtà nuo­va che sorge. Si tratta di una poesia costruita intorno a terni ricorrenti: le piccole cose, il quotidiano, l’intimo, il ritorno al­l’infanzia, le lacrime, la malattia, la noia, l’indifferenza. Altrettanto costanti i caratteri della lingua e dello stile: una ge­nerale facilità di linguaggio, l’abbassamento dei lessico, l’accentuazione della rima o al contrario la ricerca di un andamento del verso che si avvicina alla prosa. Tra i poeti crepu­scolari si può distinguere un gruppo romano, nel quale spic­ca la figura di Sergio Corazzini, e un gruppo torinese, del quale fa parte, oltre al maggiore di loro Guido Gozzano, au­tore del poemetto La signorina Felicita ovvero la felicità, Carlo Chiaves. Iniziatore del modo crepuscolare di far poesia si considerò il ferrarese Corrado Govoni.
· la poesia di Giovanni Pascoli e di Gabriele D’Annunzio: le loro voci s’impongono tra la fine del secolo e i primi anni del Novecento e riportano su un piano più alto la storia della li­rica. Iscrivendosi in un panorama di respiro europeo, segna­no la fine del classicismo e il vero inizio della lirica moderna nella tradizione italiana

Il Decadentismo – Con il termine Decadentismo si definiscono tutti quei movimenti artistici e letterari sviluppatisi in Europa a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli inizi del XX secolo che si contrappongono dialetticamente alla razionalità del positivismo scientifico.
In Italia si è soliti individuare due periodi distinti di Decadentismo: il primo, di cui facevano parte D’Annunzio e Pascoli, è ancora caratterizzato dalla necessità di costruire miti decadenti, al secondo, di cui occorre ricordare in particolare Pirandello e Svevo, la coscienza della crisi è ormai acquisita e la realtà viene sottoposta ad una critica molto lucida e distruttiva.

L’origine e la diffusione - Il decadentismo è un movimento che ha origine in Francia intorno al 1880 e annovera fra i suoi maggiori esponenti i poeti Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, che si richiamano tutti all’esempio di Baudelaire. Dalla Francia, il decadentismo si diffonde negli altri Paesi, assumendo forme e modi diversi.
In Italia, la stagione decadente è aperta da Pascoli e da D’Annunzio, ma al Deca­dentismo sono ascrivibili, in misura diversa, la maggior parte dei nostri scrittori del Novecento.

Il rifiuto del reale - Caratteristica fondamentale del decadentismo è il rifiuto della realtà concreta, di quella realtà che, invece, aveva suscitato l’interesse e l’impegno degli scrittori detti appunto realisti, soprattutto dei naturalisti francesi e dei veristi italiani. A tale rifiuto si accompagna la volontà di superare tale realtà, di evadere da essa.
L’evasione avviene per diverse vie, che danno luogo a posizioni diverse anche lettera­rie. Di esse le più significative sono il simbolismo e il superomismo
a) Il simbolismo - Per gli scrittori che sono definiti simbolisti la realtà concreta non conta per se stessa, ma solo in quanto rimanda ad un’altra realtà di cui essa è simbolo: - una realtà più profonda, sotterranea e spesso misteriosa, cui il poeta deve tendere e che deve cercare di far affiorare nella sua poesia.
b) Il superomismo - A volte invece l’evasione decadente dal reale porta a vagheggiare esistenze eccezionali, capaci di gesti eccezionali. Nasce così, sulla scia del pensiero del filosofo Nietzsche, il mito del superuomo, dell’uomo cioè che si sente superiore alle leggi che regolano la convivenza sociale e che considera quindi gli altri uomini come gregge da dominare e come trampolino di lancio per la sua affermazione. A quello del superuomo si collegano altri pericolosi miti: l’esaltazione della violenza, della guerra, dei gratuiti gesti di forza.
c) Altre forme di evasione dal reale - Altre volte l’evasione dalla realtà si manifesta in quello che è stato definito estetismo, cioè nel vagheggiamento di esistenze raffinatissime, che si svolgono in ambienti altrettanto raffinati e spesso artificiali.
A volte, infine, l’evasione avviene nell’esotismo, cioè nel sogno di vivere in paesi re­moti e dallo splendore intenso, dove siano possibili esistenze felici, sganciate da tutti i limiti della quotidianità.

Il rifiuto della razionalità - Comune a tutte queste posizioni dei decadenti è la sfiducia nella ragione e il rifiuto dei suoi strumenti conoscitivi e valutativi. Infatti, la realtà sotterranea postulata dai simbolisti non può essere raggiunta dalla ragione, ma può es­sere captata soltanto dall’intuizione. Così pure, i miti dell’estetismo e dell’esotismo nascono in dispregio della ragione, che ne denuncia l’arbitrarietà e l’inconsistenza. E non è certo giustificabile con la ragione la volontà di affermazione del superuomo, volontà che determina lo sconvolgimento di quei rapporti sociali, come il principio d’uguaglianza, il rispetto democratico, che la ragione ha costruito attraverso il tempo.

Le nuove tecniche espressive del decadentismo - La mutata visione della realtà determina il nascere di nuove tecniche espressive. Si instaura, così, un linguaggio che più che a narrare o a descrivere tende a suggerire, a orientare cioè l’intuizione dei lettori verso le zone sotterranee intraviste dal poeta. Questo nuovo linguaggio fa spesso leva, più ancora che sul significato vero e proprio dei vocaboli, sulle suggestioni musicali e coloristiche che da essi promanano e che vengono evidenziate con accorgimenti diversi dai diversi poeti.

Giovanni Pascoli - Giovanni Pascoli è il poeta che ha segnato il passaggio dall’Ottocento al Novecen­to aprendo la via alla poesia moderna.

La vita – Nacque nel 1855 a San Mauro di Romagna, quarto di otto fratelli e il padre Ruggero era l’amministratore della tenuta La Torre dei principi Torlonia perciò la famiglia godeva di un certo benessere.
La fanciullezza del poeta trascorse serena: nel 1862 entrò nel collegio dei padri Scolopi ad Urbino, dove rimase fino al 1871.
Sulla sua fanciullezza gravò l’ombra dolo­rosa della morte del padre: il 10 agosto 1867, Ruggero Pascoli fu ucciso misteriosamente, mentre tornava a casa sul suo calesse, da nemici mai identificati e rimasti impuniti. Pascoli credette di individuarlo nell’amministratore che successe a suo padre nell’amministrazione della tenuta dei Torlonia e nella sua poesia lo rappresenta come il cuculo, uccello che non si crea il suo nido, ma che occupa quello degli altri.
Con la morte del padre, seguita l’anno seguente da quella di una sorella, poi, di seguito, da quella della madre e di due fratelli. L’indigenza entrava nella famiglia: mentre la famiglia Pascoli fu costretta ad abbandonare la casa in cui viveva, la morte della madre fu considerata dal poeta la tragedia maggiore, perché venne meno il nucleo familiare, il nido.
Questa precoce esperienza di dolore e di morte sconvolse profondamente l’animo del poeta, facendogli avvertire la profonda ingiustizia del mondo: una ferita non chiusa, che si tradusse in un senso sgomento del destino tragico e inesplicabile dell’uomo, e segnò il crollo di un mondo d’innocenza e di infanzia serena cui sempre il poeta aspirò con immutata nostalgia. Nelle sue poesie torna il ricordo della tragica morte del padre, unito al tema del «nido» distrutto dalla violenza degli uomini.
Pascoli continuò i suoi studi fra gravi difficoltà economiche, e poté frequentare a Bologna l’Università dove si iscrisse alla facoltà di lettere ed ebbe come maestro Carducci di cui seguì con interesse le lezioni solo con l’ausilio di una borsa di studio che vinse nel 1873.
Il periodo bolognese lo mise in contatto con il movimento anarchico e si avvicinò così agli ideali socialisti: i dolori e le privazioni, la sfiducia in una società che lasciava impunito il delitto, maturarono in lui un’amara volontà di rivolta e di giustizia perciò aderì all’Internazionale ed iniziò a frequentare Andrea Costa, capo dell’anarchismo romagnolo.
Nel 1879, in seguito a dimostrazioni connesse all’attentato dell’anarchico Passannante contro il re Umberto I subì alcuni mesi di carcere preventivo; quando vi uscì, riprese gli studi e da quel momento in poi non si occupò più di politica, essendone rimasto evidentemente spaventato.
Non era più un ribelle, ma un uomo che chinava il capo davanti all’oscuro destino: in seguito il suo spirito si andò via via placando e si acquietò in una caritatevole guardatura nei confronti di tutti gli aspetti della vita, del male come del bene. L’unico rimedio al male gli appariva ora la pietà e l’amore fraterno fra gli uomini, unico conforto al mistero insondabile della vita, una specie di amore cristiano senza tuttavia l’accettazione della trascendenza.
Nello stesso tempo, nasceva in lui l’ideale di ricostruire il proprio focolare domestico, con le due sorelle superstiti, Ida e Maria, di ritrovare così la pace nella quiete appartata e nell’intimità degli affetti.
Laureatosi in lettere nel 1882, iniziò la carriera di professore di latino e greco nei licei dì Matera, Massa, Livorno, mentre, per più anni, partecipò a concorsi di poesia latina ad Amsterdam, vincendoli.
Pubblicò nel 1891 la sua prima raccolta di liriche, Myricae, cui seguirono i Poemetti, i Canti di Castelvecchio e i Poemi conviviali.
Passato all’insegnamento universitario, ricopri la cattedra di letteratura latina pri­ma all’Università di Messina e poi a Pisa e a Bologna, dove fu chiamato nel 1906 a sostituire Car­ducci nella cattedra di letteratu­ra italiana.
In quegli anni la sua poesia mutò registro e passò dalla rappresentazione del mondo semplice della campagna, cantato in chiave simbolica, a temi storici e celebrativi, come dimostrano le raccolte Odi e inni, Poemi italici e Poemi del Risorgimento.
Un posto importante nella produzione poetica di Pascoli occupano anche le poesie latine, riunite nella raccolta Carmina (Carmi), con cui il poeta vinse molte volte il concorso di poesia latina di Amsterdam.
Grazie alla sicurezza economica raggiunta, potè acquistare a Castelvecchio di Barga, in provincia di Lucca, una casa nella quale ricostituì, insieme alle sorelle, il nido familiare. Alternava il soggiorno bolognese con lunghi periodi trascorsi nella sua casa di Castelvecchio, che gli consentiva il contatto col mondo campagnolo da cui proveniva e che gli era umanamente e poeticamente congeniale.
Ammalatosi gravemente nel 1908, conti­nuò l’attività letteraria fin quasi alla morte, avvenuta a Bologna nel 1912 e fu sepolto a Castelvecchio, nella casa di campagna che dal 1895 era stato il suo rifugio più caro insieme alle sorelle.

Le opere - Numerose sono le sue raccolte poetiche: Myricae, Primi Poemetti, Canti di Castelvecchio, Nuovi Poemetti, Poemi conviviali, Odi ed Inni, Poemi italici, Le canzoni dì Re Enzo, Poemi del Risorgimento. Esperto conoscitore del mondo classico e della lingua latina, in latino compose due volumi di Carmina. Fu autore anche di prose: di argomento letterario e politico-patriottico.

