“Poiché le donne sanno benissimo dare alla luce gli uomini, non c’è da
meravigliarsi che vogliano poter anche creare, con la stessa facilità degli
uomini a partire dalla pittura.”
Giorgio Vasari
Nell’arte occidentale è
difficile parlare di donne pittrici: esse, infatti, sono talenti sconosciuti,
creature silenziose e dimenticate.
Per secoli nascoste tra le
mura della casa o tra quelle di un convento, dedite per lo più alle cosiddette
arti minori come il ricamo, la tessitura, la miniatura, sembra incredibile,
ma è soltanto dal Novecento che il
diritto all’arte è stato esercitato in modo paritario.
Per secoli le donne sono
state ritratte, rappresentate, interpretate, raccontate, rese icone di
bellezza, raffigurate in mille modi possibili, eppure la Storia dell’Arte è
stata per secoli una disciplina essenzialmente maschilista, non solo per quanto
riguardava la produzione, ma anche per quanto riguardava l’intero sistema delle
arti.
Per gli storici, nella
Storia dell’Arte, le donne hanno avuto un ruolo soltanto marginale, prestando
il loro corpo come modelle. Se consideriamo, infatti, le monografie presenti
nelle biblioteche, troveremo Raffaello, Caravaggio, Tiepolo. Non sono mai
mancati e non mancano studiosi che ne esaltano fama e personalità, mentre sono
ancora rare le opere dedicate alle donne artiste e tanto meno alle donne e al
sistema delle arti.
Basterebbe solo questo fra
quello che ci è stato raccontato e quello che è stato scritto, per farci capire
che tutta la Storia dell’Arte che abbiamo letto fino ad oggi è una storia
distorta, soggettiva e parziale. Ogni giorno – da quando ho cominciato questa
ricerca che ha il fascino di un viaggio – scopro qualcosa di nuovo, ma la
scoperta più sorprendente è quanto le artiste siano state numerose.
Assenti dai libri d’arte,
trascurate dai musei, ignorate dal nostro immaginario, le donne hanno
partecipato da sempre alla creazione artistica, sfidando divieti e pregiudizi,
imposizioni e difficoltà, e, compiendo trasgressioni grandi e piccole. Alcune
di loro hanno perfino conosciuto il successo, un grande successo durante la
loro epoca. Eppure la storia ufficiale ha quasi sempre taciuto.
La Storia dell’Arte ci ha
raccontato di tantissimi artisti che hanno lavorato nelle corti delle famiglie
reali di tutt’Europa, di artisti per lo più uomini che si sono distinti per i
loro servigi e per i magnifici ritratti istituzionali che hanno realizzato. Ma
il ruolo delle artiste che hanno operato alle corti dei sovrani è per noi del
tutto sconosciuto: eppure Levina
Teerlinc divenne pittrice della corte dei Tudor, da Enrico VIII alla
grande Elisabetta, e fu retribuita anche meglio di Hans Holbein; Sofonisba Anguissola fu pittrice della corte spagnola di Filippo II
accanto a Juan Pantoja de la Cruz e
Antoon Mor van Dashors; Angelica Kaufmann dipinse per la corte
borbonica di Napoli dove agivano Bonito
e Mengs.
Dopo tanti anni di studi
sull’arte, un quarantennio di studi svolti nelle più varie direzioni, è giunto
per me il momento di riscoprire queste grandi dimenticate della Storia e l’ho
fatto con la pazienza e la meticolosità di un archeologo. E di intraprendere un
viaggio in questo arcipelago che si è fatto sempre più denso e meraviglioso che
mi ha portato a conoscere più profondamente la Storia dell’Arte stessa.
Parlare delle artiste è
servito a dare un giusto e dovuto contributo ed una pari
dignità, sempre negata alla donna nel campo artistico come altrove, e ad
offrire l’omaggio della memoria a tante creature che hanno scolpito, dipinto
senza che di loro, però si possano trovare più tracce nei manuali scolastici
eccetto le abusate Artemisia Gentileschi, Rosalba Carriera e Frida Kahlo.
Lo farò come in un racconto,
un racconto di vite, scegliendo le opere che ho ritenuto più significative e
nel contempo più accessibili per i miei modesti mezzi, a partire dal Medioevo.
Epoca povera di diari e di
storie di vita di donne[1],
il Medioevo diventa ancora più impenetrabile quando si cerca di tracciare una
storia della condizione delle donne dotate di sensibilità artistica e di
spessore culturale: le donne, che per status erano soggette ad una costante
potestas maschile, hanno lasciato poche e flebili tracce materiali.
Eppure alcune studiose[2],
come Régine Pernoud, hanno sostenuto che le donne medioevali vivessero una
condizione di assoluta parità con gli uomini: grandi regine governarono con lo
stesso potere dei re, molte potenti nobildonne e molte badesse amministravano
territori enormi al pari dei loro corrispettivi maschili. È tuttavia opportuno
ricordare che l'interesse della Pernoud per la storia delle donne si è
sviluppato soprattutto verso la parte cristiano-germanica del Medioevo, quando
la società era molto semplificata, e in questo senso la donna dell'alto
Medioevo è stata soltanto un'ampia parentesi fra due mondi, quello antico e
quello moderno, entrambi estremamente discriminatori nei confronti della donna,
e questo anche nell’ambito artistico. Solo nel mondo altomedievale, quindi,
emerge il tipo protocristiano della mulier virilis che supera, con
l'aiuto della grazia, i limiti della propria natura quindi, nel peccato (Eva)
come nella virtù (Maria), e ci appare pertanto una donna forte, padrona di sé,
una pari, non una sottoposta.
Le cose cambiarono con la lenta ma costante ascesa dei ceti cittadini e borghesi verso il potere – prima economico, poi amministrativo e infine politico. La posizione della donna nella società subì un arretramento lento, tortuoso, ma incessante che portò fino all’eterna minorenne donna dell'Ottocento. Ma questo sarà oggetto di un altro racconto.
Le cose cambiarono con la lenta ma costante ascesa dei ceti cittadini e borghesi verso il potere – prima economico, poi amministrativo e infine politico. La posizione della donna nella società subì un arretramento lento, tortuoso, ma incessante che portò fino all’eterna minorenne donna dell'Ottocento. Ma questo sarà oggetto di un altro racconto.
La figura della donna
artista nacque già nei monasteri altomedioevali: l’esigenza di possedere testi
di preghiera, di decorare la propria chiesa, di badare al mantenimento del
monastero, producendo oggetti destinati a un mercato esterno, spinse le monache
alla pratica artistica.
Tra le famiglie
aristocratiche più illustri ed illuminate vigeva l’uso di mandare le figlie in
convento non solo per pronunciare i voti, ma anche talvolta solamente per
ricevere una preparazione culturale e artistica rivolta all’armonia di una
corte signorile.
Paradossalmente per il
pensiero dell’epoca, proprio quest’usanza permise la diffusione di molte
attività artistiche e intellettuali anche fra le laiche: dalle mani delle
monache e pian piano da quelle delle loro educande nacquero tessuti, stole,
paramenti, gonfaloni e arazzi d’uso ecclesiastico e gradatamente anche profani.
Furono questi manufatti che, sebbene siano stati considerati sempre solo per la
Storia delle arti minori, crearono i
presupposti per la pittura femminile rinascimentale.