I due versanti della poesia pascoliana - Le raccolte di liriche pascoliane si possono distinguere in due gruppi. Al primo gruppo appartengono le Myricae, i Primi e Nuovi poemetti, i Canti di Castelvecchio, i Poemi conviviali. Al secondo gruppo appartengono Odi ed Inni, le Canzoni di Re Enzo, i Poemi italici, i Poemi del Risorgimento, Le raccolte del se­condo gruppo sono di ispirazione prevalentemente civile e sociale e costituiscono, nel complesso, la produzione artisticamente meno felice di Pascoli; il quale invece dà il meglio di sé nelle raccolte del primo gruppo, le più caratterizzate da una sensibilità de­cadente.
a) La funzione del poeta: il «fanciullino» - La prima fase dell’attività poetica di Pascoli, testimoniata soprattutto dalla raccolta Myricae, si colloca in un momento in cui la cultura italiana, seguendo un percorso già avviato in Francia nel ventennio precedente da poeti come Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, sostituiva ad una rappresentazione realistica e oggettiva della natura, una visione simbolica, capace di cogliere il mistero che palpita in tutte le cose e che non può essere indagato e spiegato con gli strumenti della ragione e della scienza.
Come i simbolisti francesi, anche Pascoli è convinto che la funzione del poeta sia di cogliere la realtà nascosta che sta al di sotto delle forme visibili e tangibili, e di cui tali forme sono simbolo.
Nella prosa Il fanciullino egli sostiene che Solo il poeta ha la dote, che è propria dei fan­ciulli, di vedere al di là dell’apparenza delle cose; che solo il poeta sa prestare ascolto e dar voce a quel fanciullino, che ogni uomo continua a portare dentro di sé, può entrare in rapporto, attraverso percezio­ni puramente intuitive e alogiche, con questo mistero. È il poeta che scopre le relazioni più inconsuete fra aspetti della realtà assai distanti fra loro, che si stupisce di fronte agli elementi più semplici della natura, che carica oggetti e immagini di significati simbolici. Egli parla alle bestie, agli alberi, ai sas­si, alle nuvole, alle stelle...’popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei’. Una dote intuitiva che gli uomini co­muni perdono via via che diventano adulti.
b) I maggiori temi pascoliani - I temi ricorrenti nelle più significative raccolte pascoliane (Myricae, Canti di Castelvecchio, Primi e Nuovi poemetti) sono tratti dalla realtà quotidiana e autobiografica del poeta, una realtà dimessa e umile, spesso dolorosa: l’infanzia segnata dalla tragica morte del padre; la madre e alcuni fratelli prematuramente perduti e la famiglia disfatta; la casa dell’infanzia, la casa-nido, rievocata nei più diver­si stati d’animo e nelle diverse ore e stagioni, fiorita di rose e di gelsomini nella calura estiva, o immersa nell’ombra della sera, mentre intorno volano le farfalle notturne e si diffonde il profumo acuto delle peonie; la campagna romagnola, piena di voci nella stagione dei lavori agricoli, o malinconica nell’abbandono autunnale; il collegio di Urbino, dove il poeta ha trascorso l’infanzia e dove i piccoli collegiali giocavano con gli aquiloni; il cimitero dove riposano i suoi morti, ed altro. È una tematica di cose sperimentate e vissute che, in astrat­to, potrebbero anche essere il bagaglio di uno scrittore realista, ma in Pascoli i dati concreti, pur rappresentati con attenta precisione, costituiscono solo il punto di parten­za dal quale le liriche muovono per suggerire altri temi e valori di cui la realtà presen­tata è simbolo: valori più vasti, che coinvolgono aspetti fondamentali e generali dell’esistenza umana.
c) Dalla realtà al simbolo: la novità di Myricae - Questo nuovo modo di cantare la natura costituì l’elemento di novità della raccolta poetica Myricae, la prima e forse la più amata da Pascoli.
L’opera fu pubblicata in una pri­ma edizione di 22 poesie nel 1891; il poeta però non smise mai di arricchirla e rivederla nel corso della sua vita, tanto che l’ultima edizione del 1903 comprendeva 156 componimenti.
Il titolo deriva da un verso della quarta Ecloga del poeta Virgilio: iuvant arbusta humilesque myricae, «piacciono gli alberi e le umili tamerici». Con esso Pascoli vuole alludere al tono volutamente basso della sua poesia, che rifiuta la retorica, il linguaggio solenne e ricercato e predilige termini quotidiani adatti a cantare le piccole cose, il mondo della natura e quello familiare. Dietro questa apparenza di sempli­cità si cela, però una ricercatezza espressiva che si affida al gioco delle onomatopee e delle corrispondenze foniche, e una visione del mondo che non si ferma alle apparenze, ma scopre negli og­getti più semplici e consueti significati profondi e spesso inquietanti.
Ad esempio, la breve lirica Lavandare può apparire, a prima vista, come un bozzetto di genere: una campagna autunnale, un aratro abbandonato, le lavandaie che sbattono i panni e cantano uno stornello. Ma attraverso questi elementi il poeta suggerisce altri significati; le figure, il paesaggio, le voci diventano il simbolo di una componente pe­renne dell’esistenza umana: la malinconia e l’abbandono.
Analogamente, la lirica Novembre, descrive quel particolare momento dell’anno che prende il nome di estate di San Martino. L’aria è limpida, il sole cal­do, tanto che si ha l’impressione di essere in primavera, Ma uno sguardo più attento rivela un mondo pri­vo di vita che si avvia malinconicamente verso l’inverno: la limpidezza del cielo quasi primaverile che contrasta con gli aspetti già invernali del paesaggio (rami secchi, terreno che suona «vuoto» sotto i passi, ed altro), propone, al di là del piano descrittivo, il tema del rapporto vita-morte, anzi della mor­te prevalente sulla vita. Anche la natura dunque inganna l’uomo, nascondendo dietro illusorie apparenze di vita la realtà della morte.
Le liriche Il lampo e Temporale, entrambe piccole ballate costituite da settenari, propongono una visione simbolica della natura, che appare attraversata da brividi e misteri.
La visione che emerge dalla brevissima lirica Il lampo è ben più angosciosa: la luce sinistra che appare e scompare all’improvviso rivela il mondo per quello che effettivamente è un luogo di sofferenza alla qua­le partecipano tutte le cose. L’immagine rassicurante della casa bianca è ben poca cosa rispetto al tumulto della natura, reso ancor più inquietante dal silenzio in cui si consuma la brevissima tragedia.
Temporale, infine, è la descrizione, condotta per rapide notazioni coloristiche, dell’avvicinarsi di un temporale: il cielo si fa scuro, in lontananza si ode il rumore del tuono, all’orizzonte balenano i primi lam­pi. In mezzo a una natura che si incupisce sempre più l’immagine di un casolare che si profila sullo sfondo appare rassicurante e protettiva. Ma è proprio cosi?
d) Il mondo classico pascoliano - II mondo classico, che gli offrì materia di ispirazione soprattutto nei Poemi conviviali, assume una dimensione nuova nella poesia pascoliana. Le ferme e nitide figure del mondo greco-romano, almeno quali la tradizione ce le ha tramandate, diventano anch’esse espressione delle inquietudini, delle ansie, dello sgomento del poeta di fronte alla vita e al suo mistero. Un esempio è Aléxandros: Alessandro Magno, che nella storiografia classica è celebrato per le sue doti di condottiero e di politico, si trasforma, nel componimento pascoliano, in un sognatore affascinato dall’ignoto che, giunto con le sue conquiste ai confini del mondo, si duole perché non gli resta più nulla da scoprire e quindi da sognare.
e) Il «linguaggio» pascoliano - Nei confronti del linguaggio poetico tradizionale, Pa­scoli compie un’autentica rivoluzione, che avrà grande influenza sulla poesia del Nove­cento.
Nel lessico: scompaiono i vocaboli aulici e arcaici. Il suo lessico è tratto dall’uso comune; egli usa anche voci gergali, termini tecnici derivati soprattutto dalla vita agrico­la; frequente l’uso di voci onomatopeiche (il verso dei vari uccelli, il don don delle campane).
Nella sintassi: al periodo ampio, costruito, proprio degli scrittori del passato, si sostitui­sce il periodo breve, con frequenti spezzature e sospensioni.
Nella metrica viene meno il verso compatto e sonoro e vi si sostituisce una versificazione spezzata, ricca di pause, di cesure, di riprese melodiche, con rime interne che danno particolare risalto ad alcuni vocaboli-chiave. Nel complesso, ne risulta una musicalità sommessa, ma estremamente articolata e mossa.

Gabriele D’Annunzio
La vita - Nato a Pescara nel 1863 da famiglia agiata, Gabriele D’Annunzio, nel 1874 fu iscritto a Prato nell’allora famoso Collegio Cicognini dove si fece subito notare per l’irrequietezza e la vivacità del suo carattere, la palese tendenza al divertimento e allo scherzo malizioso e pesante. Ancora in collegio pubblicò, nel 1879, una raccolta in versi: Primo Vere.

Conseguita nel 1881, la licenza liceale si stabilì a Roma dove entrò in contatto con ambienti sia letterari sia aristocratici, iniziando una fortunata attività di giornalista, di scrittore, di uomo di mondo. Si iscrisse quindi alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma, ma non la frequentò mai, perché impegnato in altri interessi di studio e l’abbandonò presto, già impegnato in collaborazioni giornalistiche e nelle prime fortunate prove di scrittore.
Fu nella redazione del Capitan Fracassa di Scarfoglio e lavorò alla Cronaca bizantina, un periodico fondato da Sommaruga. Sposò improvvisamente la duchessa Maria Harduin di Gallese, dopo una romantica e breve fuga in treno.
Negli anni successivi accentuò i tratti già presenti nei suoi primi scritti e divenne lo scrittore dell’alta società romana, della quale esaltò i riti mondani.
Nel 1889, dopo un soggiorno a Francavilla, compose Il Piacere.
Da Roma passò a Napoli, dove dal 1891 al 1893, abitò con Maria Gravina ed in questo periodo nacquero numerosi lavori come le Odi Navali, il Poema Paradisiaco e il Trionfo della Morte.
A Firenze, D’Annunzio si occupò della propria rinomanza, che coltivava con una vita volutamente sontuosa e con scandali calcolati abilmente. Tra i tanti gesti clamorosi vi fu una campagna elettorale che lo portò in Parlamento dove sedette all’estrema destra, facendosi notare per qualche clamoroso colpo di scena quale il passaggio nel 1900 all’estrema sinistra. Il soggiorno alla Capponcina fu all’insegna di altri amori, tra i quali la relazione con l’attrice Eleonara Duse che descrisse impietosamente nel romanzo Il Fuoco del 1910.
Nel 1910, oppresso dai debiti, si trasferì in Francia, ad Arcachon, presso Bordeaux, dove compose molte opere teatrali (come Le Martyre de Saint Sébastien, e poetiche come La Contemplazione della Morte e le Canzoni delle Gesta d’oltremare per l’impresa libica.
Nel 1915, Scoppiata la prima guerra mondiale e cominciata in Italia l’agitazione interventista, D’Annunzio Dal Francia ritornò in Italia dove diventò uno dei più fanatici interventisti, pronunciò da Quarto un discorso che apparve come un appello a correre in guerra.
Fervente interventista, La guerra gli offrì il momento più eroico della sua vita e l’occasione per le sue spericolate ed eccentriche gesta: la Beffa di Buccari, il volo su Trieste nel 1915 e un volo su Vienna nel 1918, coraggiose imprese caratterizzate da un individualismo che poteva essere sospetto di esibizionismo: Ferito in un incidente perdette l’occhio destro e durante la convalescenza scrisse Il notturno.
Nell’immediato dopoguerra fu animatore di gesti nazionalisti e diffuse il mito della vittoria mutilata: L’ultima azione fu la marcia su Fiume, città della quale divenne legislatore sino al 1921 che mirava a rivendicare Fiume all’Italia contro le decisioni delle potenze alleate e del governo italiano stesso.
Trascorse l’ultimo periodo della vita in aristocratico isolamento in una villa presso Gardone Riviera da lui battezzata il Vittoriale, che trasformò in un mausoleo fastoso della sua vita e della sua opera: che trasformò in un mausoleo fastoso della sua vita e della sua opera e qui morì nel 1938.

Le opere - La sua produzione è vastissima. D’Annunzio conobbe e assimilò la produzione del decadentismo straniero, soprattutto francese, ma anche del decadentismo inglese, nonché il romanzo introspettivo russo di Dostojeskij.
Gli anni di questa avida sperimentazione giovanile furono quelli che seguirono la conclusione dei suoi studi liceali, dal 1881 al 1893, e che egli trascorse prima a Roma, poi a Napoli. Appartengono a questi anni raccolte di liriche (le più famose sono Canto novo e il Poema paradisiaco[1]), novelle e romanzi, in cui mise a frutto la lezione appresa dagli scrittori stranieri.
È autore di liriche (ricordiamo fra le molte raccolte, i quattro libri delle Laudi[2]), di novelle (Le novelle della Pescara), di romanzi (Il piacere[3], il Trionfo della morte[4], Le Vergini delle rocce[5], L’innocente[6] ed Il fuoco[7]), di prose autobiografiche (il Notturno[8], le Faville del maglio[9], il Libro segreto), di opere teatrali (più famosa di tutta, la tragedia di argomento abruzzese La figlia di Jorio).


La poetica - Definito da B. Croce “dilettante di sensazioni”, D’Annunzio interpreta il gusto decadente e intende il poeta come soggetto inimitabile dotato di acuta sensibilità. L’arte è attività suprema, fortemente soggettiva ed esaltante.
Alla base del pensiero dannunziano è possibile riscontrare queste tre componenti: estetismo, panismo, superomismo.
Il Piacere è considerato la vera e propria “bibbia” del decadentismo italiano, in cui il protagonista incarna il simbolo della sfrenatezza sensuale che sfocia nella lussuria, generando insoddisfazione e inappagamento dei desideri. Andrea Sperelli è un personaggio autobiografico, poiché è l’incarnazione di quello che l’autore avrebbe voluto essere
L’esteta vive da uomo fuori dal comune perché eccezionalmente dotato e raffinato. Nel romanzo il poeta rivela una ricerca della bellezza come prototipo di una donna affascinante e sfuggente, espressione di ciò che può ammaliare un esteta.
L’estetismo tende a rappresentare immagini cariche di compiacimento estetico. Il culto per la parola predilige quella provocatoria, suggestiva e la forma preziosa e barocca. Soprattutto in Alcyone l’autore esprime il panismo, il cui nome deriva dal dio Pan che tornato sulla terra, invita gli uomini a immergersi nelle cose, a immedesimarsi in esse; le parole e le immagini si fanno evanescenti, mentre il linguaggio è analogico ed evocativo.
Una concezione decadente della realtà consente di attribuire alla natura caratteristiche umane e all’uomo di immergersi nella natura. Si attenua fino quasi ad annullarsi la distinzione tra il soggetto-poeta e l’oggetto-natura.
Dietro alle parole c’è però il vuoto più completo di pensiero, ma soprattutto di sentimento. È riscontrabile nel poeta il desiderio di imporsi, di agire e ciò sconfina in megalomania già riscontrabile nel poeta adolescente che negli anni maturi risente della nuova filosofia tedesca (superomismo).
D’Annunzio, avendo rifiutato di porsi una problematica del vivere, si proiettò in una vita attiva e combattiva. Il suo vitalismo si rivelò in due sensi: come insofferenza di una vita comune e normale e come vagheggiamento della “bella morte eroica”. Egli perciò insiste sui temi della grandezza, dell’orgoglio, dell’eroismo estetizzante.
Costretto a reprimere gli impeti adolescenziali , seppe fondere vita e arte in una sintesi di eroismo e decadentismo. Egli determinò la svolta più importante del decadentismo, quella superomistica, a cui aderì dopo la lettura nietzschiana. Il superomismo si adeguò alla carriera tribunizia, ma prima ancora la via era stata imboccata con i romanzi “Il Trionfo della morte” (1894) e “ Le Vergini delle rocce” (1895) per proseguire con “Il fuoco” e “Forse che si forse che no” (1910) i cui protagonisti (Giorgio Aurispa, Claudio Cantelmo, Stelio Effrena e Paolo Tarsis) incarnavano la figura del superuomo tribuno proponendolo come il modello del nuovo capo politico, il cui compito era ricondurre “il gregge all’obbedienza”. In D’Annunzio il superuomo trovava la sua perfetta identificazione, con l’artista, la vita inimitabile diveniva l’arte stessa, banco di prova delle sperimentazione delle passioni e della volubilità dell’uomo. In lui non fu tanto la vita a tenere dietro l’arte, ma fu l’arte a seguire le eccentricità della vita e ciò costò al poeta un’accusa di divismo e superficialità.
È da notare che esiste, in contrapposizione ai due aspetti del vitalismo, un senso di stanchezza improvvisa: sentì il desiderio di purificazione, di innocenza e allora si rifugiò nei ricordi a lui più cari. L’opera che meglio esprime questa condizione è “Poema Paradisiaco“ (1893), in cui una buona assimilazione del simbolismo francese gli consentì di rinnovarsi in misura soddisfacente.
Vi è il passaggio dalla sensualità alla purezza e all’innocenza di una vita semplice. In questi improvvisi ripiegamenti interiori mancava una amara consapevolezza della caducità delle cose e della precarietà dell’uomo: questi motivi si potevano avvertire solo superficialmente, ma non c’era un sincero proposito di rinnovamento dello spirito.
Da un affannoso fiorire di sensazioni e di immagini si genera il “Notturno”, che egli compose al buio e nel quale si alternano e si intrecciano due motivi: il rimpianto dell’adolescenza e della vita in genere consumata e perduta; l’immediato rimpianto dell’azione di guerra, del rischio mortale del volo su Vienna. Il “Notturno”, nato come diario, si arricchisce di sogni, ricordi, visioni, apparendo come una autoglorificazione.
D’Annunzio si spoglia quindi di qualsiasi dimensione superumana e tensione vitalistica per attuare un sincero ripiegamento interiore
a) La donna e l’amore - D’Annunzio è stato definito da Croce “dilettante di sensazioni”; dilettantismo che sta nella disposizione verso la vita e la realtà: non è un carattere estetico, ma psichico.
Il poeta fu subito vittima di accuse di immoralità dopo la pubblicazione di “Intermezzo di rime” che egli stesso definì un “libercolo di versi inverecondi”, “il prodotto di una infermità, di una debolezza di mente, di una decadenza momentanea”. D’Annunzio si sentiva indebolito dall’amore e dai piaceri dell’amore.
L’amore non ha nulla in lui delle malinconie e delle fantasticherie dell’adolescenza, ma è un’esperienza caratterizzata dall’ambizione, da una complessa concezione della vita. Egli, infatti, ricercava negli amori un molteplice godimento: il diletto di tutti i sensi, gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità. Essendo un esteta, anche nell’amore, traeva dalle cose molta parte della sua ebbrezza. Il poeta preparava con cura l’incontro amoroso, preoccupandosi di curare la sua casa fino a farla diventare un perfetto teatro e dagli oggetti sentiva sprigionarsi un gusto afrodisiaco.
L’amore è passione, compiacimento sensuale, si slega da qualunque vincolo morale e dall’istituzione del matrimonio. D’Annunzio trasferisce in poesia, con abile calcolo, le sue esperienza erotiche, alimentando così il suo personale mito di instancabile e straordinario amatore.
Nel periodo romano utilizza le pagine della “Cronaca bizantina” per rendere pubbliche le occasioni della sua vita privata.
La figura femminile è connotata da accesa sensualità, da una bellezza seducente e raffinata e talvolta da una componente lussuriosa e aggressiva.
È significativa la versione dannunziana della storia di Francesca da Rimini. Mentre nell’episodio dantesco la protagonista conserva la delicatezza e il pudore, pur esprimendo la forza della passione, l’opera dannunziana diventa, secondo la stessa definizione dell’autore, un “poema di sangue e lussuria”.
b) Il mito del superuomo - Intorno al 1894-95, a seguito della lettura del filosofo Nietzsche, entra prepotente, nella produzione dannunziana, il mito del superuomo, cioè dell’uomo d’eccezione, superiore alla morale comune, nato per dominare gli altri uomini. Il tema del superuomo sarà presente, d’ora innanzi, nella molteplice e varia produzione del D’Annunzio: nei romanzi, in quasi tutte le tragedie, nei libri delle Laudi ad eccezione di Alcyone.
Al mito dell’uomo d’eccezione si accompagna quello della nazione d’eccezione, guerriera, dominatrice e civilizzatrice. D’Annunzio esalta perciò le guerre coloniali e vagheggia per l’Italia imprese di conquista e di espansione imperialistica.
Ma egli non si limitò a celebrare il superuomo nei suoi scritti; volle impersonarlo anche nella vita. Non di rado visse, magari coprendosi di debiti, come un principe del Rinascimento, fra splendidi arredi, levrieri e cavalli di razza. Combatté con grande coraggio nella prima guerra mondiale, ma non nella promiscuità delle trincee, bensì compiendo gesti vistosi, come il volo su Vienna, la beffa di Buccari, in cui appagava la sua individuale volontà di affermazione.
c) La «tregua» dell’Alcyone - Il terzo libro delle Laudi, Alcyone, rappresenta una tregua dello spirito del superuomo e un abbandono del poeta al mondo della natura. Il libro comprende le liriche ispirate prima da un soggiorno primaverile a Fiesole, poi (e sono le più numerose) da una estate marina in Versilia.
Caratteristica dell’Alcyone è l’immedesimazione e l’immersione del poeta nel grembo della natura, che gli si rivela attraverso le sensazioni che essa suscita e che D’Annunzio coglie con acutissima percezione: sensazioni di cose concrete (aghi di pino, frutti maturi, riverbero delle onde, pioggia che batte sugli alberi, ed altro), che, nei versi dannunziani, suggeriscono sapientemente l’atmosfera delle ore e della stagione, ma, nello stesso tempo, le inquietudini, o il senso di appagamento, che esse generano nel poeta.
d) Le opere «notturne» - L’aggettivo «notturno» è tratto per estensione dal titolo di un’opera dannunziana, Il Notturno, che il poeta compose durante la guerra, quando, ferito a un occhio, fu costretto a rimanere per lungo tempo nell’inerzia e nell’oscurità. È un’opera che esprime uno stato d’animo meditativo e doloroso. La denominazione di «notturne» fu perciò usata per indicare tutte le sue opere di taglio più pessimistico e meditativo (La contemplazione della morte, Il compagno dagli occhi senza cigli, ed altre). In tali opere, lontane dai trionfalismi e dagli orpelli abituali, la critica ha individuato alcuni dei momenti più riusciti della poesia dannunziana.
e) Il tecnico della parola - Già in un’opera giovanile il poeta affermava: «divina è la parola». E questo culto, quasi religioso, della parola è stato l’elemento caratterizzante della sua attività di scrittore.
Egli si vantò di conoscere più di ogni altro l’arte di «collocare le parole» nel periodo e nel verso. Sfruttò al massimo il valore musicale delle pause, che, isolando le parole, danno loro rilievo e consentono che la loro eco si dilati.
Una singolare abilità tecnica ebbe anche in campo metrico. Usufruì ed alternò i metri più diversi, che usò come strumenti raffinati per costruire quelle che egli chiama, con espressione derivata dalla musica, le sue «frasi musicali».
Questa eccezionale abilità tecnica, tuttavia, non fu sempre al servizio di un’autentica ispirazione. Nella vastissima produzione dannunziana non di rado le parole suonano a vuoto, compiaciute di se stesse e fine a se stesse. In questi casi, la poesia scade a retorica fastidiosa e stucchevole.