Al pari delle abbazie
maschili, negli scriptoria delle
abbazie femminili, perché esistevano scriptoria
anche nelle abbazie femminili, monache colte e dotate di capacità di
disegno e di pittura, oltre che di notevole inventiva, si dedicavano all’arte
della scrittura, della decorazione, della copiatura e del disegno, per
illustrare libri devozionali con raffinate miniature e splendide iniziali
figurate, lasciando preziosi manoscritti miniati a testimonianza della loro
creatività.
Tra l’VIII e il IX secolo, illustri
badesse dirigevano i banchi dove si miniavano e si copiavano i manoscritti: per
esempio nel monastero femminile di Chelles, retto dalla badessa Gisella (757 – 810), sorella di Carlo
Magno, furono prodotti tredici manoscritti miniati, a loro volta firmati da
nove donne scribi, mentre Gisella supervisionava i lavori dello sciptorium, uno dei più importanti e
fecondi del tempo. Ci sono inoltre alcuni riferimenti a una miniatrice, come
risulta da un testo datato nell'anno 735 di San Bonifacio che ringraziava Eadberga, badessa del monastero di
Thanet, per il dono dei libri spirituali, sollecitando altre copie.
Pregiati manoscritti
decorati dell’epoca, giunti fino a noi, testimoniano l’intensa attività e la
notevole creatività delle monache: essi sono documenti di vita, di fede e di
fantasia, consegnati all’eternità da donne che, tra le spesse e impenetrabili
mura dei monasteri, hanno valorizzato se stesse e smantellato in silenzio
barriere sociali e culturali apparentemente insormontabili.
Dal buio dei secoli
dell’alto Medioevo emerge dall’anonimato il nome di Ende, una delle più antiche pittrici identificabili nella Storia
dell'Arte occidentale.
Il manoscritto fu realizzato
dal monaco minatore Emeterius, vissuto nel X secolo nel nello scriptorium del monastero di San Salvador di Tábara, nel regno di
León. Era un monastero importante, sotto la protezione reale, di oltre seicento
religiosi di entrambi i sessi che possedeva una grande biblioteca e un corpo
scelto di copisti. Emeterius fu coadiuvato da Ende che, con le sue immagini fantastiche di draghi, di angeli, di
demoni e di santi, contribuì ad illustrare il più bello dei codici del Commento all’Apocalisse, un testo che era stato redatto tra il 776 e il 786
dal monaco Beato de Liébana da cui derivarono diverse copie miniate, conosciute come Beatus o Beato.
Questo codice, oggi custodito
nella Cattedrale di Girona in Catalogna, è considerato il più importante codice
spagnolo del X secolo ed è noto come il Beato
di Girona. Esistono poche e insicure notizie su come questo codice
sia apparso nella Cattedrale di Girona. Si può ipotizzare che l'invio di codici
in aree più sicure fosse comune, tanto più che il monastero di San Salvador de
Tábara fu raso al suolo nel 988 da Almanzor, reggente del califfo
omayyade di al-Andalus, che certamente non era a conoscenza
dell'Alleanza delle civiltà e del carattere fondamentalmente pacifico
dell'Islam. Sembra possibile che il codice fosse pervenuto prima di tale data a
un monastero catalano in uno scambio di manoscritti, molto comune in quel
periodo, e che esso rimase nella sua nuova ubicazione fino a quando nel 1078 fu
donato alla cattedrale di Girona, attraverso un lascito testamentario.
Si tratta di un codice
membranaceo di 284 fogli commissionato dall'Abate Domingo redatto in scrittura
visigotica, su bifolio di buona pergamena di vitello. Il nome dello
scrivano che si è occupato della trascrizione del testo del Beatus di
Girona, dove risulta Senior presbiter scripsit, della miniatrice: En depintrix et Dei aiutrix. Frater Emeterius et presbiter, che si
traduce En pittrice e aiutante di Dio. Frate Emeterio, presbitero.
Dunque Ende fu assistita dal
suo compagno Emeterius nella preparazione del Beato.
Non sappiamo gran che su
Ende se non che fosse particolarmente stimata, poiché il suo nome compare in
fondo alla pagina, prima di quelli degli altri che avevano collaborato
alla sua realizzazione.
Forse Ende era una monaca o,
secondo un’affascinante ipotesi, potrebbe essere stata una nobildonna,
probabilmente del Leon o della Galizia, forse vedova o forse rimasta senza
eredi, che avrebbe deciso di dedicarsi a quel libro non solo come artista ed
esecutrice, ma anche come committente, assicurando all’abate di Tábara le
considerevoli risorse necessarie per realizzarlo.
Seducente e romantica
ipotesi, ma ci sono validi motivi per ritenere che un manoscritto della
dimensione del Beato di Girona, per l'alta qualità e per la padronanza
iconografica, implica che Ende si sia formata in un monastero che, oltre allo scriptorium, doveva possedere un'ampia biblioteca che aveva fornito ad Ende le
conoscenze iconografiche che mise a frutto in questo importante manoscritto.
Ende, che si definisce
una pittrice e servitrice di Dio e che afferma la paternità delle sue opere, forse poteva aver condotto, senza
prendere i voti una vita ritirata nel monastero e si può supporre che la sua
abilità e padronanza con i pennelli fossero annotate nel libro paga dello scriptorium.
L’iscrizione rivendica in
modo chiaro l’autorialità dell’opera per una donna che è una pittrice, che è
pienamente consapevole della sua funzione e che è anche consapevole della sua
importanza.
Con le illustrazioni
del Beato, Ende lascia passare, attraverso la sua persona, il divino e il sacro, che prendono corpo nella pergamena,
nelle immagini che accompagnano il testo e che sono un altro testo che si fa
leggere per se stesso e rende conto della trascendenza divina che c’è in
ciascuno di noi.
In questo senso
interpretiamo le parole Dei aiutrix, aiutante di Dio nel senso che
attraverso di sé ci trasmette il divino, ci avvicina con le immagini alla
storia della trascendenza in terra e ci mostra ciò che dobbiamo fare – secondo
il testo – per arrivare alla vera trascendenza con Dio alla fine dei tempi.
E lo fa da donna, per questo
le illustrazioni del Beato di Girona sono
diverse da quelle di altri Beati attribuiti a miniatori uomini.
Il Beato di Girona è il più
ricco di miniature, il più ricco quanto a tavolozza di colori utilizzati, ed è
anche particolare nell’interpretazione che la pittrice fa di alcune scene e
paesaggi.
Decorato a tutta pagina,
esso è uno dei manoscritti pittoricamente più ricchi ed interessanti di tutta
l'iconografia medievale spagnola. Si distingue non solo per l'alta qualità, per
il senso decorativo mostrato dai suoi miniatori e per il gran numero di pagine
minate – ne contiene ben 115 –, ma anche per la sua conoscenza delle fonti che
comprendono nuovi temi iconografici, ignoti ai manoscritti precedenti, e la sua
ricerca di nuove forme di espressione che, pur riflettendo tutte le influenze
già abituali nella miniatura spagnola del secolo X, di origini diverse come
visigote, sassanidi, nordafricane e soprattutto carolinge e musulmana, già
annuncia l'arte romanica.
La bellezza dei colori dai
violenti contrasti cromatici, la sacralità data dalla fissità dei volti e il
panneggio delle vesti preludono già a forme romaniche ed evidenziano
l’espressionismo tipico dell’arte mozarabica, nata dall’incontro felice in
Spagna della cultura cristiana con quella musulmana.
La storiografia critica fa
notare che la caratteristica fondamentale di questa miniatura è
l’antinaturalismo che nasce dalla confluenza di diverse vie di rappresentazione
e di diverse iconografie, che si combinano in un linguaggio molto personale ed
estraneo alle forme occidentali fino ad allora conosciute.