La Letteratura del primo Novecento - Il primo quindicennio del Novecen­to è dominato da Giovanni Giolitti che orienta la vita politica italiana verso forme diverse da quelle reazionarie degli ultimi anni del secolo prece­dente. Giolitti tenta di integrare nello stato liberale le nascenti forze operaie, di realizzare una conciliazio­ne tra le forze socialiste e il liberalismo avanzato. Ma questo disegno s’infrange di fronte alla particolare situazione italiana.
Dal notevole sviluppo indu­striale deriva una sorta di «illusione ottica»: i vagheggiamenti dello stato for­te, le esaltazioni nazionalistiche che assumono ben più virulenta consistenza: sul Leonardo, sul Regno, nelle serate futuriste folti gruppi di intellettuali esaltano l’avventura, il rischio, la missione africana dell’Italia. Si tratta di un comples­so di forze opposte a Giolitti che egli nei primi tempi sottovalutò, ma alle quali fu poi costretto a fare notevoli conces­sioni.
Giolitti con abile politica pendolare riesce a tenersi in equilibrio fra le opposte forze:
· infligge un note­vole colpo agli interessi bancari,
· fa concessioni agli interessi industriali e nazionalistici con l’im­presa di Libia,
· promulga le leggi di tu­tela del lavoro e con la riforma elet­torale realizza fondamentali aspirazioni socialiste,
· col patto Gentiloni stabilisce accor­di, per le elezioni a suffragio univer­sale, con le forze conservatrici e cle­ricali.
In questa situazione van­no viste le manifestazioni letterarie di questo periodo che hanno una caratteristica comune di inquieta ricerca, di velleitarismo e di ambigua disponibilità.
· D’Annunzio mantiene ancora un ruolo di primo piano: ol­tre che come poeta-vate egli si presenta come maestro di comportamento, di vita inimitabile: sulle sue pagine generazioni di piccoli borghesi sognano amori d’eccezione e vagheggiano il bel gesto.
· In un complesso rapporto di opposizione-filiazione con D’Annunzio si collocano i giovani intellettuali in­quieti e disponibili che bramano fare il processo alla generazione che li ha preceduti e danno vita alle riviste fiorentine.
· La Voce è la rivista più notevole in quanto dapprima si batte per un rin­novamento della letteratura coin­cidente con un rinnovamento della so­cietà italiana, ma, dopo, mu­terà indirizzo e proprio sulle sue pa­gine sarà teorizzata una concezione quanto mai aristocratica e rarefatta della poesia.
· Contro le mitologie decadentistiche co­mincia la sua polemica Croce che elabora un sistema filosofico di laica razionalità e teorizza una con­cezione del fatto artistico che si di­mostrerà sempre più restia ad acco­gliere il processo iniziato negli ultimi decenni dell’Ottocento.
· Sotto il denominatore comune dell’opposizione ai moduli dannunziani vanno visti i crepuscolari e i futuri­sti.
La prima guerra mondiale segna una cesura nella prima metà del secolo. A guerra conclusa si presentano nella società italiana problemi di partico­lare gravità:
· il rifiuto da parte delle potenze alleate delle richieste ita­liane crea subito il mito della «vittoria mutilata»;
· le masse proletarie esigono quanto durante la guer­ra era stato loro promesso: riforme sociali e distribuzione di terre;
· gli ex ufficiali, di estrazione piccolo-borghese, difficil­mente si rassegnano alla grigia rou­tine quotidiana.
Alle elezioni del 1919. La neoformazione fascista non ottiene seggi, ma alle elezioni del ‘21 questa formazione manda alla Camera 30 deputati. Dal vago sinistrismo iniziale il fascismo passa ad un miscuglio di posizioni nel quale confluiscono
· disprezzo per la democrazia e per il socialismo,
· esal­tazione e pratica della violenza,
· mitologia nazionalistica.
Il partito socialista aumenta il mito del pericolo rosso, fornendo un’arma propagandistica al fascismo, e non è capace di proporre un’alternativa al vecchio stato liberale; la vec­chia classe liberale mette allo scoper­to la sua vocazione autoritaria e pensa ad un uso strumentale del fasci­smo in funzione antisocialista. Con la collusione de­gli interessi agrari e industriali, con la complicità degli organi dello stato liberale e della monarchia, il fascismo trionfa.
Soppressa nel ‘25 ogni manifestazio­ne di vita democratica, Mussolini con la creazione dell’Accademia d’Italia, dell’Istituto fascista di cultura, con le scuole di mistica fascista cerca di legare al regime anche la cultura. In realtà, anche se in Italia mancarono in questo campo esempi di coraggiosa opposizione e fuoruscitismo, egli ottenne solo conformistiche adesioni e la migliore produzione letteraria di quegli anni ignorò le mitologie e le parole d’or­dine ufficiali. Ben diversa consisten­za ebbe invece l’opposizione politica contro la quale l’apposito Tribunale speciale non cessò di erogare se­coli di prigione e di domicilio coatto.
La parabola del fascismo intanto si sviluppa con logica coerente con le sue premesse[10]: seguono infatti l’avventura imperialistica della guerra d’Abissinia, la tragica farsa dei volontari in Spagna, l’intervento nella seconda guerra mondiale a rimorchio del militarismo nazista.
Il dibattito letterario del primo do­poguerra è inizialmente caratterizzato da un richiamo all’ordine ed alla tradizione: La Ron­da teorizza la lezione dei classici, l’estrema pulizia formale, la prosa d’arte rigorosamente calibrata. È una visione piuttosto an­gusta dei compiti del letterato che si limi­ta ad una sapienza calligrafica senza troppa preoccupazione per i complessi pro­blemi derivanti dal rapporto tra letteratura e vita nazionale.
Contro tale posizione Gramsci su L’Ordine nuovo e Gobetti su La Rivoluzione liberale, teorizzano una diversa concezione dell’attività letteraria, vista da loro in stretto rapporto con le questioni più vive della società italiana. Su Il Baretti Gobetti si batte per una sprovincializzazione della no­stra letteratura, per un’apertura verso una dimensione europea.
In Europa infatti gli anni tra il ‘20 e il ‘30 sono ricchi di fermenti e di realizzazioni: Solaria divulga la conoscenza de­gli autori stranieri e con Pirandello e Svevo la letteratura italiana conquista una dimensione europea.
Intanto il fascismo, pesa sulla cultura italiana: gli uomini di lettere più consapevoli del gruppo di Solaria trovano risibili sia i richiami autarchici alla tra­dizione e l’esaltazione di una lette­ratura strapaesana fatti dalla cultura ufficiale, sia le mitologie fasci­ste, scelgono una forma d’arte che non si compromette col regime, lo ignora e da questo nasce il vagheggiamento memoriale, la trasfigurazione del dato reale in una dimensione arcana e simbolica, l’impegno per realizzare pa­gine di assorta levità diventano le caratteristiche di fondo della produzio­ne in prosa; il rifugio nel proprio io, la solitudine esistenziale, l’ascetica ri­cerca della parola essenziale e dei rapporti analogici, sulla scia di prece­denti teorizzazioni, diventano le caratteristiche della poesia nuova che in Ungaretti e in Montale trova i suoi mae­stri. Al di fuori di questo filone, Saba, ripudiando ogni ricercatezza espressiva, canta con profon­da umanità tutti gli aspetti del quo­tidiano e trova chiari accenti di opposizione al regime.
Un altro aspetto della letteratura d’opposizione è poi da considerare l’interesse suscitato negli anni ‘30, per i narratori americani dalle cui pagine si ricavava il mito di un’America giovane, sanguigna e libera. Furono questi i testi di più larga diffusione tra il pubblico: la poesia invece, diventa sempre più una produzione per iniziati.
In complesso la letteratura del ventennio, resta estranea alle mitologie fasciste e prosegue nella sua ricerca formale. Il fascismo, malgrado la creazione dell’Accademia d’Italia non riesce ad ottenere i suoi scopi.

L’arte per l’arte, l’impressionismo - Tra il 1914 e il 1916, una rivista come «La Voce» pubblicata a Firenze, accentua il suo carattere letterario: i vociani privilegiano una critica autobiografica e il frammentismo lirico, cercano di espungere qualsiasi intrusione etica sociale o politica e di promuovere una poetica fondata sul culto della parola e dello stile. A tale indirizzo fanno riferimento alcuni dei maggiori poeti del secolo.
Tra il 1919 e il 1923 il gruppo degli scrittori de «La Ronda» concordano con il programma di Cardarelli che enunciava la volontà di restaurare la tradizione classica della letteratura italiana impersonata in Petrarca, Manzoni e Leopardi, esigeva per lo scrittore piena autonomia da ogni compromissione politica e sociale, considerando l’atto letterario come supremo esercizio di stile. Sul piano letterario mostra il rifiuto di ogni forma irrazionalista, dalla poesia simbolista di Pascoli alle mitografie di D’Annunzio, alle teorie iconoclaste dei futuristi. Ciò accanto al recupero di una concezione dell’arte intesa come diletto, mestiere raffinato di letterati che si professano estranei a ogni finalizzazione dei contenuti. I rondisti sono teorici di una scrittura d’arte, senza impegni etici né politici, esercizio disinteressato.
Tra il 1926 e il 1936, intorno alla rivista fiorentina «Solaria», si raccolgono alcuni tra i migliori scrittori del periodo e che ebbero grossa influenza nel dopoguerra. Tra loro Eugenio Montale, e Carlo Emilio Gadda. La rivista era stata fondata e diretta a Firenze da A. Carocci. Una rivista eclettica, oscillante tra il rigore formale de «La Ronda» e il moralismo del gobettiano «Baretti». In contrasto con l’autarchia culturale predicata dal fascismo, vi fu una grossa apertura verso le esperienze europee: si recensirono tempestivamente i libri di P. Valéry, E. Hemingway, A. Gide, A. Malraux; si stamparono traduzioni di T.S. Eliot, J. Joyce, R.M. Rilke. Si cercò di valorizzare autori del Novecento italiano dedicando numeri unici a Saba, Svevo, Tozzi. Dal 1930 ci fu una maggiore attenzione verso i giovani scrittori, come Vittorini. Gli interventi di N. Chiaromonte, U. Morra e G. Noventa sulla responsabilità storica del letterato allarmarono la censura che sequestrò alcuni numeri della rivista, tra cui quello del marzo-aprile 1934 contenente “Il garofano rosso” di Vittorini.
Di tutti gli autori che si mossero variamente in questi anni, gli unici riletti dalle generazioni successive di lettori, furono Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Riccardo Bacchelli.