Nella Crocifissione l'originalità dell'artista, la sua energia e la sua
passione erompono dal tema iconografico già altamente codificato con la
frontalità, l’indicazione nominale dei personaggi, la vivacità dei colori e i
tentativi di prospettiva che lo fanno risaltare per la forza di ciò che
riproduce.
A destra del Crocifisso c'è
il buon ladrone, con l'angelo che lo assiste, a sinistra c'è il cattivo
ladrone, con il demone pronto a prendere la sua anima.
Il cattivo ladrone non
assomiglia al tipo a abituale: questo ladro potrebbe essere una ladra, perché
ha seni e capezzoli molto visibili e la sua faccia ricorda più la Grande
Prostituta che monta la bestia rossa dell'Apocalisse che quella di un volgare
delinquente non redento. La femminilizzazione di questo personaggio rimanda
alla concezione della donna che nell’immaginario collettivo di allora era il
simbolo stesso del peccato e della tentazione, con l'eccezione, come
contrappunto necessario, della Vergine e delle donne sante.
Nella sua struttura la
Crocifissione ha una volontà di simmetria duale, ma antagonistica nei suoi
elementi costitutivi: il Bene da una parte, il Male dall'altra, con l’asse
centrale di Cristo, completamente frontale. Zampilli paralleli di sangue
fluiscono da entrambi i piedi, convergendo in un doppio calice rovesciato.
Luogo e personaggi sono meticolosamente storicizzati con i loro nomi.
Disegno, colori ed
espressionismo rendono le immagini dei veri capolavori di un’opera in cui Ende
poteva considerarsi aiutante di Dio e, nello stesso tempo, in quel 6 giugno del
975, dava alla Storia dell’Arte la sua prima protagonista.
La suora Ende rimane con noi
nella sua arte, nella sua personalità e nel suo tavolo di lavoro. Per una
completezza di temi e un desiderio di colore indifferente alla possibile scomparsa del mondo che vedeva, al riparo dell'unico
luogo in cui una donna poteva esercitare il suo genio personale, innovativo e
audace, e senza saperlo, trasmettitore e testimone di un'epoca e di alcune
inquietudini che hanno continuato a fluire, in varie forme, fino ad oggi, dai
suoi pennelli.
Come in ogni altra epoca
anche le donne medievali dedicavano parte della loro vita a filare, a tessere e
a ricamare: questo era un lavoro non solo utile, ma anche creativo e dalle loro
mani potevano uscire autentiche opere d’arte, specialmente se si trattava di
tessuti dedicati ai paramenti liturgici, agli ornamenti delle chiese o ai
corredi funerari di personaggi di rilievo.
La maggior parte delle
maestre del ricamo che hanno lavorato i magnifici capi che si sono conservati
fino ai nostri giorni, erano donne: infatti, i corredi delle chiese e i
paramenti sacri continuano ad essere realizzati da donne, religiose o laiche.
Per lo più queste opere sono
anonime, ma si può congetturare che tutte siano uscite da mani femminili.
I migliori ricami
preromanici che si sono conservati riportano il nome di qualche donna, come il
cosiddetto ricamo della contessa Guisla,
conservato nell’abazia di Sant Martí del Canigó, una tovaglia d’altare
databile all’XI secolo. Nella cattedrale di Vic è documentata l’esistenza,
agli inizi dell’XI secolo, di Guisla - sposata con Guilbert - e di sua figlia
Alba; madre e figlia si definiscono grammatiche e che scrivono
alcuni documenti.
Alcune artiste del ricamo
vollero lasciare il loro nome alla storia. In Catalogna sono conservate due
memorabili opere ricamate firmate da donne: la cosiddetta Stola di San Narciso, tessuta e ricamata da Maria, e L’insegna o
stendardo di San Ottone, di Elisava.
Nella Chiesa di Sant Feliu, sempre a Girona, si conserva una stola
magnificamente tessuta e ricamata, nota come La stola di San Narciso: alcuni termini individuano come autrice
del lavoro Maria, nota come la squisita ricamatrice,
quasi certamente badessa del monastero di Girona, vissuta alla fine del X
secolo.
È stato possibile
identificare la ricamatrice Maria con la badessa María di Santa Maria de les Puelles di Girona. Di questo antico
monastero esistono poche informazioni. Sappiamo che la viscontessa di Narbona,
Riquilda, figlia dei conti di Barcellona, nel suo testamento, lasciò parte
dei beni perché il vescovo di Girona costruisse entro due anni un monastero
davanti alla città, in onore di Santa Maria; che il conte Borrell II, suo
cugino primo, nel testamento faceva donazione di alcuni beni allodiali
alla casa di Santa Maria de les Puelles di Girona, che nel 992 aveva una
comunità femminile.
Degli avvenimenti di questo
monastero restano poche tracce, dunque questa comunità di monache sarebbe stata
completamente dimenticata, se una lapide sepolcrale della fine del X secolo non
ci permettesse di identificare una religiosa che voleva essere ricordata, come
se lei e le sue compagne temessero che il silenzio del tempo portasse via per
sempre il suo ricordo. Sul sepolcro si parla di ricordo e di memoria: «Maria di venerata memoria, che si è
impegnata ogni giorno della sua vita in sante opere e nei comandamenti;
costante nelle elemosine, molto devota alle memorie e alle preghiere dei santi,
custodendo con grandissima cura la regola del monastero, rimane nella verginità
di Dio.»
Maria voleva lasciare
traccia di sé e lo fece come sapeva: nella parrocchia di Sant Feliu di Girona
si conserva una stola magnificamente tessuta e ricamata, conosciuta come “la stola di San Narciso”, sulla quale
appaiono delle parole che identificano Maria come l’autrice del lavoro. Sono
state fatte diverse ipotesi sulla datazione del ricamo e del tessuto della
stola. È un’opera di grande bellezza anche se in parte logorata dal tempo: a
una delle estremità c’è San Lorenzo, oggi molto malconcio, nell’altra
il Battesimo di Cristo, e in mezzo
l’immagine della Madre di Dio e in mezzo c’è quello che consideriamo il più bel
ricamo, con l’immagine della Madonna con il vestito dorato con la frase Santa Maria ora pro nobis.
Quest’opera ha suscitato
diverse ipotesi. La più convincente ed interessante è quella pubblicata
da Manuel Mundó i Marcet, che
identifica l’artista sia del telaio sia del ricamo con la badessa Maria citata
nella lapide sepolcrale, cioè con un’artista della fine del X secolo.
Secondo lo storico catalano Maria
avrebbe eseguito la stola per il nuovo sepolcro di San Feliu, i cui resti erano
stati riesumati nel 984 dal vescovo Miró
Bonfill. Con la stola avrebbe esaudito il suo desiderio di essere ricordata
e con la firma avrebbe dato validità a quanto si dice nell'epitaffio Ha lottato con le opere sante e la devozione
al ricordo dei santi così che la stola fu lavorata da Maria sicuramente
per la nuova tomba di Sant Feliu.
Con la stola, Maria ha
realizzato il desiderio di essere ricordata, firmando il lavoro e questo è
avvalorato da ciò che si dice nell’epitaffio, impegnata in sante opere e nella devozione alla memoria dei santi.
Dunque la stola fu prodotta da Maria forse per il nuovo sepolcro di Sant Feliu,
costruito all’epoca del vescovo Miró Bonfill, morto nel 984, o per quello di
San Narciso, con cui popolarmente si identifica la stola.
Il lavoro della monaca
artista non è solo di grande bellezza, ma mostra anche una notevole istruzione.
Tra le frasi che si possono leggere nel tessuto c’è un frammento appartenente
alle Laudi che si cantavano
all’incoronazione dei re Carolingi. Inoltre contiene la benedizione episcopale
che si impartiva alla fine della messa.
Una delle frasi del tessuto
che orla la stola: «[Ricorda,] amico,
Maria mi fece, chi porterà questa stola su di sé, interceda per me affinché Dio
mi aiuti». Maria voleva essere ricordata, era consapevole di aver fatto un
lavoro elaborato e bello. Sarebbe anche da commentare la parola amice, l’espressione del sentimento
dell’amicizia usata al vocativo, che ci sembra tanto grafico, con cui questa
donna del X secolo si rivolgeva affettuosamente a chi avrebbe portato la stola,
e chi più di mille anni dopo la contempla.
Quando nel 1018 la contessa Ermesenda fondò il monastero di Sant Daniel di Girona non restava
più traccia dell’antico monastero femminile di Santa Maria; è come se la
preoccupazione di Maria di non essere dimenticata avesse avuto un fondamento,
come se lei avesse saputo che la sua comunità aveva i giorni contati.
A parte le lettere che
adornano, su tessuto rosso, il contorno della stola, in mezzo e alle due
estremità figurano dei magnifici ricami a colori forti e caldi, alcuni fatti in
filo d’oro.
Il ricamo di Maria non è
l’unica opera d’arte firmata da una donna: Eliseva firmò il cosiddetto stendardo di San Ottone,
che, proveniente dalla Cattedrale di
Urgell, si conserva oggi presso il Museo
dell’abbigliamento di Barcellona.
Qualche storico dell’arte
considera Elisava una committente dell’opera, ma la netta affermazione Elisava me fecit si riferisce al
lavoro reale, non al pagamento o al patrocinio dell’opera.
Lo stendardo, ricamato in
toni rossicci e dorati di seta su un tessuto di lino è databile intorno al XII
secolo. L’opera è incentrata sulla figura del Santissimo Salvatore dentro la
mandorla mistica, circondata dai simboli degli evangelisti e ornata da un bordo
di motivi vegetali. Dallo stendardo pendono tre strisce della medesima stoffa,
anch’esse ricamate con figure oranti od offerenti, che sono evidenti figure
femminili.
Tra queste opere di mano
femminile e in questo caso forse laica, è notevole il cosiddetto «arazzo» di
Bayeux.
Più che di un arazzo si
tratta di un ricamo ad ago su una striscia di lino grezzo beige, eseguito con
lane di otto colori diversi: blu scuro e chiaro, rosso, giallo, verde scuro e
chiaro, nero e caffelatte.
L’opera, più che ricordare,
celebra lo sbarco in Inghilterra di Guglielmo il Conquistatore e la conquista
dell'Inghilterra da parte dei Normanni.
L’«arazzo» si innesta nella
stessa atmosfera cavalleresca in cui fu scritta la Chanson de Roland, composta verso 1070 e, dal punto di vista
artistico, si relaziona allo stile romanico: degli stessi anni sono, infatti, in
architettura la Basilica Saint-Sernin di Tolosa – la cui la costruzione cominciò nel 1080 – e in pittura gli
affreschi dell’abbazia de Saint-Savin-sur-Gartempe,
realizzati fra il 1040 e il 1090 (http://decouverte.inventaire.poitou-charentes.fr/monuments-romans/saint-savin/virtualtour.html).
La tradizione vuole che l’«arazzo»
sia stato realizzato dalla regina Mathilde
d’Inghilterra, moglie di Guglielmo, nel 1066 dopo la battaglia di
Hastings.
Considerando però che l’«arazzo»
è lungo quasi settanta metri per un’altezza di cinquanta centimetri, che
contiene oltre seicento figure e più di settecento animali e che Matilde morì
nel 1067, non può essere considerato mano di una sola persona.
Il ricamo fu realizzato tra
il 1066 e il 1077 e ora è esposto a Bayeux in un museo ad esso dedicato.
Legato all’artigianato
tessile, l’«arazzo» di Bayeux è un tessuto composto di nove pezze di lino di
diversa lunghezza: il ricamo è stato eseguito con filati tinti con pigmenti
naturali. Quasi sicuramente fu realizzato su richiesta di Odone, fratello di
Guglielmo il Conquistatore e vescovo di Bayeux, per adornare la navata della
Cattedrale di Bayeux che fu completata nel 1077 e si pensa che le autrici di
questo lavoro fossero ricamatrici anglosassoni che lo eseguirono in una bottega
inglese, probabilmente di Canterbury.
Nell’«arazzo» si rintracciano
varie influenze sia stilistiche sia iconografiche. L’opera si deve infatti inserire
nella produzione tessile soprattutto nelle isole britanniche, dove questo tipo
di supporto era particolarmente apprezzato. Inoltre il suo stile è riferibile alla
produzione miniaturistica dell'isola: influenze antiche e carolinge si trovano,
infatti, nella separazione arborea [3]
di ogni scena e questo stesso tipo di struttura era usato anche negli scriptoria anglo-sassoni, per gli
influssi dell'arte continentale del X secolo. Questa particolarità avvalora anche
l’ipotesi che questo ricamo provenga dal sud dell'Inghilterra, dove l’influsso europeo
era stato più visibile. L'influenza dei centri letterari come Canterbury,
attraverso l'uso di questa composizione in scene successive, ma anche nella
disposizione dei personaggi e nell'uso degli alberi contorti come separazione,
si può osservare anche nel Vangelo di
Sant'Agostino di Canterbury, conservato al Corpus Christi College di Cambridge.
Nell’«arazzo» di Bayeux non
vanno neppure taciute le influenze celtiche e quelle scandinave: in alcune
opere come nel Salterio di Winchcombe,
oggi presso la Biblioteca dell'Università
di Cambridge) notiamo l'uso di ornamenti di ricamo adoperati come decorazioni
nei bordi e nelle barche, ma anche gli alberi contorti e l'uso di caratteri
grafici e schemi di disegni simili. L'influenza normanna si sente nella storia
che il ricamo racconta, ma anche nei dettagli dell’abbigliamento, nella
rappresentazione delle opere architettoniche, in particolare nel nuovo castello
di Hastings e nei segni di distinzione tra i diversi popoli
coinvolti nella vicenda. I francesi sono sempre rappresentati con i capelli
corti rasati sulla nuca, principalmente a cavallo, per mostrare la loro
superiorità, mentre gli inglesi sono rappresentati pelosi con i baffi, per lo
più come semplici fantaccini.
Recenti studi hanno oggi ipotizzato
che il lavoro sia stato eseguito da ricamatrici normanne che lavoravano nelle
vicinanze di Bayeux, ma non esistono prove convincenti su questa seconda
ipotesi.
La storia è suddivisa in cinquantotto
scene – mancano le due scene finali, non si sa per quale motivo – con didascalie
in latino che si leggono come una lunghissima frase: il soggetto di ogni scena
è indicato da una breve iscrizione in latino. Mancando della parte conclusiva, si
può presumere che inizialmente contasse qualche metro in più.
Le scene storiche occupano
un'altezza di soli 33 cm, sopra e sotto ci sono due fregi che rappresentano
leoni, uccelli, cammelli, minotauri, draghi, sfingi, poi alcune favole esopiche
o moraleggianti, e ancora scene di vita contadina, di caccia e piccole scene di
vita quotidiana, un poco come nei capitelli romanici in cui erano scolpiti
animali veri o fantastici e scene di vita, costruiti secondo un ordine
rigoroso, per raffigurare le emozioni e il dinamismo della vita. Alla fine del
ricamo, però, nella parte inferiore del fregio, i corpi di uomini o animali
caduti sostituiscono gli animali del resto del fregio.