Poetiche espressioniste surrealiste magicorealiste - Sulla linea pirandelliana sono Pier Maria Rosso di San Secondo, e in parte Massimo Bontempelli fautore del realismo magico. Giuseppe Antonio Borgese con il romanzo Rubè tenta di opporsi al frammentismo vociano come all’isolazionismo rondista.

La produzione regionale - La politica culturale del fascismo cercò di promuovere un tipo di cultura nazionalista e unitaria, decisamente “italianofila”. Le culture che si esprimevano nelle lingue regionali furono osteggiate, anche se non mancarono in quegli anni autori e testi che usarono le lingue regionali per esprimersi.

Letteratura italiana di consumo tra le due guerre - L’emergere della piccola borghesia tra le due guerre in Italia incrementa una produzione letteraria di consumo. A parte i generi settoriali, la gran parte della produzione di consumo si collega ai romanzi d’appendice ottocenteschi; volgarizzamento della letteratura colta per i ceti medio-borghesi: Luciano Zuccoli (La freccia nel fianco, 1913), Guido da Verona volgarizzatore del dannunzianesimo, in fondo la stessa Grazia Deledda che nel dopoguerra scrive Incendio nell’uliveto (1918), e Cosima (1937), e riceve un nobel nel 1926.

La rivoluzione narrativa del primo Novecento - Il romanzo occupa un posto di assoluta preminenza nel panorama let­terario e, nel corso del secolo, la produzione si differenzia in misura rilevante per avvicinarsi, sotto lo stimolo dell’industria culturale, alle esigenze di un pubblico differente. Accade così che mentre si affermano sperimentazioni di nuovi modi di narrare, tendenze di avanguardia, persistano, anche a li­vello di letteratura alta, romanzi di impianto tradizionale.
La crisi della tradizione ottocentesca si evidenzia nel fatto che raccontare e descrivere non basta più: la grande tradizione narrativa ottocentesca che aveva dato nel verismo gli ultimi altissimi frutti, entra, infatti, in cri­si nei primi anni del nuovo secolo.
Già nell’alveo dell’estetismo di fine secolo erano nate esperienze narrative che avevano indebolito il ruolo della trama, ma ciò che a molti scrittori cominciava ad apparire vecchia era l’operazione stessa del narrare. De­scrivere e raccontare erano sentiti come schemi che fatalmente riproducevano un ordine, volevano dire fissare un inizio e una fine, interpretare la realtà e disporla razionalmente in uno spazio e in un tempo. Ma nella cultura novecentesca proprio questo cominciava ad essere messo in dubbio, che la realtà fosse interpretabile secondo parametri razionali.
Ciò che caratterizzava la modernità era la perdita del centro, della certezza che l’uomo potesse conoscere il mondo che lo circonda, giudicarlo e quindi descriverlo. Un elemento che emergeva era la fine di una visione unitaria del mondo e di se stessi, che portava intellettuali, artisti e scrittori a cercare nuovi strumenti per esprimere questa nuova situazione, tut­ta moderna.
Una prima conseguenza della situazione finora delineata fu che gli scrittori si applicarono a forme della prosa alternative alla narrazione:
1. la prosa lirica nella quale il racconto è sostituito dall’illumina­zione improvvisa, dal flash;
2. il frammento e la prosa d’arte, cioè pezzi di bravura, sfoggi di raffinatezza stilistica.
Alcuni grandi romanzi creano nei primi decenni del secolo la di­mensione novecentesca del narrare.
· Nel 1913 la prima parte di Alla ricerca del tempo perduto, il ciclo di sette romanzi di Marcel Proust che compì una delle più ambiziose imprese della letteratura di tutti i tempi: nel contesto di una società, sottoposta ad un profondo cambiamento sociale, che assiste al definitivo declino del mondo aristocratico, egli analizzò minutamente le cause della psicologia amorosa e i meccanismi della memoria, cogliendo insieme la relatività della dimensione temporale e la possibilità per ogni uomo, attraverso gli incontrollabili meccanismi della memoria involontaria, di rivivere l’essenza stessa del proprio passato.
· Nel 1916 esce il lungo rac­conto La metamorfosi, di Franz Kafka che ebbe un peso decisivo nell’evoluzione delle tecniche romanzesche. In romanzi come Il processo (1925) e Il castello (1926) Kafka piegò tecniche della narrativa fantastica a rappresentazioni costruite con minuziosa verosimiglianza e allo stesso tempo caratterizzate da un angosciante senso dell’assurdo e da inquietanti trasfigurazioni oniriche: le private ossessioni psicologiche dell’autore si trasformano in densi simboli del destino umano, in un mondo privo di dei ed oppresso da misteriose ed incombenti presenze superiori.
· Nel 1922 il romanzo Ulisse di James Joyce riprende il modello narrativo dell’Odissea di Omero, anche se la sua azione è circoscritta a quanto accade nell’arco di una sola giornata nella Dublino contemporanea. Una delle caratteristiche più originali della scrittura di Joyce è l’impiego sistematico delle tecniche del monologo interiore e del flusso di coscienza, attraverso le quali l’autore rappresenta, per così dire, in presa diretta lo scorrere incessante e spesso informe dei pensieri, delle percezioni, delle associazioni mentali consapevoli e inconsapevoli dei personaggi.
· Nel 1923 appare, ai margini dell’ufficialità letteraria nazionale, La coscienza di Zeno di Italo Svevo in cui c’è «ardore di verità umana e desiderio continuo di sondare, ben al di là delle parvenze fenomeniche dell’essere, in quella zona sotterranea ed oscura della coscienza dove vacillano e si oscurano le evidenze più accettate». Se i primi due romanzi[11] sono una specie di autobiografia, La coscienza di Zeno che assume la forma di diario, approfondendo sistematicamente lo scandaglio dell’inconscio. In esso il problema esistenziale è risolto con la scoperta dell’azione: solo se ci si immerge totalmente nei problemi concreti del vivere quotidiano e non si ha più il tempo per le meditazioni sulle problematiche astratte dell’esistenza[12], è possibile liberarci dal peso dell’angoscia.
· Nel 1926 uscì il romanzo Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello[13], opera intenzionalmente frammentaria, saggistica e antiromanzesca, cui lo scrittore affidò il compito di riassumere la propria sconsolata visione del mondo, basata su di un esasperato soggettivismo, secondo cui la realtà non avrebbe una sua oggettività, ma assumerebbe tanti aspetti diversi quanti sono gli uomini che la osservano; anzi essa cambierebbe anche a seconda dei vari momenti in cui viene a trovarsi il singolo uomo. La medesima cosa capiterebbe all’uomo: io non sono nella realtà quello che sono, ma quello che appare a ciascuno degli uomini con i quali vengo a contatto; e poiché la mia personalità non ha senso al di fuori del contatto con la società, è evidente che io creda di essere uno, essendo invece centomila e nessuno. Ne consegue l’impossibilità dell’uomo di comunicare con gli altri, poiché a lui sfugge, in ogni incontro, chi egli sia per l’altro. Da ciò una desolante solitudine, una sensazione d’angoscia, che determina come effetto o un cieco furore contro la società o un brutale impulso al suicidio.
· Tra 1930-1933 i primi due volumi de L’uomo senza qualità, l’incompiuto, colossale romanzo di Musil in cui, mescolando narrazione e riflessione saggistica, Musil sconvolse le tradizionali tecniche romanzesche, costruendo una grande metafora dell’aspirazione dell’uomo alla totalità e insieme dell’impossibilità di raggiungere una verità che non sia provvisoria e parziale.
Ciascuno di questi scrittori (e insieme a loro bisogna ricordare almeno Virginia Woolf, William Faulkner, Gertrude Stein) aprì strade completamen­te inesplorate per il romanzo e perseguì obiettivi diversi; tutti però intrapresero un per­corso che passava per il radicale e profondo ripensamento delle strutture narrative, della lingua e dello stile.
Nel­le opere di questi autori è possibile indivi­duare alcune direzioni comuni della ricerca di rinnovamen­to delle strutture narrative:
1. Il tempo interiorizzato: l’idea nuova è che il tempo non è una realtà oggettiva, che si misura in ore, giorni, mesi, ma è una percezione soggettiva, è il tempo della coscienza. La narrazione, l’organizzazione dei fatti in un prima e in un dopo avvie­ne allora secondo questo tempo interiore.
2. La destrutturazione dell’intreccio: si indebolisce l’intreccio come narrazione continua, nella quale gli eventuali vuoti sono riempiti attraverso l’intervento del narratore. La materia del racconto tende a coagularsi sempre più in blocchi tematici, a seguire gli andamenti della coscienza dei personaggi che si sostituisce alle vicende.
In queste direzioni si mosse quindi la ricerca della narrativa novecentesca, ma, dopo questa svolta, è problematico trovare nel corso del secolo altri denominatori comuni.

Italo Svevo
Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nasce a Trieste nel 1861; a dodici anni vie­ne mandato in Baviera a compiere gli studi, che continua poi a Trieste frequentando l’Istituto Superiore di Commercio. In seguito al fallimento dell’industria paterna si im­piega in una banca. Nel 1896 sposa una lontana parente, Livia Veneziani, e successiva­mente si impegna nella conduzione dell’industria di vernici sottomarine del suocero. Nel frattempo non intermette i suoi interessi letterari, e collabora a giornali locali. Nel 1892 esce il suo primo romanzo, Una vita; nel 1898 il secondo, Senilità. La scarsa attenzione della critica lo disanima, e solo molto più tardi, e per impulso dello scrittore irlandese Joyce, che vive per alcuni anni a Trieste e gli diviene amico, riprende l’atti­vità letteraria: nel 1923 esce il suo romanzo più importante, La coscienza dì Zeno. Muore in un incidente d’auto a Motta di Livenza nel 1928. Altri suoi scritti, che sono stati pubblicati postumi, sono: La novella del buon vecchio e della bella fanciulla (1929), Corto viaggio sentimentale e altri racconti mediti (1954), Commedie (1960), Epistolario (1967).

Il «caso Svevo» - I tre romanzi che costituiscono la produzione maggiore di Svevo, Una vita (1892), Senilità (1898), La coscienza di Zeno (1923), ebbero un singolare destino che fece parlare di un «caso Svevo». Mentre ora sono considerati dalla critica fra le testimonianze più significative della nostra letteratura fra Ottocento e Novecento, quando furono pubblicati passarono quasi del tutto sotto silenzio. Svevo rimase pressoché ignorato fino a che Montale, in un suo articolo, lo fece conoscere all’Italia, e lo scrittore irlandese James Joyce, amico di Svevo, lo fece conoscere all’Europa.

La formazione culturale di Svevo - La formazione culturale di Svevo fu assai poco legata alla tradizione italiana; fu piuttosto una formazione di tipo mitteleuropeo, cioè legata alla cultura del centro Europa. Svevo era orientato verso questo tipo di cultura dalla stessa condizione politica di Trieste, che, nonostante il suo diffuso irredentismo, fece parte fino al 1918 dell’impero asburgico, anzi ne costituì lo sbocco sul Mediterraneo. A questo si aggiunga che egli compì i suoi studi in Germania.

Fra romanzo naturalistico e romanzo di introspezione analitica - I primi due romanzi, Una vita e Senilità, risentono ancora dell’interesse nutrito dal giovane Svevo per i natu­ralisti francesi. Di tipo naturalistico è infatti il loro impianto narrativo: in essi le vicen­de si susseguono in ordine cronologico, legate da rapporti di causa e di effetto; è natu­ralistico anche l’interesse per gli ambienti sociali, come, ad esempio, in Una vita, per l’ambiente bancario, che Svevo conosceva per diretta esperienza.
Tuttavia, già in questi romanzi è evidente l’attenzione di Svevo per l’indagine introspettiva, cioè per una profonda analisi della psicologia dei personaggi, soprattutto dei protagonisti. In questo senso ebbero grande influenza su Svevo il pensiero del medico e filosofo austriaco contemporaneo Sigmund Freud, l’iniziatore della psicanalisi, e le ricerche che questi compiva a Vienna e che miravano a scandagliare i fondi più sotterra­nei della coscienza umana.
Nel terzo romanzo, La coscienza di Zeno, l’impianto naturalistico dei primi due scompare del tutto. Il racconto è concepito infatti come una specie di diario che il pro­tagonista Zeno Cosini scrive su esortazione dello psicanalista che deve curarlo. Le vi­cende della sua vita non sono esposte in ordine cronologico, ma recuperate sul filo del­la memoria, via via che gli si presentano alla mente. E non contano per quello che so­no realmente state, ma per il modo, lo stato d’animo con cui il personaggio le ha vissu­te e per le reazioni che gli suscitano nel ricordo. È per questa via che Svevo introduce il lettore nella psicologia, anche dell’inconscio, del suo personaggio.

La figura dell’«inetto» nei romanzi di Svevo - Comune a tutti i protagonisti sveviani è l’incapacità di adeguarsi all’ambiente in cui vivono, di inserirsi in esso. Restano così degli esclusi, degli emarginati; si tratta di un’emarginazione vissuta passivamente, perché essi non cercano neppure di lottare per opporvisi, ma vi si abbandonano con abulia.
Solo il protagonista del terzo romanzo, La coscienza di Zeno, in un certo senso si salva, perché finisce con l’accettarsi così com’è, e nello stesso tempo prende le distanze dalla sua abulia e inettitudine, guardando ad esse con chiara coscienza e con ironia.

Luigi Pirandello - Per la profondità con cui rappresenta la crisi di valori della società borghese del tempo, l'opera di Pirandello viene considerata uno dei vertici del Decadentismo europeo: egli fu innovatore del romanzo, compositore di novelle interessanti, capaci di comunicare i suoi pensieri e la sua concezione della vita attraverso il mondo di carta di personaggi e situazioni, iniziatore di una forma nuova di teatro che coinvolgerà in modo molto profondo la produ­zione contemporanea e successiva.

La vita - Luigi Pirandello nacque presso Girgenti (oggi Agrigento), il 28 luglio 1867, da un'agiata famiglia della borghesia commerciale di origine ligure che si era tra­sferita in Sicilia fin dal 1700 per sfruttare alcune solfare della zona.
Dopo aver ricevuto in casa l'istruzione elementare, si iscrisse all'Istituto Tecnico, per poi passare al ginnasio, in quanto mostrava un forte interesse per gli studi umanisti­ci.
Nel 1880 si trasferì con la famiglia a Palermo; qui frequentò gli studi liceali, poi completati con l'Università, dapprima nel capoluogo siciliano, poi a Roma e a Bonn in Germania. Nella città tedesca conseguì la laurea nel 1891, discutendo una tesi in tedesco sui dialetti siciliani e presso la cui università ha in­segnato per un anno.
Tornato a Roma l'anno successivo, collaborò con alcune importanti riviste letterarie e fu introdotto negli ambienti culturali della capitale.
Nel 1894 a Girgenti sposò Maria Antonietta Portulano, figlia di un socio del padre; dal 1897 per molti anni fu professore presso la facoltà di Magistero dell'Università di Roma.
Nella vita dello scrittore, per il resto piuttosto tranquilla, fu molto doloroso e condizionante l'episodio della malattia mentale della moglie, che non resse al disastro economico della famiglia a causa di un allagamento della miniera in cui il padre di Pirandello e la famiglia della moglie avevano impiegato gran parte dei loro capitali (1903).
Il disastro economico costrinse Pirandello a esigere un pagamento per le sue prestazioni letterarie che prima aveva reso per lo più gratuitamente.
Dal 1909 collaborò al Corriere della Sera, su cui vennero pubblicate molte sue novelle.
Nel 1904 fu pubblicato Il fu Mattia Pascal,
Fra il 1910 e il 1915 una serie di opportunità favorevoli consentì a Pirandello di affrontare l'attività teatrale, che in seguito assorbì sempre più le sue energie: questa prima fase del teatro di Pirandello è di ispirazione regionale, ma essa viene presto superata a favore di una svolta ispirata a tematiche e situazioni di caratte­re più generale.
Nel 1914 fu pubblicato I vecchi e i gio­vani, grande affresco storico incentrato sul motivo, ricorrente nella narrativa sici­liana, della profonda delusione di fronte agli ideali risorgimentali.
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale causò nella famiglia una serie di sof­ferenze, legate all'internamento in un campo di concentramento austriaco del figlio Stefano, alla partenza per la guerra dell'altro figlio maschio, Fausto, e all'aggravarsi della malattia mentale della moglie, che venne internata in una casa di cura nel 1919.
Ciò nonostante nel 1917 inizia la seconda fase del teatro pirandelliano in cui vanno collocati capolavori come Così è (se vi pare) del 1917, Sei personaggi in cerca d'autore del 1921, opera che scon­volge i canoni della drammaturgia tradizionale e che ottenne un grande succes­so internazionale, ed Enrico IV del 1922.
Nel 1924 Pirandello aderì pubblicamente al Fascismo: si trattò di un'ade­sione più di interesse che di sostanza. Dal 1925 assunse la direzione artistica del Teatro d'arte di Roma, presso cui in seguito lavorò la giovane attrice Marta Abba, primadonna della Compagnia e ispiratrice delle opere dell'autore.
Del 1926 è la pubblicazione in volume del romanzo Uno, nessuno, centomila, che già nel titolo esplicita il motivo della scomposizione della personalità del­l'uomo in molte sfaccettature quanti sono gli uomini che gli vivono intorno, osservandolo e entrando in rapporto con lui.
Gli ultimi anni della sua vita furono segnati da un notevole successo: nel 1929 fu chiamato a far parte della Reale Accademia d'Italia; nel 1934 gli fu con­ferito il premio Nobel per la letteratura.
Morì nel dicembre del 1936 mentre assisteva alle riprese del film tratto dal suo romanzo Il fu Mattia Pascal.

Le opere – Pirandello iniziò a scrivere poesie che presto abbandonò a favore del genere narrativo. Dopo la pubblicazione su riviste di alcuni racconti, Pirandello diede alle stampe nel 1901 il romanzo L'esclusa, in cui compaiono non pochi temi caratteristici delle sue opere più mature, tra cui il contrasto tra apparenza e realtà e la frantumazione del concetto di verità.
Pirandello nelle sue opere, siano esse romanzi, novelle o opere teatrali, ricorrono i medesimi temi, che nascono da una spregiudicata volontà di scandaglio della natura umana, riflette le inquietudini del suo tempo e se ne fa interprete.
Perciò, se la sua opera appartiene per buona parte al periodo anteriore alla prima guerra mondiale, egli ha ottenuto la fama maggiore ne­gli anni del dopoguerra, quando queste inquietudini diventavano più diffuse e sensibili.
Pirandello è autore di novelle (Novelle per un anno), di romanzi (L’esclusa, Il fu Matila Pa­scal, I vecchi e i giovani, Uno, nessuno, centomila) e di una vastissima produzione tea­trale (Enrico IV; Pensaci, Giacomino; Così è se vi pare; Il giuoco delle parti; Diana e la Tuda; La signora Morli uno e due; Sei personaggi in cerca di autore; per citare solo alcuni drammi) con la quale si è affermato in Italia il cosiddetto «teatro d’idee». Importante anche il suo saggio sull’Umorismo.

«La maschera e il volto» - Ogni essere umano - dice Pirandello - è fissato, bloccato in una specie di maschera immobile che Io fa apparire sempre uguale a se stesso. Ma l’individuo non è fisso, immobile, non è cioè quello della «maschera», ma è in continua trasformazione; ogni persona non è mai, nel tempo, uguale a se stessa: il buono non è sempre buono, il furbo non è sempre furbo ed altro L’uomo di oggi, in altre parole, non è lo stesso dell’uomo di ieri, né di quello che sarà domani. «Non c’è uomo - scri­ve lo stesso Pirandello - che differisca più da un altro che da se stesso nella successio­ne del tempo».
La «maschera» diventa cosi una prigione della nostra vera natura; a volte diventa così soffocante e intollerabile che si tenta di spezzarla, di uscirne fuori, col rischio di mettere a repentaglio la propria posizione sociale, di essere considerati dei pazzi. È questo il tema di alcune tra le più felici novelle pirandelliane, come La carriola e Il treno ha fischiato. Ma esso è presente anche in altri numerosi scritti, il più importante dei quali è il romanzo Il fu Mania Pascal, dove il protagonista approfitta di alcune circo­stanze favorevoli per buttar via il suo se stesso tradizionale, per darsi un altro nome e un’altra vita; ma l’esperimento non gli riesce, ed egli è costretto a ritornare nella sua «maschera».

Che cosa è la verità - Per Pirandello non esiste una sola verità, ma tante verità quanti sono gli uomini; il mondo, perciò, risulta privo di certezze obiettive. Nel romanzo Uno, nessuno, centomila, il protagonista si accorge, ad un tratto, che coloro che lo circondano, a cominciare da sua moglie, Io vedono ognuno in modo diverso dall’altro e tutti poi diversamente da come egli vede se stesso. Sente così la sua personalità come polverizzarsi; non è più uno, ma centomila e perciò nessuno. Analogamente, nella commedia Così è (se vi pare), la giovane donna, sulla cui identità corrono voci contraddittorie, incalzata dalla curiosità degli altri personaggi, si presenta velata sulla scena e dichiara: «La verità? è solo questa... Io sono colei che mi si crede».