La composizione è strutturalmente
ben equilibrata: ciascuno dei tre personaggi principali occupa un posto
speciale nella narrazione. Re Edoardo appare in prima posizione, Harold,
quindi, è nel mezzo e, infine, secondo la testimonianza di Baudri de
Bourgueil, Guglielmo occupa l'ultima immagine.
Il disegno delle figure è
ancora molto semplice, rudimentale, ruvido e sembra che non sia stata prestata
molta attenzione al realismo dei colori degli oggetti rappresentati, infatti,
si possono vedere cavalli verdi o rossi. Ciò è dovuto alla natura stessa dei
materiali utilizzati – lana e lino grezzi – che impediscono effetti di ombra, eppure,
i colori puri sono giustapposti in modo che i colori siano sempre armoniosi. I
personaggi non sono riconoscibili dai loro tratti fisici e solo il testo latino
sovrastante permette di identificarli: nella stessa scena, infatti, lo stesso personaggio
può essere rappresentato più volte in modo diverso. Le proporzioni non sono
rispettate, non c'è rappresentazione della profondità, le piante sono
stilizzate e il paesaggio è indicato solo da pochi tratti.
Così l'arte cristiana cominciava
ad eludere il divieto biblico di fare rappresentazioni realistiche, adottando
un tipo di raffigurazione stilizzata, talvolta schematica, della realtà.
In ogni caso la composizione
è sempre resa con una grande espressività e tutto il ricamo è caratterizzato da
una spasmodica ricerca di movimento: le scene sono molto animate, come per
esempio durante l'imbarco degli uomini o nelle scene di battaglia o di caccia.
Indipendentemente però dal
suo intrinseco valore artistico, l’«arazzo», oltre ad essere uno dei rari esempi
di arte laica in questo periodo, è un documento unico nel suo genere, infatti,
è una cospicua fonte storica che ci documenta su armamenti, flotte, metodi di
combattimento, e aspetti di vita civile come scene di banchetti, sepolture,
caccia col falcone.
Nessun’opera, paragonabile a
questa, è sopravvissuta nel corso dei secoli.
La sua realizzazione richiese
almeno due anni e fu prodotta come opera didascalica e propagandistica elevata
alla gloria di Guglielmo il Conquistatore.
Nell’antefatto del racconto,
il duca Guglielmo di Normandia era stato nominato successore da suo cugino Edoardo il Confessore
(1042-1066), re d'Inghilterra [4].
Essendo re Edoardo un filo normanno, aveva nominato Guglielmo come suo
successore durante la sua visita nel 1051. Il racconto del ricamo inizia invece
con il viaggio del conte Harold
Godwinson in Normandia intorno al 1064: Edoardo il Confessore, sentendo
prossima la sua fine, inviò infatti suo cognato Harold Godwinson, il più
potente dei suoi parenti, ad attraversare la Manica per confermare a Guglielmo,
duca di Normandia, che sarebbe stato lui il suo successore al trono
d'Inghilterra.
Harold, falcone in mano, si
reca sulla costa preceduto dalla sua muta di cani per imbarcarsi in Normandia.
(scena 1)
(scena 1)
Durante il suo viaggio, però,
Harold fu fatto prigioniero da “Gui de Ponthieu”. Guglielmo lo liberò, ma, per
provare il suo valore nel combattimento, lo portò con sé in una campagna condotta
contro Conan il duca di Bretagna, nel corso della quale furono prese Rennes e
Dinan. Tornato in Normandia, Guglielmo nominò cavaliere Harold e fece prestare
giuramento al suo nuovo signore sulle preziose reliquie di Bayeux.
Questo atto fu un
colpo d’astuzia politica di Guglielmo: se un giorno Harold fosse insorto
contro Guglielmo, sarebbe stato sempre più falso il giuramento davanti alla
Chiesa e quindi davanti a Dio, crimine abominevole in quel momento storico.
(scena 12)
(scena 12)
Fra il 5 e il 6 gennaio
1066, Edoardo il Confessore morì e, siccome il trono inglese era elettivo, la witan – una sorta di assemblea dei grandi elettori del regno che si riuniva
per scegliere un nuovo re – sostenuta dalla nobiltà anglosassone e dalle
autorità religiose, scelse come re Harold che divenne Harold II d'Inghilterra.
L'incoronazione avvenne il 6 gennaio 1066 con tutta la pompa necessaria: con l’appoggio della Chiesa, Harold ricevette la spada e lo
scettro, simboli del suo nuovo potere.
La cerimonia si svolse
all'Abbazia di Westminster e l'ufficio fu celebrato dall'Arcivescovo di
Canterbury. Tuttavia, durante l’incoronazione di Harold comparve la cometa di
Halley, un presagio portentoso, segno di disgrazia per Harold, che annunciava,
secondo la mentalità del tempo, che qualcosa di negativo stesse per accadere
(scena 15).
(scena 15).
Altri due uomini, infatti,
rivendicavano il trono: Harald II il Severo, re di Norvegia e Guglielmo, Duca
di Normandia.
Harald invase il nord
dell'Inghilterra, ma il re riuscì a sconfiggere il suo esercito. Poco prima, anche
Guglielmo era sbarcato nel sud dell'Inghilterra, infatti, quando capì di essere
stato raggirato, si preparò per l'invasione (scene dal 35 al 37) e attraversò
il Mare del Nord.
(scena 38)
(scena 38)
Giunto in Inghilterra Guglielmo
si stabilì nei dintorni di Hastings.
(scene dalla 39 alla 48).
(scene dalla 39 alla 48).
Gli esploratori normanni annunciarono
l'arrivo di Harold (scene 49 e 50) e seguì la battaglia di Hastings il 14
ottobre da cui Guglielmo riuscì vittorioso (scene dal 51 al 58).
All’«arazzo» mancano come si
è detto, pochi metri, ma è certo che il poeta Baudri de Bourgueil abbia fatto
una descrizione della parte mancante in una delle sue opere: nella camera da
letto di Adele, la figlia di Guglielmo era distesa una fascia di ricamo che il
poeta descrisse. Queste scene corrispondono a ciò raffigura la tela di Bayeux e
il pezzo mancante, rappresenta la presa di una città, forse Londra, e
l'incoronazione di Guglielmo.
L’«arazzo» è un'opera figlia
del suo tempo: siamo un po’ oltre il 1066 in un periodo in cui la popolazione
era per lo più analfabeta e le immagini, tranne all'interno delle chiese e dei
grandi monumenti religiosi, erano piuttosto rare, pertanto questo ricamo fu
un'opera di propaganda che voleva mettere in evidenza le figure di Guglielmo e
di suo fratello Odone e raccontare le ragioni normanne dello sbarco e della
conquista del regno anglosassone. È un'opera di propaganda che ha prodotto un
messaggio politico utile a legittimare la conquista dell'Inghilterra da parte
di Guglielmo, un regno che all'epoca poteva essere rivendicato anche da altre
potenze come la Danimarca e la Norvegia, che si erano installate nelle isole britanniche
fin dal IX secolo.