Il «caso» e lo scacco - Spesso nell’opera pirandelliana il susseguirsi delle azioni non è determinato da un controllabile e logico rapporto di causa e di effetto, ma da spinte imprevedibili, dal «caso» appunto. Il caso scompiglia le programmazioni razionali e orienta arbitrariamente le vicende.
Da questa situazione deriva all’uomo un senso di insicurezza, di precarietà, di sfidu­cia in se stesso, nelle sue decisioni e nelle sue azioni, di cui non può prevedere e controllare le conseguenze. La più semplice ed in sé innocua delle sue azioni può infatti, per effetto del caso, determinare conseguenze imprevedibili e a volte sgomentanti.
Altro tema pirandelliano è quello dello scacco, del fallimento, che è comune agli individui e alle intere società. Esso si lega, in parte, al tema del caso, perché è proprio quest’ultimo a togliere all’uomo la fiducia di poter orientare il suo destino e di agire positivamente di conseguenza. I personaggi di una novella pirandelliana, Notte, concludono tristemente che il fallimento è l’essenza stessa della vita, nella quale non si può sapere «perché si debba nascere, perché si debba amare, perché si debba morire».

L’umorismo pirandelliano - Queste idee trovano conferma nel Saggio sull'umorismo, del 1908, testo fondamentale della riflessione dell'autore sull'arte e sulla vita.
La prima idea su cui si basa la sua concezione della vita è la netta opposi­zione - chiamata antinomia, o dicoto­mia - tra vita e forma. La vita è flusso continuo, movimento incessante grazie al quale l'individuo, che pure mantiene un'identità di fondo dalla nascita alla morte, tuttavia varia atteggiamenti, idee, comportamenti. La forma, al contrario, è l'insieme delle convenzioni sociali che paralizzano il flusso della vita, imponendo rapporti e atteggiamenti ste­reotipati, accettati dalla collettività in cui uno è inserito.
L'uomo risulta pertanto inguaiato dalla forma, impossibilitato ad imprimere se stesso, a manifestare le sue esigenze più profonde. Solo in rari momenti egli riesce a emergere e a imporsi. Così si determina di necessità una profonda differenza tra l'essere - quanto ciascuno sente di se stesso - e l'apparire il modo di vivere condizionato dalle inconsuetudini della società. L'uomo spes­so è costretto a portare una maschera, che le autenticità ai suoi gesti, ai suoi comportamenti. Egli così si adegua alla forma che la società gli vuole imporre, ma con gravissime conseguenze sulla sua dimensione vitale più autentica.
Altro elemento cardine del pensiero dell'autore è il concetto di relativi­smo, ossia la certezza che non esiste una verità universale, ma che ogni singolo individuo è portatore della sua verità, spesso sconosciuta agli altri, che non la possono pertanto comprendere e giudicano comportamenti e azioni degli uomi­ni solo dal loro limitatissimo punto di vista.
Ne deriva il dramma dell'impossi­bilità di comunicare, in quanto mancano comuni termini di riferimento. Un individuo spesso non conosce il dramma del suo simile, si limita a vedere un comportamento esteriore, che pure giudica sulla base di categorie sue, non di quelle dell'altro, a lui sconosciute. Da qui la solitudine che avvolge i personaggi. L'uomo è solo nell'avventura dolorosa della vita, spesso ritenuto pazzo quan­do m rari momenti ritrova se stesso, chiuso nelle sue ragioni, esposto al rischio del ridicolo e dell'incomprensione.
L'autore, per far comprendere il suo concetto di umorismo, riferisce un esem­pio efficacissimo: un'anziana signora, con i capelli ritinti, tutti unti non si sa da quale orribile manteca e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili provoca, a chi la vede, il riso, proprio perché si avverte che è diversa da quanto ci si aspetterebbe di vedere. Ma se si riesce a fare un passo avanti, e si riflette sul fatto che ella non prova piacere a pararsi così...ma che forse soffre e lo fa sol­tanto perché pietosamente s'inganna che riesca a trattenere a sé l'amore del mari­to più giovane di lei, allora si riesce a provare pietà per il personaggio. Si comprende meglio allora la sua umanità; inoltre gli aspetti grotteschi del suo comportamento, tramite la riflessione, stimolano la pietà, la comprensione per il suo dramma.
Lo scrittore nelle sue opere dovrà, pertanto, mettere in primo piano soprattutto gli aspetti profondi, inconsueti, assurdi della realtà. Il perso­naggio risulterà frammentato e disgregato: uno, nessuno, centomila, sintesi artistica di riso e di pietà.
L’amaro destino degli uomini è guardato da Pirandello attraverso il filtro dell’umorismo, che nasce, come dice lo stesso Pirandello, allorché di una situazione a prima vista comica, si vede successivamente anche il risvolto doloroso, che trasforma il primo moto di comicità in sorriso dolente ed amaro.