Sebbene il ricamo fosse
esposto ogni anno nella cattedrale di Bayeux durante la festa della Dedica della
chiesa ai santi, per ricordare che essi avevano abbandonato Harold dopo che li
aveva traditi, le sue dimensioni insolite e la forma in cui è presentato
indicano che il ricamo avrebbe dovuto essere facilmente trasportato o che
avrebbe potuto essere collocato in luoghi diversi per essere mostrato in tutti i castelli di quel tempo che ospitavano le
riunioni dei grandi e dei potenti del regno.
L’«arazzo» era dunque
un'opera di propaganda e, come tale, era destinato a persone che dovevano
essere convinte di qualcosa: questa tela pertanto spiegava e commentava, scena
dopo scena alla nobiltà inglese l'indegnità di Harold e la legittimità del
vincitore. L’opera ha in sé, come ogni opera di propaganda, intenti
moraleggianti poiché da una parte c'è Guglielmo il Conquistatore che
rappresenta il bene, dall’altra c’è Harold, una figura malvagia, infida e
sleale. Per farlo intendere più chiaramente il ricamo contrappone in maniera
manichea i buoni, vale a dire, i Normanni e Guglielmo, rispettosi
della volontà del defunto re, ed i cattivi Harold ed i suoi amici
considerati empi: durante la sua incoronazione, Harold è consacrato infatti
dall'arcivescovo Stigant, che era stato precedentemente scomunicato dal papa. Harold
è rappresentato sempre con un brutto atteggiamento: è fatto prigioniero
all'inizio, è cupo quando fa il suo rapporto ad Edoardo, la sua incoronazione è
inoltre segnata dal passaggio della cometa che è un segno inquietante e infine è
ucciso nella battaglia di Hastings.
Secondo la mentalità
medievale, una battaglia era un giudizio di Dio e di conseguenza, la sconfitta
e la morte di Harold ad Hastings sono solo la giusta punizione di Dio, che la
cometa aveva annunciato: gli eserciti inglese e normanno si erano scontrati in
una battaglia in cui Harold era morto secondo la leggenda colpito negli occhi
da una freccia.
Guglielmo, Duca di Normandia
fu incoronato re d'Inghilterra il giorno di Natale 1066.
Ma tutto questo non era
stato solo un gioco da tavolo, una partita di Risiko [5]:
la conquista del regno anglosassone servì anche come transizione tra i due
diversi regni, e non soltanto per un cambio dinastico, dalla monarchia
anglosassone a quella normanna, ma soprattutto per un profondo cambiamento di
cultura e di struttura politica[6].
Per quest’ultimo motivo il
ricamo doveva necessariamente avere un intento propagandistico per trasmettere
un messaggio secondo i punti di vista politico e religioso, a seconda del
committente e del destinatario a cui era indirizzato.
Se ipotizziamo che sia stato
il vescovo di Bayeux il committente del ricamo, questi avrebbe voluto fosse
raccontata la storia di uno spergiuro, quella di Harold: quest'ultimo, infatti,
aveva giurato sulle reliquie dei santi di Bayeux e in seguito aveva tradito il
giuramento, usurpando il titolo di re d'Inghilterra.
Ma anche se ipotizziamo che
sia stato Guglielmo il committente, questi avrebbe voluto mostrare che Harold,
con il suo tradimento, aveva offeso Dio e i santi, pertanto l'opera doveva
legittimare, di fronte ai nobili inglesi, il potere di Guglielmo, vero re
d'Inghilterra per volontà del defunto legittimo re Edoardo il Confessore.
Nonostante gli studi sull’«arazzo»,
affrontati con scandagli multidisciplinari, l’opera non ha ancora svelato tutti
i suoi segreti e conserva qualche mistero [7],
ma per il momento i misteri del lavoro rimangono inesplicabili [8].
Nel XII secolo si conosce
poi il nome di Diemoth o Diemodus (1060-1130) che si rinchiuse
per molto tempo in una cella nell'Abbazia di Wessobrunn in Alta Baviera a
ricopiare ben 45 volumi.
Ben più nota, soprattutto
fra i musicofili, è la tedesca “Hildegard
von Bingen” (1098 – 1179). Badessa del monastero benedettino di
Bingen, oltre ad avere lasciato importanti opere teologiche, filosofiche,
naturalistiche e mediche, Hildegard tradusse in miniature le sue visioni nel
corso delle quali incontrava Sophia,
la divina sapienza femminile e, ispirata da essa, nel Liber divinorum operum e nello Scivias realizzò una descrizione dell'universo, del mondo e
dell'uomo, impregnata di armonia e di bellezza profonde.
Hildegard utilizzò
potentemente le immagini per illustrare le sue visioni, attingendo al grande
patrimonio dell'immaginario medievale, che non era puro frutto di fantasia, ma
era impregnato di significati e di valori che ella stessa riformulò,
arricchendolo di significati simbolici.
Le miniature che raffigurano
le sue visioni descrivono l'uomo, il mondo e l'armonia perché microcosmo e
macrocosmo sono animati dalla viriditas,
lo spirito che dà vita: il verde è il colore simbolo della vita,
della vita traboccante che attraversa la natura, della linfa che scorre
animando gli esseri, della resurrezione primaverile, del germogliare di un
nuovo fogliame. L'uomo «splendore di
bellezza e di luce» è rappresentato come il nucleo centrale di un cosmo a
cerchi concentrici, abbracciati da Dio uno e trino, rappresentato spesso nelle
sue immagini come un cerchio di fiamme.
Ancora al XII secolo
appartiene Herrat di Landsberg
(1130-1195), badessa dell’abbazia alsaziana di Hohenburg: di lei si sa pochissimo.
Certamente fu donna di grande cultura: la sua opera Hortus Deliciarum è la
prima enciclopedia composta da una donna, tra il 1175 e il 1185, quasi negli
stessi anni in cui era redatto il manoscritto miniato del Liber Scivias di
Hildegard von Bingen.
L’Hortus Deliciarum consiste in una raccolta di brani tratti dalla Bibbia, dai Padri della Chiesa,
dagli scrittori medievali, concernenti le varie discipline sacre e profane,
inseriti in una prospettiva storica che ha al suo centro la vita di Cristo.
Herrat utilizza molto
l’allegoria ed illustra riccamente l’opera con miniature che non hanno una
funzione soltanto decorativa, ma anche esplicativa di un autentico piano
didattico: molto probabilmente il libro doveva essere utilizzato per
l’insegnamento, soprattutto in seno alla cultura monastica.
Questo prezioso manoscritto,
ricco di centinaia di illustrazioni, andò purtroppo distrutto nel 1870 quando,
durante la guerra franco-prussiana, la biblioteca di Strasburgo fu distrutta da
un incendio: il testo è stato tuttavia ricostruito e pubblicato secondo precise
copie precedentemente eseguite.
Del XII secolo è anche Guda, monaca miniaturista, che si è
ritratta all'interno di una lettera: la D con l'apposizione della firma: Guda peccatrice scrisse e dipinse questo
libro.
E ancora Claricia, sempre nel secolo XII, pur non
essendo monaca, ricopiò nello scriptorium del convento di Bavaria il Libro dei Salmi di Augsburg, ritraendo
anche lei se stessa nella coda della Q , iniziale della parola Quid.
Le monache provenivano da un
ambiente aristocratico e colto e si dedicarono alla miniatura anche dopo la
decadenza di questo genere: una costante della loro produzione artistica è che
esse, a qualunque tipo di arte si applicassero, tendevano ad un attardamento
stilistico rispetto alla contemporanea produzione artistica mondana, un
attardamento dovuto essenzialmente a due ragioni. La prima era la condizione di
isolamento monastico che impediva ogni esperienza di confronto; la seconda era
data dallo stile povero di vita monacale che in linea di massima impediva l’uso
di materiali e di tecniche migliori e più costose.
L’unica forma di
aggiornamento proveniva dall’arte del ricamo e ai suoi modelli, trasmessi
attraverso i corredi che le giovani suore dovevano portare e cui dovevano
necessariamente ispirarsi in mancanza di scambi con l’ambiente esterno.
Del XIII secolo non si trova
alcun indizio, ma nel XIV secolo emerge il nome di Bourgot le Noir, figlia del miniaturista francese Jean le Noir,
attivo a Parigi fra il 1335 e il 1380, nel cui laboratorio Bourgot lavorava.
Non conosciamo la data di
nascita di Bourgot, ma sappiamo che è stata attiva a Parigi tra il 1350 e il
1380. Tra le opere eseguite da figlia e padre, abbiamo il Salterio e il Libro d'Ore di Bonne di Lussemburgo, una
principessa boema che sposò Giovanni, duca di Normandia e poi re di Francia,
noto come Giovanni il Buono.
Miniato a Parigi, questo
manoscritto precede la morte di Bonne, avvenuta per peste nel 1349.
È stato attribuito a Jean le
Noir e/o a Bourgot, sua figlia, anche il Libro
de Horas de Yolanda de Flande. È certo che padre e figlia lavorassero
assieme, ma è impossibile stabilire differenze stilistiche tra l'uno e l'altra.
Jean Le Noir fu al servizio di Yolande delle Fiandre, di Carlo V e di Jean de
Berry. Poi insieme a sua figlia Bourgot entrò al servizio del re Giovanni il
Buono e del figlio.
Sempre dalla Francia emerge
il nome di Anastaise [9],
un’insigne miniaturista che superava in talento molti miniaturisti parigini del
tempo, ma di lei purtroppo non è giunta a noi nessuna opera a lei attribuibile
con ragionevole certezza.
Tutte le notizie su Anastaise derivano da Christine de Pisan (Venezia, 1365 – Monastero di Poissy, 1430 circa), scrittrice francese di origine veneziana, che le dedicò un’ampia citazione nel suo libro Cité des Dames, dove la descrisse come un’insigne illustratrice che superava in talento molti miniaturisti parigini del tempo. Christine era a capo di uno Scriptorium in cui riproduceva libri miniati molto apprezzati. Purtroppo non ci è giunta nessuna opera attribuibile ad Anastaise con plausibile certezza.
NOTE
Tutte le notizie su Anastaise derivano da Christine de Pisan (Venezia, 1365 – Monastero di Poissy, 1430 circa), scrittrice francese di origine veneziana, che le dedicò un’ampia citazione nel suo libro Cité des Dames, dove la descrisse come un’insigne illustratrice che superava in talento molti miniaturisti parigini del tempo. Christine era a capo di uno Scriptorium in cui riproduceva libri miniati molto apprezzati. Purtroppo non ci è giunta nessuna opera attribuibile ad Anastaise con plausibile certezza.
Sempre nei primi decenni del
XIV secolo, si leva una flebile voce. È il nome di Teresa Díez che può essere
considerata la prima grande pittrice della storia dell'arte spagnola.
Questa pittrice fu scoperta
nel 1955 in occasione dei lavori di restauro nel monastero reale delle
Clarisse di Toro, un paese della provincia di Zamora.
Sotto un San Cristoforo,
perduto nella parte superiore, fu trovata la frase Teresa Diez fecit
me.
Da allora gli storici
dell’arte si sono dibattuti nel tentativo di risolvere uno dei più grandi
enigmi dell'arte spagnola, un mistero che ha sollevato più domande che risposte,
per sapere chi si nasconde dietro questa espressione.
Ci troviamo di fronte alla
prima grande pittrice dell’arte spagnola o invece, dato il periodo e la
situazione sociale in cui i dipinti sono stati eseguiti – e siamo nel primo
trentennio del XIV secolo – difficilmente riusciamo a immaginare una donna che
esegua lavori, assuma manodopera, e quant’altro?
È opportuno tuttavia fare un
passo indietro rispetto a questo dibattito, per capire almeno quando è nato
questo mistero. Nel 1952 una suora del convento stava pulendo nel coro quando
vide cadere una parte del muro imbiancato. A questa sorpresa se ne aggiunse
un'altra più grande, quando vide apparire i dipinti consunti che, una volta
scoperti del tutto avrebbero costituito il Ciclo di Santa Caterina d'Alessandria.
La scoperta si sarebbe
completata anni dopo con il rinvenimento del Ciclo di San Giovanni Battista,
con scene legate alla vita di Cristo, come l’Epifania, rappresentazioni di
diversi santi e la grande raffigurazione di San Cristoforo di cui si sono preservate
solo le sue gambe: in questa scena apparve, accanto a uno scudo, la frase
oggetto di dibattito: Teresa Diez me feçit.
Dal rinvenimento degli
affreschi gli studiosi si sono collocati su tre ipotesi diverse. Alcuni negano
categoricamente che Teresa Diez fosse una pittrice e sostengono che fosse solo
una patrocinatrice delle opere che le sono attribuite. Essi basano la loro
ipotesi su uno stemma sottostante l’iscrizione «Teresa Dìez me feçit» e
sostengono che era insolito che le firme dell'autore fossero incluse
direttamente nelle opere e che inoltre durante il Medioevo le arti erano
considerate mestieri, erano praticate per lo più da uomini ed erano
anonime. D'altra parte, gli studiosi che sostengono che queste opere siano
state realizzate da Teresa Díez, sostengono che Teresa provenisse da una
famiglia benestante e che, di conseguenza, era lei che avrebbe sostenuto le
spese per le opere e le avrebbe anche realizzate. Infine, i sostenitori a tutti
i costi che Teresa Díez sia stata la pittrice delle sue opere e non una
patrocinatrice sostengono che non avrebbe avuto senso firmare questi dipinti,
come ringraziamento nel luogo in cui avrebbe dovuto essere sepolta, dal momento
che la sua tomba non sta in nessuna delle chiese o dei conventi in cui dipinse.
Io penso piuttosto che Teresa
sia stata un'eccezione, che non solo ha osato intrufolarsi in un campo
prettamente maschile, quello dell’affresco, ma che ha anche firmato il suo
lavoro sfuggendo volontariamente all’anonimato.
Dai dipinti che le sono attribuiti,
si deduce che Teresa si sia formata nei primi anni del gotico a Salamanca,
infatti essi sono comparabili ad altri dipinti della scuola salamantina.
Le sue opere sono state
realizzate utilizzando la tecnica del dipinto a secco e corrispondono
cronologicamente alla fase del cosiddetto gotico-lineare o franco-gotico.
Queste opere, come quelle di
altri autori del tempo, non hanno alcuna prospettiva, le figure sono
bidimensionali e, quando si dovevano rappresentare molte figure nella stessa scena
si risolveva ricorrendo all’isocefalia e alla prospettiva a gradini.
Nei dipinti di Teresa Díez
predomina il naturalismo e si delinea addirittura una certa tenerezza nelle sue
figure, la vicinanza alla vita quotidiana e la realtà storica del momento. Le
sue opere sono dotate di una sensibilità che mancava nelle opere dei suoi
contemporanei maschi.
Adattatasi alle norme
artistiche del suo tempo, Teresa mostra nei suoi affreschi di apprezzare una
netta predominanza di figure femminili, dedicando a loro la maggior parte del
suo lavoro, come si può vedere nel suo lavoro in cui Cristo appare a Maddalena.