La rivoluzione lirica del primo Novecento - La grande rottura rispetto alla tradizione romantica e classicista si era prodotta in Francia e in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, e a cavallo dei due secoli nella nostra letteratura. Pertanto le esperienze poetiche del primo Novecento ap­paiono sotto il segno della continuità e dello svi­luppo, e configurano con maggior evidenza la fi­sionomia di una poesia novecentesca, moderna con caratteri propri e definibili che cerchiamo di riassumere e schematiz­zare.
La poesia del Novecento è un’esperienza che si allontana dal re­sto dei sistema letterario, si sviluppa in una sfera a sé stante ed ha una circolazione limitata.
La lirica moderna accentua ancora, se è possibile, il carattere di soggettivismo. Il poeta compone senza potersi rapportare a un pubblico, né reale, né fittizio.
Il linguaggio, la parola, prevalgono su tutti gli altri elementi della poesia. Il poeta, che non si sente più in grado di esprimere attraverso il linguaggio la sua visione del mondo, si propone di cercare la parola che ha in sé, autonomamente, la capacità di significare, alludere, evocare. Egli fa come da filtro tra le parole e le cose, le mette in relazione e lascia che da questa re­lazione scaturisca un significato.
1. L’«oscurità» è un dato strutturale. Un carattere che appare su­bito evidente nella poesia moderna è la difficoltà di com­prensione che essa presenta. L’oscurità può derivare da una concentrazione dei significati o può essere il risultato della scomparsa del contenuto, quando le suggestioni del suono, le sequenze ritmiche finiscono per sostituire i significati. Ma an­che senza considerare queste estreme esperienze delle avan­guardie, il lettore della poesia moderna si trova di fronte a una poesia nella quale non riesce a isolare un contenuto preciso, alla quale non può accostarsi attraverso lo strumento della parafrasi. Egli deve pertanto accettare l’indetermina­tezza come elemento costitutivo del messaggio poetico.
2. A differenza di quanto accade per la prosa, si possono indi­care per la poesia alcuni momenti fondamentali e alcune ten­denze generali, con la precisazione tuttavia che nel no­stro Novecento ci sono poeti di grande statura la cui voce si differenzia con caratteri originali.
3. A partire dai primi decenni del Novecento la nuova poesia italiana si forma con lo sguardo rivolto alle esperienze stra­niere; le opere di Baudelaire, Mallarmè, Rirnbaud, Valéry di­ventano i punti di riferimento costanti; si può dire insomma che i poeti d’inizio secolo recuperarono i ritardi accumulati dalla nostra letteratura nel corso del secolo precedente.
4. D’Annunzio e Pascoli ebbero una funzione di cerniera tra Ottocento e Novecento ed esercitarono un’importante influenza. Non va nemmeno trascurato l’esempio dei crepusco­lari sia per le scelte tematiche sia per l’intonazione intimistica e sommessa che portarono nella nostra poesia.
5. Una proposta decisamente caratterizzata fu quella dell’avanguardia futurista. Le dichiarazioni programmatiche e teoriche contenute nei manifesti della letteratura futurista, mentre negavano di fatto la possibilità di una narrazione proponendo ad esempio l’abolizione della sintassi, della punteg­giatura, dell’aggettivo, potevano trovare una più efficace rea­lizzazione nel linguaggio poetico. In effetti alcune parole d’ordine dell’avanguardia futurista si ponevano nel solco segnato dalla ricerca della poesia moderna come la proposta del verso libero, della immaginazione senza fili, delle parole in libertà. I crepuscolari oppongono coscientemente ai miti dannunziani la pro­saica, dimessa vita giornaliera e pro­vinciale e tuttavia a questo mondo non riescono ad aderire del tutto: sono troppo letterati e raffinati per non sentirlo di pessimo gusto, dai confini del decadentismo non riescono ad uscire. I futuristi con vi­rulenza iconoclasta predicano la di­struzione dei musei e della tradizione, il ripudio dei formalistici compiaci­menti dannunziani ed esaltano la macchina, la velocità, la violenza e la guerra «sola igiene del mondo». Oltre che l’elemento irrazionalistica, che da qualche decennio è la costante di tanta produzione artistica europea, c’è nel loro caso dell’altro: la collusione con le tendenze naziona­listiche già virulente nel paese, la su­blimazione letteraria di quella ferrea legge di violenza che l’industrialismo portava nei rapporti tra le classi.
6. Fuori da queste due scuole operano poeti che in vario modo partecipano delle inquietudini del tempo e tentano, con differenti risultati, nuove strade. Nella poesia che con più evidenza si coglie già il nuovo: Clemente Rebora e soprattutto, Dino Campana, certamente la voce poetica più originale e più alta di questo periodo, senza i cui Canti orfici non si capirebbero Ungaretti e tutto l’ermetismo.
7. La data della prima raccolta di poesie di Ungaretti Il Porto Sepolto, 1916, ha un valore rilevante nella storia della poesia italiana del Novecento, poiché in questa raccolta si rende concreta il problema centrale della lirica del primo Novecento. Si trattava di accoglie­re l’eredità simbolista, passata attraverso i modelli francesi, e le novità delle sperimentazioni delle avanguardie, e per la stret­ta relazione con una «novità» di contenuto.
Ungaretti sa far com­piere questo passo in avanti alla nostra lirica; ciò che, infatti, va fortemente rilevato, perché costituisce la vera svolta di Porto Sepolto, è l’impiego degli strumenti retorici di natura metrica, sti­listica e sintattica, messi a punto in un arco di esperienze poetiche che vanno da Baudelaire a Pascoli, ai crepuscolari e ai futuristi, per rifondare la parola poetica nella pienezza della sua funzione. Nei versi di Porto Sepolto non vuole più esserci traccia di parodia, sperimentalismo, trasgressione, cioè di quello stimolo di natura so­prattutto polemica e culturale che esprimevano un bisogno di novità, ma anche una «crisi» della poesia. Ungaretti, che pure ha rifatto questa stessa strada, sembra aderire più profondamente alle ragioni fondamentali che hanno determinato la svolta della poe­sia moderna e cerca uno strumento espressivo non incrostato dalla tradizione per ridare profondità, sacralità alla parola. Ri­cerca la parola poetica autentica, «pura», creatrice, capace di ri­velare un frammento del mistero della vita, legandolo a un’e­sperienza circostanziata, colta come un’improvvisa e momenta­nea illuminazione.
Le novità di carattere formale di questa poesia appaiono subito evidenti:
La disgregazione della metrica che, andando al di là dell’adozione del verso libero, da un risalto maggiore alla percezio­ne del verso come frammento (nella poesia di Ungaretti si trova­no versi composti di una sola parola), usando l’a capo, lo spazio bianco della pagina come pausa, come silenzio;
La disarticolazio­ne sintattica che elimina i nessi logici, la punteggiatura;
La co­struzione per analogie, il carattere di frammento, di illuminazio­ne improvvisa di immagine momentanea che racchiudono in un’estrema sintesi il contenuto.
Quello che rimane in una poe­sia di questo tipo è necessariamente enfatizzato, bloccato, fissato in una sorta di isolamento che funziona da moltiplicatore delle possibilità della parola di comunicare dei significati, per farla apparire come rivelazione, mistero. Non si deve tuttavia pensare che questa ricerca di un’intensità di significato, che ca­ratterizza anche le poesie della seconda raccolta Allegria di Nau­fragi (pubblicata nel 1931, e comprensiva delle poesie di Porto Se­polto), sia un recupero sia supera e annulla la crisi di fine secolo.
Il poeta non ha un messaggio esplicito, ha una parola che nasce in lui dalla pienezza di un sentimento morale e dalla ricerca di da­re ad esso un’espressione forte, ed egli la offre nella sua essen­zialità e nudità come illuminazione e frammento, non come discorso.
Nelle raccolte successive Sentimento del tempo (1933), La Terra Promessa (1950), Un grido e Paesaggi (1952) Ungaretti ritorna a un linguaggio più tradizionale, ricupera il verso, la strofa che ospita un andamento sintattico più complesso, propone la ri­cerca di una lingua alta ed elegante.
· Il fenomeno più rilevante nel panorama della lirica italia­na degli anni Trenta e Quaranta è l’affermarsi di modi di concepire e fare poesia che furono riassunti nel nome di ermetismo, una tendenza che ha in sé i caratteri della modernità ed eredita sicuramente molte delle tensioni primonovecentesche verso una poesia pura, espressione di una ricerca di nuovo linguaggio, ma anche di nuovi contenuti.
Il poeta ermetico esprime un’ansia di testimonianza di verità che trova un’espressione indeterminata nel simbolo e nell’analogia, nella tendenza a enfatizzare la parola.
Il termine ermetico cominciò a circo­lare per indicare testi letterari che apparivano chiusi, nel sen­so che la loro comprensione era ostacolata non solo dalla com­plessità dell’argomento, ma dalla volontà dell’autore che ricercava l’oscurità. Il termine fu poi adottato dalla critica per indicare un gruppo di poeti che condividevano alcune idee-gui­da del fare letterario.
1. L’idea della poesia come va­lore che sta al di fuori e al di sopra della storia e del tempo e che quindi può parlare di un Uomo inteso nella sua essenza spiritua­le e non calato in una determinata situazione storica o persona­le
2. La poesia è proposta come testimonianza della verità anch’essa assoluta, che non si deve cioè misurare e con­frontare con gli eventi e con la storia.
3. A quest’idea si associa la ricerca di uno stile alto, l’unico capace di esprimere convenientemente l’ansia di verità e di assoluto.
Ciò non impedisce ai poeti ermetici di porsi compiutamente entro l’alveo della poesia moderna; in particolare essi fanno propria l’esperienza ungarettiana di una parola essenziale, il valore espressivo fondamentale dell’analogia e del simbolo. Per la loro concezione della letteratura come espressione pura e incontami­nata, sottratta da ogni influsso storico e politico, rimasero estra­nei a un coinvolgimento nella politica culturale del regime fasci­sta e sposarono la linea dell’astensione dalla partecipazione alla vita politica e al dibattito ideologico.
Poiché l’ermetismo non fu propriamente una scuola poetica, non tutti i critici concordano sui nomi da far rientrare in questo «contenitore»; tuttavia si può affermare che poeti come Mario Luzi, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Salvatore Quasimodo furono tra i maggiori protagonisti della stagione dell’ermetismo, anche se poi approdarono ad esperienze diverse: in particolare Quasimodo (1901-1968), che aveva pubblicato con successo le raccolte Acque e terre (1930) e Oboe sommerso (1932); dopo il 1945, quando l’ermetismo entra­va in crisi, coniugò il suo impegno di poeta a quello politico e ci­vile, come testimonia la raccolta Giorno dopo giorno (1947).
· Una vena lirica che ricerca la modernità del linguaggio non attraverso la rottura, ma tramite un rapporto nuovo con la classicità, è una linea che si può qualificare con Camillo Sbarbaro e che continua anche in poe­ti della generazione successiva come, ad esempio, in Giorgio Caproni e Sandro Penna.
· Del tutto diverso il cammino poetico di Saba (1883-1957) che ebbe parole di dura critica verso l’ermetismo, la poesia-frammento, la ricerca dell’oscurità. La sua esperienza, resa difficile da una personalità complessa e tormentata, è racchiusa nel Canzoniere, la raccolta delle sue poesie che ci raccontano, con il loro linguaggio per immagini e l’intonazione narrativa, il rap­porto del giovane poeta con Trieste, le difficoltà dell’adolescen­za, l’incontro con la moglie Lina, la nascita della figlia Linuccia, i disagi psicologici, la seconda guerra mondiale, fino all’autoritratto del poeta da vecchio. Mentre tutte le esperienze novecentesche avevano come comune denominatore una sfiducia nella possibilità di trasmettere significati attraverso le parole usuali, organizzate in «discorso», Saba continuò ad avere fede nella parola che comunica, la parola quotidiana o quella della tradizione, immessa in una sequenza narrativa lineare. Ciò non deve far pensare a un poeta passivamente legato alla tradizione, perché Saba è sicuramente «novecentesco» e non soltanto per le temati­che della sua poesia, che manifestano un modo tutto moderno di rapportarsi con la realtà, ma in particolare per la mancanza as­soluta di ogni atteggiamento aulico. L’essere poeta per Saba ha il senso di trasformare in arte una realtà quotidiana, di cose e di sentimenti, che non ammette più l’intonazione alta, elevata e di­stante dal discorso, a volte serio e drammatico a volte gioioso, di un uomo che parla ad altri uomini e ne cerca la comprensione.
Note
[1] Poema paradisiaco (1893) - D’Annunzio elabora una poesia colma di un languore voluttuosamente goduto, celebra ineffabili stati d’animo di convalescenza spirituale e di estenuazione effusi in raffinati paesaggi.
[2] Il libro delle laudi (1903)- E’ composto da vari libri, tra i quali Elettra, Maia, Alcyone, Merope. Elettra è dedicato alla celebrazione degli eroi e risuona tutto di poesia patriottica, da poeta-vate. In Maia il poeta esalta un superomistico ardore di sperimentazione e avventura. In Alcyone il poeta tenta di entrare in comunione con la natura e l’anima delle cose; in esso gli aspetti più esasperati del superuomo, quelli lussuriosi e violenti, sono assenti.
[3] Il piacere (1889) - Nel romanzo il sensualismo diventa lussuria, la disponibilità alle sollecitazioni sensoriali della natura diventa ricerca dell’artificio. Con il protagonista, Andrea Sperelli, D’Annunzio ha creato un mito umano destinato ad arricchirsi di altre caratteristiche: quelle derivanti dall’ideologia del superuomo.
[4] Il trionfo della morte (1894) - In questa opera compare la suggestione del mito del superuomo. Il protagonista è al di fuori di qualunque preoccupazione materiale. E’ presente l’intenzione dannunziana di un riscatto continuo della vita nella scrittura.
[5] Le vergini delle rocce (1895) - Il romanzo è una specie di manifesto politico del superuomo, in quanto il protagonista, Claudio Cantelmo, supera la sua componente d’esteta in quella più ampia di uomo d’azione, disposto a gettarsi nella lotta attiva.
[6] L’innocente (1892) - E’ la storia di una convalescenza spirituale, di un ritorno alla natura e alla campagna degli avi, con la volontà di approdare ad un mondo sentimentale basato sulla rigenerazione e sui buoni sentimenti.
[7] Il fuoco (1900) - In questa opera il mito del superuomo trova la più completa espressione. La trama è pressoché inesistente, la prosa è lirica e musicale. Il tema prevalente è appunto quello del superuomo, che si intreccia con quelli della voluttà e della malinconia.
[8] Il notturno (1921) - E’ scritto durante il periodo di convalescenza da una cecità ed esprime il gusto per i buoni sentimenti, quali la madre e l’infanzia. Rappresenta uno spartiacque tra la prima fase vitalistica e questa successiva del D’Annunzio notturno.
[9] Le faville del Maglio (1900) - Sono prose caratterizzate da una non comune immediatezza e da una naturale semplicità stilistica. Accanto ai ricordi compaiono il pensiero della morte e la malinconia indotta dalla consapevolezza dello svanire delle cose.
[10] Con la Carta del lavoro Mussolini sancisce che la lotta di classe e lo sciopero sono reati; con i Patti lateranensi ab­dica a presupposti fondamentali persino per lo stato liberale; con l’autarchia cede agli interessi dei «padroni del vapore».
[11] In effetti, anche se i primi due romanzi sembrano avere un’impostazione di natura realistica, essi tuttavia svolgono una tematica tutta intimistica relativa al protagonista. Inoltre non è difficile cogliere nei due personaggi (Alfonso Nitti ed Emilio Brentani) un preciso riferimento non solo esterno, ma soprattutto intimo, con la realtà esistenziale dell’Autore. Uno dei maggiori studiosi dello Svevo, Bruno Maier, individua le tappe di questa ricerca: in “Una vita” la ricerca non dà alcun esito positivo e si risolve in una sorta di “presa d’atto” del “conflitto tragico dell’uomo con la realtà” che può risolversi solo col suicidio (cosa che fa Alfonso Nitti non riuscendo a trovare altro modo per venir fuori dall’angoscia del vivere); in “Senilità” si prospetta invece una specie di sotterfugio per resistere e sopravvivere al conflitto con la realtà: quello di eludere il più possibile i problemi reali del vivere civile e crearsi una finzione della realtà più vicina e che maggiormente ci interessa secondo il nostro capriccio: si tratta, insomma, di una vera e propria “evasione simbolica dalla realtà”; I tre romanzi rappresentano lo svolgimento di una coscienza in crisi con la società e con la cultura tradizionale e nello stesso tempo una ricerca di soluzione al problema esistenziale.
[12] «L’unica età dell’oro - scrisse Pampaloni e ben si addice a Svevo - possibile sulla terra è quella dell’uomo che accetta la sua precarietà e il condizionamento della vita. Tolleranza, autocoscienza e ironia sono le vie possibili, a portata di mano, della salvezza».
[13] Pirandello esordì come verista, ma, fin dall’inizio, il suo verismo fu caricaturale e grottesco, mirante a distruggere la realtà più che a rappresentarla. Pirandello già era riuscito ad equilibrare spinte sperimentali e narratività in un romanzo fondamentale come Il fu Mattia Pascal del 1904. Costantemente estranea al suo mondo poetico fu ogni problematica morale ed attraverso le novelle ed i suoi romanzi definì la sua concezione della vita. Anche nei romanzi si riscontra quel particolare umorismo basato sul sentimento del contrario, che consiste in una contemporanea presenza di rappresentazione e di riflessione, su una disposizione dell’artista a vedere, sotto l’orpello delle verità conclamate la sostanziale precarietà, a scomporre i vari momenti della nostra personalità e coglierne le contraddizioni.

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