Qui ella sceglie il momento
cruciale della narrazione: è una donna colei alla quale Gesù risorto appare per
la prima volta e, dietro di lui, non c’è San Giorgio che sta uccidendo il
drago, ma Santa Marta.
È anche possibile comprendere
che la scelta di Santa Caterina di Alessandria per uno dei suoi cicli non
avviene soltanto perché è una santa, ma perché una donna saggia che, fin
dall'infanzia, si è dedicata allo studio delle arti liberali – è tuttora la
patrona di uomini e donne che sono impegnati nella filosofia – e infine perché ha
goduto di ciò che nel Medioevo era negato alle donne, come una vera educazione
accademica.
Se pensiamo che non sia
possibile che Teresa sia l’autrice, dato il contesto socio-culturale, e che potrebbe
essere quindi più plausibile che sia una committente, questo non toglie nulla
al suo ruolo, poiché con il suo partecipazione economica e forse estetica
potrebbe aver contribuito allo sviluppo di uno dei più importanti e
interessanti programmi iconografici nella storia dell'arte spagnola del
Medioevo.
NOTE
[1] Christiane Klapisch-Zuber: Storia delle
donne, Laterza Bari
[2]
Régine Pernoud si è interessata più volte della questione femminile Luce del Medioevo Roma, 1978, Giovanna d'Arco, Roma 1987, in
collaborazione con Marie-Veronique Clin Giovanna
d'Arco. Una vita in breve, Milano 1992 La donna al tempo delle cattedrali, Milano 1986; Bianca di Castiglia. Una storia di buon
governo, Genova 1994; La Vergine
e i Santi nel Medioevo, Casale Monferrato 1994; Storia di una Scrittrice Medievale: Cristina da Pizzano,
Milano 1996; La spiritualità di
Giovanna d'Arco, Milano 1998; Testimoni
della luce Milano 1999.
Sue Niebrzydowski, Women in the Middle Ages, ebook
[3] Questo tipo di composizione è già visibile nei manoscritti
paleocristiani, bizantini e carolingi, come nella Genesi di Vienna del VI secolo, della Biblioteca Nazionale di Vienna.
[4]
Edoardo
il Confessore – Figlio di “Emma di
Normandia”, quando suo padre era stato cacciato dal trono d'Inghilterra da
“Sven I di Danimarca”, aveva trovato
rifugio in Normandia, dove era rimasto per trent'anni.
Quando
nel 1042 era tornato al potere, Edoardo si era circondato di Normanni, gli
unici di cui si fidava, cosa che non fu gradita ai Sassoni, la gente del nord
del regno. Edoardo quindi conosceva bene Guglielmo: aveva trascorso un lungo
periodo di esilio in Normandia, durante le imponenti invasioni vichinghe,
infatti, solo dopo questo esilio, fu eletto re. Perciò avrebbe promesso a
Guglielmo, in segno di gratitudine per la sua cortese ospitalità, di designarlo
come suo successore.
[5] La vittoria normanna ad Hastings cambiò
il “volto” dell'Inghilterra per
sempre. La stessa incoronazione di Guglielmo nell'Abbazia di Westminster
simboleggiò la condizione dell'Inghilterra per i successivi tre secoli: i
Normanni assunsero il pieno controllo del nuovo territorio e con il periodo
normanno, l'Inghilterra entrò in una fase di grandi cambiamenti, politici,
sociali e artistici.
Re Harold fu l'ultimo re di lingua “inglese”: la famiglia reale inglese e la
corte di Re Harold, furono annientate nel corso di una battaglia.
Guglielmo stabilì il suo nuovo regime,
ricompensando coloro che lo avevano aiutato nella spedizione, eliminò la Chiesa
anglosassone: vescovi e abati Normanni assunsero il controllo di cattedrali e
monasteri. Fu creato un nuovo sistema amministrativo, furono costruiti castelli
e cattedrali, che portarono lo stile romanico in Inghilterra: i castelli furono
costruiti per impaurire gli Anglosassoni così che non osassero nemmeno pensare
di causare problemi, le cattedrali per costituire una più fitta e gerarchizzata
rete amministrativa. Tutti i terreni e gli importanti incarichi nel governo
furono tolti agli anglosassoni e furono divisi tra i compagni normanni: la
maggior parte della terra, originariamente posseduta da 2000 sassoni, passò a
200 baroni normanni, mostrando quanto potenti fossero diventati i nuovi
signori.
[6] In primo luogo, in Inghilterra, con Guglielmo si erano insediati i
Normanni, molto influenzati dai francesi e dal continente europeo, in
opposizione con gli anglosassoni, ancora molto celtici e legati al mondo
celtico. Il secondo luogo con i Normanni si era stabilita una monarchia
accentrata attraverso il sistema feudale franco normanno i cui membri erano
legati da vincoli d’onore e di fedeltà con il re, una monarchia diversa rispetto
ai labili e instabili regni anglosassoni.
[7] Non
si sa per esempio perché Edoardo abbia mandato Harold, conte di Wessex e
pretendente al trono, a incontrare Guglielmo, né perché Harold abbia prestato
giuramento di vassallaggio a Guglielmo di sua spontanea volontà. Non si conosce
l'importanza di certi personaggi nominati sull'arazzo che, tuttavia, hanno
avuto un ruolo molto importante in quell’impresa poiché solo alcune delle 636
persone rappresentate sono state menzionate nel testo latino. Non si sa chi sia
la misteriosa Ælfgyva, l'unica figura femminile nominata sull'arazzo di Bayeux
(scena 15): oltre ad essere una delle tre donne su 636 personaggi
rappresentati, è l'unica a beneficiare di una menzione scritta.
Anche
il ruolo degli altri personaggi nominati sull'arazzo rimane vago: non sappiamo
perché siano specificamente nominati i Cavalieri Wadard e Vital (compagni di
Guglielmo il Conquistatore durante la conquista dell'Inghilterra), né il nano
Turold.
[8] L’opera presenta ancora alcune omissioni: non
si capisce per esempio perché Harold non fosse sulla costa meridionale a
combattere contro Guglielmo e soprattutto non si capisce perché la flotta
inglese, resa permanente da Alfredo il Grande (871-99), non proteggesse la
costa da eventuali attacchi. A quest'ultima domanda, davvero non si può dare
una risposta invece per quanto riguarda l'assenza di Harold, questi stava
combattendo al Nord contro gli assalti del re norvegese, Harald II il Severo.
Si può supporre che ci fosse stato un accordo tra Harald e Guglielmo, le cui
origini erano vichinghe. Ma questo non è possibile documentarlo.
[9] Le uniche notizie derivano da Christine de Pisan, scrittrice francese
vissuta tra il Trecento e il Quattrocento, che le dedicò un’ampia citazione nel
suo libro “Cité des Dames”, in cui la
descrisse.
[10]
Alcuni studiosi hanno negato categoricamente che Teresa Diez sia stata una
pittrice: le loro argomentazioni si basano sullo stemma sottostante la firma di
Teresa Díez e sul fatto che era inconsueto che le firme dell'autore fossero
incluse direttamente nelle opere, sostenendo che i nomi indicassero i
committenti. Idea questa piuttosto discutibile. D'altra parte, coloro che
sostengono che questi lavori siano stati realizzati da Teresa Díez ritengono
che molto probabilmente Teresa provenga da una famiglia benestante, e che
quindi, è stata lei stessa a pagare i lavori e li ha anche dipinti. Tutto
questo riprendendo l’ipotesi laicale di suor Ende. Tutte ipotesi che non danno
risposta.